Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

Bona et circenses

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 11 dicembre 2023

I nostri governanti hanno preso gusto ai “Bonus”. Senza rendersene conto, e usando tra l’altro il lemma latino in modo improprio (bonus inteso come sostantivo significa uomo buono: per significare vantaggio si deve usare il sostantivato neutro “bonum”. Chi ha dubbi consulti il Castiglioni-Mariotti) si rifanno direttamente alla prassi politica dell’ultimo periodo della repubblica romana e di tutto quello imperiale, quella del panem et circenses. Va detto che lo fanno con un ammirevole dispiego di fantasia. Attualmente sono in corso il Superbonus (quello del famigerato 110%, che nel nome rimanda a un personaggio del Monello degli anni ‘50), il Bonus prima casa, l’Ecobonus, il Sismabonus, il Bonus per l’abbattimento delle barriere architettoniche, il Bonus Verde, il Bonus casa green, il Bonus ristrutturazione e il Bonus mobili. Ma ci sono poi il Bonus trasporti, quello vacanze, quello cultura, quello per lo psicologo, ecc… Insomma, come se piovesse.

Ora, sarebbe interessante in primo luogo vedere come funziona questa Caritas di stato. Nelle linee di massima, e al netto delle immancabili frodi e dei pantani burocratici, il gioco dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. Se ad esempio si acquistano infissi per ristrutturazioni interne con lo sconto del 75% in fattura, l’importo finale risulta mediamente triplicato rispetto a quello di un acquisto normale (dato verificato per esperienza diretta – caldaie, finestre, ecc…). Il che significa che il singolo spende pressappoco la stessa cifra, mentre gli altri tre quarti (il plusvalore!) li paga lo stato, con soldi che comunque sono usciti dalle tasche del contribuente (cioè della minoranza che paga per intero le tasse). In sostanza, gli unici a guadagnarci davvero sono i produttori. Certo, se proiettiamo la faccenda sul piano macroeconomico si tratta di un incentivo al consumo e quindi alla produzione, e ci sta (insomma …): ma non raccontiamoci che lo scopo sia quello degli adeguamenti energetici, dell’abbattimento delle barriere architettoniche o della transizione ecologica.

Non di questo tuttavia volevamo parlare, quanto piuttosto della concezione dello stato e della società che sta alle spalle del sistema dei “bonus”. Il dato innegabile di partenza è che un sacco di gente annaspa in difficoltà economiche. Magari andrebbero discussi i criteri coi quali sono classificati e conteggiati i “nuovi poveri”, ma rischieremmo di perderci nel tentativo di definire i parametri che identificano lo “stato di povertà”, che cambiano di tempo in tempo e da luogo a luogo, e variano di gran lunga nella percezione individuale. Oppure, varrebbe la pena verificare quanto questo impoverimento sia determinato dal meccanismo classico del mercato del lavoro, dal prevalere cioè dell’offerta sulla domanda, e quanto invece dipenda dal diverso (e negativo) rapporto col lavoro che si sta diffondendo nelle nuove generazioni. Questi però sono temi che torneremo ad affrontare in altra occasione. Qui ci limitiamo a constatare che è aumentata la concentrazione della ricchezza in poche mani, e che la forbice economica si allarga sempre più: ciò che esigerebbe urgentemente una reazione della sinistra, ma prima ancora una ridefinizione dei suoi obiettivi sia “tattici” che “strategici”.

Bona et circenses 02

Da sempre infatti l’obiettivo della sinistra è la chiusura di questa forbice, o quantomeno un suo restringimento, e una redistribuzione della ricchezza: operazione che peraltro appare oggi quanto mai necessaria anche prescindendo dalle considerazioni etiche (ovvero dagli ideali della sinistra) e indipendentemente dal fatto che il lato “povero” della forbice si sia comunque innalzato rispetto al livello della miseria assoluta (almeno nel nostro paese, e più in generale in Occidente o nei paesi di recente sviluppo). Appare necessaria se si vogliono evitare per il futuro sconvolgimenti sociali incontrollabili: in sostanza quindi converrebbe a tutte le parti in gioco non tirare troppo la corda. La tendenza in corso risulta invece decisamente contraria, e prefigura scenari da nuovo medioevo.

Veniamo al caso dell’Italia. Di fronte alla situazione di cui sopra, per sua natura la sinistra dovrebbe chiedere una redistribuzione radicale, mentre la destra tende ovviamente a ridistribuire il minimo indispensabile. All’atto pratico però sino ad oggi tutti i governi dell’ultimo mezzo secolo, della prima come della seconda repubblica, di centro-destra o di centro-sinistra, hanno redistribuito (quando l’hanno fatto) togliendo al ceto medio e toccando in misura irrisoria i grandi profitti e i grandi patrimoni. È vero che abbiamo assistito nel tempo ad aumenti dei sussidi minimi, alla creazione del reddito di cittadinanza (immaginato come un salvagente per chi si trovasse senza lavoro e senza reddito, e applicato poi alla carlona) e appunto alle svariate forme di “bonum”: ma tutto questo con interventi di rattoppo, realizzati più per finalità elettorali, per raccattare consensi, che in funzione di un disegno complessivo di equità sociale. Va detto peraltro che questo disegno non sembra essere molto chiaro nemmeno ai pochi che ne fanno una bandiera: e in effetti è assai più complesso di quanto si vorrebbe credere.

Bona et circenses 03

In teoria infatti la nostra società dovrebbe reggersi sui principi di uguaglianza e di equità: ma la traduzione di questi principi nella pratica incontra poi enormi problemi, che non sono solo quelli legati alla cattiva volontà, all’inefficienza degli apparati, al gioco dei pesi e delle lobbies politiche, insomma, ai fattori contingenti. Ci sono prima ancora problemi “strutturali”, che vanno a toccare proprio le basi su cui si fonda una convivenza comunitaria. Un processo redistributivo rinforza infatti il principio dell’uguaglianza della disponibilità di risorse, ma se i meccanismi che devono farlo funzionare non rispettano anche il principio dell’equità l’equilibrio interno al gruppo va in crisi (favorire un’ape danneggia l’intero alveare).

Cerchiamo di spiegarci meglio. In ogni società di ogni tempo gli individui (tranne alcuni asociali) si riconoscono in un gruppo e desiderano essere riconosciuti come membri uguali agli altri (e questo attiene all’uguaglianza). Nell’ambito di questa identificazione il concetto di equità si riferisce invece all’aspettativa che i componenti del gruppo hanno rispetto ad una suddivisione delle risorse: una suddivisione in parti uguali, ma che rispecchi nel contempo i contributi di ciascuno. La redistribuzione non deve essere infatti una elemosina, ma deve riconoscere la dignità e l’apporto del singolo al bene comune.

Per funzionare correttamente un sistema redistributivo deve pertanto eliminare, o almeno ridurre al minimo, i comportamenti opportunistici (free rider), onde evitare che tali comportamenti scoraggino i “buoni” e portino alla crisi del gruppo sociale (la reazione del figlio fedele, nella parabola del figliol prodigo, o dei lavoranti della prima ora in quella dei Vignaioli, seppure entro una apparente contraddizione ci confermano che le regole morali hanno basi evolutive).

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Ora, cercare di eliminare i furbastri non significa non volere l’uguaglianza e l’equa distribuzione delle risorse, mirare allo smantellamento dello “stato sociale”: significa comprendere che sono proprio i comportamenti opportunistici (in sostanza lo sfruttamento del lavoro altrui, sia esso volto all’arricchimento che ad un lavativismo passivo) a metterne in crisi la sopravvivenza. Quindi, non si tratta di abbandonare chi non è neppure in condizioni di eseguire lavori di pubblica utilità, o chi per qualsivoglia giustificato motivo si trova in gravi difficoltà economiche. Lo “stato sociale” è una caratteristica naturale delle comunità umane, e non solo: anche tra gli altri primati sono documentati casi di individui che non sarebbero stati in grado di sopravvivere autonomamente per incidenti o per altre avversità, e che sono stati accuditi a lungo sotto l’ala protettiva della comunità. Ma i nostri cugini aiutano coloro che sono in difficoltà oggettive (e così facevano i nostri progenitori), e non chi intende condurre un’esistenza parassitaria sulle spalle del gruppo. Questi ultimi vengono invece espulsi senza troppi complimenti, esclusi dalla redistribuzione delle risorse.

Tutto ciò ha a che fare in qualche modo coi bonus? Certamente, e non lo scopriamo noi. I bonus sono distribuiti o a pioggia, e quindi, come nel caso di quelli edilizi, o di quello per la “cultura”, non redistribuiscono un accidente, perché vanno necessariamente a cadere nel primo caso solo su chi già possiede un’abitazione propria (per come poi funziona tutto il meccanismo, come si diceva sopra, avrebbero potuto essere girati direttamente ai produttori o ai costruttori) e nel secondo anche su chi, volendolo, potrebbe permettersi investimenti culturali ben più consistenti. Oppure, come per quelli relativi alle bollette energetiche, vengono erogati solo a chi è inserito nelle fasce economiche più “deboli”, appartenenza che viene certificata dall’ISEE. E sappiamo tutti che su questa base, per come l’ISEE è calcolato, al di là dei lavoratori dipendenti con stipendi minimi o dei disoccupati, ne beneficiano imprenditori, lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, ovvero quella metà dei contribuenti che evade in parte o in toto le tasse, o quei pensionati che hanno versato contributi risibili. Sarebbe questa la redistribuzione?

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Si obietterà che stiamo scoprendo in effetti l’acqua calda. È sempre stato così, o forse anche peggio. Ma appunto per questo è sconcertante che a “sinistra”, in una sinistra che annaspa alla ricerca di una pur minima base progettuale sulla quale rifondarsi, non si discuta in modo serio della progressiva riduzione del popolo a plebe sottoproletaria. E che, anzi, si assecondi e si caldeggi il passaggio dallo stato sociale allo stato assistenziale. La vicenda del reddito di cittadinanza erogato senza alcun corrispettivo in termini di partecipazione, di riconoscimento di un contributo per lavori di pubblica utilità, e quindi di dignità, ne è un palese esempio. Così come lo è il complice silenzio su milioni di pensioni di invalidità assegnate per puro scambio di voto, e anzi, la loro “validazione” quali ammortizzatori sociali.

Certo, ci sono scandali più gravi, evasioni ben più clamorose, ma quelli che il semplice cittadino percepisce come comportamenti più tangibilmente diffusi, e dai quali si sente preso in giro, sono proprio questi. Non ci si può trincerare sempre dietro il “c’è di peggio”, e pensare di poter condurre una battaglia contro i comportamenti clamorosamente scorretti se poi si avvallano quelli quotidianamente più evidenti.

Eppure, a chi oggi ambisce a rappresentare in politica o nella cultura la sinistra questi argomenti sembrano tabù. Una malintesa concezione dell’eguaglianza ha fatto passare in second’ordine il concetto di equità, o ne ha forzato una interpretazione errata. Non si riesce infatti a tenere distinti i due concetti, a capire che l’uguaglianza riguarda le uguali opportunità che a ciascuno devono essere offerte e garantite, indipendentemente dalle condizioni fisiche e sociali della nascita e da quelle culturali della crescita, mentre l’equità riguarda il riconoscimento dell’apporto dei singoli alla vita e alla crescita comunitaria.

Messa così può sembrare una semplificazione quasi patetica del problema, che necessariamente produce risposte utopistiche, senza alcun rapporto con la realtà di fatto e tutte le sue complessità e complicazioni. Ma esistono alternative “realistiche”? A parte il fatto che col “realismo” occorre andarci cauti, e la sinistra ne sa qualcosa, oggi la vera utopia è pensare di poter tirare avanti ragionando e agendo nello stesso modo che ha portato in tutto il mondo ad una sostanziale debacle del fronte “progressista”. Quindi un pensiero di sinistra serio deve avere almeno il coraggio di mettere in discussione le aporie concettuali che continuano a condizionarlo, di liberarsi dai preconcetti e da dogmi troppo profondamente radicati.

Non è il caso di riaffrontare qui l’intera questione, che è già stata approfondita, addirittura più di vent’anni fa, quando ancora il sito dei Viandanti non esisteva, in un breve saggio di Paolo dal titolo L’ultimo in basso, a sinistra, e di recente è stata lucidamente ripresa e ampliata da Beppe Rinaldi in Prolegomeni a una nuova sinistra. A quelli rimandiamo. Ma per chiarire meglio cosa intendiamo parlando di aporie ne proponiamo solo un clamoroso esempio.

Dunque: il concetto di equità così come lo abbiamo inteso noi è mal digerito a sinistra perché si scontra con una serie di contraddizioni. È difficile stabilire quali di queste sono intrinseche alla natura umana (ad esempio, l’altruismo che induce a collaborare e l’egoismo che spinge a emergere e a distinguersi) e quali invece sono eredità culturali. Nello specifico della cultura occidentale sopravvivono senza dubbio anche in campo progressista forti connessioni col pensiero cristiano, che da un lato demonizza la ricchezza (è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio) dall’altro rimanda la realizzazione dell’equità al regno dei cieli (beati gli ultimi perché saranno i primi, ma ciò avverrà solo dopo la fine dei giorni: il mio regno – quello appunto della giustizia – non è di questa terra). Un pensiero dunque che predica l’uguaglianza, denuncia l’ingiustizia, ma accetta poi sostanzialmente lo status quo. E nella versione protestante coltiva addirittura l’idea che il gradimento divino si manifesti attraverso il successo economico (Dio premia chi lavora).

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La contraddizione di fondo sta però ancora più a monte di questo groviglio, laddove lo stesso dio è visto alternativamente o come dio della misericordia e del perdono, che riserva a tutti, indipendentemente dal contributo che hanno effettivamente dato, un eguale premio (la parabola dei vignaioli), o come dio della giustizia, che premia chi ha più meritato (magari concedendogli già su questa terra un segno di distinzione con l’accumulo di ricchezza). E infine, c’è un altro assioma che pesa, originario come il peccato che va a sanzionare, ed è quello per il quale il lavoro è una condanna, l’espiazione di una pena. Il che si porta dietro anche la diffidenza, o addirittura il rifiuto, nei confronti di tutto ciò che può rendere il lavoro più agevole e produttivo: ovvero nei confronti della tecnica (e della scienza, della quale la tecnica è una pragmatica traduzione).

La sinistra deve dunque prendere atto di questi debiti (in fondo il socialismo è una secolarizzazione del messianismo cristiano), liberarsi una volta per tutte dai condizionamenti vetero o neo-testamentari, e affidarsi (col dovuto atteggiamento critico) alla conoscenza scientifica e agli strumenti della razionalità.

