Il fine, non il mezzo

ricordo di Giorgio Bettinelli

di Vittorio Righini, 8 novembre 2025

Giorgio Bettinelli (Crema, 15/05/1955 – Jinghong, 16/09/2008) è, credo, lo scrittore di viaggi italiano meno noto agli amanti del genere, e penso per una ragione precisa: perché lo conoscono prevalentemente quelli che hanno uno scooter Vespa, vecchia o nuova, giacché lui il mondo che ha raccontato nei suoi libri l’ha girato e rigirato in Vespa. Temo appunto che molti non l’abbiano letto perché i suoi libri sembrano destinati ai motociclisti.

No, la Vespa è davvero solo il mezzo, non il fine; se ne parla il minimo indispensabile, per una foratura, per un getto sbagliato del carburatore e una conseguente grippata, per una caduta sotto la pioggia battente, e per piccoli problemi pratici; ma anche per scorrazzare 5 o 6 bambini nei più sperduti posti del mondo e portarli a fare un giro in paese accolti dai sorrisi aperti dei genitori e degli amici, o infine per caricare qualche temporanea fidanzata.

Non sono libri da comprare per leggere nuove informazioni sul più noto e popolare mezzo meccanico italiano a due ruote, che ha movimentato tanta brava gente dal dopoguerra in poi; semmai sono da leggere anche se non avete una Vespa, non siete mai saliti in moto ma amate la narrativa di viaggio, il fine ultimo di Bettinelli.

Ho letto molti libri di viaggi in moto: ad esser sincero, la maggior parte non mi sono piaciuti. Perché alla fine ciò che conta è l’autore, come ragiona, come vede le cose e come le racconta, come scrive. E Giorgio scriveva in modo semplice, corretto e molto scorrevole, fluido e senza terminologie astruse, spesso con le parole in lingua originale adeguatamente spiegate e rese comprensibili.

Posto queste paginette leggere per consigliare la lettura di uno dei suoi libri a tutti coloro che vogliono viaggiare per il mondo con la mente, andando indietro di qualche anno comodamente seduti in poltrona, e ancora non lo conoscono. Nella narrativa di viaggio italiana, Bettinelli secondo me è uno di quelli più ‘‘inglesi’’, nel senso positivo del termine, nel senso riferito ‘‘solo’’ ad alcuni scrittori inglesi, non a tutti. Umile, modesto, per nulla snob, sempre vicino ai più poveri, anche solo per quel poco che poteva dare.

Mai aggressivo, mai sentenzioso, mai tuttologo, mai politicamente sbilanciato, al contrario di qualche famoso e idolatrato scrittore italiano di genere simile che negli ultimi libri si era fatto prendere un po’ troppo la mano.

Un passato da musicista in gioventù in Italia, certo poco noto ai più ma abbastanza di successo (io non lo ricordo proprio), quando incise la hit Barista, una divertente canzone che riscosse consensi nella seconda metà degli anni ‘70, e che trovate su youtube eseguita con I Pandemonium.

Ha suonato in diversi gruppi, in televisione e nei tour, dalla musica sperimentale al pop, fino alla performance al Festival di Sanremo del 1979 proprio con I Pandemonium e alle collaborazioni col Maestro Mazza (il Maestro “Mazzo” di Arboriana memoria).

Ha lavorato con Gabriella Ferri, Rino Gaetano e altri ancora; inoltre era presenza fissa nelle puntate in televisione del Gino Bramieri show. Nel mentre si era laureato in Lettere all’Università di Roma e aveva continuato il suo peregrinare asiatico, iniziato all’età di 17 anni.

 Con la Vespa tutto era cominciato per caso, a Bali, dove un suo amico, per pagare un debito che Giorgio non avrebbe sicuramente riscosso, dato il suo carattere bonario e generoso, gli regalò una vecchia Vespa. Da quel momento in poi è stato seduto sul sellino per oltre 300.000 km, in ogni angolo del mondo. Sempre da solo … tranne che per qualche bella passeggera occasionale.

È morto nel 2008, a soli 53 anni, per una disgraziata infezione, accudito dalla amorevole compagna cinese Ya Pei, ma probabilmente curato in modo inadeguato dalle autorità mediche locali, a Jinghong, Cina, sulle rive del Mekong, dove abitava da qualche anno con Ya Pei. Stava completando un libro sul Tibet, ma non ci è riuscito.

In Brum Brum, il secondo libro, a pag. 215 c’è un passaggio che ben identifica il personaggio, e che vi trascrivo:

(Guadalajara, Messico, Hotel Los Escudos, fine anni ‘90):

“Seduta sul marciapiede davanti all’ingresso, con la pigmentazione del viso marezzata da una malattia della pelle e i polpacci deformati dalla gotta, una vecchia chiede la carità biascicando una giaculatoria, con un sorriso salivoso. Lascio cadere qualche peso cercando di non guardarla e di resistere all’odore che emana dai suoi vestiti, mentre ripenso a quel ragazzo (nota: ragazzo invalido di guerra incontrato in un precedente viaggio in Africa) della Sierra Leone e alle sue parole su questo shitty place pieno d’ingiustizie: ma sappiamo già tutto fin nei minimi dettagli, anche se cerchiamo di pensarci il meno possibile, come il meno possibile pensiamo alla morte, altrimenti la vita sarebbe insopportabile. Qualcuno riesce a fare di più, qualcun altro di meno; c’è chi prende un aereo e va nei lebbrosari di Calcutta, e c’è chi si trova ad entrare nel foyer di Los Escudos e prende una camera e una birra gelata. L’importante, credo, sia non fingere; giocare la partita con le carte che si hanno in mano cercando di essere più buena gente che hijo de puta, sentendosi più vicini alla nobiltà di chi ha perso che all’arroganza di chi ha vinto, e più lontani dalla meschinità di chi ha perso che dalla generosità di chi ha vinto.”

Giorgio dedica decine di pagine a ogni minuscolo stato del centro America, e poche paginette, scarne e distaccate, all’attraversamento degli Stati Uniti dall’Alaska al Messico, che lo lascia indifferente e poco entusiasta di quella parte di mondo.

Con la sua delicata scrittura, evita di avventurarsi in discorsi estremamente politicizzati, ma la sua simpatia per gli States è pari alla mia, cioè pari a zero. Lui, che appunto da giovanissimo era già arrivato all’Oriente e che a quel modo di vivere si era sempre ispirato, si sentiva fuori luogo sulle strade impeccabili degli Stati Uniti. Era troppo abituato a ostacoli metaforici e non solo, come le strade sterrate, piene di buche, trafficatissime e pericolose ma vive e animate dei suoi luoghi più amati. Di ogni paese incontrato, anche il più piccolo, narra brevemente storia recente e vicissitudini e questo permette di dare, almeno a me, una ripassata a luoghi e avvenimenti (spesso tragici) diversamente destinati all’oblio, trattandosi di paesi piccoli e lontani, e la memoria labile.

La sua posizione nei confronti della ex-Unione Sovietica e del periodo staliniano è esplicita; la descrive mentre attraversa faticosamente la Siberia da Mosca a Magadan (Brum Brum, pagina 270): “[…] durante la dittatura di Stalin la Siberia divenne sinonimo di morte: mentre Josif Vissarionovich sedeva al Cremlino, più di 20 milioni di uomini furono sterminati nei gulag, spesso con l’unica colpa di essere ebrei o artisti, o semplicemente conoscenti di ebrei a artisti […]. La storia dell’umanità sembra essere soltanto la cronistoria efferata dei crimini che gli uomini commettono contro altri uomini […]. Alcuni storici calcolano che nel quarantennio tra il 1918 e il 1958, sui fronti delle guerre, nei lager, nelle prigioni, siano morti complessivamente da 80 a 100 milioni di sovietici”.

Quasi 2 milioni di questi morti, aggiungo io, sono stati causati dalla folle politica di Stalin dello scambio delle popolazioni sul territorio sovietico: deportazioni forzate di intere etnie nelle più spopolate e inabitabili regioni sovietiche, come ad esempio molte etnie caucasiche, popolazioni considerate nazionaliste o contrarie al potere di Mosca, abituate al clima temperato delle loro regioni, trasferite in Jakuzia, Kamkatcka e fino a Vladivostok e al Mar del Giappone, nei posti più freddi al mondo, su terreni infertili.

Bibliografia

Il primo libro si intitola In Vespa. Da Roma a Saigon: (possiedo la prima edizione gialla della Feltrinelli Traveller, collana che amo e colleziono). Libro ispirato, libero e felice, per alcuni il migliore, ma forse anche perché è il primo.

Ho appena riletto Brum Brum, e ora rileggerò, con calma, La Cina in Vespa, forse la sua opera più matura, 39.000 km. in tutte e trentatre le provincie cinesi (sono in pochi ad averlo fatto), terminato nel 2007, un anno prima della morte prematura.

Infine comprerò Rhapsody in Black. In Vespa dall’Angola allo Yemen, l’unico che mi manca.

Ci sarebbe poi l’interessante libro fotografico In Vespa oltre l’orizzonte con le foto dell’autore, piuttosto raro e costoso.

P.S.: la mia vecchia Vespa PX bianca, come quella della foto di copertina a seguire, mi guarda, di sotto in garage, come a dire: ma tu, pirla, perché mi porti solo fino a Ponzone o al Beigua invece di affrontare le strade del mondo?

E io mi giro da un’altra parte e faccio finta di niente … torno in casa, mi metto in poltrona e salgo in Vespa con Giorgio. È più sicuro.

I gelsi e noi

catalogo della mostra svolta a Castellazzo Bormida il 12 e 13 ottobre 2024

di Paolo Repetto, 30 ottobre 2024 – dall’Album “I gelsi e noi

Hanno esposto le loro opere: Mariangela FONZEGA, Maria Cristina MACCAGNO, Marina PAIUZZI, Lucia PARODI, Enza PIGNATO, Bianca SPRIANO.
I ritratti delle pittrici sono stati eseguiti da Enrica AMELOTTI.
I testi e ricerca delle immagini non originali sono stati curati collettivamente dalle partecipanti alla mostra.
La mostra è stata organizzata col patrocinio del FAI e ospitata nei locali della SOMS di Castellazzo Bormida.

I gelsi e noi

Sollevando lo sguardo durante le peregrinazioni nelle nostre campagne ci siamo spesso imbattute nella discreta presenza di forme a tratti spettrali nel baluginante fluttuare delle nebbie invernali, rattrappite e quasi urlanti dopo le drastiche potature all’inizio della primavera e tuttavia nel giro di poche settimane testimoni di rinnovato vigore con una esplosiva fioritura di virgulti. Poi ancora ne abbiamo ammirato il manto lussureggiante di fogliame e frutti in un contrasto ardito con l’arsura estiva dei campi.

Perché i gelsi?

Riflettendo quindi sulla ammirevole capacità di cambiamento, adattabilità, energia ci siamo chieste perché questi elementi, un tempo connaturati ai nostri paesaggi, oggi appaiano sempre più rarefatti, ovvi, scontati, forse inutili.
Non è sempre stato così; infatti, a seguito di alcune ricerche, ci è apparso evidente che il gelso ha una lunga storia e ha rivestito un ruolo di grande rilevanza per le generazioni passate.
E allora ci è sembrato interessante attribuire con i nostri lavori un’attenzione speciale al gelso, protagonista nei secoli passati delle tante storie della nostra pianura.

Il gelso tra storia e leggenda

In natura sono presenti una decina di specie di questo albero ma le più note sono il Morus alba, ovvero il gelso bianco, e il Morus nigra, il gelso nero.
Il gelso nero è originario della Persia e fu introdotto nel Mediterraneo in tempi remoti, coltivato già nell’antichità classica per i frutti che fornivano un vino leggero e un distillato da cui si ricavava un’ottima grappa.
Il gelso bianco è originario della Cina ed ė giunto in Europa in antichissima data. Le cronache antiche riportano che intorno al 550 d.C. un monaco di ritorno dalla Cina avesse trasportato in una canna di bambù che gli serviva da bastone sia i semi dei gelsi che le uova di una varietà di bachi nutriti unicamente con le foglie del gelso, riuscendo così a superare i controlli degli ispettori. Le autorità cinesi proibivano infatti l’esportazione dei preziosi filugelli, dai quali si ricava miracolosamente un preziosissimo filato: la seta.
Secondo la leggenda quest’ultima era stata scoperta per caso dalla moglie di un imperatore cinese che aveva fatto cadere accidentalmente nella sua tazza di tè uno dei bozzoli, di solito conservati come ornamento in un vaso. Il bozzolo, a contatto con il liquido caldo, si sciolse e diede origine ad un sottile lunghissimo filo.
La seta divenne quasi subito un prodotto di somma importanza anche per l’economia europea. L’allevamento del baco entrò a far parte della vita contadina, così che la coltivazione dei gelsi assunse un nuovo ruolo e si diffuse in molte aree. La cura dei bachi da seta era un lavoro svolto principalmente dalle donne, mentre gli uomini e i bambini si occupavano di prelevare le foglie in gran quantità per nutrire i bachi, sempre più voraci via via che procedevano nel loro sviluppo.
La coltura dei bachi e la filatura della seta avvenivano inizialmente in ambiente domestico, ma dal 1600 l’introduzione di strumenti tecnologicamente sempre più avanzati fece sì che la filatura si trasferisse dalle case alle filande, luoghi dove avveniva la trasformazione dei bozzoli in matasse di seta grezza. Da questo momento in poi la manifattura serica conobbe un notevole impulso.
Verso la metà dell’Ottocento una malattia parassitaria letale colpì il baco da seta, con il conseguente crollo della produzione di bozzoli. Solo con incroci fra specie orientali e nazionali si riuscì ad ottenere un nuovo “seme baco”, resistente al parassita. Tuttavia, al termine della prima grande guerra l’attività serica subì una graduale diminuzione, per poi andare incontro a una definitiva cessazione dopo la Seconda guerra mondiale, quando i prodotti tessili importati dall’Oriente e in special modo dalla Cina divennero competitivi sui mercati europei. 

Enza Pignato

Bianca Spriano

Mariangela Fonzega

Lucia Parodi

Maria Cristina Maccagno

Marina Paiuzzi

Il gelso nella letteratura

… nella poesia latina

[…] Arbor ibi niveis uberrima pomis,
ardua morus, erat, gelido contermina fonti (89-90)
[…] Nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit
et iacuit resupinus humo: cruor emicat alte,
non aliter, quam cum vitiato fistula plumbo
scinditur et tenui stridente foramine longas
eiaculatur aquas atque ictibus aëra rumpit.
Arborei fetus adspergine caedis in atram
vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix
purpureo tingit pendentia mora colore (120-127)
[…]  At tu, quae ramis arbor miserabile corpus
 nunc tegis unius, mox es tectura duorum,
 signa tene caedis pullosque et luctibus aptos
 semper habe fetus, gemini monimenta cruoris». (157-160)

[…] Là vi era un albero, un alto gelso, feracissimo di bianchi frutti, contiguo ad una fresca fonte. (89-90)
[…] E si conficcò nel fianco la spada della quale era cinto e senza indugio già moribondo la strappò fuori dalla ferita gorgogliante e giacque supino sulla terra. Il sangue zampillò in alto, non altrimenti che quando un tubo si spacca per difetto del piombo e attraverso la piccola stridente apertura sprizza acqua e riga l’aria con lo zampillo. I frutti dell’albero, per gli spruzzi del sangue si mutano in colore scuro e la radice che se ne era bagnata tinge del colore della porpora i gelsi pendenti. (120-127)
[…] E tu, albero, che ora copri con i tuoi rami il miserevole corpo di uno solo e tra poco coprirai quelli di ambedue, conserva il segno della strage ed abbi sempre i tuoi frutti di colore scuro e convenienti al lutto, ricordo della doppia morte”. (157-160)

OVIDIO, Metamorfosi, libro IV

… in quella cinese

A primavera quando le giornate si fanno tiepide
ecco che il rigogolo canta,
le fanciulle, con le loro ceste,
vanno lungo i sentierini
a prendere ai gelsi la tenera foglia …

CHE KING VI (III secolo a.C.)

Una ragazza abita nella casa dei Qín,
una bella fanciulla che chiamano Luó Fū.
 Luó Fū conosce i gelsi che nutrono i bachi.
Ne raccoglie le foglie accanto alle mura …

Ballata popolare (VI secolo d.C.)

Lo Fo, la bella donna della terra di Ch’in,
coglie foglie di gelso, sulla sponda del fiume.
Alza le mani nude, lassù, sui verdi rami …

LI PO (VIII secolo d.C.)

… in quella italiana

Il gelso, che del sangue
de’ duo miseri amanti era vermiglio,
tornò viè più che pria candido e bianco,
e delle foglie belle
raddoppiò l’esca al’ingegnoso verme…

GIOVAN BATTISTA MARINO, da Orfeo

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sè distenda un velo
ove il nostro sogno giace

GABRIELE D’ANNUNZIO, La sera fiesolana

[…] Tre volte tanto brucano foraggio
così cresciuti. Ma tre volte tanto
 verdeggia il gelso al puro sol di maggio.
Due rose aperte tu porrai da un canto.
Sognino nella stanza solitaria
d’essere in Cina, i bachi, e per incanto
errar sui gelsi tra i color dell’aria!

GIOVANNI PASCOLI, I lugelli, dai Nuovi Poemetti

Di gente ricca solo
coi bachi e le lande credo
non ci sia più nessuno. Ma una volta
nel Comasco o a Bergamo, da dove viene la mia famiglia,
molte fortune si contavano a gelsi
o con quante ragazze venivano a filare
i bozzoli scottati per ammazzare le farfalle
nelle fredde officine.

GIOVANNI RABONI, da Barlumi di storia, 1988-91

Raccogli la foglia raccogline tanta
Nella prima dei bachi
 ci vuole verde e non bagnata
portane a casa una gerla piena.
[…] Vai avanti a raccogliere la foglia
 vai avanti raccogline di più
 che è un affare d’oro
avere i bachi

Canto popolare lombardo dell’800

… nei classici della letteratura

Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo […].

ALESSANDRO MANZONI, da I promessi sposi, cap. II

… e nella narrativa del Novecento

popolo o prima o poi andavano o erano andate in landa, con orari, salari, condizioni di lavoro che riescono oggi quasi incredibili. […] Polenta e cipolla, polenta e anguria. Le landiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” tra la mezza e un botto. Per questo breve lunch non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano lungo i marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico. […] Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano che diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro. La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti. Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La sera marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri, paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo, poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri.

LUIGI MENEGHELLO, da Libera nos a Malo

Se anche il gelso non è albero della mia terra montana, mi è caro per un particolare ricordo che risale alla tarda primavera del 1941. In quell’anno, con la resa della Grecia, avevamo finito di penare freddo e fame tra le più alte montagne dell’Albania dove la tormenta non dava mai requie. […] mi imbattei in alcuni alberi grandi e forse antichi che tra i rami portavano frutti che per la forma mi ricordavano i lamponi. […] Ce n’erano di bianchi, di rosa, di rossi quasi viola e questi mi lasciavano il loro colore sulle dita e attorno alla bocca. Gli alpini del Garda mi dissero che erano “morari” e mi venne da pensare che forse erano stati impiantati al tempo della Repubblica di Venezia quando questa aveva il commercio mondiale della seta, dopo che un frate aveva portato dall’Estremo Oriente le uova del filugello dentro una canna di bambù che gli faceva da bastone.

MARIO RIGONI STERN, da Arboreto selvatico

Era il 1861. […] Hervé Joncour aveva 32 anni. Comprava e vendeva. Bachi da seta. […] partì per il Giappone il primo giorno di ottobre. Varcò il confine francese a Mezt, attraversò il Wurttemberg e la Baviera, entrò in Austria, raggiunse in treno Vienna e Budapest per poi proseguire fino a Kiev. Percorse a cavallo duemila chilometri di steppa russa, superò gli Urali, entrò in Siberia, viaggiò per quaranta giorni fino a raggiungere il lago Bajkal […]. Ridiscese il corso del fiume Amur, costeggiando il confine cinese fino all’Oceano, e quando arrivò all’Oceano si fermò nel porto di Sabirk per undici giorni, finché una nave di contrabbandieri olandesi non lo portò a Capo Teraya, sulla costa ovest del Giappone. A piedi, percorrendo strade secondarie, attraversò le province di Ishikawa, […] raggiunse la città di Shirakawa,la aggirò sul lato est e aspettò due giorni un uomo vestito di nero che lo bendò e lo portò al villaggio di HaraKei.
[…] presto al mattino, Hervè Joncour partì. Nascoste tra i bagagli, portava con sé migliaia di uova di baco, […] il lavoro per centinaia di persone, e la ricchezza per una decina di loro.

ALESSANDRO BARICCO, da Seta

… e infine, ne La Compagnia del Gelso di Franco Faggiani

“Mi raccontò, in sostanza, come vennero al mondo molti piccoli paesi marchigiani. Grazie al magico potere di aggregazione dei gelsi. Questi, secondo il racconto dell’onorevole, che aveva messo insieme frammenti di vecchi libri agricoli e di filosofia locale, erano di solito piantati al limitare dei campi e delle proprietà, per dividerle una dall’altra e renderle ben distinguibili, qui d’abitudine si intersecavano anche le piccole strade bianche che portavano alle varie fattorie dove c’erano abitazioni, magazzino, stalle, orti. Gli anziani che ci vivevano da tempo e che ormai non avevano granché da fare, spesso nella buona stagione, si ritrovavano in tre o quattro o anche più, ai crocicchi, seduti sotto i gelsi. Perché questi spargevano ombra immensa, garantivano frescura e offrivano frutti succosi. […] Qualcuno, forse un oste, poi pensò di sistemare anche un paio di panche e un tavolaccio su cui appoggiare mezzi litri di bianco e di rosso, le uova sode e soprattutto le sardine salate […]. Allora anche il fabbro non volle essere da meno: se di lì passano i viandanti, i mulattieri e i carrettieri, forse è il caso di attrezzare in un angolo una piccola fucina […]. Stesso ragionamento fece il prete: se ai crocicchi si ferma così tanta gente, forse è il caso che io ci pianti un crocifisso […] e poi arrivò un altro tipo che allestì una piccola bancarella per vendere granaglie, sementi […].
In questo modo, un po’ alla volta, nacquero i paesi […] nei luoghi dove c’erano i gelsi agli incroci delle strade di campagna.

Tutti i giardini delle grandi dimore francesi vennero trasformati in gelseti. Come quello delle Tuileries, nel centro di Parigi

Aprii e lessi: Alla fine del 1800 l’Italia è il primo produttore di seta in Europa e secondo alla China. Nel 1895 in Italia sono stati prodotti 41.158.318 kg di bozzoli […].

Dunque: il baco viveva dai trenta ai quaranta giorni e naturalmente il suo ciclo vitale doveva coincidere con la foliazione del gelso, in genere in aprile, perché quelle foglie sono il suo unico nutrimento. Il fogliame […] rimaneva sulla pianta anche fino all’inizio dell’autunno, ma era assai coriaceo, quindi poco gradito, perciò era quasi inutile allevare bachi, anche se qualcuno lo faceva. Insomma, il baco buono, produttivo, si poteva allevare un mese o due e non di più.
Nel suo ciclo vitale dunque il baco mangia senza sosta e con assoluta voracità, tranne durante le mute, che sono quattro. Tra una fase di sviluppo e l’altra fa quindi una pausa alimentare, che dura un giorno appena. E non mangia neppure nei quattro o cinque giorni terminali della sua vita, quando costruisce intorno a se la sua candida prigione di seta. Perché dopo aver cercato un rametto naturale o artificiale sul quale inerpicarsi, dedica tutta la sua attenzione e la sua energia a creare il bozzolo usando le ghiandole salivari. Più il baco si era prima ben nutrito, più è consistente la ‘tappezzeria’ finale, costituita da una trentina di strati sovrapposti di seta.
I bozzoli ‘finiti’ vengono fatti essiccare per due o tre giorni, poi vengono immersi nell’acqua bollente, dove si scioglie la sericina, cioè la sostanza naturale che tiene compatto il bozzolo, il quale così si srotola, diventa un filo che galleggia, mentre il baco, ormai morto, finisce sul fondo del contenitore d’acqua. Recuperare il filo è operazione che richiede pazienza anche perché è lungo dai 500 fino ai 1.200 metri, a seconda della tipologia del baco. […] In media da un quintale di bozzoli che sono capaci di produrre circa 50.000 bachi, si potevano ottenere tra i 20 e i 25 chilogrammi di seta cruda, più qualche chilo di cascame […].

Avevo appreso che la bachicoltura poteva essere definita la prima industria tutta al femminile. Perché in sostanza erano le donne ad occuparsi di ogni cosa: dalla selezione dei soggetti sani da far accoppiare alla raccolta e alla conservazione del seme; dallo sminuzzamento delle foglie per l’alimentazione quotidiana di migliaia e migliaia di soggetti alla pulizia delle lettiere; dalla cura degli ambienti fino alla delicata raccolta dei fili di seta e della loro vendita. […] Comunque erano sempre le donne a incassare il denaro, che veniva messo da parte per le future doti di matrimonio delle loro figlie femmine.