Tutto ciò ci ha portati lontani dal tema di partenza, ma solo apparentemente. La logica del “bonum” è tale e quale quella della Società di San Vincenzo, che si occupa di aiutare le persone più sfortunate: i poveri, gli ammalati, gli stranieri, gli ex carcerati, gli anziani soli, ai quali paga le bollette e fornisce pacchi di alimentari, Ora, fermo restando che le persone più sfortunate esistono, e ben venga chi le aiuta, la domanda continua ad essere quella iniziale: a cosa porta questo atteggiamento, che tipo di società prefigura? Non è che correndo dietro le urgenze e la rivendicazione di diritti, sociali, civili o economici, sganciati totalmente dai corrispettivi doveri, la sinistra stia avvallando un modello di società da basso impero? Lo scenario è in fondo già quello. I media e i social forniscono già (a spese nostre) circenses in quantità da stordire; le ondate migratorie garantiscono per il momento lavoro semi-schiavile, ma non governate si trasformeranno a breve termine in barbariche, dando l’ultima spallata ai sistemi democratici: qualche sporadico “bonum” per l’acquisto dei beni di consumo essenziali, e più spesso per quelli inutili, e la distribuzione del panem è fatta.

Non crediamo che le future generazioni, quelle che vedranno la fine dell’impero dalla parte dei soccombenti, ce ne saranno grate.

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Teoria e pratica del pentagonismo

(che non è una disciplina olimpica)

di Carlo Prosperi, 18 maggio 2023

Teoria e pratica del pentagonismo 02Di Juan Emilio Bosch non conoscevo né le vicende umane e politiche né le opere letterarie. Sono quindi grato all’amico Francesco M. Bonicelli Verrina, che per primo ha tradotto in italiano il breve saggio El pentagonismo como sustituto del’imperialismo (1967)[1], di avermi dato modo di colmare in parte questa mia lacuna e di approfondire il tema trattato dallo scrittore e politico dominicano. Il quale ebbe la triste ventura di vivere sotto la dittatura, non meno grottesca che feroce, del dittatore Rafael Trujillo Molina, alla quale si sottrasse viaggiando e trascorrendo lunghi anni in esilio, tra Cuba e Venezuela. Solo nel 1961, dopo l’attentato che pose fine all’abominevole tirannide di Trujillo, fin allora sostenuto dagli americani con la scusa che era sì un “bastardo” (un autentico son of bitch, per dirla con l’icastica espressione roosveltiana), ma era pur sempre il “loro bastardo”, rientrò in patria e, nel dicembre del 1962, vinse le elezioni diventando il primo presidente eletto democraticamente dopo trentun anni di dittatura.

Teoria e pratica del pentagonismo 03Bosch, contando di avere l’approvazione di Washington, subito dopo il suo trionfo elettorale promise di “trasformare la Repubblica Dominicana in una vetrina dell’America Latina” che sarebbe servita come modello della “democrazia rappresentativa”. Ma il tentativo di proteggere gli interessi nazionali da lui intrapreso si scontrò con quelli del movimento conservatore che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti, timorosi di ogni novità sospetta che potesse intaccare il loro dominio su quello che fin dai tempi di James Monroe consideravano il loro “cortile di casa”. Tra le accuse mosse a Bosch c’era quella, infondata, di essere comunista. Così, dopo soli sei mesi, egli fu destituito e da allora smise di credere nella democrazia rappresentativa per vagheggiare l’idea di una “dittatura con l’appoggio popolare”. Fu proprio in questo periodo di amara disillusione che egli si sforzò di analizzare le cause del fallimento del modello democratico nei Paesi caraibici e il ruolo svolto in tutto questo dal capitalismo. Dopo Il pentagonismo sostituto dell’imperialismo, videro così la luce diversi studi sull’argomento: Tesi sulla dittatura con l’appoggio popolare (1969), Da Cristoforo Colombo a Fidel Castro (1969), Breve storia dell’oligarchia (1970) e Composizione sociale dominicana (1970). Negli anni successivi si dimise dal Partito Rivoluzionario Dominicano, del quale era stato uno dei fondatori negli anni d’esilio a Cuba, e diede vita al Partito della Liberazione Dominicana, che solo nel 1996, dopo vari tentativi, riuscì ad affermarsi, mandando alla presidenza Leonel Fernández.

Teoria e pratica del pentagonismo 04Convinto che “la mancanza di memoria più lieve può portarci su strade insospettabili”, Bosch continuò a riandare con la mente alla sua esperienza di governo e per primo intuì che alla base del fallimento c’era stato un errore concettuale derivante da un difetto nel valutare l’evoluzione storico-sociale. Si continuava a parlare di capitalismo e di imperialismo, senza rendersi conto che la realtà era nel frattempo profondamente cambiata. I formidabili progressi scientifici e – aggiungiamo noi – tecnologici non avevano solo prodotto, per dirla con John Kenneth Galbraith, una affluent society, moltiplicando a dismisura i consumi e il benessere economico degli americani, ma avevano altresì trasformato una società eminentemente individualistica in una società di massa. E tutto questo – si noti bene – senza che i cittadini se ne avvedessero, così che essi seguitavano a credere di vivere in una società di individui liberi. Mentre, in realtà, erano eterodiretti o, se vogliamo, telecomandati, dal momento che i nuovi mass media, a cominciare proprio dalla televisione ne condizionavano le idee, i comportamenti, i consumi. In questo la pubblicità giocò un ruolo di primo piano, giacché, sfruttando gli studi di psicologia delle masse, i “persuasori occulti” presero ad insinuarsi nella mente dei consumatori servendosi – a dire di Vance Packard – anche di messaggi subliminali alla stregua della psicologia usata dai governi per spingere al massacro migliaia di giovani nel conflitto mondiale.

Teoria e pratica del pentagonismo 05

Secondo alcuni storici – e Bosch sembra in effetti condividerne la tesi – a salvare definitivamente gli USA dalla grande depressione del 1929 non fu tanto il New Deal di Roosevelt, quanto l’enorme incremento che lo sforzo bellico impresse alla produzione americana. E che determinò la metamorfosi stessa del capitalismo, destinato ad un ipersviluppo che ne cambiò radicalmente la dimensione e i connotati. Tanto che in esso si riconoscono già i germi dell’odierno “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla “smaterializzazione” dovuta all’informatica e all’elettronica. Ora, il capitalismo, sia pure nelle nuove forme via via assunte, è sopravvissuto allo stesso imperialismo, del quale, secondo Lenin, avrebbe invece dovuto essere la fase suprema. C’è chi si ostina, nel caso degli USA e di altre grandi potenze, a parlare di imperialismo, magari qualificandolo come “economico” o “commerciale” (come è stato anche definito l’imperialismo “in salsa cinese”) o come “neo-imperialismo”, senza rendersi conto che siamo ora di fronte a una realtà affatto inedita, prodotta dal capitalismo ipersviluppato, che Bosch chiama “pentagonismo”.

Nel Pentagono ha infatti sede il quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, in cui si concentra il potere militare nordamericano: un potere nato “dal ventre dell’economia di guerra” e che non può considerarsi costituzionale perché nella Costituzione politica della nazione non è menzionato. Un potere de facto, non de iure. Nondimeno, nella società di massa statunitense esso si è affermato indipendentemente dalla volontà cosciente degli elettori, fino a diventare, nel giro di pochi anni, preponderante rispetto a quello civile. Laddove il potere si misura in denaro, chi di più denaro dispone è inevitabilmente destinato a prevalere. È quanto si è verificato negli USA, dove il Pentagono è giunto a spuntare finanziamenti superiori a quelli del Governo federale. Questo non sarebbe potuto avvenire se l’apparato militare non avesse avuto il decisivo sostegno delle grandi corporations, che – come la guerra aveva dimostrato – alle ingenti commesse provenienti da quel settore dovevano il proprio ipersviluppo. Profittando del tracollo dell’imperialismo, il pentagonismo – che il presidente Eisenhower definì con preoccupazione “complesso industrial-finanziario” – pensò di raccoglierne l’eredità, ma – qui sta la vera novità – senza dovere conquistare dei territori coloniali e senza proporsi di sfruttarli economicamente. Dice bene Bosch: «Il pentagonismo non sfrutta le colonie: sfrutta il proprio popolo», e lo fa colonizzando la metropoli, costretta a finanziare gli interventi militari necessari per conquistare e mantenere posizioni di potere all’estero: ambito su cui il pentagonismo ha più voce in capitolo dello stesso potere civile.

Teoria e pratica del pentagonismo 06Un vasto complesso industrial-militare domina il Congresso” ebbe a lamentare Fulbright nell’ottobre 1967, e il senatore Eugene Mac Carthy, che guidava la campagna contro Johnson, ribatté: “Tutti noi al Senato stiamo tentando di mettere un qualche limite al potere del complesso industrial-militare che controlla la politica estera di questa nazione”. Segno che il rischio di una deriva antidemocratica e guerrafondaia era già avvertito. Almeno da una minoranza illuminata. Ma come poteva questa opporsi ad operazioni che sembravano avere benefici influssi sul benessere della nazione? “In un calcolo puramente matematico – annotava il Business Weech nell’aprile 1965 – il crescere della guerra ordinata da Johnson cambia le prospettive economiche per il meglio”. Era allora in corso la guerra in Vietnam e nei mesi successivi alla scalata delle operazioni belliche, quando la costruzione delle infrastrutture cominciava non solo sul territorio di Saigon, ma anche nei paesi vicini, e specie in Thailandia, una cospicua serie di industrie si giovò di un “atteso boom”. Con l’intensificarsi della guerra, si moltiplicò la richiesta di pneumatici, apparecchiature elettriche e elettroniche, armi, munizioni, carburanti, ecc. E si moltiplicarono di conseguenza i profitti delle imprese di costruzione, meccaniche, aeree, alimentari. Per le più grandi corporations d’America (Lockheed, Aircraft, Ford, Westinghouse, General Dynamics, ecc.), ma anche per l’industria giapponese produttrice di napalm, fu una vera manna. Si disse – ed è uno dei paradossi ricorrenti delle guerre moderne – che le compagnie petrolifere finanziassero persino i vietcong (Fortune, marzo 1966).

La vicenda vietnamita, a preferenza di quella domenicana, che pure lo riguarda da vicino, è assunta da Bosch ad esempio paradigmatico dei guasti del pentagonismo, non solo perché più nota, ma anche perché a tanto dispendio di vite umane e di mezzi non corrisposero risultati adeguati sul campo. Gli USA riuscirono anzi nell’impresa di perdere una guerra senza perdere una battaglia. Oltre a questo, allarmarono l’opinione pubblica sia interna sia internazionale. Paul Kennedy, nel suo classico studio Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), riprendendo un concetto di Robert Gilpin, mise in guardia sulla “legge del costo crescente della guerra”, per la quale i costi del mantenimento dello status quo crescono più velocemente della capacità economica di sostenere lo stesso. A lungo andare, l’espansione del settore militare finisce quindi per danneggiare l’economia (come ha del resto dimostrato l’implosione dell’URSS).

Teoria e pratica del pentagonismo 08Forse, però, la parte più interessante del libro è quella dedicata alle motivazioni morali di volta in volta addotte dal pentagonismo. L’intervento militare non è mai giustificato da propositi dichiaratamente aggressivi, quantunque le guerre promosse o combattute dagli USA interessino ogni parte del mondo. Esse sono guerre preventive o volte comunque a soffocare presunti conati di sovversione (“dottrina Johnson”): guerre per “esportare la democrazia” o per combattere il terrorismo. A volte vere e proprie guerre per procura, qual è per certi versi quella attualmente in corso in Ucraina. Il pentagonismo ha così fatto degli USA “la polizia politica del mondo” (capitalista). E non c’è differenza in questo tra presidenze democratiche e repubblicane, perché, almeno nella politica estera, tutte, bon grè, mal gré, soggiacciono ai voleri del Deep State, cioè di quel variegato “complesso industrial-militare” che è per Bosch il pentagonismo. Mike Lofgren in The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government definisce lo Stato profondo come “un governo ombra” che opera al di fuori delle istituzioni rappresentative e “presta scarsa attenzione ai semplici dettami costituzionali”. Vi appartengono lobbies, massoneria, funzionari di Stato e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico, ma il nucleo preponderante è costituito dall’apparato militare, che, in combutta con le multinazionali, le agenzie di rating, i mercati finanziari, le banche centrali e le banche d’affari, influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici della nazione. In particolare, per quanto concerne la politica estera.

La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati. Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’URSS, glielo hanno impedito. Ma Trump non è stato l’unico a recriminare sul Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la sua battaglia contro i comunisti. Del resto, il cronista investigativo del Watergate Bob Woodward, in Peril, riferisce che il generale statunitense capo di stato maggiore dell’Esercito Mark Alexander Milley avrebbe istruito i vertici in carica al comando centrale militare, nella war room del Pentagono, “di non prendere ordini da nessuno senza il suo coinvolgimento”. La decisione di accentrare nelle mani del super generale tutti i poteri operativi militari sarebbe stata assunta (e quindi condivisa) durante una serie di vertici top secret tenuti da Milley con alti dirigenti della Cia, del Pentagono e in due contatti riservati avvenuti con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, allora leaders democratici dell’opposizione, rispettivamente alla Camera e al Senato.

Teoria e pratica del pentagonismo 07Il merito principale di Juan E. Bosch è stato quello di metterci in guardia da questi apparati, neanche tanto segreti, che agiscono da Stato nello Stato, senza averne alcuna legittimazione. Non lo consolerebbe certo sapere che il fenomeno non è più soltanto americano, se è vero che anche il capo della Wagner Evghenij Prigozhin, nel recente manifesto Solo lotta leale. Nessun accordo diffuso sui canali Telegram ha denunciato la tentazione circolante tra i segmenti dell’apparato militare russo che mirerebbero a un compromesso con gli USA onde “preservare i confini esistenti il 24 febbraio 2023”. Queste, secondo Prigozhin, che guarda alla trascorsa grandezza imperiale, sarebbero élites che “lavorano per padroni diversi: alcuni per il governo esistente, altri per coloro che sono in fuga da molto tempo”. Paradossalmente, anche una sconfitta in Ucraina potrebbe “portare a cambiamenti globali nella società russa” e spingere la gente ad abbandonare questi esponenti dello “Stato profondo” pronti – per difendere il proprio benessere – a tradire gli interessi della Russia scendendo a patti con Washington e Kiev.