Le filande

Nelle filande lavoravano soprattutto giovani donne o addirittura bambine (le filerine, filandere o filerande), sottoposte a turni che potevano arrivare da 12 a 16 ore al giorno. Nel caso di bassa qualità o quantità del prodotto venivano anche multate. Il lavoro era faticoso e malsano, per via dei vapori delle vasche, delle mani tenute nell’acqua calda (80 gradi), della polvere e dei salari da fame. Per aiutarsi a sopportare queste dure condizioni le filerine cantavano in coro:

Cos’è, cos’è
Che fa andare la filanda
È chiara la faccenda
Son quelle come me.
Ormai lo so
Tutto il mondo è una filanda
C’è sempre chi comanda
E chi ubbidirà

Giovanni Migliara, Filanda Mylius a Buffalora sul Ticino (1828)
Pietro Ronzoni, Filanda nel bergamasco (1825)

Le filande di Castellazzo

In Italia la massima produzione di seta risale alla seconda metà del 1800. Anche a Castellazzo l’allevamento dei bachi era molto diffuso, e nei periodi più favorevoli nelle filande hanno lavorato più di 400 operaie, tra le quali molte bambine dai dodici anni in su, ma spesso anche più piccole.
Attualmente in paese rimangono quattro filande, ormai abbandonate da circa un secolo, altre sono state demolite o riutilizzate diversamente. Costruite in mattoni a vista, sono caratterizzate da un’alta ciminiera che in tre edifici è ancora ben visibile, seppure ridotta rispetto all’altezza originaria, forse per motivi di sicurezza. Due sono situate in aree centrali del paese, due sono più esterne.

La solitudine del gelso

Foto di Sergio Maranzana

Ringraziamenti

Avremmo voluto ringraziare singolarmente tutti coloro che ci hanno aiutate a ideare e ad allestire questa mostra, ma sono davvero tanti, e l’elenco minacciava di diventare troppo lungo e di risultare magari anche incompleto. Lo facciamo quindi collettivamente, fiduciose che chi ci ha offerto la sua disponibilità si riconoscerà comunque, e ottimiste nel pensare che alla fin fine si sia divertito quasi quanto noi.

Courrier des livres

di Paolo Repetto, 15 agosto 2024

Li ho ordinati martedì sera, sono arrivati giovedì mattina. Dalla Germania.

In linea di principio sono contrario agli acquisti di libri on-line, e credo la cosa valga per tutti i bibliofili stagionati come me (dove bibliofilo non sta solo per amante della lettura, ma per amante del libro come oggetto, e come oggetto posseduto). C’è di mezzo senz’altro la nostalgia per le librerie d’antan, quelle dove andavi a curiosare, a sfogliare, a chiacchierare col libraio o con gli altri frequentatori abituali. Erano occasioni importanti, dalle quali scaturivano conoscenze, gustosi pettegolezzi e a volte anche solide amicizie. Purtroppo però le librerie d’antan, così come i princìpi, non ci sono più. Le pochissime rimaste sono in genere “a tema” (femminismo, lgbt, ecologismo, ecc …), in linea con le nuove religioni secolari, e persino quelle dedicate all’alpinismo o ai viaggi sembrano rivolgersi a un pubblico di devoti piuttosto che di bibliofili. D’altro canto, entrare oggi in una libreria legata a un gruppo editoriale o a una catena della grande distribuzione equivale ad entrare in un supermercato, e giustamente chi ci lavora ha con i libri lo stesso rapporto che hanno i commessi dell’Esselunga con gli ingredienti delle zuppe surgelate. Allora, tanto vale: invece di sfogliare un libro ne leggi sullo schermo gli estratti, e un minuto di navigazione in rete, sia pure facendo lo slalom tra gli scogli della pubblicità, ti procura tutte le informazioni e le recensioni che desideri. Nel mio caso si aggiunge poi il fatto che mi interessa sempre meno quanto di nuovo viene pubblicato, mentre sono ancora in caccia di titoli che nel tempo mi sono passati sotto gli occhi, che ho annotato in memoria o sui miei taccuini, e che per motivi diversi non ho mai acquisito (ma la memoria è talmente satura e i taccuini sono tanti che i titoli saltano fuori di norma solo per caso).

Così non entro quasi più nelle librerie, anzi, le evito: odio vedere “mercificato” così spudoratamente ciò che un tempo era l’oggetto delle mie attese, dei miei desideri, dei miei piaceri, e che ritenevo appartenesse ad una dimensione superiore – non che i libri anche prima non fossero merce, ma lo erano con altra dignità. Mi irritano gli accostamenti insensati nelle vetrine e i criteri di visibilità sugli scaffali, le promozioni palesemente mirate solo al mercato, la rapidissima obsolescenza dei titoli, tutte cose che non badano alla qualità ma solo al consumo e al ricambio: credo che a breve sulla quarta di copertina troveremo anche la data di scadenza, come sui tappi del latte. I titoli o le case editrici sono ormai solo etichette dietro le quali vengono proposti prodotti altrettanto intercambiabili delle birre o dei detersivi.

La frequentazione la riservo piuttosto ancora ai mercatini. Dall’ultimo di Predosa sono venuto via con quarantasei volumi, due borsoni della Coop che pesavano mezzo quintale: ho stentato a riguadagnare il parcheggio. Vi ho trovato la conferma del convincimento maturato in una ormai pluridecennale militanza: occorre frequentare i mercatini poveri, quelli dove l’espositore paga quindici o venti euro (a Ovada il costo per tenere banco è di settantacinque: e infatti …). Solo lì puoi trovare figli, cognate o mogli che si disfano a basso costo, con una presenza una tantum, della biblioteca del marito (mai trovato un marito che si liberasse di quella della moglie), e che ti consentono di entrare in possesso di preziosissimi volumi della Fondazione Valla o de La Nuova Italia a un euro l’uno. In questo caso gioielli come gli scritti di Seneca “Sulla natura”, di Basilio di Cesarea o di Gregorio di Nissa, che chiaramente non leggerò mai, ma che solo a sfogliarli, o a guardarli, a sapere di possederli, danno un indicibile piacere. E poi saggi di Aby Warburg o di Ernst Curtius e di un sacco di altri “veri maestri” oggi ingiustamente negletti. Insomma, ho speso l’equivalente di tre pizze con birra media e mi son portato a casa un tesoro: che ho dovuto quasi fare entrare di soppiatto, perché mia moglie ha posto un veto sulle nuove acquisizioni, non essendoci più un centimetro di spazio in cui alloggiarli.

Al mercatino comunque non trovi le cose che cerchi: al contrario, trovi cose delle quali in genere ignoravi l’esistenza, fai delle scoperte, testi che col tempo “potrebbero rivelarsi” interessanti e che per intanto sono già appetibili per il prezzo.

La ricerca sul web è tutta un’altra faccenda. Navighi con una disposizione completamente diversa da quella con cui ti aggiri tra i banchi dell’usato. Vai in caccia di qualcosa di preciso, e quasi invariabilmente lo trovi. Certo, il sottile piacere connesso al desiderio, la soddisfazione di una ricerca che ti è costata fatica e si conclude positivamente, la gioia di un inaspettato ritrovamento: tutte queste cose te le scordi, ma anche nelle librerie-supermercato non hanno più alcun posto. Finisci allora per tagliare la testa al toro, digitare un titolo o un autore e accorgerti che ciò che pensavi ormai introvabile te lo offrono in cinquanta, e che se un’opera non è mai stata tradotta in italiano e non te la senti di affrontarla in inglese o addirittura in tedesco è disponibile magari in francese, scontatissima. A quel punto la linea di principio va a farsi benedire, e fai l’ordinativo. Trentasei ore dopo ti recapitano a casa cinque volumi, in arrivo direttamente da Berlino, con una spesa di spedizione di due euro e mezzo.

Di questi appunto volevo parlare. Quattro sono taccuini di viaggio, ma questa è l’unica cosa che li accomuna. Sono piuttosto l’esemplificazione perfetta di come si possa viaggiare e si possano poi raccontare i viaggi in maniera molto diversa. Il quinto è una raccolta di brevi biografie di viaggiatori particolarmente “eccentrici”, fuori dagli schemi, che ha anticipato, purtroppo sino a ieri a mia insaputa, se non i soggetti almeno l’idea di fondo che ispirava molte delle cose che ho scritto.

Courrier des livres 02Voyages in Alaska, di John Muir, contiene i resoconti di tre viaggi di esplorazione compiuti dal naturalista americano tra il 1879 e il 1890. Di Muir avevo letto già altri tre libri, gli unici tradotti in Italia, e quindi sapevo pressappoco cosa attendermi: devo dire che ho ricevuto molto di più. Ho capito ad esempio di chi erano figli i racconti di Jack London, che ha saccheggiato da queste pagine molti protagonisti, umani e non, e ha preso lo spunto per diverse storie. Credo abbia vissuto la sua breve avventura di cercatore d’oro col libro di Muir nello zaino.

In Alaska Muir ha compiuto ben sette viaggi, gli ultimi con spedizioni ufficiali mirate soprattutto ad ampliare i territori di competenza degli Stati Uniti. Per questo si è limitato a raccogliere e a proporre i diari di questi tre, realizzati invece alla sua maniera, senza alcun supporto logistico, senza una precisa programmazione, senza un adeguato equipaggiamento, senza armi. Era particolarmente interessato ai ghiacciai, sul cui ruolo nel modellare il territorio formulò una teoria che si è poi rivelata assolutamente esatta. Nei primi viaggi si dichiara però intento soltanto all’ascolto e alla preservazione del “canto del mondo”.

Chi ha già letto La mia prima estate sulla Sierra e Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – dicevo – non trova molto di nuovo, se non la natura dei paesaggi. E deve mettere senz’altro in conto, per quanto concerne lo stile, l’entusiasmo pionieristico del nascente ecologismo d’oltre oceano, ispirato al trascendentalismo di Emerson. Voglio dire che i continui sbigottimenti e le urla di gioia e le danze nelle quali esprime l’eccitazione per gli spettacoli naturali alla lunga riescono un po’ fastidiosi, ma senz’altro corrispondono a un sentire, a una riconoscenza, ad una immedesimazione del tutto genuini e sinceri. Ne ha ben donde, del resto, perché a folgorarlo sono i panorami della Yosemite Valley, della Sierra Nevada o della Glacier Bay.

Si può scrivere della natura anche in questi termini, magari facendosi trasportare un po’ dall’eccesso, senza necessariamente scadere in una trita liturgia, in atteggiamenti devozionali. Ecco, Muir viaggia sempre a un livello spirituale altissimo, quasi mistico, ma mai religioso. Una lettura da consigliare vivamente, magari guidata, per evitare interpretazioni distorcenti, agli odierni fondamentalisti ecologici e ai cultori dell’integralismo animalista.

Courrier des livres 03Leggendo le prime pagine di Un petit tour dans l’Hindou Kouch (1958), di Eric Newby, ho avuto l’impressione di un deja vù. La situazione iniziale mi ha ricordato immediatamente Tre uomini in barca, di Jerome, e subito dopo Una passeggiata nei boschi, di Bill Bryson: due scriteriati, assolutamente digiuni di alpinismo e animati solo dall’incoscienza inglese, si mettono in testa di compiere alcune ascensioni sui settemila dell’Afghanistan, per la precisione nella regione più remota del paese, il Nuristan. Lo fanno dopo soli tre giorni di iniziazione all’arrampicata in Inghilterra, e con una organizzazioner logistica che rende improbabile persino l’avvicinamento a quelle montagne. Ad un certo punto ho temuto che il tutto si risolvesse in una solenne buffonata, in un rovesciamento esasperato e speculare dell’understatement inglese: invece, mano a mano che procedevo a seguire le loro disavventure, i dejà vu si sono moltiplicati e hanno rivelato la loro vera natura.

L’avventura di Newby e del suo socio ha luogo nel 1956. Una quindicina di anni prima lo stesso loro itinerario era stato percorso dalla coppia Annemarie Schwarzenbach (che lo racconta in La via per Kabul), e Ella Maillart (La via crudele, 1947). Alla fine degli anni Quaranta quattro scriteriati francesi amanti dell’arte orientale intraprendono un viaggio quasi simile muovendo dal Nordafrica, e lo raccontano poi in Dal Nilo al Gange, di Pierre Rambach. Nei primi anni Cinquanta è Nicolas Bouvier a percorrere a ritroso con un compagno la via della seta, attraversando i Balcani, l’Anatolia, la Persia e l’Afghanistan. E dopo Newby, soprattutto negli anni Settanta, sono decine i convertiti all’esotismo new age che si avventurano in quella direzione. Con tutti questi resoconti in memoria, sarebbe strano ora se non riconoscessi luoghi, situazioni, personaggi. Anche se ciascuno queste cose le ha raccontate a modo suo. Newby senz’altro in una maniera tutta particolare.

Gli unici suoi libri tradotti in italiano sono Amore e guerra negli Appennini e L’ultima regata del grano. Questo, che probabilmente è il migliore, almeno per gli amanti della letteratura di viaggio, non è mai stato preso in considerazione, nemmeno in questo ultimo periodo di revival del genere. Credo di poterne dare una spiegazione. Il mondo e l’umanità che Newby descrive, sia pure filtrati attraverso una dose massiccia di humor, sono tutt’altro che attraenti. Tra Istanbul a Kabul lui e il suo compagno non incontrano che miseria, disorganizzazione, e le rovine di un passato che doveva essere stato prospero, ma che sembra non aver lasciato traccia negli animi. È vero che mette in conto tutte le disavventure che gli capitano alla impreparazione sua e del suo compagno, e le legge con la cifra di un umorismo che spesso ricorda Wodehouse: ma non può non testimoniare la desolazione materiale e spirituale di quei luoghi. A volte gli è sufficiente un’osservazione casuale, senza commenti: Due nomadi passavano con un cammello, seguiti a quattro o cinquecento metri da una ragazza molto giovane carica di un fardello, che barcollava per la spossatezza. Nessuno dei due uomini le prestava la minima attenzione, ma in compenso ci salutarono calorosamente al passaggio.

Credo dunque che la ragione per la quale il libro non è ancora stato tradotto in italiano stia nella sua apparente “scorrettezza politica”. Oggi verrebbe senza dubbio accusato di proporre una visione razzista, colonialistica, imperialista, semplicemente perché dice le cose come stavano negli anni Cinquanta (e probabilmente adesso stanno anche peggio). In realtà nell’atteggiamento di Newby non ho colto traccia alcuna della supponenza e dello snobismo che spesso (molto spesso) i viaggiatori inglesi portavano nel loro bagaglio: è troppo occupato a combattere con la dissenteria, con la polvere, con le cimici che si coricano con lui, con i suoi continui qui pro quo dovuti alla non conoscenza delle lingue locali (si getta in un pozzo nero, irritato dall’inerzia degli “indigeni”, per salvare un bambino che se la sta ridendo dietro il muro di casa) per tranciare giudizi. Anche quando commenta, in più occasioni: Cavolo, siamo in pieno medioevo, non lo fa con spocchia, ma da antico entusiasta lettore di Walter Scott.

In compenso, solo a titolo di cronaca, i due dopo un paio di attacchi a vuoto riescono ad arrivare in vista della vetta del monte Samir (di 5.809 metri, ma all’epoca era stimato oltre i seimila, ed era considerato dagli afgani inespugnabile), ma il loro exploit verrà considerato, sotto il profilo alpinistico “insignificante”. La montagna sarà espugnata tre anni dopo.

Courrier des livres 04Courrier de Tartarie (News from Tartary: A Journey from Peking to Kashmir, 1936) di Peter Fleming è la narrazione di un viaggio compiuto dall’autore a metà degli anni Trenta, pressappoco negli stessi luoghi visitati da Newby ma in direzione opposta, procedendo da est ad ovest, in compagnia dell’onnipresente Ella Maillart (che ha raccontato la stessa vicenda in Oasi proibite). Difficile immaginare due caratteri e due approcci al viaggio altrettanto diversi: a leggere i due resoconti parrebbero aver attraversato mondi completamente differenti.

Il viaggio, iniziato nel febbraio 1935, dura sette mesi e si snoda per 5600 chilometri da Pechino al Kashmir. Lo scopo è verificare cosa sta accadendo in un’area particolarmente turbolenta e quasi sconosciuta, il Turkestan cinese (o Tunganistan, ma oggi Xinjiang), situata al confine tra l’India, la Cina e la Russia.

Fleming (che tra l’altro è fratello del più celebre Jan, quello di James Bond) è uno storico tenuto in grande considerazione in Inghilterra, molto meno dalle nostre parti. L’unica traduzione in italiano di un suo scritto di viaggio (Avventura brasiliana, Longanesi, 1950) risale a settanta anni fa, e non è più stata ristampata. Varrebbe la pena proporre oggi anche questo diario asiatico, non fosse altro per confrontarlo con la versione della Maillart, ma soprattutto con la coeva descrizione fatta da Sven Hedin degli stessi luoghi e delle stesse vicende politiche.

A differenza del libro di Newby, questo è il resoconto dettagliato di tappe, spostamenti, distanze, incontri, redatto con uno stile molto più distaccato, e meno coinvolgente, nel quale l’umorismo britannico, assai trattenuto, è rivolto quasi esclusivamente agli altri. Un umorismo molto aristocratico: leggere un propagandista, un uomo con interessi intellettuali acquisiti, è noioso quanto cenare con un vegetariano.

È evidente anche che Fleming non prova simpatia per le popolazioni che incontra, e le valuta col metro dei vantaggi o degli inconvenienti che possono procurare agli interessi britannici, ancora nell’ottica del Grande Gioco (all’epoca è un agente dell’MI6, il servizio di spionaggio: del resto, ai loro servizi segreti sono legati un po’ tutti i personaggi, inglesi, russi, tedeschi, che negli anni Trenta si aggirano da quelle parti). L’autore rivendica però ripetutamente la sua posizione quasi da “osservatore esterno”: Non so nulla, e mi interessa meno, della teoria politica; la furfanteria, l’oppressione e l’inettitudine, come perpetrate dai governi, mi interessano solo nelle loro manifestazioni concrete, nel loro impatto sull’umanità: non nelle loro nebulose origini dottrinali.

Ciò non significa che il libro non sia interessante, anzi, sul piano della conoscenza dei costumi e dei caratteri di quei popoli è molto più ricco di quello di Newby: ma non è, a mio parere, altrettanto divertente.

Courrier des livres 05Courrier des Andes è il titolo francese dato a Three Letters from the Andes (1991) di Patrick Leigh Fermor. Non ho ancora capito se ne esiste una traduzione italiana, a giudicare dagli esiti della ricerca in rete parrebbe di no. Paddy Fermor si aggrega nel 1955 ad una piccola spedizione esplorativa che non si pone traguardi particolarmente ambiziosi. È una sorta di ospite d’onore, e si comporta come tale. Lascia siano gli altri a scalare qualche vetta e fare le rilevazioni scientifiche, mentre inventa per sé un ruolo di custode della stufa da campo, di cronista ufficiale dell’avventura e di soprattutto di motivatore (ruolo questo che gli veniva automaticamente riconosciuto, state la sua esuberanza, da chiunque gli si accompagnasse, dai partigiani greci ai frequentatori dei circoli inglesi.). Le lettere cui si riferisce il titolo inglese sono indirizzate alla moglie Joan.

Si tratta palesemente di una operazione di recupero, intesa a sfruttare la popolarità che il viaggiatore inglese stava conoscendo alla fine del secolo scorso. Fermor naturalmente rimane se stesso, la sua scrittura continua ad essere estremamente pulita e raffinata, ma al di là di qualche gustoso aneddoto o di qualche acuta osservazione sui costumi e sui comportamenti delle popolazioni andine non ha molto da offrirci. Il testo dà l’impressione di essere stato buttato giù di getto, senza passare attraverso le innumerevoli riscritture che per Paddy erano abituali: e questo è forse il suo maggior pregio.

Courrier des livres 06Infine il quinto, Voyageurs excentriques, di John Keay (1982). Keay è conosciuto in Italia per due bellissimi libri di taglio storico Quando uomini e montagne si incontrano (1977) e La via delle spezie (2005), pubblicati entrambi nella benemerita collana Il cammello Battriano di Neri Pozza. Il primo soprattutto mi aveva a suo tempo affascinato, ma quando l’ho letto io, nel 2005, in Inghilterra era considerato un classico da quasi trent’anni. Eccentric Travellers, uscito nei primi anni Ottanta, in Italia non è mai stato tradotto. Ed è strano, perché ha tutti i requisiti per essere considerato a sua volta un piccolo classico. Racchiude gli schizzi biografici di sette viaggiatori pochissimo noti dalle nostre parti (immagino invece conosciutissimi in Inghilterra) e ciascuno a suo modo davvero singolari. Lo avessi letto prima, mi sarei risparmiato probabilmente lo scritto su Charles Waterton (L’inventore dei capelli a spazzola). Ma forse è stato meglio così: Waterton me lo sono guadagnato tutto e adesso lo sento davvero mio. Gli altri andrò a conoscerli meglio con calma.

Non posso negare che la lettura mi abbia suscitato un po’ d’invidia, qualche rammarico e alcune considerazioni. Avevo parlato dell’eventualità di un’operazione “divulgativa” di questo tipo già mezzo secolo fa con un amico, docente di storia delle esplorazioni geografiche. Non aveva bocciato l’idea, ma mi aveva fatto notare che nel nostro panorama editoriale, a differenza che in quello anglosassone o d’oltralpe, non c’era molto spazio per queste cose. Una collana miscellanea da lui stesso all’epoca diretta esigeva contributi ineccepibili sotto il profilo del protocollo storiografico, ovvero zeppi di note, di citazioni puntualmente identificabili, di riferimenti bibliografici, ecc. …: tutte cose sacrosante in vista di una preparazione all’attività storiografica, ma che risultano di norma scoraggianti per una lettura amatoriale (e tanto più dissuasivi per una scrittura non “accademica”). Aveva solo parzialmente ragione, come ha dimostrato successivamente proprio il successo de Il cammello battriano di Stefano Malatesta, ma aveva toccato anche un tasto reale, quello di una attitudine della cultura italiana al rispetto ossequioso dei “canoni” di genere, della quale mi rendo conto d’essere io stesso imbevuto.

Il che ci porta alla vera ratio di questo pezzo. Sempre diversi anni fa, in risposta ad un mio scritto comparso anche su Luomoconlavaligia (Perché non esiste in Italia una letteratura del viaggio), una collaboratrice del sito smontava le mie argomentazioni asserendo che erano frutto di una preconcetta esterofilia e sostenendo che in realtà la letteratura di viaggio era diffusissima in Italia e vantava una lunga e gloriosa tradizione. Per dimostrare quanto azzardate fossero entrambe queste affermazioni era sufficiente consultare il catalogo delle edizioni Payot, specializzate nell’editoria di viaggio e dal quale ho attinto tutti i titoli presentati sopra, e rendersi conto che negli anni Novanta del secolo scorso offrivano un solo titolo in traduzione dall’italiano, a fronte degli oltre centoventi presenti (e non per sciovinismo, perché la stragrande maggioranza erano traduzioni di opere inglesi). In quello delle edizioni La Découverte, altra collana specializzata, non ne compariva uno.

Ma basterebbero anche a mio giudizio le assenze che ho dovuto colmare trent’anni dopo cercando le traduzioni in un’altra lingua, o i ritardi coi quali sono stati presentati al pubblico italiano classici del viaggio ottocentesco come Eothen, di William Kinglake, il Viaggio all’interno dell’Africa di Mungo Park o il Viaggio a Timbouctu di René Caillié. Inoltre, in realtà nel mio articolo facevo riferimento non tanto alla letteratura, ma ad una più ampia “cultura del viaggio”.

Ora, non nego che anche in Italia, sia pure come sempre di riflesso, sia aumentato l’interesse per la letteratura di viaggio: di sicuro c’è che se ne scrive (e forse se ne legge) molta di più. Ma ho l’impressione che questo abbia poco a che vedere con una vera “cultura del viaggio”. Sembra infatti che si viaggi quasi solo in funzione del poterne scrivere, e che per giustificare la scrittura si cerchino soprattutto performance da sballati o da guinness dei primati, nelle quali si esaurisce poi tutto l’interesse: giri del mondo in monopattino o in vasche da bagno motorizzate, vie classiche, religiose o storiche percorse camminando all’indietro o ad occhi chiusi: insomma, buffonate. Oppure che ci si muova al traino delle mode e delle mete del momento, quelle “certificabili” con la progressione su Instagram o certificate ufficialmente dai grossi barnum messi in piedi per sfruttare il trend (dal camino di Compostela alla via Francigena e similari), col risultato di intrupparsi in un traffico che non ha nulla da invidiare a quello dei marciapiedi delle città cinesi. Questo accade ovunque, certamente, così come è vero che ovunque si voglia andare si è già stati preceduti dalla folla: ma rimango dell’idea che chi ha potuto crescere nutrendosi di una tradizione che il viaggio lo dava per scontato, che ad esso associava l’arricchimento spirituale (e magari anche materiale), l’apertura mentale, l’autoconsapevolezza, e non solo la fuga, l’esilio, la forzata migrazione, lo strazio del distacco, insomma, tutta la piagnucolosa retorica dell’“addio monti” che da noi sino a ieri ha dettato i canoni del sentire, ebbene, costui riesca a viaggiare ancora oggi con uno spirito diverso.