[1] JUAN EMILIO BOSCH, Il pentagonismo. Come il “Deep State” U.S.A. tiene in pugno il continente americano, OAKS Editrice, Sesto San Giovanni 2022.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

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Andai nei boschi e … inciampai

di Fabrizio Rinaldi, 20 giugno 2021

C’è in tutti noi un limite alla tolleranza, superato il quale c’è chi spara, chi sbraita, chi fa finta di nulla e tira dritto divenendo indifferente: e poi c’è chi scrive. In questo ultimo caso non lo si fa per trovare altri che la pensino al nostro stesso modo, o per convincerli a farlo, ma per non sparare o per non mettersi a urlare. Io il limite l’ho toccato leggendo una frase semplicissima, apparentemente innocente, che recensiva l’ennesimo libro-fotocopia di Tiziano Fratus sugli alberi: “Venite a camminare nei boschi, le foglie vi insegneranno saggezza”. A quanto pare ho soglie di tolleranza basse.

Le foglie vi insegneranno la saggezza! No, non ne posso più dei professionisti della fitness naturistica, di chi celebra le proprietà salvifiche dello stare nei boschi, di chi propina cure antidepressive basate sul vivere nel verde, di chi crede al potere rigenerante dell’abitare nelle campagne, e lo fa dal teleschermo o ingolfando le librerie.

Io in mezzo alla natura ci vivo da sempre. Sono nato e cresciuto fra le colline dell’ovadese, sin da piccolo ho rastrellato campi, zappato l’orto, vendemmiato, sfrondato rami e sistemato balle di fieno nella cascina dei nonni. Divenuto adulto, ho finito per fare altro di mestiere, ma ho perseverato nel vivere in campagna piuttosto che in città, proprio per gli indubbi vantaggi di tranquillità, benessere e, non ultimo, di un costo della vita più vicino alle mie possibilità.

Un po’ dunque la campagna la conosco, e so per esperienza che queste cose sono in parte vere. So anche, questo per un po’ di semplice buon senso, che l’essere umano nella natura ci sta a suo agio da sempre (senza che qualche sapientone glielo spieghi), e so persino che ciò è possibile, tra l’altro, per la presenza nel sottobosco, nell’orto e un po’ ovunque nell’habitat naturale, del batterio Mycobacterium vaccae che, attivando il rilascio di serotonina, riduce l’ansia e favorisce il rafforzamento del sistema immunitario.

Ci vivo, ma non sono più saggio di chi abita nella metropoli solo perché distinguo l’acero dal pino. Le foglie rastrellate in autunno non mi hanno mai svelato il vero significato della nostra effimera esistenza. Sarò insensibile ai poteri sapienziali dell’ambiente naturale (che poi di “naturale” non ha più nulla) ma, pur riconoscendo i privilegi dello stare qui piuttosto che a Marghera o a Rovereto, non ne ignoro i costi in fatica fisica e scomodità.

Quindi mi sento in diritto di dire la mia. Che non è poi solo la mia. Se proviamo a domandare a chiunque viva di prodotti agricoli – ma “viva” davvero di questo e non sia un millantatore –, dirà che sì, vivere nel verde è delizioso, ma anche che “la terra è bassa”. Che cioè per ripagarti con uno stipendio appena appena dignitoso ti chiede una gran fatica. È bello vedere ex-direttori di banca o rampolli di buona famiglia che si reinventano come imprenditori agricoli di successo: sarebbe però interessante anche capire di quali risorse, e relazioni, hanno potuto disporre, e soprattutto se tutto questo ha ancora davvero a che fare col vivere nella natura.

Andai nei boschi e inciampai (3)Perché anche già soltanto a viverci, nella natura, è fatica. Dopo una nevicata, anziché fermarmi a rimirare romanticamente il paesaggio innevato, se voglio raggiungere il posto di lavoro in tempo o accompagnare le bimbe a scuola devo armarmi di pazienza, pala, turbina e … spalare, senza contare troppo su aiuti esterni. Arrivata la primavera è necessario porre rimedio agli effetti di neve, acquazzoni, frane e altre amenità più o meno naturali, andando a tagliare gli alberi stroncati dalle gelate e dal peso dei fiocchi, a liberare i fossi, a ripristinare il muretto di contenimento e così via.

Ci sono poi i disagi nei rapporti col “mondo esterno”, quello che sta là fuori. Ad esempio, la reale velocità di internet che posso raggiungere qui: di vedere l’ultima serie su Netflix certamente me lo scordo (non che mi interessi particolarmente, però ogni tanto un film …), ed è già un miracolo che le mie figlie siano riuscite a seguire le lezioni in DAD durante la pandemia, tra continue interruzioni di rete e voli funambolici dalla connessione della saponetta internet di casa all’hotspot del cellulare.

Le distanze per fare acquisti, necessari e superflui che siano, sono oggettivamente irrisorie. Ciò che non trovo qui vicino posso facilmente trovarlo, ordinarlo e averlo in pochissimi giorni attraverso Amazon. Ma se voglio andare oltre il facile acquisto e visitare ad esempio una mostra devo spostarmi di almeno 30-50 km. Per capirci: in questi giorni è uscito un documentario intitolato “Paolo Cognetti. Sogni di grande nord”, che mi intrigava molto: ci ho rinunciato, perché lo proiettavano solamente per pochissimi giorni, e solo in alcuni cinema di Genova e di Cuneo. Non proprio a due passi.

Peccato, perché prometteva bene: l’autore di “Le otto montagne” e il suo amico Nicola Magrin (bravo illustratore dei libri di Rigoni Stern, Levi, Terzani e molti altri) raccontano il loro viaggio a piedi in Alaska, citando la gran parte degli scrittori di viaggi e natura a me cari. Potrà sembrare una piccola rinuncia, ma io ci tenevo molto. Per un motivo molto semplice.

L’aver letto i moltissimi autori che dal Romanticismo in poi hanno trovato negli spazi naturali la loro ispirazione mi aiuta ad accettare i disagi e le fatiche dello stare qui. È confortante sapere che personaggi del calibro di London, Kerouac, Chatwin (beh, lui no: si sa che era refrattario allo sforzo), Thoreau, Emerson, Frost, Krakauer e gli italiani Calvino, Pavese, Rigoni Stern, Camanni, hanno provato la fatica dello stare in natura. A ragion veduta Leopardi scriveva: “O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (da “A Silvia”).

Mentre metto via la legna per l’inverno penso al “vecio” Rigoni intento a fare altrettanto. Quando squarcio la neve per raggiungere l’auto che ho lasciato prudentemente in cima alla salita lo faccio meglio se rivado ad una situazione simile raccontata nei fumetti di Ken Parker. Se grondo sudore a zappare mi viene in mente ciò che fece Thoreau nei primi mesi del suo isolamento: non lesse, ma piantò fagioli.

La cosa funziona: nel senso che se condivisi con i miei eroi anche i gesti più banali, i lavori più ripetitivi, acquistano subito un altro sapore. Ciò non toglie che i gesti occorra compierli e i lavori affrontarli. La saggezza, l’equilibrio, il benessere, vengono da quelli, e non dalle foglie. Quando sai che la terra è bassa ci cammini sopra in un altro modo: meno leggero, magari, ma più consapevole.

Quindi: venite pure a camminare nei boschi, ma assieme alle bibite e ai panini portatevi dietro tanto buon senso. Non sperate di vederlo colare dai rami delle piante. I boschi non insegnano nulla, ci offrono solo l’occasione di concentrarci un po’ di più su noi stessi. Lo dice anche Thoreau in Walden o vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

“Quanto essa, la vita, e non le foglie, aveva da insegnarmi”. È noi che dobbiamo interrogare, e i testi delle domande non ce li devono scrivere i nuovi guru naturisti. E se non siamo in grado di farlo da soli, allora ce li meritiamo.

Andai nei boschi e inciampai (5)

Thoreau descrive nel suo libro una esperienza di vita appartata, lontano dai rumori e gli odori delle città, ma non al punto da impedirgli di incontrare ogni tanto qualcuno con cui dialogare. Credo che questa sia la condizione che ho cercato anch’io nel luogo dove abito. Pur ammettendo una certa affinità con Dinamite Bla che, nei fumetti Disney, dal suo Cucuzzolo del Misantropo, caccia i seccatori con l’archibugio caricato a sale, mi reputo una persona accogliente, propensa all’ascolto e ad imparare dagli altri quando hanno qualcosa da insegnargli. In me convivono la propensione a un pensiero non conformista e una sensibilità ai temi ambientali, ma ritengo che questi debbano essere vissuti nel quotidiano, in un rapporto concreto, e quindi non idealizzato, con il luogo dove vivo: solo su questa base si possono fare scelte, personali e/o politiche, fondate e non velleitarie, per non divenire preda di inciviltà. In tal caso, dietro la porta non ho il fucile, ma – a ragion veduta – l’arco e le frecce. Non si sa mai.

Andai nei boschi e inciampai (2)

Tutto sommato sono ottimista. C’è una qualche speranza di essere per il futuro in buona compagnia: negli ultimi anni è comparsa un’innegabile attenzione per i cambiamenti climatici, una consapevolezza che non esisteva negli anni del dopoguerra e del boom economico. Per i più questa consapevolezza si ferma all’acquisto di prodotti bio o alla raccolta differenziata, ma certamente ci sono anche molti che provano davvero ad attuare scelte di minor consumo, magari non acquistando l’ultimo libro che parla delle interazioni bioenergetiche fra gli alberi, bensì provando a piantar pomodori invece che comprarli.

È una scelta complessa, e sicuramente elitaria, poiché non è concepibile una popolazione intera che viva in modalità “minimalista” (non in “decrescita felice” perché – a parer mio – i termini sono incompatibili), e spersa nelle campagne e sulle montagne perché in antitesi con un’economia basata sull’acquisto di scempiaggini.

Il vero salto di qualità comporterebbe divenire parte integrante della classe politica ed imprenditoriale, per incoraggiare dall’interno queste diversità: ma temo che per questo, sempre che sia poi realisticamente possibile, ci vorrà ancora qualche scossone.

La natura i suoi avvertimenti li dà, e da un bel pezzo. Sta a noi finalmente svegliarci dal torpore del “benessere” a buon mercato, e coglierli. Ma dobbiamo farlo con la nostra testa, senza abbracciare nuovi credi e religioni. I credi e le religioni nascono tutti con buonissimi intenti, ma finiscono poi inevitabilmente per creare delle chiese, un clero, dei dogmi, e per riaddormentare le coscienze. Qui si tratta invece, ad esempio, di volere e realizzare (in qualche caso, perché no, anche imporre) delle scelte di presidio “vero” del territorio, che non può essere demandato – e lo vediamo benissimo tutti i giorni –alle istituzioni, ai carrozzoni delle protezioni civili o alle giornate di pulizia dei fiumi o dei boschi, ma va gestito direttamente (e quindi, in qualche forma non assistenzialistica) proprio dalle comunità appartate territorialmente: questo non solo per garantire la cura costante di luoghi che oggi corrono verso lo sfacelo idrogeologico, con contraccolpi anche nelle città (vedi le inondazioni che immancabilmente avvengono alla prima pisciata del cielo), ma anche per innescare fiducia in un modello di convivenza differente e possibile.

Insomma, dobbiamo finirla di guardare alle scelte di vita appartate e rurali come ad esperienze “strane”, eccezionali, buone per i servizi televisivi dei programmi “verdi”, chiuse in se stesse e riservate a pochi eletti, o ad originali e un po’ strambi con l’archibugio sempre a portata di mano, che sopravvivono grazie alle melanzane coltivate nell’orto. La valorizzazione realistica e concreta (e non la spettacolarizzazione) delle micro-economie ancora esistenti o di quelle che stanno rinascendo e delle esperienze sociali a queste connesse può offrire grossi spunti di riflessione per ragionare su un’economia fondata su differenti paradigmi e su modi diversi di stare al mondo. Leggere la diversità sociale come un gesto artistico è né più né meno come marginalizzarla. Leggerla come una possibilità concreta, diffusa, terra terra, è un antidoto alla monocultura consumistica.

Non abbiamo bisogno di nuovi evangelisti. Sono sufficienti onesti divulgatori, che non traducono il linguaggio delle foglie, ma sanno fare quattro conti su costi e ricavi “globali” dei diversi tipi di rapporto con la terra, e sanno che la terra è bassa. Alla Carlo Petrini, per intenderci.

Andai nei boschi e inciampai (4)Collezione di licheni bottone

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(Dis)obbedire

di Marco Moraschi, 22 aprile 2021

Accolgo l’invito di Paolo (in “Primavere perdute“) a riflettere ancora una volta su ciò che stiamo vivendo da ormai più di un anno. Facendo una rapida cernita, mi accorgo che da quando è iniziata la pandemia questa è già la quinta riflessione che scrivo sugli stessi argomenti: a dire la verità sono anche un po’ stufo di non trovare altro di cui parlare, ma è anche (purtroppo) inevitabile che sia così dal momento che questa è praticamente l’unica esperienza che abbiamo da oltre un anno, a parte quelle vissute sul lavoro o immaginate nei libri che per fortuna ci è ancora concesso leggere. È la quinta volta dicevo, ma incredibilmente sembra che ogni volta gli argomenti siano diversi dai precedenti e ci sia sempre qualche aspetto che la volta prima mi era sfuggito o sembrava diverso. In effetti molte riflessioni sembrano nuove semplicemente perché cambia il nostro modo di approcciarci agli stessi problemi: per fortuna siamo ancora capaci di fare tesoro delle esperienze passate nonostante l’eterno presente in cui ci troviamo e questo ci consente di affrontare ogni giorno uguale come se fosse un’assoluta novità. Sai che novità, direte voi. 