Magari mi sbaglio, magari siamo ormai tutti uniformati a consumare chilometri anziché a provare emozioni e curiosità genuine: ma avrei voluto poter leggere anch’io prima dei vent’anni Newby, e persino Peter Fleming.

Due biografie monumentali

di Vittorio Righini, 9 luglio 2024

Ho avuto modo di leggere di recente due biografie monumentali (oltre 600 l’una e oltre 450 pagine l’altra) e farmi un’idea di entrambe, grazie al confronto emozionale che mi hanno fornito.

La prima è La Vita a Modo Mio di Wilfred Thesiger, autore di due tra i migliori libri sul deserto e sul mondo arabo, su regioni poco esplorate e su popoli dimenticati. La biografia è uscita in Italia di recente.

Due biografie monumentali 02 Wilfred ThesigerWilfred Thesiger

Il primo dei due libri di cui sopra è Sabbie Arabe, che The Observer ha definito “un classico della letteratura di viaggio, scritto in un linguaggio volutamente carica di risonanze epiche”. Sono d’accordo, l’Empty Quarter, in lingua locale Rub el-Khali, è uno dei deserti più ostici da attraversare, e la parte sud è la più inospitale. È il più grande deserto sabbioso contiguo del mondo, con 650.000 chilometri quadrati di sabbia e pietra, ed è così inospitale e con pochissime oasi da renderlo quasi inabitato. Non c’è da stupirsi che sia chiamato “il quartiere vuoto”, che è una perfetta traduzione dell’arabo “Rub al Khali”. Ricopre un terzo della penisola arabica, estendendosi sui territori di quattro paesi: Oman, Arabia Saudita, Yemen ed Emirati Arabi Uniti. Il famoso T.E. Lawrence, per noi comunemente Lawrence d’Arabia, lo traversò in modo memorabile trent’anni prima di Thesiger (1915/1945). Lo fece non certo per diletto e ce ne ha lasciato ampia memoria scritta.

Due biografie monumentali 03

L’altro libro è Quando gli Arabi vivevano sull’acqua. Questo secondo lavoro è altrettanto mirabile quanto il primo, soprattutto perché tratta di una zona veramente ignota a molti di noi, il sud della Mesopotamia, la terra chiusa dal Tigri e dall’Eufrate. Nel 1951, quando Thesiger vi si recò in esplorazione, il Tigri e l’Eufrate erano ancora fiumi degni di tal nome in quanto a portata, e in primavera, con lo scioglimento delle nevi sui monti della Persia e della Turchia, si creavano paludi che resistevano a lungo. Un mondo acquatico, popolato da flora e fauna vari. Gli Arabi si spostavano remando su barche a bordo basso, pescando e costruendo abitazioni, casoni e magazzini con i giunchi. Insomma, leggere di un mondo arabo basato sull’acqua è stato davvero una sorpresa, originale e interessante. In entrambi i libri la scrittura è colta ma scorrevole, il racconto è originale e interessante.

Così quando è stata tradotta in italiano la biografia di Thesiger, La Vita a Modo Mio, (è quella da oltre seicento pagine) mi sono precipitato ad acquistarla, nonostante il prezzo proibitivo che usualmente pratica Edizioni Settecolori per i suoi libri di narrativa, non solo di viaggio (tra questi Peter Hopkirk, Peter Fleming, Paul Morand e altri ancora).

Ho iniziato a leggerlo nel settembre dello scorso anno, mentre ero in viaggio in Grecia con Paolo Repetto. Lui aveva portato due libri brevi: uno lo divorò in un paio di giorni, l’altro, a quanto pare molto palloso, lo mollò immediatamente. Non mi rimaneva che passargli la biografia e leggere altre cose che avevo con me. Alla fine del viaggio Paolo era ai due terzi della lettura, e volle tenerlo ancora una settimana: ma non mi era parso particolarmente entusiasta.

In questa prima parte dell’estate ho ripreso in mano il libro, dal punto in cui lo avevo lasciato a Salonicco, con immutate illusioni di trovarlo avvincente.

Ma vediamo intanto in breve il personaggio.

Due biografie monumentali 04

Thesiger è nato ad Addis Abeba nel 1910. Educato con rigore e fermezza a Eton e a Oxford, è stato campione di boxe universitario e ottimo sportivo; un grande fisico sempre allenato, alto, magro, forte. Prima della Seconda Guerra Mondiale ha fatto parte della Sudan Defense Force, “un’unità delle forze ausiliarie coloniali britanniche creata nel Sudan anglo-egiziano nel 1925, per assistere la polizia locale nei compiti di sicurezza interna e mantenere l’integrità territoriale. Durante la guerra ha preso parte prima alla campagna dell’Africa orientale e poi ha combattuto in Nord Africa, nella campagna del deserto occidentale”. È rimasto nel SDF dal 1935 al 1940, per poi passare appunto, allo scoppio della guerra, alle ‘Forze di Difesa del Sudan, aiutando a organizzare la resistenza abissina contro gli occupanti italiani. Tra i vari riconoscimenti e titoli, gli è stato assegnato il DSO, cioè la medaglia del Distinguished Service Order, per aver catturato Agibar e la sua guarnigione di 2.500 soldati italiani. Successivamente ha prestato servizio presso lo Special Operations Executive in Siria e presso lo Special Air Service durante la campagna del Nord Africa, raggiungendo il grado di Maggiore. Dal 1943 al 1945 ha funto da consigliere politico del principe ereditario Asfa Wossen dell’Etiopia. Era un personaggio orgoglioso ed eccentrico, benestante, che veniva da una famiglia facoltosa. Ciò gli ha permesso di viaggiare in luoghi lontani e semi sconosciuti senza problemi economici.

Dopo la guerra, in qualità di socio emerito della Royal Astronomical Association inglese e di innumerevoli altre organizzazioni culturali, si e è dedicato ai viaggi nei paesi africani e arabi, e ha vissuto prevalentemente in Kenya. È morto nel 2003 a Croydon, vicino a Londra, dove è sepolto come Sir Wilfred Patrick Thesiger.

Tornando al libro, giunto nella lettura quasi a metà, l’ho chiuso e accantonato. La motivazione, me ne rendo conto, è molto personale, ma nessuno mi paga per leggere, quindi lo faccio solo se quello che leggo mi piace. E quello che stavo leggendo mi piaceva poco.

Sir Thesiger spesso dopo cena diceva ai suoi boys: toh, esco e mi faccio un leone! Se trovava le femmine le ammazzava tutte, e il giorno dopo ci riprovava, finché non eliminava il maschio. Provava un grande piacere a sparare a qualunque cosa si muovesse, dalla rara gazzella del deserto al leone appunto, dal becco selvatico del Sahara alle capre del Tassili. Un giorno i servitori gli portarono due cuccioli di leone, ai quali aveva probabilmente ucciso la madre la sera prima, e lui li allevò amorosamente finché, a nove mesi, erano diventati un impiccio e un pericolo per i locali. Con un certo dispiacere (!) dovette abbatterli. Non sono più riuscito a leggere una pagina.

Se sembro sentimentale me ne dispiace, ma non posso cambiare; se mi dite che erano altri tempi, credo che non cambi nulla, io sono sempre stato contrario alla caccia indiscriminata, la sola caccia che accetto è quella ancestrale per procurarsi il cibo. Mangio carne? si, con gusto, carne allevata s’intende. Ma no, a sparare proprio non provo nessun piacere.

L’altro aspetto per me non particolarmente invitante è la narrazione relativa a certi luoghi dove Thesiger ha vissuto: luoghi che non ho mai avuto intenzione di visitare, per un certo disinteresse verso quelle zone. Faccio un esempio: ci saranno un centinaio di pagine sulla Dancalia, ho dovuto cercarla sulle mappe, nel nord dell’Etiopia. Viene presentata come segue (sul web, copio e incollo): «In passato definita “la terra del diavolo” per i suoi paesaggi infuocati, aride distese di sale e vulcani perennemente attivi e i geyser sulfurei alimentati da acque roventi, la Dancalia è uno dei luoghi più inospitali del pianeta e allo stesso tempo uno dei più suggestivi e affascinanti». Non ne sono particolarmente affascinato, ho come l’impressione che se un libro narra di un luogo che mi piace, lo leggo molto più volentieri. Per il resto della sua vita non vi so dire, mi sono fermato nella lettura e il mio giudizio, ovviamente, è basato sulla prima metà del libro.

A merito di Thesiger va ascritto che la sua grandezza letteraria risiede anche nella descrizione delle culture di alcuni popoli dell’Africa orientale, frutto di un’indagine veramente minuziosa e completa, che è rimasta di riferimento per gli studi successivi. Il problema di alcuni dei rappresentanti di questa nobile stirpe di eruditi inglesi del secolo scorso credo fosse la mancanza di umiltà, condita a un pizzico di snobismo, forgiato probabilmente dalle vergate ricevute sui banchi di Eton e Oxford. La fascetta di copertina, a firma di un giornalista del The Times, dice: “la più avvincente biografia mai letta”. Non sono d’accordo, e pur non sconsigliandone la lettura, io l’ho riposto.

Due biografie monumentali 05

L’altra autobiografia che ho letto, frutto di un fortunato acquisto al mercatino dell’usato di Predosa, è di Heinrich Harrer. La mia sfida al destino. Dall’Eiger al Tibet, dall’Alaska al Ruwenzori. Un’avventura lunga una vita.

Due biografie monumentali 06 bisHeinrich Harrer

“Heinrich Harrer nasce a Huttenberg, un paesino della Carinzia, nel sud dell’Austria, nel luglio del 1912, quindi in pieno Impero Austro-Ungarico. Il padre lavora alle Poste, la madre casalinga, poi ci sono altri tre fratelli più giovani. Dopo svariati successi nel mondo dello sport sulla neve, nel 1933 si iscrive all’Università di Graz e studia geografia. Grazie alla sua capacità sportiva, e alla sua adesione alle SA di Hitler (Sturm Abteilungen, squadre d’assalto), senza la quale sarebbe stato boicottato, viene convocato nella squadra di sci alpino per le olimpiadi invernali di Garmisch-Partenkirchen del 1936. Nel 1937, con l’Anschluss (l’annessione forzata) dell’Austria alla Germania, passa alle SS (le famigerate Schutz-Staffein, squadre di protezione).”

Non indossa mai la divisa delle SS perché parte nel 1938 per una spedizione preliminare al Nanga Parbat in Himalaya. Della sua militanza nelle SS dice: “Ero giovane. Lo ammetto, ero estremamente ambizioso e mi era stato chiesto se avessi voluto diventare l’istruttore di sci delle SS. Devo dire che approfittai subito dell’occasione. Devo anche dire che se mi avesse invitato il Partito Comunista, mi sarei unito a loro. E se mi avesse invitato il diavolo in persona, sarei andato con il diavolo”.

Il suo più grande desiderio è quello di scalare le vette più ardite ed entrare nella storia dell’alpinismo. Prima di partire per il Nanga Parbat, con l’amico e scalatore Fritz Kasparek, progetta una impresa a detta di molti quasi impossibile: scalare la parete nord dell’Eiger, in Svizzera. Una montagna non particolarmente alta (3.967 mt.), ma quasi invalicabile dal lato nord. Incontrano casualmente durante l’arrampicata due scalatori tedeschi, Ludwig Vorg e Andreas Heckmair e insieme riescono, sebbene in mezzo ad un sacco di avversità (ben narrate nel libro Parete Nord) a raggiungere la vetta il 24 luglio. Una grande impresa, perché l’Eiger nord solo due anni prima aveva portato alla morte due alpinisti tedeschi, mentre altri, alcuni italiani compresi, avevano rinunciato prima della vetta. Questa impresa è il trampolino di lancio verso il lungo viaggio che lo aspetta in Himalaya. La Fondazione Himalayana Tedesca, finanziata dal partito nazionalsocialista, che crede al valore d’immagine delle grandi imprese non per scopo scientifico o sportivo, ma per inneggiare ancora di più al Furher, si affretta ad ingaggiarlo.

Due biografie monumentali 07 Eiger parete nordEiger, parete Nord

Raccomandato alla Fondazione da Himmler stesso, Harrer è inserito in una spedizione guidata da Peter Aufschnaiter, alpinista di grande esperienza, che nel 1938 dovrebbe studiare i migliori passaggi per arrivare in cima al Nanga Parbat, in previsione di una successiva spedizione tedesca in grande stile del 1939. Prima di partire sposa però Hanna Charlotte Wagener, figlia del grande esploratore tedesco Alfred Wagener, che rimane incinta. Quando il padre è già in India nasce un figlio, Peter, che incontrerà il genitore solo molti anni dopo.

Mentre la spedizione attraversa l’India scoppia la Seconda Guerra Mondiale. La nave che dovrebbe rimpatriarli non arriva in tempo, così sono catturati dagli inglesi a Karachi, all’epoca appartenente all’India Britannica, e deportati al campo di Ahmednagar, vicino a Bombay (attuale Mumbay). I ripetuti tentativi di fuga del gruppo convincono gli inglesi a trasferirli al campo di Dehra Dun, a nord, non troppo distante dal Nepal e dal Tibet, paese neutrale nel quale Harrer e Aufschnaiter sperano di approdare. (è curioso notare che il Dalai Lama, quando fuggì definitivamente dal Tibet nel 1959, venne ospitato per un certo periodo proprio a Dehra Dun, prima di essere trasferito definitivamente a Dharamsala, sempre nel nord dell’India, a un centinaio di km. dal confine con il Tibet, oggi Cina). Tornando a Harrer, nel 1944, al quinto tentativo di fuga, lui e altri cinque riescono a fuggire. Harrer e Aufschnaiter optano per il Tibet, mentre gli altri compagni puntano a sud e al Giappone.

Due biografie monumentali 08Mappa dell’India Britannica e paesi circostanti nel 1909

I due decidono di puntare su Lhasa e dopo un lungo, pericoloso e stentatissimo viaggio a piedi, varcano il confine della città il 15 gennaio del 1946. A poco a poco, grazie anche al fatto che Aufschnaiter ha studiato il tibetano, i due avventurieri si guadagnarono la fiducia e il rispetto dei cittadini, mostrandosi umili e rispettosi, quindi integrandosi anche svolgendo mansioni utili alla comunità.

Due biografie monumentali 09Vista laterale di Lasha e del Potala

Da qui in avanti, la fonte migliore è il libro Sette Anni in Tibet, più completo del riassunto fatto nell’autobiografia di cui sto parlando. Harrer entra davvero in confidenza con il Dalai Lama, e la loro amicizia durerà tutta la vita. Nel 1950, al momento della prevista invasione cinese, Harrer si ritira in India, mentre Aufschnaiter rimane a vivere fino alla sua scomparsa poco distante da Lhasa. Harrer scriverà: “Ovunque vivrò, proverò nostalgia del Tibet. Spesso penso di poter ancora sentire le grida delle oche selvatiche e delle gru e il battito delle loro ali mentre volano sopra Lhasa al freddo chiaro di luna. Il mio più sincero desiderio è che la mia storia possa creare un po’ di comprensione per un popolo la cui volontà di vivere in pace e in libertà ha conquistato così poca simpatia in un mondo indifferente”.

Nel periodo successivo al 1950, dopo il rientro in Austria, comincia a ricevere inviti: la sua fama lo mette al centro dell’attenzione, e gli sono offerti viaggi in varie parti del mondo. Invitato a New York, al termine del ciclo di conferenze compie tre scalate in Alaska a tre vette inviolate, poi nelle Ande, in Africa, in Oceania. Esplora alcune zone amazzoniche del Brasile, per incontrare delle tribù locali che vivono come al tempo della pietra. Nel 1957 esplora il Suriname e la Guyana Francese con l’ex Re dei Belgi Leopoldo III, assistendo anche a un (fallito) lancio di un satellite dal centro spaziale di Kourou. Entrambi contraggono la malaria, al tempo poco conosciuta, e sono curati per lungo tempo in ospedali europei, arrivando entrambi a un passo dalla morte. Esplora parte del Borneo, poi la Nubia e il Sudan per incontrare il bellicoso popolo Hadendoa. Nel 1962 scala una delle vette più ardue al mondo, la Cartsensz Pyramid o Puncak Jaya, in Indonesia, di quasi 4.900 metri. Sempre nel 1962, è graziato dalla sorte: non si imbarca per un ritardo a Bangkok, sul volo 771.

Due biografie monumentali 10Il palazzo del Potala

Il volo Alitalia 771 è un Douglas DC-8-43 partito da Sydney che dovrebbe percorrere le tratte di Darwin, Bangkok, Bombay, Karachi e Teheran prima di atterrare a Roma, con 94 passeggeri a bordo. L’aereo si schianta in avvicinamento a Bombay, probabilmente per un errore umano. Nessun superstite.

Tornando alla biografia di Harrer, la trovo più avvincente, più scorrevole rispetto a quella di Thesiger, sebbene sia scritta in modo meno ricercato, più semplice.

Le prime 150 pagine, dalla sua infanzia fino alla partenza dal Tibet, sono pagine che si divorano, letteralmente. La parte successiva, soprattutto il periodo delle interviste, delle conferenze e delle apparizioni pubbliche è senz’altro più monotona, poi Harrer riprende a narrare di esplorazioni nelle zone più sperdute del mondo, veramente in stile Eric Shipton, e il racconto torna ad essere avvincente.

Durante una esplorazione all’interno della Papua Nuova Guinea cade in una cascata e viene salvato per miracolo. Le molte fratture e le successive operazioni al torace si faranno sentire a lungo, ed è l’unico grave incidente in tutta la sua lunga vita. Interessante il paragrafo sulla visita ai pigmei delle Andamane, così come a quelli del Congo; altrettanto interessante il capitolo sul Buthan e sul piccolo Tibet, il Ladakh.

Una delle straordinarie caratteristiche di Harrer consiste nell’essere uno sportivo a tutto tondo, al punto che nel 1955 scopre casualmente il golf, ci si dedica intensamente, nel 1959 diventa campione austriaco (!), tre anni dopo presidente del golf club Kitzbuhel. Probabilmente, se avesse fatto corsa, ippica o canottaggio avrebbe prevalso comunque.

Rivede alcune volte, in giro per il mondo, l’amico Dalai Lama. L’ultima volta a casa sua, a Huttenberg nel 2002, per il suo novantesimo compleanno. Harrer muore il 7 gennaio 2006 a 93 anni. Il Dalai Lama così ne omaggia la memoria: “Sono particolarmente addolorato perché Heinrich Harrer era un amico personale. […] Quando l’ho incontrato per la prima volta nel 1949 proveniva da un mondo che non conoscevo. Ho imparato molte cose da lui, in particolare sull’Europa. […] Voglio cogliere questa opportunità per esprimere la mia immensa gratitudine e il mio apprezzamento per aver creato così tanta consapevolezza sul Tibet e sul popolo tibetano attraverso il suo famoso libro Sette anni in Tibet e le numerose conferenze che ha tenuto nel corso della sua vita. Il suo amore e rispetto per il popolo tibetano sono molto evidenti nei suoi scritti e nei suoi discorsi. […] Riteniamo di aver perso un fedele amico dell’Occidente, che ha avuto l’opportunità unica di sperimentare la vita in Tibet per sette lunghi anni prima che il Tibet perdesse la sua libertà. Noi tibetani ricorderemo sempre Heinrich Harrer e ci mancherà moltissimo”.

Oggi il celebre alpinista austriaco riposa nel cimitero della sua città natale, a Hüttenberg, dove ha sede l’Heinrich Harrer Museum. che contiene circa 4500 pezzi portati in Austria dall’esploratore dai i suoi tanti viaggi nel mondo, moltissimi di origine tibetana. Invece la collezione di antichità, costruita nel corso degli anni anche con l’aiuto della terza fedelissima moglie, Katharina Haarhaus, confidenzialmente Carina, era stata venduta al Museo etnografico di Zurigo, per una scelta di carattere economico. Harrer voleva infatti garantirsi una tranquilla vecchiaia. Al tempo stesso molti capolavori dell’arte del mondo diventavano visibili a tutti, all’interno di un Museo, e non rimanevano relegati nelle stanze del collezionista. Questo atteggiamento era stato particolarmente apprezzato dal Dalai Lama, perché più si parlava di Tibet, più si cercava di risvegliare le coscienze contro gli invasori cinesi. Purtroppo, la convinzione intima di Harrer, e cioè che il Dalai Lama un giorno sarebbe tornato libero nel suo palazzo del Potala, non si è realizzata e non si realizzerà in futuro.

Due biografie monumentali 11Heinrich Harrer e un giovane Dalai Lama

La prima cosa che distingue Harrer da Thesiger, oltre alla nazionalità, è l’origine popolare: un’infanzia contadina presso il nonno, ma con una visione del mondo fuori dai suoi ristretti confini, alimentata da curiosità e entusiasmo. Il suo primo e unico interesse era raggiungere il gotha dell’alpinismo, ma non nel senso stretto della parola, cioè entrare nell’elite aristocratica di quello sport, bensì nell’ottenere formidabili risultati nelle scalate. La sensazione che ho avuto è che lui fosse un ottimo alpinista, ma non un fenomeno dell’arrampicata. Non un Herzog, un Hillary, un Messner per intenderci. La sua scalata alla Nord dell’Eiger rappresenta il punto più alto (non metricamente) da lui raggiunto, e si tratta di una prima assoluta su di una parete difficilissima e mortale. In seguito però, vuoi per gli avvenimenti che glielo hanno impedito, vuoi per una certa ruggine provocata dai sette tranquilli anni trascorsi in Tibet, non ha più ritrovato la grinta che aveva da giovanissimo. Harrer mi ricorda un po’ Eric Shipton. Come Shipton (lui davvero autore della più bella autobiografia che io abbia letto, dal titolo Quel mondo inesplorato, libro che non deve mancare sullo scaffale degli appassionati del genere), anche Harrer si gode le valli intorno ai picchi più elevati, ammira le vette anche dalle stanze dei suoi rifugi, studia le popolazioni autoctone senza ambire obbligatoriamente ad arrivare alla vetta.

Harrer ha certo un carattere particolare, e non perché cambia tre mogli, pure in tempi in cui non era così comune come oggi. A merito del film Sette Anni in Tibet va ascritto che l’atteggiamento assai poco simpatico che Brad Pitt interpreta all’inizio, poi nel viaggio e nella fuga, è probabilmente molto veritiero: il cambiamento caratteriale viene mostrato solo durante i sette anni nel Tibet. Semplicemente, come scrive lui in un passo citato prima, pur di partire per un viaggio in montagna, con la sua ambizione avrebbe accettato anche l’offerta del diavolo, scavalcando qualunque regola morale, il che non lo rendeva certo simpatico.

Harrer ha un rapporto di rispetto con le popolazioni che incontra, sia nel viaggio in fuga dall’India, sia nella sua lunga permanenza a Lhasa. Anche Thesiger ha un rapporto protettivo e rispettoso verso le popolazioni che descrive, in questo entrambi si integrano nelle realtà locali con facilità. Poi, a parte il dettaglio che Harrer non va a caccia (o almeno non ne parla mai) e che rispetta gli animali, le differenze stanno nei luoghi dove si svolge la loro storia, e nel linguaggio usato. Harrer scrive in modo più semplice e immediato, Thesiger è più raffinato e colto, sicché le origini dei due vengono alla luce. Fondamentalmente, Harrer opera su tre piani distinti: da giovane è un alpinista, con la mezza età diventa esploratore e negli ultimi anni, prima di ritirarsi, un etnologo; questa tripla definizione la si percepisce soprattutto in questa sua lunga biografia.

I luoghi descritti dai due autori sono certo ostili, ma per loro sono ospitali, e in tutta onestà io nutro una grande passione per il plateau himalayano rispetto a quello africano: così non mi è difficile schierarmi dalla parte dell’austriaco.

Last but not least, come scrivono gli inglesi (questa magari potevo risparmiarmela …), Sette Anni in Tibet ha avuto una notevole influenza su di me. Quando ereditai dai miei cari la casa di campagna in cui vivo tuttora, trentacinque anni fa circa, trovai in un mobile una copia di questo libro (prima edizione Garzanti, del 1953). Era appartenuto a mio zio, Aldo Montorzi, Tenente Colonnello dell’Esercito Italiano, marito della sorella di mia madre, teatino duro come una roccia da fuori, ma buono come il pane dentro, che rimase alcuni anni prigioniero di guerra in India. Lo aveva comprato (presumo) perché nel libro c’erano molti riferimenti ai campi di prigionia inglesi in India, e lui ne sapeva … abbastanza. Questo libro, anche se a volte un po’ romanzato, narra in modo mirabile un’avventura straordinaria. La prefazione dell’edizione inglese è opera di Peter Fleming, autore di narrativa di viaggio, inglese, a me poco gradito per il modo ampolloso e snob di scrivere (e per la brutta abitudine di cacciare le tigri, in questo collega di Thesiger), che ospita Harrer a Londra con tutti gli onori al suo ritorno in Europa, e verso il quale l’austriaco prova molto rispetto.

L’altro libro, molto fortunato e apprezzato, è Parete Nord e racconta la conquista della Nord dell’Eiger (Il Ragno Bianco credo sia il titolo della prima edizione di Parete Nord); un libro di puro alpinismo, consigliabilissimo. Il terzo libro, Ritorno al Tibet (un ritorno a Lhasa nel 1982), invece è una operazione un po’ forzata, utile solo (e comunque non è poco) a denunciare la tirannia cinese in Tibet. In realtà il paragrafo dedicato a questo viaggio, inserito nella biografia di Harrer, è già esaustivo sull’argomento. Ci sono altri libri, ma li ho trovati solo in inglese, e quello sul Buthan solo in tedesco; non so se esistono traduzioni in italiano dei seguenti:

  • Lost Lhasa (1953)
  • Tibet is My Country (1961) – an autobiography of the Dalai Lama’s older brother, Thubten Jigme Norbu, as told to Harrer
  • I Come from the Stone Age (1965)
  • Ladakh: Gods and Mortals Behind the Himalayas (1980)
  • Return to Tibet: Tibet After the Chinese Occupation (1998)
  • Denkich an Bhutan (2005)

Concludo andando in fuorigioco, ma solo perché penso a quanti luoghi, quante località, se notate, sono state citate in queste poche pagine. Penso a Harrer che si iscrive all’Università e sceglie Geografia, un percorso di studi che ho seguito anch’io.

Allora penso che a mia figlia di trentatré anni (mio figlio, lo ammetto, è più curioso e competente), che se chiedo dov’è Crotone mi risponde in Cambogia. Per questo motivo invito i quattro o cinque lettori di questo articolo a ricordarsi la sera, prima di coricarsi, di Mariastella Gelmini, che quindici anni addietro, nelle vesti di Ministro della Pubblica Istruzione, ritenne che l’insegnamento della geografia fosse una spesa inutile per le casse dello stato.

Sven o della solitudine

Sven o della solitudine - copertinadi Paolo Repetto, 22 luglio 2023

Introduzione

La giovinezza di un eroe

Verso l’oriente

Il viaggio in Persia

La prima spedizione

Seconda spedizione

Terza spedizione

Quarta spedizione

Il tramonto e l’oblio

Riflessioni

Compromesso col nazismo

Razzismo

Spettacolarizzazione

Solitudine e sensibilità

Omosessualità

Infine

Indicazioni bibliografiche

Sven o della solitudine 02

Introduzione

Non cammino mai sulle mie impronte.
Questo è contro la mia religione.

Protagonista di questa mini-biografia è Sven Hedin, un esploratore svedese che a cavallo tra otto e novecento ha cambiato radicalmente la conoscenza geografica di una parte dell’Asia. Non è una new entry: era nel mirino da un pezzo, ma forse, a dispetto delle ripetute professioni di “scorrettezza politica”, sono stato inconsciamente influenzato dal marchio di maudit – non quello della sregolatezza, ma quello dell’infamia – che pesa sul personaggio (nonché dal fatto che sino ad un anno fa avevo potuto leggere uno solo dei suoi libri). Hedin mi offre dunque l’occasione di raccontare una storia che mi ha affascinato e di togliermi al contempo un po’ di sassolini dalle scarpe.

Questo però alla fine. Prima andiamo a conoscerlo, possibilmente tenendo spiegata davanti a noi una carta fisica in scala 1:1.000.000 dell’Asia Centrale. Diversamente rischiamo davvero di perderci dopo poche pagine. E comunque, buona parte di quella carta l’ha disegnata proprio lui.

Sven o della solitudine 01

La giovinezza di un eroe

In My Life as an Explorer, dove riassume in pratica tutta la sua vita, (e che non è mai stato tradotto in italiano) Hedin non si sofferma sull’infanzia. Parte in quarta e scrive semplicemente: “Fortunato quel ragazzo che scopre l’inclinazione della sua vita già durante la fanciullezza. Questa davvero è stata la mia buona sorte. Fin dai primi dodici anni il mio traguardo mi era già chiaramente evidente. I miei primi amici sono stati Feminore Cooper e Jules Verne, e Stanley, Franklin, Payer e Nordenskiöld, in particolare la lunga schiera di eroi e di martiri delle esplorazioni polari […]”. Passa poi immediatamente a raccontare del giorno (o meglio, della notte) di fine aprile in cui con tutta la famiglia aveva assistito al rientro a Stoccolma dell’esploratore polare Nordenskiöld, reduce dall’aver percorso per primo il passaggio a nord-est con la nave Vega[1]. In quella notte si era deciso il suo futuro destino. «Ero in piedi sulle alture di Södermalm con i miei genitori e fratelli, da cui avevamo una vista superba. Ero in preda a una grande tensione nervosa. Ricorderò questo giorno fino alla morte, poiché è stato decisivo per il mio futuro. Un fragoroso giubilo risuonava dalle banchine, dalle strade, dalle finestre e dai tetti. “È così che voglio tornare a casa un giorno”, ho pensato tra me e me».

Sven o della solitudine 03Di ciò che era venuto prima non racconta alcunché, né in questa né nelle altre sue opere che ho letto: probabilmente riteneva la sua infanzia poco rilevante rispetto alle scelte future, e assolutamente normale, per quanto normale possa essere considerata la convivenza con cinque sorelle e due fratelli, in una famiglia governata totalmente dalla figura materna. Ad essere maligni, sarebbe invece già sufficiente a spiegare la smania perenne di lontananza e di solitudine che lo caratterizzerà. Almeno a livello inconscio, perché alla famiglia e a tutte queste donne Hedin sarà in realtà sempre molto affezionato. Solo a queste, però: nella sua vita non ce ne saranno altre, né altri affetti, e neppure vere e proprie amicizie. Non si è mai sposato e non ha avuto figli: con lui si è estinta la sua linea familiare.

Sven o della solitudine 04L’infanzia dunque ce la lascia immaginare, e non dobbiamo nemmeno sforzarci troppo. Piuttosto, è forse opportuno “contestualizzare” Hedin rispetto ai tempi e ai luoghi in cui è cresciuto e si è formato. Il 1865, anno della sua nascita, può essere assunto per i paesi nordici a spartiacque. Si è appena conclusa la seconda guerra tedesco-danese, con una cocente sconfitta del regno di Danimarca e la conseguente perdita dei ducati dello Schleswig-Holstein a favore della Prussia. Questo significa il tramonto dello scandinavismo, un movimento culturale e politico che propugnava l’unione dei paesi scandinavi (Danimarca, Svezia e Norvegia) in una sola nazione, e che aveva infiammato a metà del secolo soprattutto la gioventù studentesca. Produce anche, in particolare negli ambienti più legati all’istituto monarchico, una crescente ammirazione per il nuovo Reich tedesco che si va costruendo proprio in quegli anni sotto la regia di Bismarck. In più, la sconfitta è solo un prodromo alla profonda depressione economica che colpirà i paesi europei nell’ultimo quarto di secolo, e in particolare quelli scandinavi, innescando un forte fenomeno migratorio (testimoniato e raccontato, ad esempio, nei libri di Knut Hamsun).

Si verifica però, nello stesso periodo, anche un deciso mutamento dell’atteggiamento relativo alle attività esplorative. Mantenendo il 1865 come data simbolica, è l’anno in cui muoiono FitzRoy, il comandante del Beagle e compagno di viaggio di Darwin, l’eccentrico Charles Waterton, l’esploratore dell’Africa Heinrich Barth: mentre l’anno precedente sono morti John Hanning Speke e László Magyar. Tutta una generazione di esploratori-avventurieri o di esploratori-scienziati (della quale Alexander von Humboldt era stato l’antesignano) sta scomparendo e lascia il posto a uomini che si muovono con un più o meno esplicito mandato politico. Nell’Asia centrale è in il pieno svolgimento Grande Gioco, mentre la corsa a piantare bandierine in Africa culmina nel Congresso di Berlino del 1885.

In quello stesso 1865 si situa però un altro evento fortemente simbolico, la conquista del Cervino. La vittoria di Wymper segna la fine dell’alpinismo romantico e l’inizio della competizione e della corsa al primato, tra i singoli ma anche, e soprattutto, tra gli stati. Non è neppure privo di significato, sempre a proposito di alpinismo, che proprio in quell’anno nasca uno dei coetanei più famosi di Hedin, quel Guido Lammer che sarà l’interprete più famoso e convinto dell’alpinismo di conquista. Lammer andrà ben oltre i limiti ragionevoli d’un rischio inevitabile, ma contenuto e calcolabile. Il suo delirio di potenza (è un nietzschiano convinto) lo spingerà ad arrampicare sempre solo, spesso senza assicurazione, nelle condizioni più assurde e rischiose: “Il più dolce di tutti i godimenti che la vita può offrire è bagnar le labbra alla coppa della morte! Mettersi coscientemente e volontariamente nel vero pericolo di morte, in cui i piatti della bilancia del vincere e del perdere effettivamente si equilibrano è la cosa più alta e più augusta che possa provare il sentimento dell’uomo” scrive in Fontana di giovinezza. Il fatto è che al di là della folle esasperazione rappresentata da Lammer, sentimenti di questo tipo sono piuttosto diffusi nella sua generazione, Hedin compreso (e lo saranno ancor più in quella successiva, quella del fascismo e del nazismo).

Il nostro respira quindi da subito un’aria particolare, anche se ancora non la si avverte. È nato a Stoccolma in una famiglia agiata, da un piccolo borghese che a forza di volontà e rigore è diventato architetto capo della municipalità e dalla figlia di un ricco mercante (ebreo e con un cognome che è tutto un programma: Westman). Il padre intrattiene ottimi rapporti col sovrano, e questo si rivelerà fondamentale per Sven al momento di ottenere appoggi finanziari e credenziali ufficiali per le sue missioni. La sua è una famiglia molto religiosa, addirittura devota, che segue i principi dei fratelli moravi. Sven porterà sempre con sé nei suoi viaggi il “Dagenslösen”, il libro di preghiere svedese, e non derogherà mai al rituale della lettura serale.

Sven o della solitudine 05Compie gli studi in un liceo prestigioso, conseguendo il diploma di scuola secondaria nel 1885, ma non è un allievo particolarmente brillante: si distingue solo nel disegno e nella cartografia. Mentre ancora frequenta il liceo redige a penna un atlante in sei volumi nel quale sono raccolte le conoscenze orografiche del suo tempo per tutta la terra, e disegna per la Società di Geografia di Stoccolma una carta dell’Asia Centrale che lascia tutti a bocca aperta.

Nel frattempo, soprattutto dopo l’entusiasmante notte di Nordenskiöld, ma senz’altro già da molto prima, matura una fissazione per i viaggi polari. È una passione largamente condivisa dai suoi connazionali e dai suoi coetanei: esauritasi con Livingstone e Stanley la febbre dell’Africa, la corsa ai poli è divenuta l’ultima frontiera delle esplorazioni. Sven ci mette di suo una determinazione eccezionale, e s’impone un’autodisciplina ferrea per prepararsi sia fisicamente che intellettualmente a quel tipo di avventura, temprando il corpo al freddo e ai digiuni (“nelle notti invernali mi rotolavo spesso nella neve e dormivo con le finestre aperte”), aprendo la mente alle lingue e alla geografia, nutrendosi di libri di viaggio e di studi cartografici. Chi lo ha conosciuto quando era ancora all’inizio della sua carriera, ad esempio lord Younghusband (l’uomo che avrebbe aperto Lhasa agli occidentali), lo descrive come fisicamente robustissimo, anche se non molto alto, ma soprattutto imperturbabile, sicuro di sé e incredibilmente deciso.

I requisiti per partecipare alla corsa ai poli se li è creati con una straordinaria volontà: “Ma nelle stelle era scritto diversamente“.

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Verso l’oriente

Alla fine della primavera del 1885, appena uscito dalla scuola secondaria, riceve una di quelle offerte che non si possono rifiutare. Deve accompagnare come precettore privato uno studente che va a raggiungere il padre a Baku, sulle sponde azere del Mar Caspio, dove quest’ultimo lavora come ingegnere nei giacimenti petroliferi della famiglia Nobel. La proposta testimonia dell’ottima reputazione che Sven si è guadagnato a scuola, e lui non vuole smentirla: ma vuole soprattutto mettersi in condizione di approfittarne il più possibile per appagare la sua sete di viaggi. Durante l’estate frequenta dunque un corso di topografia per militari e prende lezioni di disegno (per il quale è già di suo molto portato).

Sven o della solitudine 07I due partono alla volta dell’Azerbaigian a metà agosto. Transitano per Helsinki e San Pietroburgo, e quindi si soffermano a Mosca, dal cui splendore Sven è affascinato. Poi quattro giorni in treno e in diligenza, in mezzo a una natura selvaggia che il giovane non si stanca di cercare di disegnare: foreste immense e praticamente vergini, montagne altissime innevate, valichi incassati tra le rocce, strade che corrono pericolosamente su orrendi strapiombi. Il virus dell’avventura che incubava nel suo animo trova l’ambiente ideale per manifestarsi. Sono a Baku prima della fine del mese, e qui Sven, oltre ad impartire lezioni al suo discepolo, si dedica a studiare in contemporanea una quantità di lingue: è molto portato, conosce il latino, parla quasi correntemente francese, tedesco e inglese, s’impadronisce dei rudimenti delle lingue farsi, russa e tartara. In seguito imparerà diversi dialetti persiani, oltre al turco, al kirghiso, al mongolo, al tibetano e a un po’ di cinese.

Sven o della solitudine 08Sei mesi dopo il suo compito di tutore è esaurito, ma Sven non ha alcuna fretta di fare ritorno a casa. Avverte semplicemente i suoi che posticiperà il rientro, e nell’aprile del 1886 lascia Baku, si imbarca su un vapore che costeggia il Mar Caspio e raggiunge la Persia. Quindi attraversa a cavallo la catena montuosa di Alborz, per toccare successivamente Teheran, Esfahan, Shiraz e arrivare al Golfo persico. Dalla città portuale di Bassora ancora in nave risale il fiume Tigri fino a Baghdad (allora nell’impero ottomano). Torna quindi a Teheran via Kermanshah, e dopo aver trovato un prestito (ha esaurito tutti i suoi fondi) intraprende finalmente la strada di casa, attraversando il Caucaso, veleggiando sul Mar Nero fino a Costantinopoli e facendo ancora tappa a Budapest. È di ritorno in Svezia il 18 settembre 1886.

Ha solo ventun anni, se l’è cavata egregiamente. E ha anche definitivamente realizzato che la corsa ai poli non è l’ultima frontiera. Ci sono ancora un sacco di spazi bianchi da riempire sulle mappe: li ha appena lambiti, e non vede l’ora di penetrarci. I monti caucasici, le steppe, i deserti del centro dell’Asia gli sono entrati nel sangue. Scrive: “Bruciavo dal desiderio di iniziare nuove avventure”. “Quando rientrai in patria, nella primavera del 1991, mi sentivo come il conquistatore di un immenso territorio […] io quindi confidavo di poter dare un nuovo colpo e conquistare tutta l’Asia da ovest ad est […]. Passo a passo mi ero aperta la strada sempre più profondamente attraverso il cuore del più grande continente del mondo. Ora non mi acc0ntentavo più di niente se non di aprire sentieri dove nessun europeo avesse mai posto il piede”.

Sven o della solitudine 09L’anno successivo pubblica un libro sulla sua prima straordinaria esperienza, Attraverso la Persia, la Mesopotamia e il Caucaso. Ricordi di viaggio. Non è un best seller, ma è pubblicato da un editore specializzato nel settore, e incuriosisce tanto gli appassionati quanto gli studiosi, colpiti soprattutto dalla giovanissima età e dalla precoce competenza dell’autore. Hedin ha però potuto rendersi conto durante il viaggio di cosa realmente serve per impegnarsi in una esplorazione. Gli anni successivi li dedica dunque a completare ad altissimo livello la sua preparazione. Studia geologia, mineralogia, zoologia tra il 1886 al 1888 a Stoccolma e a Uppsala, e nel frattempo traduce i Viaggi in Asia centrale di Nicolaï Prjevalski, individuando così la meta per la prossima avventura. In virtù della conoscenza del farsi e del turco viene anche aggregato ad una futura missione presso lo scià di Persia. Nell’attesa della partenza, tra l’ottobre 1889 e il marzo 1890, realizza un altro suo sogno e va a studiare a Berlino con il grande geografo Ferdinand von Richthofen[2].

Richthofen riconosce subito l’eccezionalità dell’allievo, e vorrebbe spingerlo allo studio dei sistemi montuosi dell’Himalaya, della Cina e dell’Asia sud-orientale: ma Hedin ha già fatto le sue scelte. Ha letto le relazioni di viaggio dei fratelli Schlagintweit, si è appassionato e commosso per le loro disavventure. Ora lo attirano soprattutto i deserti, aridi o ghiacciati, la solitudine, i silenzi, e sotto sotto (ma neanche tanto) i disagi da affrontare e i rischi da correre. “Non ero all’altezza di questa sfida. Ero uscito troppo presto per le rotte selvagge dell’Asia, avevo percepito troppo lo splendore e la magnificenza dell’Oriente, il silenzio dei deserti e la solitudine dei lunghi viaggi. Non riuscivo ad abituarmi all’idea di tornare a scuola per un lungo periodo di tempo”. Infatti procrastina ancora il compimento degli studi cui von Richthofen lo esorta. Non gli interessa diventare uno scienziato: è e vuole essere riconosciuto come un esploratore.

Durante il soggiorno in Germania matura inoltre una sconfinata ammirazione per quel popolo, per la sua cultura e per il suo sistema politico. La sua figura di riferimento politico diventa Federico II.

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Il viaggio in Persia

Sven o della solitudine 11La delegazione svedese che deve consegnare allo scià di Persia un’onorificenza (un pretesto, naturalmente, per instaurare rapporti politici ed economici) e in seno alla quale Sven svolge il ruolo di interprete parte nel maggio 1890, e via Berlino e Vienna raggiunge Costantinopoli, dove è ricevuta anche dal sultano. Una volta a Teheran, ed esauriti i suoi compiti ufficiali, il giovane ottiene di poter lasciare la delegazione per riprendere a viaggiare nell’Asia centrale. Ma prima accompagna lo Scià in un’escursione alla catena montuosa dell’Elburz, nel corso della quale assieme a due guide scala il Monte Damavand (5.600 metri). Incontra anche le prime disavventure, perché quasi ci lascia la pelle cavalcando attraverso le montagne innevate dell’Elbruz durante una feroce tempesta di neve.

Il rapporto diretto con lo Scià gli garantisce comunque la più assoluta libertà di movimento. A settembre, dopo essere tornato a Teheran, parte per il Turkestan russo, attraversando la catena montuosa che separa quest’ultimo dalla Persia. Viaggia sulla Via della Seta attraverso le città di Mashhad, Ashgabat, Bukhara, Samarcanda, Tashkent e Kashgar, fino alla periferia occidentale del deserto del Takla Makan. A Taskent ottiene nuovi lasciapassare, lettere di raccomandazione e carte del territorio, con le quali, a dispetto degli avvertimenti delle autorità russe, muove verso il confine cinese. Attraversa l’Alto Pamir nei primi giorni dell’inverno, avendo davanti a sé i panorami mozzafiato del Tibet, e arriva a Kashgar a metà dicembre. Ha raggiunto quella che un tempo era stata una tappa fondamentale lungo la via della seta, ma la cui vivacità è ormai solo un ricordo. Per oltre 200 giorni l’anno Kashgar è avvolta da una gigantesca nube di sabbia sollevata dai venti del deserto: e viene considerata abitata dai “demoni del cielo”, che hanno trovato qui la dimora ideale per nascondersi agli occhi degli umani. Dopo un po’ Hedin comincerà a pensare che un fondo di realtà debba esserci in queste leggende.

Sven o della solitudine 12Nei dintorni comunque ha modo di incontrare gli Uiguri, di etnia turca, imparentati con altre popolazioni che abitano oltre il confine russo: ed è impressionato dalla praticità dei loro sistemi d’irrigazione, che consentono l’agricoltura in un terreno tutt’altro che adatto. A questo punto però, non avendo ottenuto il permesso di proseguire fino a Pechino, è costretto a tornare indietro per una via più settentrionale, che attraversa la catena di Thian Shan, e a fine dicembre riguadagna il territorio russo. È nuovamente nel Turkestan, dove visita la tomba dello studioso russo-asiatico Nikolai Przhevalsky a Karakol, sulla riva del lago Issyk Kul. Alla fine di marzo del 1891 è di ritorno in Svezia

Sven o della solitudine 13Si è trattato solo di un viaggio preparatorio, per mettere a punto le necessità e calcolare i rischi di una spedizione vera e propria. Gli è servito anche per individuare l’area sulla quale focalizzare il suo interesse: la più impervia e sconosciuta, naturalmente. Si tratta del vasto e accidentatissimo territorio al quale afferiscono, con confini definiti in maniera molto incerta, sei differenti stati: Cina, Mongolia, Russia, Persia, Tibet e India. Al centro di questa area, nel Turkestan cinese, c’è il Takla Makan, un deserto di sabbia che gode di una fama sinistra, attorno al quale, e anticamente anche all’interno, transitava la Via della Seta individuata da Von Richthofen.

Sven o della solitudine 14Per intanto ha già raccolto materiale sufficiente per dare alle stampe una Ambasciata del re Oscar allo shah di Persia e soprattutto Attraverso il Khorasan e il Turkestan, pubblicati pochi mesi dopo il suo ritorno, che consolidano la sua fama di esperto della geografia e dell’antropologia dell’Asia Centrale. Nel frattempo si è iscritto all’università di Berlino, dove ottiene in brevissimo tempo (nel 1892) una laurea dissertando sulla sua ascesa al monte Damavand.

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La prima spedizione

Sven o della solitudine 16Ormai è famoso, tanto in Svezia quanto in Germania. Si crea dunque una cordata, lanciata dal sovrano svedese Oscar II e finanziata da banchieri e imprenditori, per raccogliere la somma necessaria ad allestire una spedizione in grande stile. Partecipano anche i russi, conquistati da una conferenza che il giovane ha tenuto a Pietroburgo, davanti ai soci della società imperiale di Geografia. Esauriti i preparativi, la partenza viene però ritardata da un problema agli occhi che tiene fermo Sven per parecchi mesi. Poi, nell’ottobre del 1893, l’esploratore raggiunge Orenburg in treno e successivamente, a cavallo o su un carrettino (un tarantass), guadagna Taskent (“In diciannove giorni avevo attraversato 11 gradi di latitudine, impiegato 111 guidatori, adoperato 317 cavalli e 21 cammelli)” A marzo parte l’esplorazione vera e propria. Mi ci soffermo più a lungo perché è probabilmente l’avventura che, una volta conosciuta, sancirà la fama di Hedin come ultimo grande esploratore romantico, colui che avanza solitario verso un ignoto irto di pericoli.

Nel febbraio 1894 Hedin attraversa il Pamir, in pieno inverno e con temperature che scendono sino a -38°C. Passa a fianco del Mustagh-Ata, una montagna di 7.650 metri, e ne valuta possibile l’ascensione, tanto che ci prova. Raggiunge un’altitudine superiore ai 6000 metri, accompagnato da una guida kirghisa: “Mi sentivo come se stessi sul margine degli spazi incommensurabili dove i mondi ruotano per l’eternità. Solo un passo mi separava dalle stelle. Potevo toccare la luna con la mano”. Deve però fermarsi per una recrudescenza dell’oftalmia, e rimpiangerà quella vetta per tutta la vita.

Per curare gli occhi sosta per un breve periodo a Kashgar, e nel frattempo mette a punto i dettagli della spedizione. Ha deciso di tentare la traversata e l’esplorazione del Takla Makan. Sa cosa rischia: “Nel Takla Makan si riesce ad entrare, ma non si riesce ad uscire”. Nessun occidentale di cui si abbia fama ci ha mai provato, o è mai tornato per raccontarla. Hedin intende tagliarlo da nord a sud, dando inizio a un rilevamento cartografico che con una lunga avanzata dovrebbe condurre sino al Tibet. Si sposta quindi nel febbraio a Merket, poco lontana dalle prime propaggini del deserto. “La parte del grande deserto di sabbia che stavo per attraversare era triangolare ed era cinta a ovest dal Yarkand-daria, ad est dal Kotan-daria e a sud dai monti Kunlun. La distanza da Merket al Kotan-daria era di 175 miglia: ma per noi si presentava molto più lunga per via delle innumerevoli curve che il nostro itinerario doveva fare tra le dune. Speravo di attraversare il deserto in meno di un mese e di proce dere verso le fresche alture del Tibet settentrionale durante i caldi mesi estivi.”

Sven o della solitudine 17L’idea è quella di redigere una carta su grande scala del territorio che sarà percorso, riportante i livelli altimetrici e il reticolo idrografico, completata poi dalla classificazione delle rocce e della flora, dalle caratteristiche climatiche, da una descrizione antropologica delle popolazioni (caratteri fisici, lingue, costumi, …), dalla rappresentazione delle rovine delle antiche città e dei paesaggi. Un progetto decisamente ambizioso.