Un altro aspetto interessante è che le nostre opinioni maturano e la fortuna di averle messe per iscritto è che possiamo rileggere cosa pensavamo in un determinato momento del passato, trovandoci nuovamente d’accordo o sentendoci invece un po’ sciocchi. La verità, ancora una volta, è che questa situazione, lo abbiamo già detto, è totalmente inedita per le nostre vite e quindi ciò che ne pensiamo matura col tempo, mano a mano che i giorni si sommano gli uni con gli altri. Vorrei quindi proporvi un esercizio totalmente inutile: ho riletto tutto ciò che ho scritto da febbraio dell’anno scorso e mi sono segnato alcune frasi, per commentarle a posteriori, perché a distanza di tempo tutto sembra assumere un significato e una valenza diversi. In genere è un esercizio che si fa con i politici: si pescano frasi che hanno detto o scritto in passato e li si mette davanti al loro imbarazzo nel mostrare come hanno cambiato idea, anche se il vero imbarazzo è piuttosto non cambiare mai idea. Queste cose le ho scritte nei mesi passati, su qualcuna concordo, su altre no:

  • (Dis)obberire 02Per molti la medicina rischia di essere peggiore della malattia.” Lo penso ancora e questo è vero specialmente se si considerano i devastanti effetti delle chiusure generalizzate. Vorrei precisare una cosa però: non dobbiamo pensare che esista una mutua esclusione tra decidere di salvare l’economia o di salvare delle vite umane, né che queste siano le uniche due possibilità. Se, come sembra, questa pandemia ci accompagnerà per chissà quanto tempo ancora, dobbiamo trovare un’alternativa valida alla chiusura come unico mezzo per combattere la diffusione del virus. Non sono un medico né faccio parte del famoso comitato tecnico scientifico in qualità di “esperto”, ma mi rifiuto di credere che l’unica via sia quelle delle chiusure: vorrei semplicemente che si investisse di più nella ricerca di alternative, potenziando la sanità e al contempo elaborando dei protocolli affinché le attività possano riaprire in sicurezza. Badate, non è una questione puramente economica, è una questione di dignità: il mio lavoro mi ha salvato in questa pandemia, perché mi ha dato uno scopo, dei compiti e delle attività da svolgere quando tutto intorno era fermo e non si vedeva una via di uscita. Posso ritenermi molto fortunato, ma non è stato così per tutti purtroppo: chiudere un’attività non significa solamente togliere una fonte di sostentamento economico a chi su quell’attività campa (e non venitemi a parlare dei ridicoli indennizzi statali, buoni solo a far del debito), ma anche privare la vita di quelle persone di un pezzo importante del loro essere, perché quando sentiamo dire che “il lavoro nobilita l’uomo” è dannatamente vero.
  • Prima”. Continuiamo a sentire confronti tra com’era “prima” e com’è adesso. Vi dico la verità, a me di com’era prima non interessa nulla, perché quel prima è ormai andato e per certi aspetti dobbiamo augurarci che quel prima non torni mai più. La speranza è invece che ragionando su com’è adesso possiamo decidere (e non subire) come sarà il “dopo”, se mai ci sarà. Francamente, non nutro molta speranza.
  • Siamo impreparati: giornalisticamente, politicamente, economicamente. A tutti i livelli si procede in ordine sparso. Viviamo nella dimostrazione del principio di incompetenza di Peter.” Questa è una delle prime cose che ho scritto. Ahimè, si commenta da sola: è vera, e non è cambiato nulla. Cambiano i governi, cambiano le classi dirigenti, ma a tutti livelli l’incompetenza rimane salda al suo posto.
  • (Dis)obberire 03 ThoreauTutti i cittadini devono rispettare le regole (leggi) dello Stato”. Ve lo confesso, su questa ho dei seri dubbi e la colpa è mia che non ho ancora capito Thoreau. Perché in questo anno di decreti legge e DPCM ne abbiamo lette e sentite come si dice “di cotte e di crude”, e se sarà pur vero che “la libertà è coscienza del dovere”, la mia coscienza mi impone di non stare zitto di fronte all’assurdità di certi provvedimenti, suggerendomi che la vera libertà è scegliere deliberatamente di non rispettarli, non per nuocere a qualcuno, ma per evitare che essi stessi possano continuare a prendersi gioco della nostra intelligenza. Sono stato il primo ad accettare i sacrifici e anzi, a rendermi conto che la vera libertà era scegliere di essere dalla parte della responsabilità, ma l’immobilismo e l’irrazionalità di certe decisioni mi hanno decisamente stufato: non sto dicendo che da domani inizierò a uscire dopo le 10 di sera o a fare delle feste in casa, continuerò a non vedere gli amici, a rispettare il coprifuoco e a mettere la mascherina all’aria aperta, ma se un anno fa lo facevo con convinzione, adesso proseguo solamente per inerzia. La verità è che dopotutto non sono così coraggioso: uscirei volentieri a fare una passeggiata dopo le 22 pur di contravvenire a una norma idiota e lo farei nel pieno rispetto di alcune misure che invece ritengo efficaci, ovvero uscire da solo e indossando la mascherina. Ed è qui che entra in scena Thoreau e vorrei davvero che qualcuno me lo spiegasse, perché forse non l’ho capito: se mi comportassi come ho detto starei praticando quella forma di protesta definita come disobbedienza civile o sarei più idiota della norma stessa? Quand’è che la nostra insubordinazione smette di essere un gesto nobile e diventa invece prevaricazione? Siamo noi a decidere sulla base delle nostre convinzioni personali, oppure ci dev’essere un comune sentire affinché si tratti di disobbedienza civile? La pandemia ha scatenato in me queste domande, perché mi ha posto di fronte a delle scelte: prima non le avevo mai avvertite perché ero in pieno accordo con le leggi dello Stato, o quantomeno le leggi che conosco. Non mi sarei mai sognato di ammazzare qualcuno come forma di disobbedienza civile, ma ora che queste leggi (non tutte, sia chiaro) mi appaiono così distanti dalla logica, non so come comportarmi. Se ci siete, vi prego, aiutatemi, ci vediamo in piazza alle 22.

Link: L’insicurezza degli oggetti

Primavere perdute

(e un solo lungo inverno)

di Paolo Repetto, 9 aprile 2021

I remake sono già insopportabili al cinema, figuriamoci quando a riproporsi tale e quale è una realtà come quella della clausura coatta. In queste prime giornate d’aprile, infatti, quanto a numeri dei contagi e dei decessi, e a conseguenti restrizioni, siamo esattamente nella condizione di un anno fa. E andrebbe addirittura peggio, se terapie più mirate non contenessero bene o male le dimensioni della strage.

A non essere più lo stesso è invece lo stato d’animo col quale affrontiamo la pandemia. Forse siamo meno spaventati. Ma se avvertiamo una pressione minore è solo perché ci stiamo abituando, e se prendiamo le regole meno alla lettera è perché in realtà abbiamo introiettato e troviamo naturali le precauzioni elementari (parlo delle persone normali, naturalmente: gli idioti non fanno testo, anche se fanno danni). Soprattutto, la speranza che ci sorreggeva la primavera scorsa, per cui l’estate avrebbe posto fine all’incubo, quella è totalmente svanita. Adesso sappiamo che con la pandemia dovremo convivere ancora per molto, cosa che per quelli della mia età significa per sempre. Nemmeno i vaccini riescono a rischiarare il futuro (ultimamente lo hanno reso anzi ancora più cupo: perché non ci sono, o perché quelli che ci sono non sembrano funzionare granché).

Abbiamo una sola certezza: che nulla sarà più come prima. E dato che già prima avevamo un’idea molto confusa di come le cose andassero veramente, tendiamo a mitizzare quel recentissimo passato, a ricordarlo come un’età dell’oro. Non è solo frutto di una deformazione prospettica: in effetti, paragonata alla situazione che stiamo vivendo, quella di un anno e mezzo fa appare paradisiaca. Se allora navigavamo in acque poco tranquille, oggi siamo proprio in balia della tempesta. Stiamo perdendo d’un colpo tutte le sicurezze che secoli di “progresso” sembravano averci garantito.

Ora, a livello individuale questo sconquasso viene naturalmente vissuto in maniere molto diverse, a seconda delle condizioni oggettive, anagrafiche, di salute, di lavoro, di famiglia, o di ciò che effettivamente si è perduto: ma intervengono poi anche le differenti disposizioni caratteriali, per cui ciascuno è portato a leggere la situazione da un suo particolare angolo prospettico. E dato che ritengo abbia poco senso tentare sintesi di ampio respiro rispetto alla condizione nuova in cui siamo venuti a trovarci, e meno che mai azzardare dei bilanci, vorrei parlare proprio di questi atteggiamenti individuali. Nella fattispecie, come al solito, del mio: per cui è facile che ripeta cose già scritte in questi mesi. Ma lo metto in conto ad una sclerotizzazione tipica dell’età, e anche al fatto che d’altro non c’è in fondo molto da dire.

Allora, pur rimanendo consapevole che delle mie sensazioni e della mia attitudine non può fregare di meno a nessuno, provo a fare mente locale sulla particolarissima percezione che ho della tragedia e dei suoi anche più banali risvolti quotidiani: non fosse altro che per conservarne un po’ di memoria per i tempi in cui l’emergenza sarà alle spalle (sempre che arrivi a vederli), quando ciò che oggi mi sembra intollerabile sarà diventato normale: oppure per confrontare, già da subito, la mia percezione con quella altrui. Penso che non sarebbe male se un’operazione del genere la facessero tutti: aiuterebbe a mitigare i possibili (e molto probabili) eccessi di entusiasmo, e ad evitare di ripetere almeno un po’ degli errori che la pandemia ha messo drammaticamente in luce.

Partiamo dunque da ciò che sento di aver perso, iniziando dalle cose più serie, da quelle che non sono legate a semplici mie impressioni.

Primavere perdute 02

Ho (abbiamo) perso, ad oggi, quasi centoventimila vite. Questo dato tendiamo a rimuoverlo. È troppo grande, ci spaventa e non riusciamo a visualizzarlo. Oppure lo stemperiamo, dicendoci che si tratta delle vite di persone molto anziane (anche se non è vero). Siamo ridotti a pensare che a breve sarebbero comunque morte, e che in fondo avevano già vissuto una buona fetta di esistenza: cercando, o fingendo, di dimenticare che tutti moriremo comunque, prima o poi, e che in genere nessuno ha voglia che sia prima, o pensa di avere già vissuto più che a sufficienza. Non voglio fare il menagramo e pronunciare degli infausti memento mori, e nemmeno sono motivato dal fatto che tra gli anziani di medio periodo rientro ormai anch’io. Constato semplicemente che di fronte a certe cifre, che in tempi normali parrebbero spaventose, abbiamo maturato una quasi indifferente assuefazione. Io stesso, che pure da questa ecatombe continuo ad essere particolarmente turbato, non riesco ad andare molto oltre il dato numerico.

D’altro canto, è naturale che riusciamo a visualizzare solo le perdite prossime. E, come quasi tutti, ne ho anch’io di molto personali da piangere. Amici della mia generazione o più giovani di me, persone con le quali sino a dieci giorni prima facevo progetti. Nella mia percezione di queste perdite ha avuto un rilievo fortissimo l’assenza dei funerali. Loro sono stati defraudati del diritto ultimo che rimane a un defunto, quello di essere salutato dagli amici, e io sono stato defraudato di quello di salutarli. Può sembrare assurdo, ma se sto poco alla volta abituandomi alla loro scomparsa, non ho accettato affatto l’impossibilità di salutarli un’ultima volta. È come se le loro anime non potessero essere pacificate fino a quando in qualche modo non avrò dato loro un addio decente.

Queste perdite hanno cancellato molte consuetudini che avevo ritualizzato: le conversazioni davanti al caminetto o attorno alla tavola, le lunghe passeggiate urbane, il ritrovo ai mercatini o alle mostre, il semplice piacere di condividere in una telefonata scoperte, letture, aneddoti. Mi sono venuti meno dunque un sacco di riferimenti fissi, e lo dico sommessamente, consapevole che c’è chi con queste scomparse ha perso molto di più.

La sfera nella quale il Covid ha pesato maggiormente, anche quando non in maniera così brutale, è appunto quella delle amicizie. L’amicizia può esistere (e resistere) anche a distanza, ma si tratta di casi eccezionali. Di norma è legata alla possibilità di una consuetudine diretta. Mi riferisco al bisogno fisico e psicologico di vedere determinate persone, di portare avanti colloqui fatti a volte anche di poco o nulla, addirittura di silenzi, che riescono in presenza a loro modo eloquenti, del conforto difficilmente rappresentabile che danno certe prossimità. La clausura non mi ha fatto perdere delle amicizie, ma certamente me le ha fatte riconsiderare. Mi ha consentito di capire quali erano interinali e quali a tempo indeterminato, e il criterio di valutazione, se di criteri si può parlare rispetto ad un’amicizia, è stato proprio il bisogno della presenza fisica, di concertare o immaginare o fare cose assieme. Ricordo che nella prima fase pandemica si celebrava il soccorso arrecato dai social, dalle reti virtuali: ma non c’è voluto molto per rendersi conto di quanto questo surrogato sia fragile, insipido ed evanescente.

Anche le restrizioni negli spostamenti e negli incontri hanno naturalmente ridimensionato, in qualche caso azzerato, le vecchie abitudini. Per quanto abbia interpretato i divieti in maniera piuttosto permissiva, improntata al buon senso piuttosto che alla lettera (non è stato difficile, vista l’incredibile confusione delle normative che si sono succedute), ho forzatamente diradato o annullato riunioni conviviali, escursioni di gruppo, conferenze e occasioni svariate di incontro e di scambio: tutte le cose attorno alle quali, sia pure in maniera molto improvvisata e aperta, era ormai organizzata da qualche anno la mia vita. Mi mancano particolarmente i seminari di storia delle idee, perché in fondo erano la naturale prosecuzione di una attività didattica svolta per tutta la vita, con in più il piacere del confronto alla pari, della libertà assoluta nella scelta dei temi e nei modi della loro trattazione, ma soprattutto perché erano una miniera di stimoli e arricchivano senz’altro più me che non i miei uditori. Ho preferito non proseguire quelle attività on-line, da remoto, perché sono convinto che il loro vero valore risieda nell’empatia comunicativa che solo può crearsi in presenza, che si trasmette attraverso l’immediatezza sincera dei gesti, delle posture, degli sguardi.

Ciò nonostante ho continuato per tutto questo ultimo anno a immaginare argomenti per le future conversazioni, a concepire per ogni nuova suggestione la forma di una trattazione colloquiale, come facevo prima: ma riesce difficile quando non c’è una destinazione precisa, una scadenza da rispettare. E anche il mettere le cose per iscritto è un impoverimento, rispetto a quello che può emergere nel corso di una esposizione orale. Platone lo aveva già ben chiaro duemila e passa anni fa, quando negava alla scrittura una vera capacità maieutica. Insomma: avverto ancora più pesante la sensazione di aver accumulato tante cose delle quali vorrei fare partecipi altri, e che invece sembrano destinate all’inutilità.

Diversa è la situazione riguardo ai viaggi e agli spostamenti. A mancarmi, in questo caso, è piuttosto la possibilità di immaginarli, di programmarli, che non la loro concreta realizzazione. Si tratti di viaggi veri e propri o di semplici scappate di giornata, mi rendo conto che per me il motivo maggiore di piacere era l’idea di poterlo fare. Di decidere, prendere su e andare. Dopo una lunga stasi avevo ricominciato a sentir prudere le gambe, forse nell’inconfessata consapevolezza che i tempi per permettermi queste cose (così come tutte le altre) stringono: ora, costretto al tapis roulant fisico e mentale, sento già affievolirsi le forze e la voglia.