Ad aprile finalmente la spedizione si muove. Con Hedin ci sono quattro compagni e otto cammelli, questi ultimi carichi di acqua, cibo, armi, strumentazioni scientifiche e materiale per le fotografie. Le cose però si mettono male quasi subito: non ha controllato personalmente l’approvvigionamento d’acqua, che si rivela del tutto insufficiente; è necessario dunque procedere ad un drastico razionamento, e uomini e animali dopo due settimane sono già allo stremo. Deve prendere una decisione: “Non si vedeva altro che sottile sabbia gialla. Fin dove riuscivamo a spingere lo sguardo scorgevamo solo dune alte, spoglie di vegetazione. È strano che sia rimasto atterrito da tale spettacolo e abbia continuato il viaggio”. In realtà non è così strano: esce nettamente allo scoperto in questa occasione quella che sarà sempre la principale caratteristica di Hedin: la determinazione quasi disumana a raggiungere l’obiettivo ad ogni costo, mettendo magari a repentaglio la propria vita, e con scarso riguardo per quella degli altri. Non esita un attimo. “Non avrei cambiato un solo passo del mio percorso. Fui travolto dall’irresistibile desiderium incogniti che abbatte qualunque ostacolo e non conosce l’impossibile.” È il tratto che lo accomuna al suo coetaneo Lammer.

Hedin insiste dunque a proseguire, convinto di poter arrivare in un mese al fiume Khotan, che dovrebbe scorrere in mezzo al deserto. Ma intanto la sete comincia a mietere vittime: prima un cammello, poi altri due, poi due degli uomini. Bevono il sangue degli animali che si erano portati appresso, pecore e galline, e l’urina dei cammelli. Hedin cerca di dissetarsi persino con il liquido per i fornelli (e si sente male). Ci si mette anche una tormenta di sabbia. Il 3 maggio sono ormai rimasti in due, e scoprono di aver marciato per un intero giorno in tondo. In quello seguente arrivano al fiume e lo trovano in secca: a questo punto Kasim, l’ultimo compagno rimasto, non è più in grado di proseguire. Hedin scrive: “Accesi la mia ultima sigaretta. Kasim aveva sempre avuto i mozziconi, ma ormai fumai questa fino in fondo. Mi domandavo se ero ancora sulla Terra, o se questa fosse la valle delle Ombre”. E tuttavia procede ancora, di notte, a quattro zampe, sino a quando nel letto del fiume trova una pozza. È guidato, scrive lui, dal canto di un uccello: “Mi fermai di colpo. Un uccello acquatico, anitra o oca selvatica, prese il volo con ali frullanti, e udii il tonfo. Un istante dopo mi trovavo sul bordo di uno stagno, lungo un ventiquattro metri e largo cinque. L’acqua sembrava nera come l’inchiostro sotto la luce lunare […]. Era fredda, limpida come il cristallo e dolce come la migliore acqua di fonte. Quindi bevvi e bevvi ancora. Bevvi senza frenarmi […] e sedetti acca rezzando l’acqua di quello stagno benedetto”.

Sven o della solitudine 18Sembra un vecchio film di John Ford, e sono convinto che molte storie cinematografiche di traversate del deserto siano state ispirate da queste pagine. Ma il meglio arriva dopo: Hedin riempie d’acqua i suoi due stivali e torna dal compagno. Questi si riprende, ma non è ancora in grado di seguirlo. Hedin torna allora allo stagno, si riposa per un giorno e prosegue poi a risalire lungo il letto del fiume. Si imbatte infine in un gruppo di pastori, che lo rifocilla, e successivamente in una carovana di mercanti che ha raccolto lungo la strada Kasim e un altro membro della spedizione miracolosamente sopravvissuto. Una volta ripresisi i tre si trascinano nuovamente fino a Kashgar. Il bilancio è catastrofico: Hedin ha perso due uomini e molti animali, nonché la gran parte dell’attrezzatura scientifica. La sua prima battaglia col deserto è perduta. O almeno, è rimandata.

A Kashgar infatti Sven rimpiazza le perdite e si prepara a ripartire. Ha un obiettivo duplice: prendersi la rivincita sul deserto e puntare poi a nord per esplorare la parte settentrionale del Tibet ed entrare in Cina, alla ricerca del Lop-Nor, il misterioso “lago errante”. Parte a metà dicembre 1895, e in tre settimane, costeggiando il Takla Makan, arriva a Khotan. Di qui seguendo le indicazioni dei locali compie numerose escursioni nel deserto, in pieno inverno e con temperature proibitive. Scopre, dapprima nei ruderi delle stazioni di sosta buddiste dislocate lungo la via della seta e poi in vere e proprie città perdute nel deserto, sommerse da secoli dalla sabbia, un autentico tesoro di antichi manoscritti, di oggetti devozionali, di affreschi a tema religioso. La stagione gli impedisce di approfondire le ricerche, ma registra le coordinate di tutti i diversi siti e li rende rintracciabili da parte di coloro che verranno dopo di lui. “Lasciai volentieri le ricerche scientifiche agli specialisti. Entro pochi anni anche loro avrebbero affondato i badili nelle sabbie cedevoli. Per me era più che sufficiente aver fatto la scoperta e avere aperto un nuovo campo all’archeologia nel cuore del deserto.

Quando riparte viaggia per un tratto con una carovana di nomadi, giusto il tempo per apprendere gli elementi essenziali della lingua mongola. Intanto segue il corso del fiume Keriya, fino a quando questo si perde nelle sabbie del deserto, e mappa puntigliosamente tutto il territorio attraversato, raccogliendo in diciotto mesi un’infinità di dati. Una volta arrivato a Xining, capitale del Quingai, dopo aver aggirato ed essersi lasciato alle spalle il Takla Makan, scioglie la spedizione e prosegue da solo fino a Pechino. Stavolta ha le credenziali in regola, ha soprattutto l’appoggio dell’ambasciata russa, e nel febbraio 1897 viene accolto senza problemi (ma anche senza entusiasmi).

A Stoccolma, dove arriva tre mesi dopo, al termine di un viaggio estenuante nel corso del quale ha attraversato la Cina, parte della Mongolia e la Russia, l’accoglienza è calda (è anche insignito di una medaglia d’oro da parte del sovrano), ma senz’altro meno entusiastica rispetto a quanto aveva sognato quindici anni prima, mentre assisteva al rientro di Nordenskiöld. I deserti asiatici sono molto più lontani dall’immaginario popolare scandinavo delle distese di ghiaccio polari.

In quasi quattro anni ha percorso 26.000 chilometri e ne ha mappati 10.498 su 552 fogli. Di questi circa 3.600 chilometri hanno attraversato aree precedentemente inesplorate. Redige immediatamente una corposissima relazione del viaggio (Risultati geografici e scientifici dei miei viaggi in Asia centrale. 1894-1897), che con le appendici scientifiche supera le millecinquecento pagine: ma il vero successo arride alla versione ridotta per il grande pubblico, corredata da numerosissimi disegni suoi, che col titolo Il giro del mondo spopola sia in Svezia che in Germania e in Russia, e immediatamente dopo in Inghilterra. Quasi snobbato in patria, viene invece invitato a tenere conferenze e a ricevere riconoscimenti sull’isola. Il “Geographical Journal” lo definisce il più grande esploratore dell’Asia dopo Marco Polo.

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Seconda spedizione

I riconoscimenti ottenuti all’estero si concretizzano in un appoggio sempre più convinto del sovrano svedese Oscar II, ma anche dello zar Nicola II, nonché della famiglia Nobel. Hedin può quindi organizzare immediatamente una seconda spedizione al Tibet. Questa volta l’obiettivo ufficiale è l’esplorazione del bacino del Tarim e della regione del Lop-Nor, aree geografiche che sulle carte rimangono ancora bianche: quello segreto è di arrivare a Lhasa, fedele all’imperativo “Vai là dove nessun bianco è mai stato prima”. E per partire non attende nemmeno la pubblicazione del suo ultimo libro (che esce nel 1900).

Sven o della solitudine 20L’esploratore è infatti già nuovamente in Asia nell’estate del 1899. Il 5 settembre parte dalla solita Kashgar alla testa di una carovana di 15 cammelli e 10 cavalli e raggiunge Lailik, sullo Jarcand-daria. Qui acquista e fa preparare una chiatta, con la quale intende discendere tutto il fiume fino alla sua confluenza col Tarim: “Negli anni precedenti avevo già percorso in tutti i sensi il Turkestan orientale: unica strada che m’era ancora sconosciuta, rimaneva il fiume”. L’imbarcazione è attrezzata con tutti i comfort consentiti dalla situazione: c’è persino un piccolo laboratorio per lo sviluppo delle fotografie. Su una seconda chiatta, più piccola, stipa le provviste (riso, uva, cocomeri legumi, ma anche animali vivi, montoni e galline). C’è infine un piccolo “battello pieghevole” inglese, in tela, da usare per le escursioni negli affluenti. Il 17 settembre il resto della carovana, guidata da due cosacchi, si dirige via terra al punto d’incontro stabilito sul corso del Tarim inferiore: Hedin, assieme ad uno dei compagni sopravvissuti all’avventura precedente, Islam Bai, e con cinque battellieri reclutati sul posto, inizia la sua navigazione. “Incominciò un viaggio idillico. Era una vera gioia vivere nel fiume studiandone la vita palpitante … per uno avvezzo ad avanzare sempre a cavallo o a misurare lo spazio arrampicato sul dorso di un cammello dondolantesi, è una voluttà infinita lasciarsi trasportare dalla corrente e rimanere seduto tranquillamente presso la scrivania […]”. Va da sé che la cosa non può durare. Intanto la chiatta tende ad arenarsi sui banchi di sabbia disseminati lungo il fiume: e quindi il viaggio si rivela molto più lento del previsto. Poi, quando la sua portata è arricchita da nuovi immissari, la corrente prende velocità e le imbarcazioni si salvano solo per la prontezza d’animo di uno dei battellieri. Infine, dopo due mesi, arrivano le avvisaglie dell’inverno, una sottile crosta di ghiaccio che il mattino copre le acque, e che a dicembre si trasforma in lastroni. “Alla fine la vittoria rimase al ghiaccio: la zona ghiacciata che cingeva i fianchi delle chiatte si serrò, il canale libero nel filone del fiume si restrinse, ed il 7 dicembre la crosta gelata formava un ponte che univa le due rive: eravamo imprigionati e dovemmo prendere i quartieri d’inverno.” Facendo capo a questi, Hedin intraprende la ricognizione delle zone interne sulle due sponde, malgrado temperature polari e con un equipaggiamento minimo: “Non portai con me tenda alcuna: per tutto l’inverno dormii all’aria aperta, sebbene il freddo scendesse talvolta a -33°”. È un esercizio di acclimatazione, perché ha deciso di sfidare una seconda volta il Takla Makan. E così a metà dicembre con sette cammelli, due cani, un cavallo e quattro uomini, s’inoltra nuovamente nel mare di sabbia. Nemmeno questa volta è una passeggiata. Rischiano paradossalmente ancora la sete, ma quando sono allo stremo raggiungono piccolissime oasi, o sono soccorsi dalla caduta della neve; si perdono entro tempeste di sabbia; arrivano quasi ad esaurire la provvista di legna. “Noi stavamo accosciati attorno al fuoco, raggomitolati nelle pellicce, stretti l’uno accanto all’altro […]. Al mattino io mi svegliavo completamente sepolto sotto la neve, al punto che Islam doveva spazzarla con una pala per liberarmi dalla nicchia, che lo strato di neve manteneva calda. È un’esperienza più curiosa, a dire il vero, che piacevole, quella di dormire a cielo aperto con -33° di freddo. Allorché ci trovavamo riuniti attorno al fuoco, spesso si avevano 30° di caldo dal lato della fiammata e -30 di freddo alle spalle.”

Sven o della solitudine 21Questa volta comunque il deserto lo attraversano in lungo e in largo, e dopo quattro mesi si ricongiungono finalmente col resto del gruppo. Nel corso di un’ultima puntata esplorativa s’imbattono ancora una volta nelle rovine di antichi insediamenti, dove raccolgono tavole di legno scolpite, monete cinesi, tazze per le cerimonie, ecc… Quando sono ormai sulla via del ritorno alla base uno degli uomini scopre quasi casualmente un’antica città abbandonata, parzialmente dissepolta dall’ennesima violenta tempesta di sabbia. “Volevo assolutamente tornare indietro! Ma che follia sarebbe stata. Avevamo acqua solo per due giorni.” Per una volta il buonsenso ha la meglio. Si ripromette però di tornare l’inverno successivo, e questo cambia i piani della spedizione.

Per tutto l’inverno il gruppo vagabonda nell’immenso territorio compreso tra il Tibet settentrionale e il Takla Makan. Ad un certo punto, mentre si trovano nel deserto di Gobi sembra ripetersi la situazione di cinque anni prima. E ancora una volta la scampano imbattendosi in un fiumiciattolo. Contro il parere dei suoi compagni Hedin decide allora di puntare direttamente a sud, verso quello che un tempo doveva essere il bacino del fantomatico Lop Nor: e finalmente riesce a risolvere il mistero che circondava il lago fantasma. Questo si è spostato nel corso delle epoche storiche diverse volte, riguadagnando ripetutamente le differenti localizzazioni, per una serie combinata di fenomeni erosivi, legati al forte vento che spazza costantemente il deserto e periodicamente lo sconvolge con tempeste di sabbia, e di sommovimenti sismici. È quanto accadrà per l’ennesima volta anni dopo, nel 1921, a seguito di una piena, quando la rottura della sponda sinistra del Konce-daria dirotterà le sue acque nel letto disseccato del Kuruk-daria, il “fiume asciutto” nel mezzo del de serto, confermando appieno l’ipotesi avanzata da Hedin.

Sven o della solitudine 23Ma al di là della soluzione del problema idrografico, a Hedin interessa anche riportare alla luce quelle che erano state importanti città di sosta sulla via della seta e che erano state via via abbandonate, perché i traffici si spostavano seguendo il lago. Tornato nel luogo segnalato da uno dei suoi uomini l’anno precedente, proprio viaggiando nell’alveo del Kuruk-daria, il 18 marzo del 1900 scopre le rovine di una fortificazione (con mura di 340 x 310 metri di lunghezza), che altro non è che l’antica città reale di Loulan. Il sito era stato sede fino al 300 d.C di una guarnigione cinese, poi la popolazione l’aveva abbandonato per il repentino prosciugamento del lago sul quale si affacciava. Hedin identifica l’edificio in mattoni del comandante dell’esercito imperiale cinese, uno stupa e diciannove abitazioni costruite in legno di pioppo, ma soprattutto disseppellisce centinaia di documenti scritti su legno, carta e seta in caratteri Kharosthi. Da questi si trarranno, una volta decifrati, le informazioni sulla storia della città. “I frammenti di queste testimonianze avrebbero narrato dell’epoca in cui il Lop Nor esisteva, degli uomini che qui vivevano, delle loro condizioni, dei loro rapporti con altre parti dell’Asia interna, del nome della loro terra. Questa terra che, per così dire, venne inghiottita dai fenomeni sismici, questi uomini da tempo dimenticati, la loro storia non riportata da annali di sorta, tutto questo sarebbe tornato alla luce […]”.

Sven o della solitudine 24Una volta lasciati gli scavi, la nuova meta è il Tibet. La regione è proibita agli stranieri, e in particolare nessuno di loro può entrare in Lhasa. Questo naturalmente ha sempre stuzzicato la curiosità e la fantasia degli occidentali, che soprattutto nell’ultimo mezzo secolo hanno tentato con vari stratagemmi di eludere il divieto, e molti hanno pagato con la vita. Hedin ha concepito il piano di entrare in territorio tibetano dal Kashmir con tutta la sua carovana, che stavolta conta trenta uomini e centocinquanta animali da carico, così da far concentrare su questa l’attenzione delle guardie confinarie tibetane, e di staccarsene poi travestito da pellegrino mongolo, per filarsela a cavallo fino a Lhasa. Deve però anche superare il veto imposto all’ultimo momento dall’autorità britannica, e ci riesce solo sfruttando la reciproca ammirazione che lo lega a Younghusband, che dovrebbe fermarlo e simula invece un ritardo nella ricezione dell’ordine. I due si sono immediatamente riconosciuti e intesi: “Al momento di ripartire – scrive Younghusband – Sven Hedin mi mise una mano sulla spalla e se gli avessi dato anche il minimo incoraggiamento mi avrebbe abbracciato.

La spedizione parte a maggio del 1901. Risale le pendici settentrionali dell’Altin Tagh e si accampa a 4000 metri, presso il lago di Kum-koll. Di lì poi procede sino alla fine di luglio, dirigendosi indisturbata ma con estrema fatica verso Lhasa, risalendo e ridiscendendo innumerevoli passi montani. A questo punto Hedin, che vorrebbe passare per un pellegrino buriato, si rade completamente, si scurisce la pelle e continua con due soli compagni e un Lama incontrato ad Urga, che ha acconsentito ad accompagnare la carovana e dal quale Hedin apprende i rudimenti della lingua mongola.

Sven o della solitudine 25Dopo una settimana, quando sono ormai a cinque giorni di cammino da Lhasa, incrociano una carovana di nomadi che guida centinaia di yak, e Hedin viene smascherato: infatti il giorno seguente (l’8 agosto) gli si para davanti una pattuglia di soldati che intima loro di tornare indietro. Prende atto che “quando al tramonto il cielo comincia ad oscurarsi ad oriente mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude” e rinuncia allo scopo della missione.

Sven o della solitudine 26Deve prima ricongiungersi al resto della carovana, e poi con essa riattraversare le montagne tibetane. La ritirata è tutt’altro che facile, perché i soldati tibetani gli rimangono sempre alle costole. Hedin decide di puntare ad ovest, verso il Ladakh, ma il viaggio si fa sempre più pesante col sopraggiungere della stagione autunnale prima e di quella invernale poi. Muoiono tre uomini e la maggior parte degli animali, altri componenti la spedizione perdono l’uso delle gambe per congelamento. Il calvario dura quasi cinque mesi, e quando alla fine raggiungono la città di Leh, nell’India britannica, anche Hedin è prostrato.

Ma non è ancora appagato. Da Leh il percorso di Hedin diventa quasi una gita turistica. Visita infatti Lahore, Delhi, Agra, Lucknow, Benares e Calcutta, dove incontra lord Curzon, viceré d’Inghilterra in India. Ha in animo soprattutto di riallacciare le relazioni con le autorità inglesi, che lo hanno in sospetto per i suoi rapporti con i russi. Comincia già a programmare la nuova spedizione.

Chiusa questa pausa diplomatica, riconduce la carovana attraverso gli alti passi del Karakorum, fino a Kashgar. Rientra in Svezia nel giugno del 1902, dopo tre anni di viaggio, riportando oltre 1.149 pagine di mappe, su cui ha raffigurato terre scoperte di recente. La pubblicazione scientifica sulla seconda spedizione, Scientific Results of a Journey in Central Asia, occupa sei testi e due volumi di atlante. Ma a renderlo ancora più celebre è Trans-Himalaya: scoperte e avventure in Tibet, quella che lui stesso definisce la sua “opera popolare” sul viaggio, pubblicata in svedese in tre volumi e tradotta quasi immediatamente in una decina di lingue. È premiato con l’attribuzione di un titolo nobiliare (anche se rifiuterà sempre di anteporre al nome Hedin il predicato di nobiltà “von”) e con la cooptazione nel comitato per l’assegnazione dei premi Nobel.

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Terza spedizione

Sven o della solitudine 28L’attività di Hedin è rallentata nei due anni seguenti da alcuni avvenimenti che turbano sia la vita della Scandinavia (la separazione dei regni di Svezia e di Norvegia) che quella dell’Asia (l’invasione inglese del Tibet). Hedin stesso entra nella competizione politica, dapprima in quella nazionale, schierandosi decisamente al fianco del nuovo sovrano Gustavo V e appoggiandone la volontà di rimilitarizzare la Svezia (contro la scelta di neutralità che data dalla fine delle guerre napoleoniche), e successivamente in quella internazionale, caldeggiando l’avvicinamento della Svezia alla Germania E tuttavia non riesce a rimanere a lungo lontano dai “suoi” deserti.

Le spedizioni successive, tuttavia, pur continuando a produrre risultati eccezionali sul piano della conoscenza geografica (e anche di quella storica e archeologica) hanno ormai assunto un carattere diverso. La situazione si è complicata sia in Russia, dopo il tentativo rivoluzionario del 1905, sia in Cina, dove la rivolta dei Boxer e il successivo intervento occidentale hanno fatto perdere ogni residua credibilità e autorità dell’apparato imperiale. Lo stesso vale per l’impero ottomano. Inoltre, la temporanea uscita di scena della Russia viene compensata dall’ingresso nel Grande Gioco della Germania, che con il finanziamento e la costruzione (iniziata nel 1903) della ferrovia di Baghdad mira ad un grande progetto geopolitico ed economico di influenza sul Medio oriente.

Sven o della solitudine 29Tutto questo fa si che Hedin non possa più muoversi, come in precedenza, seguendo l’estro e le intuizioni del momento. Le simpatie ripetutamente manifestate per la Germania ne fanno un attore sospetto, non più coperto dallo status di cittadino di una nazione neutrale e totalmente estranea al Grande Gioco. Ora deve procedere su progetti laboriosamente concordati con i vari poteri locali (che spesso sono più di uno sugli stessi luoghi), badando a garantire la pura “scientificità” delle proprie ricerche. Vengono fuori in questo frangente le sue doti “diplomatiche”, l’importanza dei rapporti che ha stretto tramite l’attività di conferenziere e di divulgatore (ad esempio, quello col governatore dell’India, Lord Curzoon).

Si dedica quindi, tra l’ottobre 1905 e il 1908, in una prima fase ad esplorazioni specifiche, che riguardano i bacini desertici dell’altipiano iranico e tutta l’area dell’Iran centrale, nonché alla mappatura di vaste zone del Turkestan cinese (lo Xinijang). Usando ancora una volta un espediente torna poi sull’altipiano centrale del Tibet (l’apertura alla penetrazione occidentale imposta dalla spedizione militare inglese di Francis Younghusband rimane molto discrezionale) e una volta penetrato all’interno si affretta a visitare il Panchen Lama (il Dalai Lama è in esilio in Mongolia), suscitando la diffidenza delle autorità anglo-indiane, che vogliono mantenere il monopolio dei canali diplomatici con il Paese himalayano. Per l’ennesima volta non gli è concesso di entrare nell’ex-città proibita di Lhasa, ma il fatto di essere stato preceduto da altri occidentali gli ha fatto perdere ogni interesse per la cosa.

Sven o della solitudine 30È invece il primo europeo in assoluto a raggiungere la regione del Kailash, compresi il sacro lago Manasarovar e il monte Kailash. Secondo la mitologia buddista il Kailash è l’ombelico della terra, il centro dell’Universo, mentre per quella induista è la sacra dimora di Shiva. In questa area Hedin individua anche le sorgenti dei maggiori fiumi sacri del subcontinente indiano, l’Indo e il Brahamaputra, nonché le origini di uno dei più importanti affluenti del Gange. Col che chiude una diatriba annosa e aggiunge una perla alla sua collana di successi: “Stavo lì a meditare se Alessandro il Macedone… avesse la benché minima idea di dove si trovasse questa sorgente e mi inebriavo nella consapevolezza del fatto che, ad eccezione degli stessi tibetani, nessun essere umano tranne me era mai penetrato in questo luogo”. Infine, riconosce per primo, sia pure esplorandone solo tratti marginali, la catena del Transhimalaja, della quale il Kailash fa parte e che si stende da ovest ad est, parallela alla formazione principale, nella parte più meridionale del Tibet. Ancora oggi questa catena montuosa lunga 1600 chilometri viene talvolta indicata in suo onore come “monti di Hedin”.

Sven o della solitudine 31A questo punto le sue ricerche si muovono già su una linea che prefigura il futuro Ahnenerbe (Associazione per la ricerca e la diffusione dell’eredità ancestrale tedesca), di Himmler, che finanzierà anche una missione tedesca in Tibet della quale Hedin sarà inconsapevole ispiratore. Mentre in precedenza si trattava di riportare alla luce civiltà e presenze culturali dimenticate da secoli, ora l’intento è di configurare una linea di continuità proto-indoeuropea, che allaccia le culture germaniche e nordiche ai popoli parlanti lingue di derivazione dal sanscrito. Proprio gli studi linguistici, arbitrariamente letti e interpretati in chiave antropologica, inducono ad identificare una razza ariana, a partire da De Gobineau passando per Huston Chamberlain e per Vacher de Lapouge. Queste teorie, che si basano sullo stravolgimento dei dati biologici e linguistici, trovano poi una cassa di risonanza nelle elucubrazioni teosofiche di Helena Blavaskji, che conoscono una notevole diffusione alla fine dell’800. Alle une e alle altre si rifaranno, in maniera confusa e rozza, Hitler nel suo Mein Kampf, e più ancora Himmler. Nel frattempo, le imprese di Hedin e i libri che le narrano contribuiscono senz’altro a creare un modello eroico di maestro della sopravvivenza che starà alla base delle formazioni giovanili fiorenti a partire dall’inizio del secolo, i Wandervogel in Germania, ad esempio, e soprattutto i Boy Scouts nel mondo anglosassone.

La missione si coSven o della solitudine 32nclude ancora una volta in India, dopo aver attraversato otto volte la catena himalajana per valichi diversi (il più alto, il Ding-La, a 5.885 metri) e percorso oltre 26.000 chilometri: una distanza, sottolinea Hedin, superiore a quella che intercorre tra i due poli (e da questa considerazione trarrà il titolo (From pole to pole) il diario divulgativo che la racconta. Dall’India Hedin torna attraverso il Giappone e la Russia. Al suo rientro a Stoccolma, nel 1909, è accolto stavolta trionfalmente da cinquemila persone, come il suo eroe Nordenskiöld trent’anni prima.

La pubblicazione scientifica della terza spedizione, Tibet meridionale: scoperte in tempi passati rispetto alle mie ricerche nel 1906-1908, conta dodici volumi, tre dei quali sono atlanti.

Nei due decenni successivi l’attività di esplorazione cessa completamente. Non che questo implichi per Hedin lo stare fermo. È impegnato in un vorticoso giro di conferenze, è membro di società scientifiche in tutta Europa e non solo, svolge anche l’attività di corrispondente di guerra, ma la sua popolarità comincia a declinare rapidamente, soprattutto dopo che nel primo conflitto mondiale si è schierato apertamente, anche con pubblicazioni scritte, dalla parte degli imperi centrali.

Sven o della solitudine 33La prima a risentirne è la sua reputazione scientifica, e in molti casi le onorificenze, i riconoscimenti e gli appoggi economici che gli erano stati tributati in Inghilterra, vengono ritirati. Le sue attività esplorative in un’area di forte interesse strategico per l’impero britannico appaiono ora più che mai sospette, e gli stessi dati delle sue rilevazioni geografiche vengono contestati dai geografi dell’Indian Service, cui fanno ombra la sua spregiudicata attività autopromozionale e il suo successo di pubblico. In un’occasione ciò avviene molto platealmente durante una conferenza presso la Royal Geographical Society, e ciò è con ogni probabilità all’origine del suo odio per tutto ciò che è britannico. È significativo che a conferirgli dottorati honoris causa siano stati inizialmente gli atenei inglesi – sia Oxford che Cambridge nel 1909 –, e da un certo punto in avanti siano solo quelli tedeschi: Breslau (1915,), Rostock (1919), Heidelberg (1928), Uppsala (1935) Monaco (1943) e Handelshochschule Berlin (1931).

Nel 1923 quindi intraprende un giro di conferenze per raccogliere fondi un po’ in tutto il mondo. Si reca nel Nord America e poi in Giappone, e di lì torna a Pechino per organizzare una spedizione nel Turkestan cinese (il moderno Xinjiang). Ma il successo dell’iniziativa promozionale è scarso, tanto più che nella regione da esplorare imperversa la guerra civile. Abbandona quindi il progetto e attraversa invece su un’automobile Dodge, in compagnia di un nobile eccentrico, tutta la Mongolia, viaggiando da Pechino sino alla Russia. Raggiunge poi Mosca con la ferrovia transiberiana.

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Quarta spedizione

Sven o della solitudine 35L’occasione per il rientro arriva nel 1927. Hedin ha ormai più di sessant’anni, la salute non è quella di una volta, ma gli viene offerto un ruolo prestigioso. Dovrà coordinare tutte le operazioni e le attività di una grande spedizione internazionale (partecipano trentasette scienziati di sei paesi diversi) nel cuore dell’Asia, finanziata dai governi di Svezia e Germania e appoggiata da quello nazionalista cinese, che svolgerà indagini scientifiche nei campi più disparati. Il suo è un compito prevalentemente logistico, ben lontano da quello del libero esploratore indipendente: ma Hedin lo assolve magistralmente. Tra il 1927 e il 1933 la spedizione indaga sulla situazione geologica, meteorologica, topografica, botanica, archeologica e etnografica in Mongolia, nel deserto del Gobi e nello Xinjiang (il Turkestan cinese).

Le condizioni in cui lavora sono tutt’altro che tranquille. Il pericolo maggiore è rappresentato non più dai deserti o dalle montagne ghiacciate, ma dalla guerra civile che divampa in Cina, tanto che Hedin scrive: “Mi sento di essere un pastore che deve proteggere il suo gregge dai lupi, dai banditi e soprattutto dai governatori”. L’area in cui si svolge la ricerca è infatti teatro di scontro tra fazioni appoggiate rispettivamente dalla Cina nazionalista e dall’Unione Sovietica.

È una zona molto diversa dal resto della Cina continentale, nella quale si confrontano senza esclusione di colpi e di atrocità due popolazioni atavicamente rivali: gli Uiguri, mussulmani autoctoni di lingua turca (tanto che Hedin li chiama genericamente Turchi) e gli Hui, anch’essi di religione musulmana, ma di origine e lingua cinese e di stanziamento più recente. Basta un nulla per essere sospettati dall’una o dall’altra parte come spie, e liquidati sommariamente, ma anche per essere rapinati dalle bande di predoni e di disertori che conducono una guerra tutta loro.

Sven o della solitudine 36Hedin è forse l’unico uomo in grado di controllare la situazione. Mentre gli scienziati lavorano in modo quasi indipendente, lui si fa tramite con le autorità locali, assume le decisioni più importanti rispetto agli spostamenti e ai problemi organizzativi, raccoglie fondi e tiene il diario di viaggio collettivo, registrando ogni passo del percorso seguito. Deve garantire approvvigionamenti e libertà di movimento ad un gruppo che per la sua consistenza, il suo armamento, le salmerie (i soli cammelli sono trecento, e parte dell’equipaggiamento viaggia su tre camion), ma anche per le sue attività in aree che sono fortemente contese dai signori della guerra locali, somiglia a un esercito invasore.

Sven o della solitudine 37Non mancano i momenti di tensione, perché le popolazioni locali sono sospettose e (giustificatamente) ostili, Ma alla fine il lavoro viene svolto pressoché per intero, e i risultati scientifici sono eccezionali. I resoconti relativi ad ogni settore saranno raccolti in quaranta volumi, che ancora oggi costituiscono una miniera per la conoscenza di quelle aree. La versione divulgativa del diario di viaggio o meglio, della sua ultima parte, è quella offerta sotto il titolo de Il lago errante, l’unica tradotta in italiano negli ultimi settant’anni. Viene inoltre redatta una grande carta in scala uno a un milione dell’Asia Centrale; vengono raccolti importantissimi reperti archeologici e paleontologici (resti fossili di dinosauri e altri animali estinti), che dopo essere stati valutati scientificamente per tre anni in Svezia saranno restituiti alla Cina; sono identificate e descritte specie botaniche e animali in precedenza sconosciute. Nel deserto di Lop Nor Hedin ha scoperto anche rovine di torri di segnalazione che sembrano dimostrare come la Grande Muraglia cinese un tempo si estendesse fino allo Xinjiang.

E ci sono anche altri risvolti: la scoperta di riserve di ferro, manganese, petrolio, carbone e oro sarà di grande rilevanza per il futuro economico del paese.

Sven o della solitudine 38Nel 1933 la spedizione ha portato a termine i suoi lavori (ma soprattutto ha esaurito i fondi a disposizione) e viene sciolta ufficialmente. Ma Hedin considera tutt’altro che conclusa la sua missione. A Nanchino ha incontrato il leader nazionalista Chiang Kai-shek, che ha favorito l’iniziativa e ne è diventato uno sponsor (attraverso l’emissione di una serie di francobolli che oggi valgono una fortuna). Ora chiede a Hedin di lavorare per conto del Kuo-mintang, guidando una spedizione tutta cinese che rilevi la situazione idrografica dello Xinjiang e valuti le possibilità di creare un vastissimo sistema di irrigazione, oltre a redigere piani e mappe per la costruzione di due strade carrozzabili lungo la vecchia via della Seta, da Pechino sino all’estremo confine occidentale del Turkestan cinese. Per l’esploratore è un invito a nozze. Si mette immediatamente al lavoro e nel giro di meno di un anno fornisce sia i piani per impianti di irrigazione che trasformeranno l’economia della regione, sia i progetti per due diverse strade che da Pechino conducano a Kashgar. In questo modo rende possibile aggirare completamente il terreno acci dentato del bacino del Tarim.

Sven o della solitudine 39Non è stato un lavoro facile. La sua carovana di autocarri è stata prima dirottata da reparti del Kuomintang in ritirata davanti ad un tentativo di invasione sovietico. Poi è stata attaccata da grappi di ribelli tungani (musulmani di lingua cinese), che hanno catturato lo stesso Hedin e lo hanno detenuto per diversi mesi a Korla, minacciando anche di passarlo per le armi assieme a tutti i membri della spedizione. Le assicurazioni e i permessi concessi dal governo centrale in quelle zone valgono poco e nulla. Al solito Hedin se la cava con la sua pratica della diplomazia e con la conoscenza dei costumi locali. Ma appena tornato libero toglie le tende.

Una cosa però ancora lo tormenta. Durante la prima fase della spedizione ha sentito raccontare da un mercante della piena del Konce-daria che ha dirottato nel 1921 le acque verso quello che era stato in precedenza il fiume asciutto (Kuruk-daria). Scrive: “Per me quel discorso fu come un lampo”. Non ha più smesso di pensarci. È la dimostrazione che quanto aveva intuito decenni prima, nel corso della terza spedizione, era esatto. E adesso vuole andare a constatarlo di persona. Convince il governo cinese che il ritorno della vita in quegli spazi deserti crea ulteriori opportunità di collegamento con le zone più remote dello Xinjiang, ai confini occidentali, che sino a quel momento erano rimaste pressoché incontrollabili. Con l’appoggio di Chiang Kai-shek torna dunque nella zona dove aveva conosciuto tante avventure e corso tanti rischi, verso quello che lui considera il cuore stesso dell’Asia.

Nel maggio 1934 compie finalmente una spedizione fluviale nel “lago errante” Lop Nor, dopo aver navigato per due mesi lungo il fiume Kaidu e il Kum-Darja. Ha chiuso un cerchio aperto quarant’anni prima.

Per il viaggio di ritorno, Hedin sceglie la rotta meridionale della Via della Seta: passa quindi per Hotan e arriva ai primi di febbraio del 1936 a Xi’an. Percorre per l’ultima volta gli itinerari che lui stesso ha riconosciuto e ritracciato, dopo secoli si oblio. Di lì riemerge nel mondo a lui contemporaneo. Prosegue per Pechino, e poi per Nanchino, dove incontra nuovamente Chiang Kai-shek e festeggia il suo settantesimo compleanno. Lo attende l’ennesimo rientro in Svezia, molto più in sordina rispetto a quelli trionfali dei tempi eroici.

Sven o della solitudine 40Potrebbe essere comunque soddisfatto, il successo scientifico dell’iniziativa è indubbio. Non fosse che adesso deve affrontare un altro problema, una situazione finanziaria molto difficile. Si è fatto carico infatti di una quota considerevole del finanziamento della spedizione, contraendo un pesante debito con la banca tedesco-asiatica di Pechino, in un momento peraltro nel quale il deprezzamento della moneta dovuto alla Grande Depressione ha fatto balzare i costi alle stelle. Deve allora ricominciare con un turbinoso giro di conferenze che lo porta a percorrere in pochi mesi una distanza pari a quella della circonferenza terrestre, e arriva a ipotecare tutti i suoi diritti d’autore, nonché la vastissima biblioteca che ha raccolto.

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Il tramonto e l’oblio

Sven o della solitudine 42Dopo il 1935 l’esistenza di Hedin si fa necessariamente più sedentaria. Ma a dispetto di una salute ormai cagionevole l’anziano esploratore non manca di muoversi appena possibile, per tenere conferenze, ricevere riconoscimenti, offrire consulenze. Presso le democrazie occidentali però la sua reputazione, già compromessa dalle posizioni assunte nel primo conflitto mondiale, è definitivamente rovinata dalle simpatie che manifesta per la Germania nazista e che quel regime enfatizza a scopo propagandistico (facendogli ad esempio pronunciare il discorso inaugurale alle Olimpiadi di Berlino nel 1936). Persino in patria, dove per tutti gli anni trenta e sino alla fine del secondo conflitto mondiale il governo rimane a guida socialdemocratica, malgrado il rapporto di amicizia con Gustavo V Hedin comincia ad essere considerato ingombrante.

Sven o della solitudine 45Negli anni che precedono il conflitto si dedica al riordino e alla pubblicazione dei materiali riportati dalla spedizione sino-svedese, che compaiono con il titolo di Rapporti dalla spedizione scientifica nelle province nord-occidentali della Cina sotto la guida del Dr. Sven Hedin. L’opera conosce quarantanove edizioni in svariate lingue, segno che a dispetto dell’ostracismo politico la validità e la rilevanza scientifica delle sue ricerche è ancora riconosciuta. Come già accaduto un secolo e mezzo prima per Alexander von Humboldt, però, i costi della stampa di un materiale iconograficamente così ricco e così complesso, sostenuti per la gran parte dall’autore stesso, danno fondo a quel che rimaneva del suo patrimonio, e determinano prezzi finali altissimi, sostenibili solo da un numero limitato di biblioteche e di istituti.

Sven o della solitudine 43Durante la fase iniziale del conflitto Hedin vive prevalentemente in Germania (e di questo soggiorno lascia una testimonianza dettagliata e rivelatrice, il Diario tedesco). Incontra personalmente Himmler e tramite lui viene a conoscenza del progetto Ahnenerbe e delle due successive spedizioni tibetane che l’istituto aveva promosse. Non è molto impressionato dal capo delle SS: “Non aveva niente nell’aspetto del despota crudele e spietato e sarebbe potuto essere benissimo un maestro elementare di qualche cittadina di provincia. Si avvertiva una mancanza di carattere e di pregnanza sul suo volto, di tratti decisi che irradiano energia e forza di volontà. Non c’era in lui traccia della classica bellezza greca o romana, né un indizio di razza o cultura […]”. Non collabora comunque alle attività dell’Ahnenerbe, anche se Ernst Schäfer, il capo delle missioni al Tibet, si ispira direttamente a lui e ambisce solo ad emularlo[3]. Quando incontra Hitler, invece, Hedin ne rimane stranamente affascinato, al punto da attribuirgli connotati fisici assolutamente improbabili: “Era alto e virile, una figura possente e armoniosa che teneva la testa alta, camminava eretto con fare sicuro”. Il problema agli occhi che lo aveva afflitto già nelle prime spedizioni si è aggravato, ma questa immagine sembra frutto di una totale obnubilazione mentale, oltre che fisica.

Sven o della solitudine 44Gli ultimissimi anni li trascorre dunque mestamente, nel segno di un rapido oblio. Le opere che lo avevano reso famoso in tutto il mondo, soprattutto quelle divulgative in forma di diari di viaggio, libri per giovani e libri di avventura, non vengono più ristampate. Non è più tempo di eroi, di esploratori, di terre incognite, sostituiti nell’immaginario giovanile dai protagonisti degli stadi, degli schermi, del nuovo universo musicale. Le rilevazioni geografiche sono ormai affidate alla fotografia aerea, il rischio è inserito nel tutto compreso dei pacchetti vacanza. Quando Hedin muore, nel 1952, un mondo che ancora si sta leccando le ferite dell’ultimo conflitto pare nemmeno accorgersi della sua scomparsa.

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Riflessioni

Sven o della solitudine 47Impostando questo pezzo avevo in mente di riassumere in tre o quattro paginette la vita e le avventure di Hedin, e di concentrarmi poi soprattutto sulle riflessioni che ne scaturivano. Non è andata così, naturalmente. So che sta diventando quasi una formula di rito, dal momento che non riesco mai a contenere la mia logorrea, ma nel caso di Hedin va detto che la sua esistenza è stata talmente ricca e movimentata che a costringerla in un centinaio di righe si rischiava di perderne le caratteristiche peculiari, l’intensità compulsiva e la determinazione quasi disumana che l’hanno governata. Qualcuno ha scritto che Hedin ha vissuto una vita così piena di avventure e fughe che il solo leggerne è estenuante. Effettivamente, se ne esce frastornati.

In più, all’epoca, e mi riferisco soltanto a un paio di anni fa, non era dato rintracciare in Italia non solo una biografia attendibile del personaggio, ma neppure una trattazione di sintesi, a livello ad esempio di enciclopedia digitale. Avevo letto l’unico suo libro tradotto in italiano negli ultimi settant’anni e avevo poi rinvenuto solo articoletti sparsi su vari blog, recensioni di libri suoi pubblicati un secolo fa e difficilmente rintracciabili persino nel commercio in rete, brevi interventi spesso clonati in successione, dai quali necessariamente usciva mortificata la complessità del personaggio, ma soprattutto scaturivano delle immagini polarizzate sul tutto negativo o sul tutto positivo, e una fastidiosa confusione di date, luoghi e avvenimenti.

Ho pensato allora che avrei potuto riempire sia pure parzialmente un vuoto, come Hedin faceva con gli spazi bianchi delle carte, condensando in una misura divulgativa la parte essenziale della biografia, o almeno quella che a me più interessava, e ripristinando la correttezza cronologica e geografica che avevo trovato invece quasi sempre sacrificata.

Nei due anni trascorsi prima che mi risolvessi a riprendere in mano il progetto molta parte di quello spazio bianco è stata altrimenti riempita. È stato ad esempio ripubblicato col titolo La via della seta, (Iduna 2121), il diario tenuto da Hedin durante la quarta spedizione; ma soprattutto è uscita da pochi mesi, per le edizioni Agorà (2023) una biografia dal titolo Nel cuore dell’Asia. Sven Hedin 1869 -1952, scritta da Marcello di Martino.

Tutto questo avrebbe potuto indurmi a ritenere ormai obsoleto e inutile il mio lavoro, non tanto quello di ricerca ma senz’altro quello di scrittura. Considerando però che Agorà è un’editrice ultracattolica, specializzata negli “studi tradizionali”, e che Di Matino ne è la punta di diamante, ho fiutato dove andava a parare l’operazione, e ho pensato che una versione dei fatti molto più stringata e povera, ma anche molto più laica, poteva avere un senso. Anche perché, con l’aria di restaurazione che circola, temo che nei confronti di Hedin, come di molti altri, stia partendo una campagna di “riabilitazione” tutta intesa a riproporre “valori forti” di infausta memoria. A ciò si aggiunge la consapevolezza che ben pochi tra i frequentatori del sito andranno a leggersi una biografia di duecentottanta pagine, e che quindi un qualche significato di prima informazione il mio lavoro lo conserva.

Chiarito dunque che la biografia di Sven Hedin è nata come pretesto, e che questo schizzo non ha ambizioni di primazia o di riscoperta, vengo finalmente alle riflessioni cui accennavo sopra.

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Compromesso col nazismo

Nella narrazione biografica ho solo accennato alle simpatie manifestate da Hedin per il nazismo, e al fatto che tale atteggiamento ne ha determinato la “damnatio memoriae”, iniziata quando ancora era in vita e proseguita postuma. La faccenda è però un po’ più complessa. Intanto è necessario chiarire da cosa nascevano e fin dove si spingevano queste simpatie.

A rigor di termini Hedin non è mai stato un nazista: non solo perché non si è mai affiliato ad alcuna organizzazione politica di quella matrice, in patria o fuori, ma perché le sue simpatie andavano piuttosto alla Germania in sé, alla sua gente, alla sua cultura (come ha dimostrato già durante la prima guerra mondiale), che al nuovo corso impresso dal regime hitleriano.

Sven o della solitudine 49Hedin era un conservatore, un legittimista intriso sino al midollo di lealtà monarchica, un cristiano tradizionalista, e dopo la rivoluzione d’Ottobre era diventato anche un acceso anticomunista. Nel suo filonazismo non c’era alcuna componente ideologica (le idee di Hedin erano piuttosto elementari, oltre che molto radicate) ma solo l’individuazione di un comune nemico. Durante il primo conflitto aveva inneggiato agli imperi centrali come baluardo contro l’espansionismo zarista, che con le sue pretese sul Baltico minacciava la libertà e la sovranità della Svezia, e aveva caldeggiato per gli stati scandinavi una politica di riarmo: ora vedeva i bolscevichi muoversi in continuità con quel progetto di espansione, e salutava in Hitler l’unico vero loro avversario.

Condivideva certamente anche molto dello spirito superomistico, della concezione agonistica della vita, del richiamo alle mitologie nordiche: ma da cristiano fervente rifiutava il paganesimo nazista di fondo, e da legittimista lo sconvolgimento dell’ordine sociale tradizionale che la “rivoluzione” nazionalsocialista almeno ufficialmente promuoveva. C’è però un’ulteriore, fondamentale dato di fatto che rende ambiguo il suo rapporto col nazismo: Hedin aveva sangue ebraico nelle vene, e non solo non se ne vergognava, ma lo rivendicava anche: “Nel mio sangue ogni sedicesima goccia è di origini ebraiche. Io amo questa sedicesima goccia e non voglio assolutamente rinunciarvi”. Questo lo ha portato quindi a criticare ripetutamente la legislazione antiebraica prima e le persecuzioni poi. Da parte loro i nazisti, Hitler e Himmler in primis, ma anche Goebbels, ciascuno per motivi suoi, fingevano di ignorare quelle origini, un po’ perché l’immagine di Hedin era stata imposta e sfruttata a livello propagandistico ed era difficile a quel punto disfarsene, un po’ perché l’ammirazione per Hedin, soprattutto da parte del primo, era sincera.

Quando le critiche diventano troppo esplicite, però, si sceglie la soluzione di “silenziarle”. Già nel 1937, ad esempio, Hedin scrive un libro (Deutschland und der Weltfrieden – La Germania e la pace nel mondo) nel quale accusa le potenze occidentali di fomentare il conflitto, ma chiama in causa pesantemente anche il governo tedesco, soprattutto per le sue campagne antireligiose, antisemite e contro la libertà della ricerca scientifica. Di fronte alla richiesta del segretario di stato Walther Funk di eliminare le parti critiche, così risponde: “Quando abbiamo discusso per la prima volta il mio progetto di scrivere un libro, ho affermato che volevo solo scrivere oggettivamente, scientificamente, possibilmente criticamente, secondo la mia coscienza, e tu lo consideravi del tutto accettabile e naturale. Ora ho sottolineato in una forma molto amichevole e mite che l’allontanamento di illustri professori ebrei che hanno reso grandi servizi all’umanità è dannoso per la Germania e che questo ha dato origine a molte proteste contro la Germania all’estero. Quindi ho preso questa posizione solo nell’interesse della Germania.

Sven o della solitudine 50La mia preoccupazione che l’educazione della gioventù tedesca, che altrimenti lodo e ammiro ovunque, sia carente in questioni di religione e dell’aldilà deriva dal mio amore e simpatia per la nazione tedesca, e come cristiano considero mio dovere dichiararlo apertamente e, certo, nella ferma convinzione che la nazione di Lutero, che è religiosa in tutto e per tutto, mi capirà.

Finora non sono mai andato contro la mia coscienza e non lo farò neanche adesso. Pertanto, non verranno effettuate cancellazioni”.

E infatti, il libro verrà pubblicato solo in Svezia.

Questo accade prima dell’inizio delle deportazioni e della creazione dei campi di sterminio.

Dopo lo scoppio del conflitto Hedin mantiene i suoi contatti, è in corrispondenza con Hitler, cui dedica un’intervista ancora nel 1939, e nel 1942 scrive L’America nella battaglia dei continenti, dove sostiene che responsabile dello scoppio della guerra è il presidente americano Roosevelt e che le origini del conflitto sono da imputare all’iniquità del trattato di Versailles, e non all’aggressività tedesca. Hitler sentitamente ringrazia.

Sven o della solitudine 51Ora, a mio giudizio, sortite di questo genere sono da interpretare tenendo in considerazione che Hedin ha ormai quasi ottant’anni, vissuti peraltro intensamente, che è animato da sempre da una fortissima ambizione e che certe debolezze con l’età si accentuano (pochi anni prima della morte, isolato e quasi cieco, vantava ancora di essere l’autore svedese più tradotto in altre lingue), per cui non sa sottrarsi alle lusinghe che la propaganda nazista continua a propinargli, assegnandogli premi, onorificenze, lauree honoris causa. Come giustificazione è senz’altro debole, ma all’atto pratico il suo atteggiamento non è molto lontano da quello degli innumerevoli pacifisti senza se e senza ma, sul tipo di Bertrand Russell, che sino a conflitto inoltrato sostenevano la necessità di mantenere aperto il dialogo con Hitler, o del partito comunista inglese, il cui giornale, il Daily Worker, scriveva ancora nel 1940 che la guerra era un pretesto “per schiacciare sotto il peso della macchina bellica imperialista anglo-francese milioni di sindacalisti”. O dei molti che, tanto in Inghilterra (a partire dall’ex-sovrano, Edoardo VIII) quanto in Francia (compresi i numerosi socialisti che collaborarono col governo di Vichy), simpatizzavano apertamente col regime nazista.

La differenza sta semmai nel fatto che Hedin ha usato tutti i suoi contatti e il suo prestigio presso le alte sfere del regime per sottrarre alla deportazione e allo sterminio diversi ebrei e prigionieri politici svedesi, prodigandosi spesso con esito positivo e salvando la pelle ad un sacco di gente. E comunque, in nessuna occasione ha avallato o peggio ancora favorito questa infamia, come dimostra il passo della lettera a Funk che ho riportato.