Tutto questo ha però niente a che vedere con il senso di soffocamento che sembra rendere impossibile la vita a buona parte dei miei connazionali (chissà come si sentirebbero se vivessero in Cina). Il fatto di non essere totalmente libero di muovermi o di incontrare gli amici non lo considero un attentato alla mia libertà. Penso al contrario che non dovremmo nemmeno aspettare che siano altri ad imporci delle limitazioni, dovremmo arrivarci per conto nostro. Questa è la vera libertà: essere consapevoli del rischio, per la salute nostra e per quella degli altri, che questi movimenti e questi incontri possono comportare. La libertà è coscienza del dovere, solo alla quale consegue legittimamente la rivendicazione del diritto: e dal momento che il mio primo dovere è di non recare danno a nessuno, l’espressione massima della libertà è proprio questa, sapere e potere agire in modo da non nuocere.

Quella che percepisco di meno, e la cosa può apparire paradossale, perché ho piena consapevolezza del disastro che si profila, è il disagio economico. Non è questione di miope egoismo: come pensionato godo per il momento di una situazione privilegiata, ma so perfettamente che è destinata a durare ancora per poco, e che chi non è stato ancora colpito lo sarà al più presto. A furia di scostamenti il bilancio si sporgerà oltre l’orlo e finirà rovinosamente a terra, e il debito qualcuno dovrà pagarlo. Rispetto a queste cose, a differenza che nei confronti del Covid, sono vaccinato: stanti le mie origini mi sto preparando da una vita ad una evenienza del genere. Non me la auguro, ma nemmeno vivo questa prospettiva nel segno dell’angoscia: sarebbe solo il ritorno ad una condizione di precarietà che ho già conosciuto, e che ho la presunzione di saper affrontare. Il problema vero è che ho figli e nipoti, e loro a questa condizione sarebbero del tutto impreparati. Questo mi preoccupa.

Primavere perdute 03

Qualcosa ho perso anche nei confronti della scuola. Non direttamente, perché con la scuola non ho mantenuto alcun rapporto o impegno diretto. Ma indirettamente constato l’accelerazione dello smottamento attraverso coloro che la scuola la frequentano, o chi vi è ancora impegnato, e trovo che sia devastante. Continuavo a coltivare l’illusione, pur sapendo benissimo che di illusione si trattava, che un qualche evento particolare, felice o drammatico che fosse, avrebbe costretto a mettere finalmente mano a un risanamento della scuola. Parlo di risanamento, e non di rinnovamento o di riforma, perché di queste ne abbiamo avute sin troppe, una più rovinosa dell’altra. Risanare la scuola significa per me riconferirle un ruolo, un prestigio, una missione. E questo può essere fatto solo attraverso la ridefinizione di quelle che sono le sue finalità, la revisione di quelli che sono gli strumenti e le strade atti a raggiungerli, il reclutamento di operatori che sappiano davvero usare questi strumenti e percorrere queste strade. Scopi chiari, criteri di valutazione certi (degli studenti come degli insegnanti), luoghi sicuri, tempi congrui.

Sta accadendo esattamente l’opposto. L’emergenza è stata affrontata con provvedimenti uno più insensato dell’altro (i banchi a rotelle!), con decisioni prese sempre sull’onda delle pressioni mediatiche, per mostrare che qualcosa si stava facendo, senza una volta dire chiaro e tondo come stanno le cose: e cioè che la didattica a distanza non è una opportunità ma una sciagura e che le riaperture a singhiozzo avevano l’unico scopo di tacitare i genitori sfiniti. Si sono confusamente raccontate favole alla Baricco sulla “nuova intelligenza digitale”, si sono reclutati insegnanti “di supporto” con compiti sempre più espliciti di assistenza al parcheggio, ci si è riempiti la bocca di termini inglesi per mascherare la fuffa concettuale. Il risultato è che si sono persi due anni scolastici, né più né meno come se le scuole fossero rimaste chiuse, e non si è profittato di questa pausa per fare un concorso decente che sia uno o per riparare almeno le falle dei tetti degli edifici. Banchi a rotelle e piattaforme digitali. L’unico valore in crescita positiva è rimasto quello dell’analfabetismo di ritorno.

Quella che non ho perso del tutto è invece la fiducia nella scienza, anche se devo fare un bello sforzo per continuare a nutrirla. E sono tra i non molti che sanno che dietro i pagliacci esibiti in tivù c’è un sacco di gente in gamba. Figuriamoci la considerazione che possono averne tutti gli altri, coloro che nemmeno immaginano esista una realtà al di fuori di quella raccontata dal teleschermo, e attraverso quello hanno assistito al balletto delle comparsate e dei contrapposti protagonismi. La vicenda dei vaccini è emblematica. È stata ridotta ad un problema di tipo prettamente industriale, di rivalità politiche ed economiche, e a nessuno sembra minimamente interessare il percorso scientifico che sta a monte di quelle fiale. Anche in questo caso, ciò che è frutto di una conquista, di un sapere, di un modello conoscitivo che non è quello degli sciamani o dei taumaturghi ayurvedici, è percepito come qualcosa di dovuto. Si contesta la scienza, ma ci si attende e si pretende che risolva poi ogni nostro problema, e si scalpita se tarda a farlo.

Stavo per scrivere, in conclusione, che ho perso definitivamente il Futuro. In realtà non è stata una gran perdita, non lo vedevo più da un pezzo: diciamo che la pandemia mi ha aiutato a metterci definitivamente una pietra sopra. Questo significa che ho perso soprattutto la voglia, un po’ in generale tutte le voglie. Per questo non mi pesano più di tanto le restrizioni, che come dicevo ho preso con filosofia: non soffro la mancanza di libertà, ma il fatto che di questa libertà non saprei che fare, e che se anche lo sapessi non avrei più voglia di farlo. Questa primavera non ho messo a dimora nemmeno un alberello, e neppure una piantina di rose. Mi sono limitato a una svogliata manutenzione di routine, in campagna e in casa. Mi rimangono il presente e il passato. Nel primo galleggio, nel secondo sono sempre più immerso, ma senza coltivare nostalgie: cerco di rimettere ordine nei ricordi consegnati agli scaffali, e ogni tanto ne risfoglio qualcuno. Non mi chiedo più che ne sarà dopo.

Ma non è così che voglio chiudere. All’inizio ho accennato alle banalità che ci danno il senso di una cesura totale col passato, e ho finito poi per parlare solo di cose serie. Invece le percezioni piccole ci sono, arrivano da dove meno te le aspetti. Mi limito ad un esempio, per non scadere come al solito nell’aneddotica.

In questo periodo ho dovuto frequentare con una certa assiduità lo studio del mio dentista. Lì la percezione di una perdita c’è naturalmente già in partenza, e riguarda tanto il tuo portafoglio quanto la tua bocca. Ma questo valeva anche prima del Covid. Il tocco nuovo, la sfumatura significativa, l’ho conosciuta invece nella sala d’aspetto. Non c’è più una rivista. Quei dieci minuti o la mezz’ora di attesa li riempivo con una scorpacciata di informazioni che solo in quella occasione o in altre simili (studi medici, parrucchiere, ecc…) ero in grado di procurarmi. Mi aggiornavo sui prezzi delle auto con Quattroruote (anche se un po’ in ritardo, perché le riviste erano sempre vecchie di almeno sei mesi), sui modelli più raffinati di doppiette o sovrapposti con Diana o con Sentieri di caccia, ma soprattutto sul gossip, sulle ultime disavventure di Al Bano o di Emanuele Filiberto attraverso Cronaca vera o Chi. Scomparse. Ho provato a portarmi un libro ma non funziona, lì non attacca. Il piacere era nei titoli dei reportage, nelle foto, e nella serialità. Da un anno e passa ho perso totalmente di vista Al Bano: non so se sia vivo o morto, o magari cresciuto, se si sia beccato il Covid o abbia fatto outing, se sia tornato con Romina. La nebbia assoluta. E questo dà la misura della mia distanza dal mondo, spiega perché ne capisco così poco.

Ma non basta. Recentemente ho avuto occasione di seguire, senza volerlo, in un altro studio medico (mi sembra ormai di non frequentare altro), la conversazione tra due signore che come me erano in attesa. Una volta si sarebbero immerse nella lettura, al più avrebbero commentato malignamente gli ultimi amori della Hunziker o la scollatura di qualche giornalista televisiva: invece, orfane delle riviste, stavano parlando delle trame del governo, della pandemia creata ad hoc per imbrigliarci tutti, del complotto dei vaccini. Non so se siano finite sugli ebrei perché nel frattempo era arrivato il mio turno. Sono uscito traumatizzato. Ho capito che ci stavamo davvero perdendo molto più di quel che temiamo, ma che il futuro, purtroppo, non ce lo siamo affatto perso. È quello e, a dispetto della rassicurante continuità delle beghe interne al PD, è già cominciato.

Primavere perdute 04

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Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano ​in una villa abbandonata …

di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.

Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!

Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).

E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.

Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.

La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.

La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.

Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.

Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.

Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.

Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.

E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.

La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.

Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.

E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).

Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.

Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.

No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).

Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).

Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…

Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.

Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.

In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.

Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.

E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black! 

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Estetica delle macerie ed etica delle rovine

di Paolo Repetto, 4 novembre 2020

Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine
Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo
La storia futura non produrrà più rovine
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

Cammino con Stefano sulla cresta di una collina, nel cuneo di terra che separa ancora per un breve tratto Tanaro e Po, a nord-ovest di Alessandria. Davvero non te lo aspetti un posto così bello, a pochi chilometri da una città tanto piatta e grigia. Queste colline non hanno nulla di selvaggio, sono dolci e ordinate, completamente addomesticate dal lavoro umano lungo i secoli, e non susciteranno mai l’emozione del sublime: ma trasmettono l’idea di un rapporto armonioso con la terra. A me la natura piace anche così, mi piace vederci impressa l’impronta dell’uomo, quando è delicata, leggera.

Ma non sono qui per scoprire il paesaggio, negli ultimi tempi ho già imparato a conoscerlo bene. Cammino invece sulla scia della passione più recente di Stefano, quello per la fotografia di luoghi in rovina o abbandonati (che ha anche un nome, urbex, da urban exploration: inglese naturalmente). Mi incuriosisce. Sono quindi a rimorchio, è lui a guidare, perché ha in testa una meta. Conoscendolo, è probabile che questa meta sia a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto, ma senz’altro ci arriveremo facendo il giro più lungo possibile e percorrendo l’itinerario più ondulato.

Infatti. Viaggiamo per tre o quattro chilometri su stradine o sentieri fangosi che corrono lungo i campi, fino ad arrivare ad una macchia di verde del tutto inselvatichito e apparentemente impenetrabile. Nel verde si apre però ad un certo punto un piccolo varco, impercettibile al passante distratto. Ci inoltriamo nel folto e all’improvviso, quasi magicamente, siamo di fronte all’edificio.

È una costruzione imponente, tre piani che vanno calcolati con le misure di un tempo, quindi alta ad occhio e croce almeno una dozzina di metri. Ma non è facile farsi un’idea globale delle dimensioni, perché l’edificio non è mai visibile da una sufficiente distanza. Dall’esterno della macchia risulta totalmente nascosto, malgrado l’altezza, dalle piante secolari che lo circondano. Quando si è dentro lo si può guardare solo dal basso. Non riesco a valutare lo stato del tetto, ma i muri perimetrali sono tutti ancora in piedi, e non si vedono crepe. Persino l’intonaco regge, tranne in qualche punto sulla facciata che guarda a settentrione e nel cornicione che aggetta. Tutto il resto, naturalmente, le cornici in muratura degli infissi e i fregi e gli infissi stessi, è in totale rovina. La costruzione è forse databile agli inizi del secolo scorso, magari anche alla fine di quello precedente: lo stile sta tra il Liberty e l’Art Dèco.

Entriamo con cautela, e all’interno lo stato di degrado è ancora più evidente. Calcinacci e vetri ovunque, l’intero soffitto di una sala crollato, tappezzerie a brandelli, vecchie stufe, sedie e tavoli disfatti. Rimane però ancora percettibile quella che doveva essere l’originaria ricchezza e bellezza degli ambienti: nei pavimenti alla genovese, nelle volte affrescate, nelle lunette che offrivano scorci montani o lacustri, in quel che rimane degli armadi a muro, ecc… Mi viene in mente per un attimo la Vill’Amarena di Gozzano: Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Il riferimento non è del tutto appropriato, ma lascia intravvedere quella che ha potuto essere la fase iniziale dell’abbandono (in verità mi viene in mente perché è una delle poche poesie che ancora ricordo, e mi ci aggrappo prima che la memoria sia ridotta come questa casa).

Non ci avventuriamo ai piani superiori perché anche le scale sono fatiscenti, una grossa crepa taglia a metà il primo pianerottolo. Meno che mai osiamo scendere in un buio piano interrato, dove non arriva luce da nessuna apertura. In realtà non credo sia poi così pericoloso, ma l’impressione è che ci si debba muovere con tutta la delicatezza possibile, per non contribuire ad accelerare lo sfascio. È una casa che incute un certo rispetto.

Stefano comincia sparare fotografie, è affascinato dalla rovina, che i raggi filtranti attraverso quel che resta delle persiane ammantano davvero di una malinconica poeticità. Io, dopo il primo momento di sorpresa, e dopo aver appagato la curiosità iniziale, sento invece montare dentro un sentimento che conosco bene. A differenza di Stefano, che è un positivista professo ma sotto sotto subisce un po’ il fascino della decadenza, io di fronte a queste cose sto male. Non accetto alcun tipo di degrado che non sia quello iscritto nei cicli naturali, perché quello non è degrado, è trasformazione. Questo edificio è invece una testimonianza culturale, è cultura che va a pezzi, e allora sento l’urgenza di intervenire, di impedire alla rovina di avanzare. È una vera e propria sindrome, che rasenta l’autismo: ovunque vada sono immediatamente colpito da quel che è fuori posto, che potrebbe essere migliorato, sistemato, recuperato (così come mi irrita profondamente, nelle persone, ogni comportamento caciarone e scomposto). Una volta a casa di un amico ho rimesso in piedi tutta una serie di anfore abbattute sparse per il giardino, per poi scoprire che erano state messe così ad arte (il senso devo ancora capirlo oggi). Dopo aver restaurato e ridipinto i settanta metri di staccionata che chiudono il giardino di mia figlia a Bournemouth, mi aggiravo per la città a verificare quante altre staccionate avrebbero avuto bisogno di un sano intervento (e sarei stato disposto ad operarlo gratis). Insomma, è una malattia, che però non si limita a un decorso passivo, ma a modo suo mi rende immediatamente operativo.