Ho voluto anche verificare se Hedin abbia dato un qualche apporto diretto all’elaborazione del pensiero nazista, se sia cioè possibile imputargli, al di là di non averne preso decisamente le distanze anche quando ha cominciato a rendersi conto della deriva criminale alla quale questo conduceva, di aver fornito qualche spunto ideologico che non fosse genericamente il modello del superuomo (alla maniera, per intenderci, di D’Annunzio col fascismo). L’ho fatto andando a riprendere i testi più autorevoli sulle origini culturali del terzo reich (Mosse) o quelli più specifici relativi alle sue componenti magico-esoteriche (Galli): ebbene, in nessuno di questi studi compare, nemmeno in una semplice citazione in nota, il nome di Hedin.

Sven o della solitudine 52A fronte di tutto questo, colpisce ancor più la diversità del trattamento riservato ad Hedin rispetto a quello usato nei confronti di altri personaggi, compromessi quanto e più di lui coi regimi totalitari. Un caso esemplare è, proprio per l’Italia, quello di Ardito Desio: esemplare per i molti tratti in comune dell’attività dei due protagonisti e per la differenza negli esiti e nella valutazione storica. Pochi mesi fa è passato in televisione, sul canale culturale della RAI, un documentario biografico su Desio, morto alla ragguardevole età di 104 anni, nel quale si ricordavano tutti i successi e i meriti dell’alpinista-esploratore, ma si glissava elegantemente sugli aspetti più oscuri delle sue vicende, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Grande amico di Italo Balbo, il nostro aveva precocemente aderito al fascismo, ed era diventato la spalla del fascistissimo presidente del CAI, Angelo Manaresi, nell’opera di asservimento del sodalizio al regime; più o meno come era accaduto in Germania, con l’aggravante che là la politicizzazione era stata pressoché spontanea, coincideva con lo spirito alla Lammer che informava l’etica alpinistica tedesca del primo novecento, mentre in Italia era stata più contrastata, imposta ad una maggioranza di alpinisti tutt’altro che ansiosi di intrupparsi (e quindi aveva comportato anche delle esclusioni e delle discriminazioni).

Nel dopoguerra, senza aver mai pronunciato una parola di dissociazione dalla sua militanza fascista, Desio ha mantenuto tranquillamente tutti i suoi incarichi e i suoi titoli “accademici”, nonché le sue entrature politiche, tanto da essere designato a capo della spedizione che ha portato nel 1954 alla conquista del K2. In questa veste Desio, che gli altri componenti il gruppo chiamavano “il ducetto”, ha brigato per escludere Riccardo Cassin, il più forte alpinista italiano del momento, e l’unico che avrebbe potuto fargli ombra, e Cesare Maestri, e non solo ha pilotato l’ascesa in modo da farla compiere a due suoi fedelissimi, ma l’ha poi raccontata, unico autorizzato per contratto a farlo, in modo da mettere in cattiva luce colui che alla fine l’aveva resa possibile, Walter Bonatti. E malgrado le proteste di quest’ultimo la verità sull’intera vicenda è stata ristabilita ed accettata dal CAI stesso solo cinquant’anni dopo, quando tutti i protagonisti erano ormai scomparsi. Ancora nei primi anni Novanta è stato poi chiamato ad inaugurare la “Piramide”, un laboratorio per ricerche ad alta quota collocato a 5.050 metri ai piedi dell’Everest.

La cosa non sorprende, e il caso è tutt’altro che isolato (si pensi agli antropologi e agli etnologi del regime, come Giuseppe Tucci e Giuseppe Cocchiara), se si considera quali furono gli esiti (e le reali motivazioni) della sciagurata amnistia Togliatti. Ma conferma come nel nostro paese la memoria sia particolarmente corta, e più in generale come chi è davvero in buona fede abbia sempre maggiori difficoltà a far valere gli argomenti in sua difesa.

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Razzismo

Tornando a Hedin, gli è stato contestato anche un atteggiamento fortemente intriso di razzismo, e probabilmente solo il fatto di essere stato oscurato già settanta anni fa gli ha fino ad oggi evitato di entrare nelle liste di proscrizione della “cancel culture” (almeno per quanto riguarda l’Italia). Anche rispetto a questa accusa occorre intenderci. È indubbio che nei libri di Hedin, ad esempio in Dalla Persia Dalla Persia all’India attraverso il Seistan e il Belucistan (Treves 1912) si possa trovare tutto il materiale che si vuole per attribuirgli dei pregiudizi. Hedin è infastidito dal carattere poco affidabile, dalla scarsa puntualità, dall’indolenza, dalla suscettibilità rancorosa delle popolazioni mediorientali con le quali viene a contatto. Ogni occasione di confronto sembra testimoniare la superiorità dell’occidentale: ma è da dire che l’occidentale è quasi sempre e solo lui, quindi si tratta di una superiorità personale, piuttosto che etnica. E, soprattutto, di una superiorità culturale, e non biologica.

Diverso però è il discorso se si accusa Hedin di aver fornito delle pezze d’appoggio al delirio nazista sulla ricerca della culla della civiltà iperborea, ovvero alla costruzione della “tradizione” ariana di Thule. Come ho già detto, Hedin non fu direttamente implicato nelle spedizioni tibetane promosse da Himmler, e da nessuna parte ho trovato traccia di suoi accenni ai miti di Sahamballa, o di Agarthi, o del Re del Mondo. La sua ortodossia luterana lo salvava dalle suggestioni della Società Teosofica, così come dall’Ariosophia di Lanz von Liebenfels (capostipite dei rettiliani!), che veniva invece abbracciata da fior di intellettuali “progressisti” nordeuropei come August Strinberg (col quale Hedin ebbe una annosa contrapposizione a proposito del riarmo svedese). Direi piuttosto che con le sue descrizioni estatiche dei panorami himalayani, con le loro trasposizioni sulla carta o sulla tela, hanno anticipato e incoraggiato le esperienze compiute negli anni venti, sulla sua scia, da altri ricercatori nel cuore dell’Asia della terra perfetta: personaggi come Nicholas Roerich, artisti-alpinisti-esploratori e indagatori spirituali.

Sven o della solitudine 54Che la superiorità dell’uomo bianco – diciamo pure, nell’accezione corrente ai primi del Novecento, “dell’ariano” – venga data quasi per scontata, non mi sembra un tratto attribuibile nello specifico ad Hedin. Tutti o quasi gli ambienti culturali occidentali, a partire da quello scientifico e a dispetto della lezione di Darwin, erano intrisi di questa concezione. Non erano solo Kipling o gli epigoni di De Gobineau, Chamberlain e Vacher de Lapouge a condividerla. Esploratori, antropologi, filosofi, scienziati, e persino i rappresentanti del pensiero socialista, in misura più o meno esplicita, l’avevano fatta propria (rileggetevi i romanzi di Jack London, o i saggi di Proudhon, o il dibattito sull’immigrazione al congresso mondiale della Seconda internazionale di Stoccarda, nel 1907). Le voci dissenzienti erano ben poche. Una di queste, quella di Orwell, al solito diretto e senza peli sulla lingua, denunciava a più riprese il razzismo sotterraneo del socialismo inglese.

Ma su questo tema mi spingerei anche oltre. L’idea di considerare “diversi”, diciamo pure “inferiori”, gli appartenenti ad altri popoli, ad altre culture, ad altre religioni, di per sé non è razzismo. È una forma di pensiero che appartiene a qualsiasi popolo (dagli Inuhit, termine che appunto sta a designare “gli uomini”, in contrapposizione agli altri, che non sono considerati tali, fino ai Cinesi, ai Giapponesi, ai Tibetani, persino ai Maori e ai Boscimani). In queste classificazioni l’idea di un’origine biologica diversa magari non è esplicitata, ma è spesso riconoscibile sotto i più ingegnosi travestimenti mitologici. E piaccia o meno, è sempre stato così. Già Erodoto scriveva a proposito dei Persiani: “Loro stessi si considerano in tutto superiori a chiunque altro nel mondo, e concedono alle altre nazioni un certo numero di buone qualità che diminuisce in base alla distanza, il più lontano essendo a loro dire il peggiore”.

Sven o della solitudine 55Hedin in fondo sembra comportarsi allo stesso modo, ma usando criteri di valutazione molto pragmatici: durante le prime spedizioni, ad esempio, nella sua gerarchia vengono per primi gli aiutanti cosacchi, considerati i più affidabili (e con ogni probabilità erano davvero tali). Più tardi, quando lavora con i cinesi, ne apprezza la volontà e l’infaticabilità, mentre rileva lo scarso spirito d’iniziativa (ma spiegandolo con una millenaria abitudine alla sottomissione). Sono quel tipo di giudizi che ciascuno di noi può ascoltare da chi ha dimorato all’estero, foss’anche in quel Nord-Europa dal quale Hedin proveniva, senza che debbano necessariamente essere letti in una qualsivoglia chiave razzista. D’altro canto, l’idea di una “impurità” congenita all’uomo bianco è diffusissima presso le popolazioni arabe e quelle asiatiche in genere. Per questo, quando lo stigma del razzismo è applicato solo agli occidentali, si dà corpo ad una grandissima ipocrisia. Diventa una sorta di razzismo alla rovescia. Se davvero si vuole la “correttezza” politica è necessario applicare gli stessi metri a tutte le situazioni, chiaramente avendo presenti le singole condizioni storiche.

Neppure si può imputare come colpa specifica ad Hedin di aver cinicamente e sconsideratamente sacrificato alcuni dei suoi compagni nel corso delle spedizioni. Certo, sosteneva che esiste una differenza tra “morale comune” e “morale geografica”, ed è facile capire cosa intendesse, e quale praticasse. Ma quella morale l’applicava prima di tutto a se stesso, e si poneva come parametro: esigendo moltissimo da sé, aveva di conseguenza aspettative esageratamente alte rispetto al comportamento degli altri. Intanto va detto che in ogni occasione Hedin si è premurato di incontrare e di risarcire almeno economicamente le famiglie dei suoi aiutanti più sfortunati (pratica che può apparire ovvia, ma che a quanto mi risulta era poco diffusa presso i suoi colleghi): e comunque nella storia delle esplorazioni e delle conquiste le cose hanno sempre funzionato così, da Alessandro Magno alle spedizioni alpinistiche più recenti. Il fatto che i suoi compagni di avventura (e di sventura) fossero sempre degli asiatici non rende diverso il suo operato da quello degli alpinisti che salgono oggi in Himalaya con gli sherpa e che un tempo salivano sulle Alpi con le guide valligiane.

Aggiungo che Hedin era tutt’altro che indifferente alla sorte dei suoi uomini. Tutto il sessantesimo capitolo di Transhimalaya è dedicato alla morte e ai funerali di Muhamed Isa, il suo fedele capo carovana stroncato da un colpo apoplettico, e da esso trapelano un dolore e una partecipazione tutt’altro che di circostanza, comunicati ai compagni con uno stringato e bellissimo discorso funebre. Il capitolo si conclude così: “Quando ho guardato fuori dalla mia tenda, i miei occhi sono stati attratti dalla tomba oscura sulla sua collina. Sembrava come se la tomba ci tenesse stretti, anche se desideravamo allontanarcene. Tutto era tetro e lugubre; ci è mancato Muhamed Isa, e la sua assenza ha causato un grande vuoto. Ma la vita va avanti, come al solito”.

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Spettacolarizzazione

A questo punto vorrei però fosse chiaro che non ho assunto la difesa d’ufficio di Hedin. Non sono mosso da quella simpatia immediata che nei confronti di altri personaggi mi ha indotto ad accettarne e minimizzarne limiti e difetti. Come già premesso, ho scoperto Hedin troppo tardi per farne un modello e sviluppare la voglia di emularlo. Per quanto ho capito dai suoi scritti non era solo ostinato e coraggioso sino all’incoscienza, ma era anche un vanesio ambiziosissimo, dotato di una buona dose di arroganza: tutti tratti caratteriali che in fondo non si contraddicono. Inoltre personifica perfettamente la transizione ad una età caratterizzata dal consumo e dallo spettacolo.

Hedin era un abilissimo venditore di se stesso: basta vedere gli innumerevoli ritratti fotografici che lo rappresentano bardato nelle fogge orientali più diverse, già pronti per diventare dei poster. È riuscito ad accreditare l’immagine di un esploratore solitario in un territorio inesplorato e ostile, quando in realtà era sempre accompagnato da un nugolo di assistenti, e batteva spesso zone che già erano conosciute, anche se non mappate. Ha sapientemente giocato nella sua narrazione sul “sensazionalismo”, combinando la descrizione scientifica della struttura e della fisionomia del paesaggio con le emozioni da questo indotte, lo stupore di fronte a panorami mozzafiato (“uno spettacolo che fa rimanere ammutoliti, così affascinante che quasi ci dimentichiamo di smontare”), la vertigine indotta dalle altitudini (“sembrava che il terreno solido fosse giunto al termine, lo spazio insondabile che si spalancava sotto e davanti a noi”), l’accelerazione cardiaca oltre una certa quota (“il cuore batte come dovesse scoppiare”), il gelo che aggredisce ogni parte del corpo (“prima che io abbia fatto la mia osservazione e guardato l’orologio, la mia mano sinistra è morta”). Racconta gli spazi con modalità quasi cinematografiche (d’altro canto, appena potrà, lo farà direttamente con la macchina da presa) e li rappresenta poi secondo il modello dei diorami scenografici, delle panoramiche a trecento sessanta gradi che erano state rese popolari da Albert Smith mezzo secolo prima con i suoi “spettacoli” alpini.

Era a tutti i titoli un imprenditore, costantemente a caccia di sponsor per le sue imprese, né più né meno come ogni alpinista o qualsiasi altro sportivo professionista odierno. E a tal fine coltivava tanto l’ambizione del “primato”, l’essere il primo ad avere visto certi luoghi (“orgoglioso e felice di sapere che sono il primo uomo bianco a penetrare in questo deserto”), calcato certe montagne, scoperto le tracce di antiche civiltà, quanto la sindrome del possesso: “La parte in cui mi trovo ora era sconosciuta, e ha aspettato la mia venuta per un milione di anni”. Oppure: “Sul passo Sur-La fui pervaso da un indescrivibile senso di soddisfazione. Mi sentivo un potente sovrano nel suo stesso paese”. In questo senso è stato anzi un anticipatore.

Sven o della solitudine 57Ma, detto questo, non posso negare che la lettura delle sue opere sia ancora affascinante, almeno per chi come me si nutrirebbe esclusivamente di diari e resoconti di viaggi. La sua “spettacolarizzazione della natura” non è solo ruffiana, mirata a giocare sull’economia emotiva dell’elevazione per creare scenografie degne delle imprese dell’eroe: deve invece molto alla lezione di Humboldt, che aveva introdotto un secolo prima la combinazione della descrizione razionale e scientifica con le esperienze del sublime, e insistito sulla necessità di guardare dall’alto il paesaggio per cogliere da un unico punto di vista le proporzioni e le strutture della natura. Il mondo per Humboldt è un insieme integrato, mosso da forze interne; la natura è collegata in una catena indissolubile. C’è insomma l’idea che tramite la vista dall’alto lo spazio diventa comprensibile, riconducibile ad un quadro razionale e, naturalmente, dominabile. Quando si aggira per le valli o nei deserti o nelle paludi Hedin confessa spesso di sentirsi come “in un labirinto senza speranza”, disegnato da montagne e attraversato da corsi d’acqua dei quali non si capisce l’origine e non si identifica il corso: ma una volta in alto tutto diventa chiaro, può “cogliere con un solo sguardo un enorme blocco di crosta terrestre”: “l’occhio raggiunge con la massima chiarezza le distanze estreme, solo l’orizzonte erige un confine per il visibile […]. L’intera terra giace ai miei piedi”.

E ancora: l’insistenza sui disagi e sui pericoli affrontati, la rarefazione dell’aria, le temperature atroci, le membra congelate, le tempeste di neve o di sabbia, la sete, la fame, la fatica, l’ostilità dei nativi, servono a marcare la sua distanza dai “geografi da poltrona o da salotto”. Ci tiene a sottolineare sarcasticamente che “raramente le scoperte geografiche vengono fatte a casa”, che lui ha lavorato tramite l’osservazione diretta sul posto, e che questa, oltre a procurare dati scientifici, induce anche una componente emotiva che sottrae la geografia all’aridità. È geografia anche il sudare, soffrire, conquistare, godere un panorama.

Insomma, anche se probabilmente non lo avrei voluto come compagno di avventura – un criterio di valutazione “a pelle” che è sempre stato mio, sin dall’infanzia –, al contrario ad esempio di un Humboldt, che pure era vanesio anche lui, ma molto onesto nell’attribuzione dei meriti e delle responsabilità, o di un Antonio Raimondi, o di un Carlo Vidua, tutto questo non mi impedisce di pensare che la “rimozione” di questo personaggio sia ingiustificata, senz’altro per quanto concerne lo specifico della storia delle esplorazioni, ma anche perché gli vanno riconosciuti altri pregi, a partire da quello della scrittura. Non mi sono mai stancato a leggere i suoi libri – e si tratta in genere di tomi poderosi – soprattutto perché mi sono abituato a riconoscere in essi una sotterranea ironia, che emerge sporadicamente: non quella inglese, voluta e calcolata, ma quella spontanea dettata dalla stranezza di certe situazioni e di certi rapporti. Mi riferisco ad esempio a dialoghi come questo, che si svolge tra Hedin e il suo assistente mentre navigano col battello portatile sul lago Manasarowar:

“Ci aspetta una tempesta”, dissi piano.

“Allah è vicino a noi”, rispose Shukkur Ali altrettanto calmo.

“Rema e arriveremo prima che le onde siano alte.”

“Se giriamo direttamente verso la riva, Allah sarà più vicino”, suggerì Shukkur Ali.

“No invece, non cambieremo rotta, andremo dritti alla nostra meta. “

In quattro battute è riassunta la dinamica di un sodalizio non paritario, e tutto il mondo che sta alle spalle dei due protagonisti: ma anche la calma, di fronte al pericolo imminente, che li unisce.

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Solitudine e sensibilità

L’altro aspetto per il quale tutto sommato il personaggio Hedin, se pure non mi appassiona, certamente mi intriga, sta nel senso di solitudine profonda che traspare dalla sua narrazione. La coazione a fare, camminare, misurare, esplorare, non sembra essere volta solo a riempire degli spazi bianchi geografici, ma anche a sopire una sensazione di vuoto interna, proveniente da aree deserte dell’anima e scaricabile solo cancellando quelle delle mappe. In realtà avviene esattamente l’opposto. Ogni volta che si sofferma, e lo fa spesso, a meditare sul senso di ciò che sta facendo, ha un attimo di smarrimento, che soffoca subito evocando sia le vertigini, gli stupori, le eccitazioni legate alla scoperta che le trepidazioni adrenaliniche provocate dagli imprevisti, ma anche le soddisfazioni legate alla fama, ai riconoscimenti: e tuttavia, a dispetto della volontà di offrire di sé un’immagine scolpita nella roccia, incrollabile e padrona costantemente della situazione, quello smarrimento, quel dubbio rimangono nel profondo, pronti a riemergere. Forse questo lato del carattere di Hedin lo scorgo solo io, forse voglio sentire un po’ più umano uno che ha studiato per tutta la vita da superuomo: ma insomma, questa è l’impressione che Hedin mi ha trasmesso.

A convalidarla è anche il rapporto che Hedin ha con gli animali che lo accompagnano nelle sue avventure. Propongo due esempi, tratti sempre da Transhimalaya. “Tre animali erano spariti e uno di loro era il mio piccolo cavallo Ladaki bianco. Aveva lottato fino alla cima del passo, dove mi ero seduto a guardarlo invano, e poi si era sdraiato a morire. Mi aveva servito e portato fedelmente e pazientemente per un anno e mezzo, e fin dall’inizio non era mai mancato dal campeggio, e ora che l’ultimo dei veterani se n’era andato mi sentivo molto solo. Durante tutto il viaggio non aveva mai raggiunto un punto più alto di quello in cui morì; proprio sulla sella del passo le sue ossa sarebbero state sbiancate dalle tempeste invernali e dal sole estivo.

Sven o della solitudine 59Il mio fidato amico, il grande e peloso Takkar, mi guarda con occhi interrogativi. Non ama le ghirlande profumate dell’estate né la zona variegata dei prati. Ricorda la vita libera nelle pianure aperte, gli mancano i combattimenti con i lupi del deserto e sogna la terra delle tempeste di neve eterne. Un giorno lo vedemmo bere a una sorgente che versava la sua acqua lungo il sentiero, e poi sdraiarsi all’ombra fresca della foresta. L’aveva fatto tante volte prima, ma non dovremmo mai vederlo ripeterlo. Si voltò e galoppò verso il solitario Tibet. Si separò con dolore nel cuore dal suo vecchio padrone, lo sapevo … Ricevo ancora di tanto in tanto, tramite il signor Marx, saluti dal vecchio Takkar, che ha difeso così fedelmente la mia tenda quando ho viaggiato sotto mentite spoglie attraverso il suo paese”.

Aggiungo ancora un di paio di brevi considerazioni: una a tema storico, o se vogliamo di costume, e una di carattere personale.

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Omosessualità

La prima riguarda l’omosessualità di Hedin. e parte da un’affermazione che ho trovato su un sito polacco: “Hedin era omosessuale, condizione che anche in quella Svezia che oggi è all’avanguardia in fatto di diritti civili, all’epoca non era accettata”. Non era così solo in Svezia: si pensi alle vicissitudini del suo quasi contemporaneo Oscar Wilde, e di moltissimi altri meno famosi. Ma non è il tema dei diritti a interessarmi. Sono invece intrigato dal rapporto tra l’omosessualità e il viaggio, nello specifico quello di esplorazione. Tra le due cose parrebbe esserci una correlazione tutt’altro che casuale. Una gran parte degli esploratori o dei grandi viaggiatori di cui mi sono occupato o che semplicemente conosco è accomunata dalla condizione omosessuale, segnatamente nel diciannovesimo secolo e nella prima metè del ventesimo. Cito solo i primi nomi che mi vengono in mente, da Humboldt e Thesiger a T. H. Lawrence, Robert Byron, Henry Savage Landor, Otto Rahn, Ernst Schäfer, Bruce Chatwin, Norman Douglas, ecc…, ma anche a Freya Stark, a Ella Maillart, a Isabelle Ebherart. In percentuale, direi che siamo oltre la metà: e questo perché l’orientamento sessuale non è una variabile di scarso rilievo nella scelta di questo tipo di esperienze.

Il tema meriterebbe di essere approfondito, perché stranamente non sono a conoscenza di alcuno studio specifico, nemmeno parziale. Ma non è questa la sede. Mi limito invece a proporre la spiegazione più semplice e più immediata che mi sono dato del fenomeno. Questi uomini e queste donne cercavano senz’altro luoghi dove esprimere liberamente la propria sessualità e non essere costretti costantemente a simulare o a rinnegare i propri sentimenti, dove la loro attitudine e i loro atteggiamenti non fossero stigmatizzati o sanzionati: ma in primo luogo penso volessero allontanarsi da casa, e che a muoverli fosse spesso, oltre il desiderio di respirare un’aria meno soffocante, la paura di recare discredito alle famiglie.

Era senz’altro il caso di Humboldt, e credo lo stesso sia stato per Hedin. Per questo, anche in giro per il mondo hanno scelto la discrezione più totale. Del primo ho già ampiamente parlato, e rimando quindi al mio Humboldt controcorrente. Nel caso di Hedin però l’ermetica riservatezza del comportamento sessuale aveva anche una motivazione ulteriore, la difesa dell’enorme popolarità e dell’immagine di una virilità superiore che si era andata costruendo, soprattutto in Germania: nel Terzo Reich l’omosessualità comune era perseguita alla pari dell’ebraicità (con la quale veniva posta in correlazione, sfruttando il fatto che i suoi difensori erano soprattutto personaggi di origine ebraica come Magnus Hirschfield – fondatore durante il periodo di Weimar dell’Istituto per la ricerca sessuale). Questo mentre paradossalmente le elites nazionalsocialiste propugnavano l’Eros intervirile di von Liebenfels, un rapporto omoerotico con finalità iniziatiche e pedagogiche.

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Infine

Da ultima, un’impressione estemporanea. Quando ho letto per la prima volta Hedin, molto tardi, ho avuto l’impressione di averlo già conosciuto in precedenza. E in effetti l’avevo già incontrato sotto altre spoglie in diverse occasioni. Senz’altro nelle avventure di Tintin (il fantastico Tintin in Tibet) e di Gim Toro, nei libri di Salgari e in quelli di Rider Haggard e di Kipling, e più recentemente nei film di Indiana Jones. Era l’eroe archetipico nella sua versione più recente, un impasto di romanticismo e positivismo scientifico, sprezzante del rischio, consacrato ad un ideale superiore di conoscenza e di autoaffermazione, ma con molte concessioni alla nuova cultura popolare del consumo mediato e immediato di emozioni: ma di quella stirpe Hedin era anche l’ultimo discendente. La sua storia è quella di un mondo che ha cessato di esistere, e non solo perché le moderne tecnologie satellitari sono in grado di mappare dettagliatamente ogni angolo del pianeta. Ha cessato di esistere perché di quelle conoscenze, al di là del loro utilizzo a fini militari o economici, non importa più nulla a nessuno.