Anche in questo caso finisco subito a realizzare che si potrebbe intervenire qui, rinforzare là, recuperare materiali, ripristinare. Cerco di figurarmi come potrebbero essere i locali una volta restaurati, e come sarebbe possibile farlo con interventi minimi, puramente conservativi. Mentre Stefano continua a raccogliere immagini, ogni tanto coinvolgendomi anche, comincio a fare mentalmente i conti: un tot a metro per il tetto e per gli intonaci, un calcolo approssimativo per le decorazioni esterne e per gli infissi, una bella botta per il ripristino degli interni. Siamo, molto all’ingrosso, nell’ordine del milione di euro. E questo a condizione di mettere all’opera gente seria, ad esempio i muratori con i quali ho lavorato, fino a pochissimi anni fa, per recuperare la mia casa. Altrimenti la cifra raddoppierebbe, e il risultato sarebbe disastroso. Il tutto naturalmente evitando ogni intromissione delle varie sovrintendenze e degli svariati e altrettanto inutili altri organismi di controllo, oggi tranquillamente indifferenti davanti al fatto che un edifico del genere vada allo sfascio, ma che domani, casomai un folle decidesse di metterci mano, interverrebbero di corsa a imporgli i vincoli più stupidi e le direttive più insensate.

Lascio Stefano a finire il suo servizio e mi aggiro nei dintorni della casa: solo per scoprire che le sorprese non sono affatto finite. Come avrei dovuto immaginare, a pochi metri, ma assolutamente invisibile se non ci si avventura in un altro varco nella boscaglia, c’è un secondo edificio, molto più basso e meno elegante, alle spalle del quale è stato appoggiato in epoca relativamente recente un enorme porticato. Dal porticato si ha accesso diretto ad una cantina. Evidentemente era la residenza dei mezzadri, e deve essere stata abitata o utilizzata ancora per qualche tempo dopo l’abbandono della casa padronale: almeno sino a una quarantina d’anni fa, come testimoniano le botti in cemento e lo stato del tetto. Dalla piccola radura antistante la casa individuo poi quello che probabilmente era l’accesso principale alla villa: un vialone un tempo inghiaiato, fiancheggiato da platani enormi, che scende con dolce pendenza e perfettamente rettilineo per almeno duecento metri, sino ad immettersi nella strada comunale. Ho il sospetto che Stefano lo sapesse, e che saremmo potuti arrivare sin lì tranquillamente in macchina. Ma in fondo sono contento di essermi guadagnato almeno un po’ la gioia della scoperta. Che non cessa di rinnovarsi: dal lato opposto, dando le spalle alla casa, intravvedo un altro edificio ancora. Era la stalla-fienile. Dentro, in mezzo a cumuli di cianfrusaglie d’ogni tipo, ci sono ancora delle vecchie attrezzature per l’aratura con gli animali. Devo aggiornare i preventivi per il restauro, ma rispetto a quanto previsto per il corpo centrale qui sono bazzecole.

Ora la topografia del luogo si ricompone. Si accedeva alla villa dal basso, e la si scopriva mano a mano che si risaliva il viale, mentre i due edifici “di servizio” rimanevano nascosti sino all’ultimo. Il viale si interrompeva in uno slargo alla loro altezza, dal quale con due dolci rampe laterali si guadagnava il terrapieno su cui sorgeva la dimora padronale. L’effetto doveva essere di imponenza e di eleganza assieme.

Continuando a girovagare mi rendo conto che il parco alberato è molto più ampio di quanto immaginassi. In serata poi, tornato a casa, scopro sulla mappa satellitare di Google che in basso, proprio al confine del parco, c’è ancora un quarto edificio, del quale né io né Stefano ci siamo accorti. Tra l’altro, nella visione dal satellite l’assieme appare come un’isola verde in mezzo ai diversi toni del marrone dei campi che la circondano.

Bene, non ho dettagliato questa piccola esplorazione domestica per puro amore di racconto, ma perché mi ha spinto a riflettere molto e perché ancora oggi, il giorno dopo, non riesco a smettere di pensarci. E mi chiedo innanzitutto se, al di là della mia specifica sindrome da dio riordinatore, progetti di recupero come quello su cui fantasticavo ieri sarebbero poi davvero così insensati, anche prescindendo da tutti i fattori emotivi, valutandoli su un piano prettamente economico.

Dunque. Proviamo ad immaginare come potrebbero andare le cose in un paese normale. È difficile, perché intanto in un paese normale un edificio del genere non sarebbe in quelle condizioni, sarebbe già intervenuto qualcuno, qualche ente, qualche istituzione, per impedirne la rovina. Se da noi questo non avviene non è perché la cosa sia impossibile, ma perché siamo un popolo di idioti. E certamente, se ogni progetto lo parametriamo a quest’ultimo dato di fatto, allora possiamo abbandonare in partenza. Io sto ragionando per assurdo, ma in questo caso non è assurdo il ragionamento, quanto piuttosto il fatto che in questo paese non lo si possa nemmeno fare.

Allora, rimaniamo nella fanta-utopia (mi ci sono affezionato) del “paese normale”. Se fossi io il legislatore dopo un massimo di dieci anni di abbandono metterei i proprietari di fronte ad un aut aut: o lo tenete in piedi voi o lo cedete (per una cifra simbolica) alla comunità, che provvederà a farlo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di espropriare: basterebbe tassare in maniera esponenzialmente salata gli edifici oltre un certo periodo di non utilizzo. Mi si obietterà che il problema sarebbe a questo punto che fare della miriade di edifici di cui lo stato si troverebbe ad essere proprietario, visto che non riesce nemmeno a manutenere le strutture pubbliche di sua pertinenza. È vero: ma io sto parlando di uno stato normale, il che esclude in partenza situazioni come quella italiana.

Comunque, continuando così non si va da nessuna parte. Devo confrontarmi con la realtà: proviamo a rimanere in Italia. Assumendo quello che ho calcolato per la “mia” villa come costo medio di ogni intervento (e credo di essermi tenuto largo, perché per almeno due terzi gli interventi potrebbero essere meno dispendiosi), per recuperare diecimila edifici o luoghi di un certo pregio sarebbero necessari dieci miliardi di euro. Può sembrare una bella cifra, un investimento colossale: e in effetti lo è, lo sarebbe in qualsiasi momento e lo è tanto più in questa nefasta congiuntura di pandemie e di crisi strutturali.

Ma guardiamo a ciò che abbiamo di fronte. Teoricamente l’Italia dovrebbe ricevere nei prossimi mesi un soccorso finanziario nell’ordine di oltre duecento miliardi (il famoso recovery fund). Il condizionale è d’obbligo, perché il soccorso è subordinato alla presentazione di un piano di investimenti credibile e concreto, cosa di cui si hanno mille ragioni per dubitare (detto tra noi, fossi l’Olanda o la Svezia o l’Austria non farei credito di un solo centesimo al nostro paese). Il rischio è che tutto ciò che saremo in grado di proporre si riduca a una serie di interventi di “tamponamento” a pioggia, vale a dire ad elargire soldi destinati a tacitare le proteste, legittime o meno, ma non certo a normalizzare il respiro della nostra economia. Al tempo stesso abbiamo milioni di persone inattive, in parte per una crisi che era già strisciante prima del Covid e che con la pandemia è esplosa, in parte perché l’idea di poter contare su un salario, che sia di cittadinanza o assuma la forma di qualsivoglia altra assistenza, dissuade molti dal cercarsi o dall’accettare un lavoro. E non mi si venga a dire che è un ragionamento “di destra”, perché è solo una fotografia realistica della situazione.

Il lavoro infatti, a volerlo vedere e organizzare seriamente dagli uni e a volerlo fare senza troppe scene dagli altri, ci sarebbe. Basti pensare a tutti gli interventi urgenti di risanamento ambientale, che quantomeno ci metterebbero in sicurezza rispetto agli eventi catastrofici che ad ogni stormir di pioggia devastano il nostro territorio. Sarebbe un investimento ripagato da un riscontro immediato, di tipo occupazionale e non solo, perché smuoverebbe la produzione e avrebbe una ricaduta contributiva sulle casse statali: ma la sua maggior resa verrebbe col tempo dai risparmi sullo stillicidio continuo di interventi d’emergenza. A questo naturalmente andrebbe data la priorità.

Anche quello che ipotizzo io è però un investimento che dà risposte concrete e immediate, oltre ad aprire a quelle a lungo termine. Attivando cantieri per diecimila interventi di recupero di questo tipo si creerebbero come minimo centomila posti di lavoro nel settore edilizio e si metterebbe in moto indirettamente un indotto che ne vale altrettanti. Una volta chiusi i cantieri, rimarrebbero attivi almeno ventimila posti per le attività di manutenzione e valorizzazione di quanto già recuperato, mentre potrebbero partire ulteriori progetti di risanamento “culturale”. Queste attività, se minimamente coordinate e inserite in circuito con altre forme di “offerta” (da quelle gastronomiche a quelle enologiche, dall’escursionismo alle più svariate pratiche di fitness, ci sta di tutto), una volta avviate potrebbero raggiungere facilmente l’autonomia finanziaria. A dispetto della nostra colpevole negligenza siamo ancora un paese ad altissima attrattiva turistica anche nel campo della cultura, e con uno sforzo intelligentemente mirato potremmo offrire quei percorsi alternativi ai grandi eventi, alle mostre-monstre, agli intruppamenti obbligati, che vengono invocati ogni volta che le nostre città d’arte arrivano al collasso, ma per i quali non è mai stato pensato alcun progetto serio.

Ora, mi si farà notare, tutta questa gente va comunque da subito pagata. Appunto. Ricordo che stiamo parlando di un settore nel quale da molto prima del covid una buona metà degli addetti stazionava in cassa integrazione, e la quota è aumentata con la pandemia; quindi si tratta in realtà di gente già pagata con soldi pubblici, e senza alcuna contropartita. Lo stesso vale naturalmente per i percettori del reddito di cittadinanza. Ci sono poi anche le spese per i materiali: ma teniamo presenti le sovvenzioni “di ristoro” che lo stato elargisce alle aziende messe in crisi dalla pandemia e dalle misure restrittive: con le stesse cifre si potrebbe acquisire già gran parte del fabbisogno. Anche in questo caso, sarebbero soldi destinati in parte a rientrare nelle casse dello stato e dell’ente previdenziale, sotto forma di imposte e di contributi. Rimane il tema scottante del tipo di occupazione offerta. Ma mi sembra sia giunta l’ora di mettere in chiaro come girano le cose. Non siamo in grado di creare “posti di lavoro” rispondenti a tutte le aspettative, siamo solo in grado di creare occasioni di lavoro, e dovremmo semmai poi assicurarci che questo si svolga in sicurezza, che sia adeguatamente retribuito, che crei a sua volta professionalità e conferisca quindi dignità. Non ha senso opporre che i nostri giovani, o anche i meno giovani, non sono “preparati” per questi tipi di attività. Nemmeno chi sbarca sulle nostre coste o arriva dall’est nel nostro paese è preparato, ma non tarda ad adeguarsi. Impareranno, e questo sarà per loro un valore aggiunto, oltre al fatto di guadagnarsi uno stipendio e poter fare progetti per il futuro. Se invece per quei duecentomila posti dovremo reclutare polacchi o senegalesi, ben venga allora anche l’immigrazione clandestina.

Sono scaduto nello sproloquio da allenatore da bar, di quelli che non saprebbero gonfiare un football ma disquisiscono dei moduli di gioco. Io però non voglio fare l’allenatore, altrimenti mi sarei dato alla politica. Voglio semplicemente dimostrare che una scelta del genere in Italia non si farà mai non perché impossibile, o insensata, ma perché ogni cosa, ogni idea, ogni progetto deve confrontarsi da noi con la vischiosità degli apparati, l’inossidabilità dei privilegi, le gelosie e le ripicche tra i vari enti, lo scaricabarile tra le diverse istituzioni, e non ultimo con una malintesa, ipocrita ed egoista concezione della libertà. Non ci vuole una gran fantasia ad immaginare il balletto dei bandi e degli appalti truccati e dei ricorsi, la sequela delle lungaggini e delle assurdità burocratiche, il gioco delle tangenti e degli interventi della magistratura, il veto a prescindere dei sindacati e degli ispettorati e delle associazioni di difesa dei chirotteri o delle piante spontanee, il traffico dei subappalti, tutta la polvere e la sporcizia insomma che un qualsiasi progetto qui da noi va a sollevare. Ma le cose sono complicate solo perché rese tali da una assoluta mancanza di senso dello stato, di onestà, di competenze, di buona volontà, ecc…: tutti vizi che non attengono al naturale ordine del mondo, ma solo a una particolare disposizione negativa che ci portiamo dietro. Non possiamo imputare il nostro perenne stato di emergenza al fato o ai complotti orditi alle nostre spalle dai poteri forti, ma solo alla nostra riluttanza ad assumerci, a qualsiasi livello, una qualsivoglia responsabilità, dalla nostra tendenza a sentirci sempre creditori nei confronti di tutti, della nostra meschina corsa a scovarci alibi per non fare nulla.

Con queste premesse è evidente che uno i progetti non dovrebbe nemmeno immaginarli. Forse farei meglio a restarmene nell’utopia del paese normale. O forse ci sono rimasto davvero, perché da ieri non faccio che parlare con gli amici di questa cosa, e oggi ne ho già sguinzagliati un paio in cerca di informazioni sulla proprietà. Avessi trent’anni di meno, e quattro soci armati di buona volontà, altro che recovery fund! Accoglierei in cima al viale la delegazione olandese, e si toglierebbero tanto di cappello.

***

Le allegorie sono nel regno del pensiero
quel che le rovine sono nel regno delle cose
Walter Benjamin

Dopo la visita alla villa abbandonata, sopiti un po’ gli entusiasmi restaurativi, mi sono trovato a riflettere su un tema di ordine più generale, che meriterebbe dunque un approccio più serio e ponderato: infatti ho qualche esitazione a trattarlo in questo contesto. Ma non sapendo se e quando potrò tornarci su, colgo almeno l’occasione per anticiparlo.

Constatavo, anche in rapporto alla nuova passione di Stefano, che stiamo tornando ad una “estetica delle rovine”, ciò che ci rimanda a quanto accaduto nella sensibilità occidentale un paio di secoli fa, verso la fine del XVIII secolo. Erano stati infatti Winckelmann e poi Goethe ad elaborare questa particolare teoria del sentimento del bello, ispirati non a caso proprio dai loro soggiorni in Italia (e sempre non a caso Winckelmann in Italia era stato ammazzato). Il riferimento era naturalmente alle rovine dell’antichità (stava nascendo l’archeologia classica, erano state da poco riscoperte Pompei ed Ercolano), che si rivelavano essenziali per ri-educare il gusto moderno alla bellezza: da esse si poteva inferire la forma originaria e pura delle opere greche e romane, e ciò, al di là dell’appagamento “sensoriale”, emotivo, doveva indurre alla ricerca, all’imitazione e alla riproduzione di quella bellezza. Non solo di quella artistica: quel mondo poteva darci lezioni sul piano giuridico, legislativo, sociale. Il neoclassicismo non era un moto di reazione agli sconvolgimenti rivoluzionari. Era figlio legittimo dell’Illuminismo. (“Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose”, scriveva Diderot , uno dei Maestri del mio personalissimo pantheon: e, nel mio piccolo, sembrano sortire anche su di me lo stesso effetto).

Ma quel figlio non era l’unigenito. La stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare anche altre fantasie, meno serene; il passato nel quale i classicisti identificavano un modello riproponibile per il presente poteva apparire come un mondo splendido e maestoso, ma irrimediabilmente perduto (si pensi a Piranesi: nelle acqueforti sulle antichità romane esprime la nostalgia per un mondo ideale, per un’epoca incomparabile, ma ormai chiusa e irripetibile: di fronte ai resti colossali dei Fori imperiali non si abbandona a una pacata contemplazione, è scosso da una forte emozione) e suscitare nell’artista moderno un senso di impotenza e di frustrazione (mi viene in mente L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, di Füssli. In quella sanguigna c’è davvero tutto il conflitto degli opposti sentimenti, commozione per la grandezza delle opere classiche e frustrazione per l’insostenibilità del confronto).

Del resto, anche gli illuministi non si sottraevano alla riflessione malinconica. Lo stesso Diderot aggiungeva: “Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. […] Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. Si riferiva soprattutto agli aspetti naturali (la roccia che sprofonda nella terra o la valle che si frantuma), ma anche, naturalmente, ai ruderi dei sogni umani.

Col Romanticismo si afferma, soprattutto nei paesi nordeuropei, il gusto per le architetture gotiche: si recupera insomma il passato di casa, un passato che si presenta, rispetto a quello classico, più irregolare e informe, e produce una fascinazione d’altro tipo, nella quale diventa dominante la sensazione di angoscia. Le rovine non sono più un raccordo tra passato e futuro. Raccontano qualcosa che non tornerà, che sta lentamente svanendo anche dalla memoria, e costringono a meditare sulla fragilità umana. I segni del tempo, la vegetazione e i muschi che le ricoprono parlano di una natura che si prende la rivincita sulla civiltà e la cultura. Shelley scrive nell’Adonais:

Su, vai a Roma, — che è insieme il Paradiso, la tomba,
e la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono
come montagne frantumate, e le gramigne
fiorenti e le piccole selve profumate
vestono l’ossa nude della Desolazione …

Magari oggi la sua esortazione sarebbe più tiepida, anche se le gramigne a Roma fioriscono ancora. Le uniche montagne accanto alle quali si passa sono quelle dei rifiuti, e le piccole selve che crescono sui marciapiedi sono tutt’altro che profumate.

Nella pittura di questo periodo è Friedrich a esprimere perfettamente, in dipinti come L’abbazia nel querceto, l’estetica del fascino malinconico e dolente delle rovine. Altro che ponte sul futuro! Il futuro è plumbeo come il cielo contro il quale le mura e gli alberi tutti spogli e rinsecchiti si stagliano. E la processione che appena si intravvede nella fascia più bassa è diretta a un cimitero. Nel suo caso è una forte connotazione religiosa, e per di più luterana, a indurlo a usare le rovine come simbolo e come monito. Ma quel tipo di fascino, secolarizzandosi, tenderà facilmente a scadere, alla lunga, nel gusto per il fatiscente e il macabro: quello che caratterizzerà il decadentismo (e il cui prototipo potrebbe essere La rovina della casa Usher, di Poe)

E si arriva all’oggi, passando per il Novecento. Il secolo scorso ha prodotto in realtà molte più macerie che rovine, e la sensibilità nei confronti di queste ultime è ancora una volta mutata. Ho sottomano Rovine e macerie. Il senso del tempo, un libretto esile e densissimo, nel quale Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”. Credo voglia intendere che il cumularsi delle macerie prefigura un mondo senza rovine, nel quale il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Per Augé il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. La rovina è un frammento del passato ancora presente, e sottratto alla temporalità delle appartenenze, dell’uso, dei significati. Quindi “contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro”.

Ma questo cosa significa? Significa che per Augé, illuministicamente, là dove c’è rovina c’è una possibilità, una indicazione di ripartenza: mentre là dove ci sono macerie il tempo viene non solo azzerato, ma abolito. Le rovine tendiamo a conservarle, le macerie possiamo solo rimuoverle, dobbiamo sbarazzarcene. Sottoscrivo in toto, anche dove dice: “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente la storia futura susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. A dispetto della mia disposizione congenitamente scettica, non mi sembra un ottimismo forzato e consolatorio: ricordo una immagine, credo sia della biblioteca di Sarajevo, incendiata e semidistrutta nel 1992 (con perdita dell’ottanta per cento del patrimonio librario), nella quale un ragazzo, in mezzo a tanta devastazione e desolazione, sfoglia un libro: e ho davanti quella odierna dell’edificio rimesso in piedi (e in funzione) seguendo esattamente le linee del vecchio progetto. Per quelle macerie, e attraverso quel ragazzo, la storia in qualche modo è ripartita.

A tornare ripetutamente, direi quasi ossessivamente, sul tema delle rovine, nella prima metà del ‘900, è stato Walter Benjamin. Benjamin scrive in un periodo che di macerie ne ha prodotte parecchie, tra le due guerre, ed è comprensibile che vi faccia costante riferimento. In un frammento che è diventato una delle pagine più citate (e abusate) della recente letteratura filosofica scrive (e così lo cito anch’io): “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.

Confesso che non mi ero mai soffermato a decrittare l’allegoria racchiusa in questa immagine, mi accontentavo dell’interpretazione più immediata e superficiale. La verità è che non riuscivo affatto a scorgerci tutto quello che Benjamin sembra vedere, e non mi rendevo conto che era lui quello da decrittare, e non Paul Klee. Anche perché il quadro era suo, l’aveva voluto fortissimamente e acquistato, l’ha portato con sé in tutte le sue peregrinazioni, sino all’ultimo, e aveva tutti i diritti di leggerlo come voleva. Forse la passeggiata di ieri mi ha chiarito le idee, e riesco anch’io a guardarlo con occhi nuovi.

La storia si allontana, sia pure camminando a ritroso, da ciò su cui fissa lo sguardo, dal passato. Questo passato può essere percepito come un ammasso di detriti, di macerie, e quindi come qualcosa da rimuovere, magari in maniera soft, diluendolo in tante diverse memorie, come sta accadendo oggi, oppure in modo violento e radicale, cancellandone ogni traccia (penso ad esempio ai roghi dei libri, da Qin Shi Huang a Hitler e all’ISIS, o ai calendari “rivoluzionari” che ripartono dall’anno zero). Per Benjamin invece l’angelo, ovvero il vero senso della storia, “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. Qui il significato è ambiguo, e credo ciò dipenda dal fatto che una prima versione di questo brano era incentrata sulla vicenda personale di Benjamin, su un amore finito e rimpianto. Comunque, è verissimo. Per ciascuno di noi ad un certo punto della vita, quello in cui ci si volge indietro perché davanti rimane ben poco da vedere, le rovine della storia sono i fallimenti, le incertezze e le decisioni non prese, le cose non dette e non fatte, che avrebbero potuto cambiare il nostro destino, il nostro presente e il nostro futuro. Vorremmo poter tornare indietro e riscrivere tutto il libro. Ma il vento, che in questo caso è semplicemente l’inesorabile, naturale scorrere del tempo, volta le pagine che rimangono, e il cumulo che abbiamo alle spalle si innalza.

Se interpretata invece nel suo significato più esteso, quello poi scelto da Benjamin, l’immagine ci dice che in realtà l’unica via d’uscita, per non lasciarci trascinare dalla tempesta che chiamiamo “progresso”, è proprio quella di fermarci, tornare sui nostri passi e “risanare” il passato. Quando dice che la tempesta del progresso spira dal paradiso, Benjamin non intende che è suscitata da una volontà divina o da un fantomatico Spirito hegeliano: il paradiso di cui parla è quello terrestre – sta quindi alle spalle rispetto alla marcia del “progresso”, e non davanti –, e il vento soffia dalle porte che l’uomo ha lasciate aperte uscendone. Quel vento, quella tempesta nascono dalla colpa originaria, dalle scelte errate che l’umanità ha compiuto, che ha cumulato e sparso lungo il suo cammino (le rovine, le macerie) senza averle poi ricomposte. Gli occhi spalancati, la bocca aperta dell’angelo sembrano i tratti tipici di chi all’improvviso si è voltato indietro e si sta rendendo conto, pieno di sgomento, della catastrofe che sta lasciando alle sue spalle (e del fatto che la sua marcia lo allontana dal paradiso).

Quello che l’angelo vede non sono però macerie, ma rovine. Non è tentato di rimuoverle per correre incontro al futuro, ma di ricomporle, per costruire su di esse un futuro che dia senso anche al passato. Esattamente il contrario di quella idea di “progresso” che si fonda sul consumo rapido delle cose e delle idee, sulla rincorsa costante del “nuovo” e sulla forma più efficace di eliminazione delle scorie, che è quella di sotterrarle nell’oblio. L’angelo è fermo. Si è fermato per riflettere e per decidere, malgrado la tempesta lo spinga e non gli consenta di chiudere le ali. E già questo gesto di fermarsi è significativo: vuol dire che il “progresso” così irresistibile forse non è, irresistibile è solo la marcia del tempo, ma la direzione e il posso che vogliamo tenere possiamo ancora deciderli noi.

Per capire meglio la complessa interpretazione che Benjamin dà di questa allegoria riesce illuminante, a mio giudizio, un aspetto del suo carattere che di solito è considerato marginale, e che parrebbe avere poco a che vedere col tema delle rovine. Benjamin era un collezionista. Ma di quelli duri, per i quali la passione diventa quasi (o senza quasi) un’ossessione. Collezionava vecchi libri per bambini, quelli impreziositi dalle immagini di illustratori del calibro di Dulac e di Rackam, ma anche più antichi: e quanto il piacere del possesso fosse vera bibliomania lo dice il fatto che un elenco recentemente pubblicato di questi libri consta di trentasette pagine di titoli. Essendo io stesso un bibliomane patologico non posso che sentirlo vicino, e posso anche immaginare quanto debba essergli costato separarsene quando fu costretto all’esilio. La mania con-divisa mi aiuta però a comprendere anche qualcosa di più. I libri per l’infanzia, e le soprattutto immagini che li adornano, sono il primo (in qualche caso anche l’ultimo) tramite per accedere all’esperienza di una dimensione diversa, più “autentica” di quella reale, che si vive attraverso il gioco. Il bambino fa coi con i suoi giochi “un esercizio dell’inutile”. Parte dalla realtà e dalla concretezza di quei fogli di carta, delle parole e delle immagini che vi sono impresse, e ricombina il tutto a suo modo e a suo piacere, avventurandosi in mondi nuovi, nei quali non valgono regole e logiche e tempistiche prevedibili. (Benjamin era molto polemico con la pedagogia della sua epoca – e lo sarebbe anche con quella attuale – che voleva trasformare i libri per bambini in strumenti di indottrinamento etico e di irreggimentazione disciplinare. Non posso che essere d’accordo: se c’è qualcosa di insopportabile e di ipocrita sono i libri per l’infanzia “educativi” – non parliamo poi del tentativo di piegare all’istruzione i fumetti).

Ma giocare è in fondo anche quanto il collezionista fa con i suoi reperti: “toglie alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce …. e si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.” Aggiungerei che redime il mondo dal disordine, disponendo gli oggetti della sua collezione in un ordine spaziale e mentale che conferisce loro un valore diverso da quello d’uso o da quello di scambio. Cancellandone idealmente il prezzo conferisce loro una dignità. Benjamin scrive anche: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria.” Che è perfettamente applicabile tra l’altro al mio modo di collezionare libri, pescandoli là dove già sono rovina, sui banchi dell’usato a un tanto al chilo, e facendoli rifiorire a nuova vita in un orizzonte di senso assolutamente fuori mercato. Con questo il cerchio si chiude.

Adesso mi riconosco perfettamente in questa immagine. Mi sembra rappresenti e riassuma nella maniera più nitida il mio modo di concepire la storia e il nostro essere nella storia. Mi riusciva difficile conciliare le due pulsioni apparentemente contrastanti che mi agitano dentro, quella verso il passato e quella verso il futuro. Pensavo di essere sulla strada giusta, ma mi mancava il conforto di un segnavia riconoscibile. Ora so che quelle due pulsioni possono coincidere, anzi sono un unico moto.

In sostanza, io voglio un futuro che in qualche modo riscatti, dia un senso al passato. Sento una responsabilità, un debito, non solo nei confronti di coloro che verranno, ma anche di coloro che mi hanno preceduto. Per questo, malgrado gli acciacchi, e a dispetto del senso di frustrazione che troppo frequentemente mi tenta, continuo a stare per aria. Ho trovato una corrente ascensionale che mi consente di librarmi senza sbattere le ali (non ne avrei più la forza) e di guardare indietro: le rovine che vedo, quelle che reggono all’erosione del tempo, sono la testimonianza degli sforzi che miliardi di altri, centinaia di generazioni, hanno compiuto guardando a me. Non riuscirò a destare i morti, non ricomporrò i cocci di ciò che stato infranto, ma ricordarli, quello almeno lo posso e lo devo fare. E credo che sino a quando qualcuno lo farà rimarrà aperta la strada per sfuggire alla tempesta abrasiva del “progresso”.

Il mio non è allora un comportamento autistico, ma un impegno etico. In parte ereditato, da una cultura contadina che non buttava nemmeno le unghie del maiale, in parte coltivato, mano a mano che ho cominciato a leggere la storia, anziché come una squallida e assurda tabella di massacri, come un diario della resistenza dell’umanità alla tragica e assieme straordinaria condizione che la natura le ha regalato.

E l’estetica? Me la sono persa per strada? No, semplicemente per me etica ed estetica coincidono. Il comportamento etico non può essere dettato che dalla percezione e dal riconoscimento del bello, in questo caso delle sue vestigia. Una emozione estetica altro non è che il segnale, la luce che si accende su qualcosa che vale, che ha e che dà senso, e va quindi preservato, difeso. Ma anche rispetto a questo atteggiamento vanno fatte delle distinzioni.

Oggi le rovine non sono più consumate solo dal tempo e dall’incuria o dall’indifferenza degli uomini, ma al contrario, dal soffocamento del turismo globalizzato. In un brevissimo saggio scritto a inizio Novecento, che si intitola proprio “La rovina”, e che senz’altro era conosciuto da Benjamin, George Simmel equiparava la rovina alla moda, nel senso che entrambe sarebbero caratterizzate dalla distruzione di ogni contenuto precedente per accedere a una nuova unità. Non sto a raccontare come ci arriva (peraltro, con un percorso un po’ ostico ma illuminante), mi intriga solo l’accostamento, perché in effetti l’interesse per le rovine è stato sempre condizionato, dai giorni del Gran Tour ad oggi, dal fenomeno delle mode. Un tempo era riservato ai rampolli delle famiglie nobili del continente settentrionale e d’oltremanica, poi è entrato a far parte dei consumi di masse sempre più allargate, e motivate sempre più da una necessità di omologazione. Non è nemmeno il caso che stia a ripetere ciò che è sotto gli occhi di tutti e aggiunga la mia ad un coro di geremiadi che fanno ormai parte anch’esse del gioco. Le rovine, così come le bellezze naturali, sono ridotte a elemento scenografico del grande spettacolo non-stop al quale siamo persuasi più o meno velatamente o sfacciatamente ad assistere e/o a partecipare.

Ma qui, nel caso specifico dell’esperienza da cui ho tratto pretesto per queste righe, non di rovine si parla, ma di macerie, e del tipo di fascino, e conseguentemente di disposizione, che inducono. Questo è un fenomeno relativamente nuovo. È già stato fagocitato dalla moda, oggi si direbbe che è diventato virale, e quindi è destinato alla transitorietà: ma non lo liquiderei così frettolosamente. Presenta infatti delle caratteristiche emblematiche dell’ambiguità sottesa ad ogni nostra modalità e finalità di conoscenza. Intanto è una forma di esplorazione, mirata non tanto alla scoperta quanto alla riscoperta. In questo senso, la pulsione esplorativa sarebbe in linea con l’atteggiamento etico di cui parlavo sopra. Cercare qualcosa che si sottrarrebbe, in quanto scarto, alla logica dell’utilità e della mercificazione, e ripartire da quello per immaginare la possibilità di altri mondi. “La rovina innalza le cose allo stato di allegoria”. Ogni scoperta però reca con sé un germe infettivo: produce contaminazione, modifica o addirittura distrugge l’oggetto stesso che l’ha motivata. Gli antropologi ne sanno qualcosa.

Nel nostro caso, di fronte alle macerie della villa, due diversi atteggiamenti possono indurre a fermarle nell’immagine fotografica: quell’immagine può diventare un ulteriore momento dello spettacolo, oppure può documentare qualcosa che non funziona e a cui occorre ovviare. In entrambi i casi quelle macerie diventano funzionali ad altro rispetto a ciò che realmente rappresentano. Ma qui si pone il discrimine tra una scelta estetica, che è di per sé etica, perché orienta il nostro agire, ed una estetizzante, che banalizza nella “spettacolarizzazione” ciò che si è fotografato. L’una ci dice di una volontà di continuità nel tempo, di lettura e recupero del passato in funzione del futuro, l’altra di una plastificazione museale destinata solo al presente, e a un presente esteso, puramente orizzontale, privo di profondità.

Naturalmente queste generalizzazioni hanno senso solo all’interno di una trattazione teorica. La mia esperienza con Stefano, ad esempio, le contraddice. Le sue emozioni, il suo entusiasmo sono assolutamente genuini: e li manifesta attraverso un mezzo che ama altrettanto genuinamente, e col quale riesce a mediare e a ricondurre ad unità quelli che parrebbero interessi sparsi. È anche lui un collezionista di immagini, tratte non dai libri ma dalle tante realtà ambientali e culturali che ha incontrato (l’altra sua passione sono i viaggi). L’elemento unificante è dato dalla costante ricerca della bellezza, intesa come la risultante del lavoro del tempo sui volti, sulle montagne, sui suk arabi, sugli animali africani o sui templi tibetani: di una bellezza che va sottratta alla svendita e al consumo in confezioni cellofanate, con tanto di bollino di conformità, e partecipata invece come condivisione emozionale attiva.

Lo stesso vale per le macerie. Anche nei loro confronti lo sguardo fotografico può essere caldo e partecipe, se a orientarlo c’è dietro un’intenzionalità etica. E questa non è necessario indossarla o metterla nello zaino quando si esce di casa come per partire in missione. Se c’è, se ci è congenita o se l’abbiamo maturata e coltivata, al momento giusto vien fuori. E magari riesce anche a far sì che le macerie diventino rovine, “si presentino – come scrive Augé – a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa.
Un passato al quale egli sopravvive”.

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Lode alle relazioni futili

di Fabrizio Rinaldi, 23 agosto 2020

Sul piazzale di casa un’enorme personaggio di Botero è sdraiato a prendere il sole e a guadarmi ogni volta che apro la porta d’ingresso.

In realtà è una catasta di legna, che avendo la forma di un annoiato grassone mi rammenta l’urgenza della sua messa a dimora in legnaia; dovrò farlo certamente prima delle piogge autunnali, ma sino ad ora l’estate afosa ha fiaccato ogni volontà.

L’inerzia dura già dalla primavera scorsa, quando la pandemia imponeva lo stare rinchiusi in casa. Inizialmente ero inebetito dalla situazione, dai dati del contagio e delle allarmanti immagini del coprifuoco, cui si aggiungeva un entusiasmo un po’ cinico per l’inaspettato e obbligatorio riposo. Lo stesso stato d’animo, in misura e in forme diverse, credo si sia diffuso un po’ in tutti.

Le attività lavorative consuete sono riprese dopo le prime settimane, anche se in modalità differenti (come nel mio caso), o si sono definitivamente chiuse per l’impossibilità di reggere situazioni economiche già precarie e rese definitivamente disastrose dalla pandemia. Per certi versi era quindi un esito già pronosticabile: la società odierna si fonda sull’equilibrio tra domanda e offerta, se uno dei due eccede, prima o poi il meccanismo s’inceppa.

Faccio un esempio: Ovada è una cittadina che si regge in piedi sulle pochissime piccole industrie non ancora affossate dalle ripetute crisi e dalla globalizzazione, su una campagna relativamente arretrata e su ben poco altro. Eppure, a fronte di circa 11 mila abitanti, nel 2019 contava ancora una sessantina di bar: un numero esagerato in proporzione agli abitanti. Ovada non è la Venezia del Piemonte.

Dopo tre mesi di chiusura forzata, molti non hanno rialzato la saracinesca, perché sconfitti dagli immutati costi d’esercizio o per l’insostenibilità economica delle nuove norme sanitarie. La stessa cosa è avvenuta per alcuni negozi di abbigliamento, in particolare per quelli più ambiziosi, che offrivano prodotti e praticavano prezzi alla portata delle sole star cinematografiche o dei super-manager. (Credo che l’ultima “celebrità” approdata ad Ovada sia stato Umberto Smaila, al tempo in cui facevano furore le tette delle conigliette di “Colpo grosso”, negli anni Ottanta). Questo mentre nessun imprenditore degno di nota si sognava di vedere questo territorio come una risorsa.

Ma anche molti artigiani hanno subito la stessa sorte. D’altro canto, non serviva essere fini economisti per capire che al primo scossone il castello costruito sull’illusione di un perpetuo benessere sarebbe crollato. Purtroppo la realtà ovadese non è riuscita nei decenni d’oro – e non riuscirà certamente ora, con i chiari di luna che ci attendono – a trovare una nuova identità, o a ritrovare quella antica. I nostri sembrano luoghi destinati al transito, placide colline dove trascorrere al massimo una notte (ma non di più) prima di approdare alla Liguria o alle Langhe.

Sta di fatto che cessato l’iniziale sbigottimento per il rapido diffondersi del virus, e venuta meno anche l’euforia per l’inattesa possibilità di oziare o realizzare ciò che da tempo si rimandava, sembra ora insorgere una generale inerte apatia, indotta dalla consapevolezza che questa situazione andrà avanti per un bel po’. La maggioranza si sta piano piano abituando a seguire gli accorgimenti per rallentare la diffusione del Covid, mascherina e distanziamento in primis, sia pure con diversa convinzione, ma non ha comunque testa per progetti che vadano oltre il giorno dopo. Molti hanno già optato per una fatalistica convivenza col virus, sperando che non li becchi o che lo faccia almeno in forma leggera. Qualcuno poi nega l’esistenza del problema o se ne frega, ma di questi non vale nemmeno la pena parlare, sono lo scotto (pesante) da pagare all’imperfezione e alla specificità umana: solo gli uomini possono essere stupidi.

Per quanto mi riguarda personalmente, constato che l’esigenza del distanziamento ha accentuato in me – ma credo di essere in buona compagnia – una preesistente difficoltà nello stare con gli altri. In effetti, non è che fino a mesi fa fossi un trascinatore di folle, che emergessi per acume o simpatia e che mi trovassi a mio agio nei momenti conviviali: ma sicuramente tolleravo meglio lo stare in mezzo agli altri (a piccole dosi, e in situazioni mediate sapientemente da mia moglie, che catalizzava su di sé le attenzioni). Ora avverto invece quanto sforzo mi costi il riannodare le relazioni con parenti, amici e colleghi: come se l’interesse fosse scemato, lasciando il posto ad una fatica – quasi fisica – a dialogare e manifestare un coinvolgimento.

Prima della clausura una constatazione del genere l’avrei risolta convincendomi che se quelle relazioni si erano concluse un motivo c’era, e che si trattava in fondo di una liberazione. Oggi, alla luce di questo forzato isolamento, devo invece ricredermi sulla loro importanza: in fondo sono esse a creare quell’humus sociale cui attingere nei momenti di solitudine, frustrazione e tedio, quelli appunto che l’attuale stato ci impone. Anche se si tratta perlopiù di legami utilitaristici, di circostanza o di sangue, tutti assieme intessono una sia pur fragile rete di sicurezza, all’interno della quale emergono poi – per dimensioni e resistenza – le poche ma solide funi principali dei rapporti profondi, quelli che davvero rendono la vita sensata.

Le relazioni “futili” riguardano, ad esempio, il fruttivendolo che ti mette una pesca in più nella borsa; il sino a ieri ignorato vicino, che ora mi parla del suo nuovo pavimento in cucina; il sorriso del pizzaiolo che non vedevo da mesi, in quanto anche la pizza mensile familiare era preclusa; la collega che dimostra interesse per le vacanze delle mie figlie, magari mentre sta pensando a come chiedermi le ferie o quale futuro lavorativo avremo (come se fossi un indovino). Bene, tutte queste effimere interazioni plasmano continuamente la personalità, in quanto generano esperienze.

Negli ultimi mesi anche queste relazioni apparentemente inutili si erano rarefatte, così come quelle importanti, in ragione del distanziamento. Purtroppo non hanno trovato in quel periodo adeguate sostitute che garantissero pari appagamento: non c’è social, media o videochiamata che possano rimpiazzare lo sguardo diretto, la postura dei corpi o il contatto fisico, in fin dei conti “la carne” dei nostri simili. Sia chiaro, non sono un caso Weinstein, ma ho aperto necessariamente gli occhi (come molti) su quanto esprimiamo di noi stessi con una stretta di mano, con lo sfiorare una spalla; persino nell’abbracciare e baciare diciamo molto di più di quanto potrebbero fare le parole.

Ci ho riflettuto. Fin da neonati capiamo come gira il mondo attraverso i sensi, in particolare con il tatto, e con quelli cerchiamo di stare al passo. Si sa che la sua privazione ha gravi conseguenza sulla salute, specie per gli infanti. Diventati adulti, escogitiamo altri linguaggi per comunicare le nostre intenzioni, riservando quello fisico solo alle persone più intime. Ebbene: questi mesi di privazione ci hanno dimostrato che siamo sì cresciuti, ma rimaniamo dei lattanti deprivati di un bisogno primario: il contatto fisico con i nostri simili.

Oggi abbiamo imparato che il virus infetta proprio attraverso queste interazioni, fisiche o sociali che siano. E lo si vede dall’incremento dei contagi di questi giorni, causato dalla spensieratezza (leggi “idiozia”) vacanziera. Quindi, senza relazioni il virus morirebbe, ma lo seguiremmo a ruota pure noi, poiché da esse dipendiamo e proprio esse ci caratterizzano. Dobbiamo inventarci una misura di mezzo.

Inoltre, la comparsa della pandemia ha sconvolto non solo i modi dello stare assieme, ma anche la percezione dello scorrere del tempo. Ne impieghiamo molto di più per realizzare ciò che fino a pochi mesi fa sbrigavamo velocemente, fagocitati in una corsa continua: dalla fila per fare la spesa alle interminabili call lavorative, dal cercare di metter giù due idee (come sto facendo ora) al sistemare la legna per l’inverno.

Le restrizioni esterne e lo smarrimento interno ingenerano, come dicevo all’inizio, l’apatia: una non-volontà che ci attanaglia perché le certezze sedimentate nelle nostre vite (e nelle generazioni precedenti) sono state spazzate via. Alla faccia di chi plaude incondizionatamente al rallentamento, però, questa non è una forma di serena tranquillità: nell’apparente stasi fisica e mentale, il nostro cervello cerca in realtà incessantemente una via d’uscita dal pantano, vorrebbe individuare differenti ed originali sicurezze. È vero che non sapendo quando e come ne usciremo viviamo in uno stato di perenne apprensione, e nella speranza di una veloce soluzione (il vaccino?) cui affidarci. Ma sappiamo ormai che una iniezione assolutoria non risolverà i problemi che ci portavamo dietro anche prima, e che hanno condotto a questa attualità.

Forse il grassone spiaggiato sul piazzale non è lì a spronarmi per la sistemazione della legna, ma semplicemente si gode il sole (e i ceppi si seccano), nella consapevolezza quasi mistica dello scorrere placido del tempo: ci attende un inverno lunghissimo, prima del ritorno della primavera. Le rondini non le porterà certamente il vaccino: ma almeno ora abbiamo la consapevolezza (coloro che ce l’hanno, naturalmente) che quello di prima non era il modo ideale di vivere. Forse è ora di assumerci la responsabilità di qualche significativo cambiamento.

Cambiare è sano, inevitabile e funzionale alla vita stessa. Possiamo negare l’evidenza della mutazione, ma avverrà comunque.

Quindi, caro grassone, goditi il sole perché, al primo temporale, ti sistemo io …

Collezione di licheni bottone

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