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Indicazioni bibliografiche

Libri di Sven Hedin

Il lago errante – Cierre, 1994

La strada della seta – Iduna, 2021

Dalla Persia all’India – Treves, 1912

Transhimalaya – MacMillan And Co., 1910

From Pole to Pole – Jazzybee Verlag, 2023

My Life as an Explorer – Greenpoint Books, 2022

Biografie di Sven Hedin

De Martino, Marcello – Nel cuore dell’Asia – Agorà 2023

Libri contenenti passi su Sven Hedin

Clark, Ronald, W. – La conquista del pianeta terra – Mondadori 1964

Handbury-Tenison, R. – I settanta grandi viaggi della storia – Logos, 2008

Dainelli, Giotto – La conquista della terra – UTET, 1954

Hale, Cristopher – La crociata di Himmler – Garzanti, 2006

Herrmann, Paul – Sulle vie dell’ignoto – Martello, 1961

Hopkirk, Peter – Diavoli stranieri sulla via della seta – Adelphi, 2006

Hopkirk, Peter –Il grande gioco – Adelphi, 2006

Newby, Eric – Il grande libro delle esplorazioni – Vallardi, 1976

Novaresio, Paolo – Uomini verso l’ignoto – White Star, 1991

Wright, H. – Rapport, S.– I grandi esploratori – Le Maschere, 1957

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[1] La Vega, una baleniera attrezzata a rompighiaccio, sulla quale era imbarcato come ufficiale anche l’acquese Giacomo Bove, impiegò quasi quattordici mesi per raggiungere Yokohama sulla rotta di nord-est partendo da Göteborg, dopo essere rimasta imprigionata nel pack per dieci mesi nello stretto di Bering,

[2] Ferdinand Von Richtofen è un innovatore della scienza geografica, nella quale fa rientrare anche gli aspetti storici, antropologici e culturali di un territorio. Questo rinnovamento è esemplificato soprattutto dal suo voluminoso studio sulla Cina, nell’ambito del quale conia il termine di “via della seta”. È tra l’altro zio del famoso aviatore ed eroe della Prima guerra mondiale Manfred von Richtofen, noto come “Barone rosso”.

[3] Schäfer dirige durante la guerra l’Istituto di Ricerche Centroasiatiche intitolato allo stesso Hedin, che compie esperimenti pseudo-scientifici sugli internati del campo di Auschwitz.

Viaggiando in rimoti paesi

Carlo Vidua e il destino della Virtù

Viaggiando in rimoti paesi copertina Quadernodi Paolo Repetto, 6 maggio 2023, vedi il Quaderno

Introduzione

Un’educazione casalese

I primi viaggi

Romantico controvoglia

Dalla Lapponia all’Equatore

Nella culla della civiltà europea

In America!

Verso ovest e verso sud

Nell’Estremo Oriente

Morire nelle isole della Sonda

Sulle consonanze

Una bibliografia commentata

Viaggiando in rimoti paesi 02

Introduzione

Un uomo che logorò la sua vita
viaggiando in rimoti paesi,
e morì nell’Oceanica.
(Vincenzo Gioberti a Pier Luigi Pinelli, 1834)

Leggetelo. È il libro di un saggio;
un po’ arretrato, come me.
(Gino Capponi a Niccolò Tommaseo, 1834)

Non ho un buon rapporto col Romanticismo italiano. Forse perché un autentico Romanticismo in Italia non c’è mai stato, e coloro che più gli si avvicinano in realtà ne hanno preso le distanze: Leopardi vale per tutti, e Manzoni è quanto di meno romantico riesca ad immaginare. Dal momento però che non può essere applicata al fenomeno una denominazione di origine controllata, ma soprattutto che le mie idiosincrasie non interessano giustamente a nessuno, mi limito a dire che come tutti i prodotti culturali d’importazione il Romanticismo è stato recepito da noi con le cautele e i distinguo e le ammortizzazioni del caso (vedi appunto Manzoni), sino a farne un’altra cosa, oppure si è ridotto ad una serie di dignitosissime cover degli originali nordici (vedi Berchet o D’Azeglio). Il che, intendiamoci, per quanto mi riguarda non implica alcun giudizio negativo o riduttivo: se I promessi sposi fosse stato scritto in uno stile più autenticamente romantico ne sarebbe uscito un feuilleton o una telenovela. Che poi mi ci riconosca o meno, è un altro discorso.

Eppure, a volerlo cercare, qualcuno che interpreta appieno quello spirito (per come, appunto, lo intendo io), negli intenti, nella pratica e purtroppo anche negli esiti, lo si trova. Personalmente l’ho trovato nella figura di Carlo Vidua, che ho incontrato troppo tardi perché potesse entrare nel mio ristrettissimo Pantheon, ma che si è senz’altro guadagnato il diritto di non finire nell’armadio degli accumuli inutili. Se proprio volessimo classificarlo entro gli schemi canonici, Vidua potrebbe essere ascritto alla scuola tedesca, a dispetto del fatto che la sua lingua madre fosse praticamente il francese: è apparentabile per molti più versi a Goethe e ad Alexander von Humboldt che a Chateaubriand (che pure amava particolarmente) e a Lamartine (che non amava affatto). Col che, chiudo le etichettature e passo al nostro protagonista.

La vita di Vidua è un emozionante romanzo di vagabondaggio, e proprio di questo voglio raccontare, del fuoco che ardeva nei suoi polpacci (e che fuor di metafora letteralmente glieli bruciò): cercando tuttavia di non trascurarne gli aspetti e gli interessi meno “avventurosi”, quelli che ardevano nella sua mente, a partire dalla politica (intesa in senso “globale”) sino alla linguistica, all’archeologia e alla musica. Nei limiti di questa breve presentazione cercherò dunque di dare spazio anche ad essi, anticipando, quando mi parrà il caso, quelle che dovrebbero essere considerazioni conclusive. Insomma, si sarà già capito che proverò a documentare il più possibile il Vidua “autentico”, ma che ne uscirà soprattutto l’idea che di Vidua mi sono fatto.

Viaggiando in rimoti paesi 03

Un’educazione casalese

Carlo Vidua nasce conte di Conzano, paesino a metà strada tra Alessandria e Casale Monferrato, nel 1785. Tanto per “contestualizzarlo”, nasce lo stesso anno di Manzoni (li separa una settimana). Troppo tardi dunque per partecipare, anche solo emotivamente, all’infervoramento per la rivoluzione e agli umori contrastanti del periodo napoleonico, e troppo presto per vivere con ardore giovanile i primi moti carbonari. Diciamo che arriva giusto in tempo a beccarsi in pieno l’ondata reazionaria.

Si spiega così quello che potrebbe apparire un suo “disimpegno”: Vidua non è disimpegnato, è piuttosto un “non allineato”, che non si riconosce in alcuno dei modelli politici del suo tempo. È invece intrigato dalla loro varietà, quella che va emergendo mano a mano che gli orizzonti europei si allargano e nuovi popoli e nuove istituzioni si affacciano alla ribalta. Inoltre è un provinciale, e come Leopardi vive tutta la giovinezza lontano dai grandi centri dove la politica la si fa e la cultura ha i suoi luoghi deputati: cosa che in genere, e alla sua epoca ancor più, concorre a far vedere le cose con maggiore distacco (e, oserei dire, anche con maggior chiarezza).

Sempre come Leopardi, ha un padre convinto legittimista, col quale lo scontro è inevitabile, anche se per motivi che poco hanno a vedere con le opinioni politiche. Pio Vidua è un conservatore prudente, che ha evitato di compromettersi col bonapartismo ma anche di rovinare i propri interessi opponendoglisi apertamente, e che ottiene nel 1814 la nomina a ministro degli Interni nel primo gabinetto della restaurata monarchia sabauda per meriti puramente cortigiani. Non si segnala per spirito d’iniziativa o per particolari capacità politiche: è solo un passatista arroccato in difesa del prestigio e del rango del proprio casato. Per questo si opporrà sempre testardamente alle ambizioni e alla natura dell’unico figlio maschio, dal quale si attende solo la continuità della stirpe. Fino a quando gli è possibile ne condiziona quindi pesantemente le scelte, costringendolo a studiare privatamente con precettori religiosi (non gli consente nemmeno di iscriversi all’università e gli compera una laurea vaticana) e a tenersi lontano dagli ambienti “pericolosi”. Con tutto ciò, credo che quest’uomo abbia amato sinceramente, anche al netto delle motivazioni dinastiche, un figlio che ai suoi occhi pareva cercare ogni maniera e ogni pretesto per scontentarlo.

Da parte sua il giovane Vidua non riuscirà mai ad emanciparsi del tutto dalla soggezione filiale: anche se da un certo punto in avanti farà ciò che vuole, arrivando sino alla rottura insanabile, vivrà sempre la propria ribellione con un pesante senso di colpa. Continuerà a considerare sino all’ultimo il padre il suo principale interlocutore (delle 286 lettere di Carlo raccolte e pubblicate da Cesare Balbo la metà sono indirizzate a lui), e cercherà costantemente di rabbonirlo e consolarlo informandolo degli incontri con le massime personalità e autorità in ogni angolo del globo, del rispetto portato al suo nome e di come in fondo egli stesso contribuisca a farlo conoscere nel mondo e ad onorarlo. E comunque, quanto alle restrizioni impostegli in gioventù, il giovane patrizio ne fa buon uso, perché oltre che nelle lettere e nel diritto si impratichisce nel disegno e nella musica, e si sfoga con la scherma, l’equitazione e la danza.

Diversamente da Manzoni, Carlo non ha una madre (l’ha persa a quattro anni) che gli spalanchi le porte dei circoli intellettuali più avanzati. Ha in compenso un nonno materno che è stato un grande viaggiatore, dal quale eredita la passione, sia per via genetica che attraverso le rievocazioni serali (ed erediterà poi anche i mezzi per coltivarla). Lui stesso racconta che ancora molto piccolo, avendo udito un giorno il nonno narrare degli antipodi che abitano l’altra faccia della terra, aveva cominciato a scavare in giardino per andare a conoscerli. Credo che questo episodio, se anche fosse inventato, aiuti a capire per quale motivo Carlo rimanga tutto sommato estraneo al movimento patriottico e costituzionalista nel quale saranno coinvolti tutti i suoi migliori amici: nutre una conservatrice diffidenza nei confronti delle cospirazioni carbonare, ma soprattutto ha orizzonti e ambizioni più vasti.

Queste ultime le manifesta sin dalla giovane età. La matrigna Elisabetta, attenta ai sentimenti del ragazzo indubbiamente molto più del padre, scrive che “covava un fuoco segreto sin dall’età di otto anni e solo l’affliggeva il pensiero di non aver forse l’ingegno da farlo”. Un ritratto perfetto dell’animo di Carlo. Un ritratto che torna a più riprese nel diario e nelle lettere di quest’ultimo: “Se non sono gettato in un tourbillon io non farò mai e poi mai niente […] io, a venticinque, ventisei anni, voglio qualcosa di buono o nulla”. E continuerà a ribadirle (e a rimpiangerle), sino all’ultimo: “Ho tardato troppo, ho dilungato, nulla lascio di finito, e questa fama che sarà od è vanità, ma il cui desiderio mi animò tutta la vita, non la potrò conseguire fuor di pochi amici o parenti che in quarant’anni saran finiti, nessuno saprà che ho esistito” scriverà poco prima di morire.

Dunque: dobbiamo immaginare un’infanzia e un’adolescenza tutt’altro che libere e spensierate, ma in realtà molto meno oppressive di quanto a posteriori Carlo le ricordi (arriva a definire a più riprese la villa di Conzano “un carcere”). Più di una volta, mentre sta dall’altra parte del globo, gli capiterà di confrontare i paesaggi e le atmosfere con quelli della sua adolescenza monferrina, di trovare questi ultimi sempre superiori e di provare nostalgia per il grande giardino e per le cavalcate e le passeggiate, anche notturne, nelle “selve” e sulle colline tra Casale ed Asti (“Malgrado la presenza di briganti e ladri”, sottolinea). Queste “uscite” sono già una manifestazione dello spirito avventuroso e un po’ avventato che lo caratterizzerà, nonché di una propensione al protagonismo, e sono comprensibilmente viste con una certa apprensione in famiglia. La sorella, in una lettera alla nonna, scrive: “Sapevo già, cara nonna, delle scappate che il nostro giovanotto ha fatto quest’inverno, da un lato ne ho piacere, perché il movimento e le scappate con qualche amico gli sono necessarie e giovano alla sua salute, poi se lui prende le cose sempre in maniera un po’ eccessiva mi pare lo si possa perdonare a causa della sua età, tutti i giovani sono così”. A quanto pare, così prigioniero poi non era.

La nostalgia per l’aria di casa è tuttavia ogni volta smentita, non appena rimette piede nel regno di Sardegna. Non lo infastidisce solo la pressione dei familiari, ma tutto il vuoto apparato di convenzioni nel quale la classe cui appartiene si muove, quelle che lui stesso definisce “coglionerie”. “La mia solita felicità mi abbandona solo quando voglio fare ritorno in Piemonte; pare, che qualche genio me ne volesse allontanare per forza. Se fossi ai tempi degli antichi greci crederei che v’è una divinità nemica che mi caccia lungi dal Piemonte, come Ulisse lungi da Itaca.”

Se si escludono comunque pochi casi, ad esempio quello di Foscolo, la sua educazione non è diversa da quella dei giovinetti suoi contemporanei di condizione nobiliare o agiata. Ed è comprensibile che nei ritagli di libertà dagli impegni di studio e dai rituali domestici il ragazzo abbia cercato di evadere a piedi o a cavallo nei dintorni, e almeno con la mente negli spazi più remoti. Con la differenza, rispetto agli altri, che di là non è poi più rientrato.

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Da Casale Monferrato, dov’è cresciuto, Carlo si trasferisce poco prima dei vent’anni con la famiglia a Torino. Lì frequenta i circoli letterari e politici “che contano”, stringendo amicizia particolarmente con Cesare Balbo, futuro patriota, ideologo (Le speranze d’Italia), storico e primo ministro del regno di Sardegna, nonché suo primo biografo. Con Balbo e coi rampolli di altre famiglie dell’aristocrazia torinese fonda un sodalizio (la Società dei Concordi), avente come scopo niente meno che il riscatto dell’Italia dal ritardo culturale in cui giace, e in particolare dalla soggezione, non solo politica, nei confronti degli occupanti francesi. Nel gruppo Vidua (che ha assunto il soprannome de “L’allungato”) mantiene una posizione defilata: da un lato è senz’altro una figura di riferimento, per la sua intelligenza e la sua erudizione, e anche per sua alfieriana intransigenza: dall’altro si riconosce solo sino ad un certo punto negli scopi della società, sia per una spiccata tendenza all’individualismo, sia perché convinto che occorra guardare oltre gli angusti confini della patria. La sua smania di viaggiare non sempre è compresa dagli altri affiliati, e questo creerà col tempo una crescente distanza.

Lo disturba anche il fatto che alcuni di loro ad un certo punto scendano a patti con quello che egli considera un invasore e un despota. Balbo stesso ad esempio accetta incarichi nell’amministrazione napoleonica a Firenze, e Carlo non esita a rinfacciarglielo. “Oserai tu entrare nella chiesa di Santa Croce? Non temerai l’ombre di quei grandi?” Quanto ad un personale impegno nella politica però è molto restio. Le sue simpatie vanno all’ala più liberale del movimento patriottico piemontese, impersonata da Santorre di Santarosa, piuttosto che a quella moderata facente capo a Balbo: ma nella sostanza, poi, dei destini politici del Piemonte gli importa solo fino ad un certo punto. Lo dimostra anche la scelta dei temi dai lui proposti e trattati nel corso delle adunanze dei Concordi: Pensieri sulla Gloria; Sopra il destino della Virtù; Sull’oblio in cui sono caduti alcuni uomini grandi, ecc…. La dimensione nella quale vuole dare senso e visibilità alla sua esistenza è ben altra.

Oltre a quella per i viaggi, la sua grande passione sono i libri. È un raffinato bibliofilo, ma non è mosso dal puro istinto collezionistico: la sua bibliofilia è sin dall’inizio finalizzata al disegno che va concependo. Dovunque arrivi si procura ogni possibile documento su qualsivoglia aspetto della vita politica, sociale, economica e culturale del paese, e spedisce poi il tutto in patria: nel corso dell’esperienza americana raccoglierà ad esempio oltre milletrecento volumi. Nelle lettere agli amici e ai famigliari ricorre costante l’ansia per le casse zeppe di scritti, oggetti d’arte, cimeli storici, inviate dai luoghi più impensati.

È anche un lettore appassionato e vorace, che rivendica e mantiene una forte autonomia di giudizio rispetto a quanto legge. È significativo, ad esempio, che sia un grande ammiratore dell’intelligenza di Joseph de Maistre, ma che non condivida affatto le idee espresse dal conte savoiardo ne Le serate di San Pietroburgo. O che adori le tragedie alfieriane, ma non esiti a deprecarne gli accenti anti-gerarchici e anti-religiosi. E lo stesso vale per l’Ortis.

Le sue letture sono sterminate: nella prima gioventù si nutre naturalmente, oltre che di Alfieri e di Foscolo, di Chateaubriand ma anche di Vico, dei classici della storiografia italiani e latini, degli illuministi francesi (e un po’ più tardi, quando avrà acquisito una sufficiente padronanza linguistica da quelli inglesi): in seguito si volgerà sempre più specificamente ad opere legate alle mete dei suoi viaggi, per preparare questi ultimi e per poi commentarli. Humboldt, naturalmente, e Ferguson, Gibbon, Montesquieu, Robertson, De Las Casas, ecc…

Come ho già accennato, tra i suoi amori c’è anche la musica. Questo gli è stato trasmesso soprattutto dalla nonna materna, ma in famiglia sono tutti appassionati, compreso il padre. È un ottimo esecutore, oltre che un discreto compositore. Scrive di lui Cesare Balbo: “Studiò la musica su varii strumenti e principalmente sul cembalo. Fece progressi grandi nell’ esecuzione e nell’accompagnamento, e tali poi nella composizione che non solo la musica sua corse il paese e l’Italia, ma egli ebbe il piacere navigando molti anni appresso tra i mari di Grecia d’udir risonare le sue melodie in quei climi così propizi”. Magari Balbo enfatizza un po’, ma pare davvero che il Vidua cembalista riscuotesse un gran successo nei palazzi e alle corti frequentati durante i suoi viaggi. Senza dubbio usava anche la musica come passepartout per entrare in confidenza con gli interlocutori che lo interessavano.

Viaggiando in rimoti paesi 05E sempre a proposito di amori, poco o nulla si sa di una sua vita sentimentale “attiva”. Il giovanile accenno ad una fanciulla morta prematuramente (che si chiamava Teresa, come la Teresa Fattorini di A Silvia) è molto generico, e più che da un moto di commozione sincera sembra dettato dalla moda romantico-sepolcrale dell’epoca: “Io mirava quei flutti: e come l’onda, mio dicevo tra me stesso, che vedo trascorrere e confondersi, ratto così passò la gentile donzella, e già sta per confondersi, o si confonde il suo nome nella notte del tempo, e le sue belle forme tra le altre ceneri del sepolcro […]” . Più tardi ironizza sul fatto che gli sia stato attribuito un innamoramento per una “ninfa sestrina”, chiarendo che: “Nessuna donna possiederà mai una parte del mio cuore. Conviene che questo sesso sia al servizio del nostro divertimento e delle nostre necessità, non che sconvolga l’anima”. Il che lo escluderebbe da ogni sospetto di romanticismo, e parrebbe condannarlo all’aridità sentimentale. Anche se poi, quando arriva il tempo dei bilanci, sembra provare rimpianto quel flirt appena accennato: “[…] ricorderò con dolore di aver seguito i tuoi suggerimenti, e di non aver tolto quella ninfa sestrina di cui nel 1813 ti feci già una sì vantaggiosa descrizione”.

In verità, l’ostinata resistenza che Vidua oppone al destino matrimoniale impostogli dal padre e dagli obblighi del suo status viene sempre da lui stesso intesa come una scelta non definitiva. “La sola ragione che mi indurrebbe ad abbandonare la libertà, che tanto apprezzo, sarebbe consolare mio padre che moltissimo rispetto, e che amo. Vedo dunque che alla fine per compiacerlo, finirò per rinunziare al genere di vita indipendente che finora ho goduto.” La sua opposizione non è ideologica, ma strategica. Ha pianificato la propria esistenza in funzione di un’opera che ne eterni la memoria, e questa opera suppone una conoscenza che può essere acquisita solo attraverso i viaggi. La passione per i viaggi, che in un’ottica del genere diventa strumentale, è tale che tutto di fronte ad essa passa in second’ordine. È l’unica cosa per la quale valga la pena ribellarsi e difendere le proprie scelte, e va vissuta sin a quando si regge. “Io voglio preparare alla mia età matura meno regrets che possa. Ne avrei certo se mi maritassi senza compiere il corso dei miei viaggi.” Una volta appagata – e l’appagamento può venire solo dall’aver completato il giro del mondo e dall’aver conosciuto tutte le civiltà possibili – al resto ci si può adattare di buon grado.

Può anzi essere la condizione indispensabile per tirare le somme e dedicarsi finalmente alla scrittura: “Ma per tutto questo ci vorrebbe tempo, tranquillità, ritiro e compagnia, e in questo inclino al parer tuo, compagnia di una donna, che assorbendo a sé l’affetto, non lo lasciasse più divagare. Hai ragione, è tempo di stabilirsi.”

Non fosse per la smania di muoversi, Vidua potrebbe dunque essere il perfetto protagonista dei salotti romantici torinesi, e permettersi anche il brivido della cospirazione. Tutto questo però non lo soddisfa: “Molte cose ci sono in questo particolare degne di attenzione, che non si possono o malagevolmente apprender dai libri; onde è necessario vederle ove sono, osservare come vengono poste in uso e qual effetto ne procede, per questo motivo i viaggi potranno servire di strumento efficacissimo, onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”.

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I primi viaggi

Vallo però a spiegare al padre, che lo vorrebbe sposato e avviato ad una carriera amministrativa o politica di alto livello e che tiene ben stretti i cordoni della borsa. Di fatto Carlo riesce a sganciarsi e ad allontanarsi più spesso da casa solo dopo i venticinque anni, quando comincia a godere di una rendita propria. “Io era dunque così sovranamente stufo di non far niente, di non avere nessuno scopo nella mia vita, così annoiato, senza alcuna speranza nemmeno di poter viaggiare stanti le difficoltà di mio padre, che mi saltò l’idea di partire da Torino, andare in qualche città lontana […].” Lo fa viaggiando nel 1810 per la prima volta fuori d’Italia, in terra francese, compiendo una sorta di pellegrinaggio nei luoghi petrarcheschi. Si porta dietro tutti i suoi pregiudizi nei confronti della patria del giacobinismo (“Più vedo questa Francia e più mi insuperbisco di essere nato italiano.”), pregiudizi che conserverà per tutta la vita, ma matura per Petrarca una vera adorazione. E soprattutto ha la conferma che il suo futuro non può essere che nel viaggio: “Trovo che l’agitazione dei viaggi, il moto, il cambiamento di oggetti, la varietà dei naturali e dei costumi delle persone che vi si incontrano, innalzano l’animo, fanno nascere delle riflessioni, vi tolgono molti pregiudizi e maniere di pensare, vi danno dell’esperienza di mondo, vi accostumano a parlar bene”. E infatti al rientro intraprende subito un lungo giro per l’Italia centrale. Percorre a cavallo tutta la Toscana e buona parte dell’Umbria, riempiendosi gli occhi di arte e di natura e il cuore di emozioni: ad esempio davanti alle selve di abeti di Vallombrosa, che “fanno parer vere le selve incantate dell’Ariosto”. Naturalmente tutto questo, anziché appagarlo, gli alimenta una irrequietudine e una voglia di fuga sempre maggiori.

È costretto però ancora per qualche tempo a mordere il freno, anche se ormai il bisogno di muoversi è diventato quasi un’ossessione: “Se non esco da quel circolo di Casale, Conzano e Torino languirò eternamente senza far nulla di buono”. Il primo vero strappo con la famiglia avviene nel 1813: dopo un lungo soggiorno in Liguria (dove conosce la “ninfa sestrina”, e tra una camminata e una cavalcata lavora a una storia di Firenze – poi perduta), alla fine dell’anno torna in Francia, passando per Ginevra e raggiungendo questa volta Parigi, in tempo per assistere alla caduta di Napoleone e all’occupazione della città da parte degli Alleati. La cosa non lo emoziona più di tanto, non ne parla quasi. Si potrebbe manzonianamente dire che “di mille voci al sonito / mista la sua non ha”. Si limita a commentare: “Quantunque questi avvenimenti siano degni di memoria, nondimeno se fossi io un Tacito preferirei a tutti gli argomenti e le scene che presentano quei giorni quello della condotta e dei sentimenti della nazione vinta; io non ne fui mai gran cosa ammiratore. Chi non è stato in Francia non può ben apprezzare, e poi chi non li ha veduti in questa occasione non può non conoscere in tutta la sua estensione quel misto di leggerezza e di eccesso, di sedizioso e di pieghevole, che non ne fa un popolo unico”. Col che, i francesi sono sistemati.

Questa volta ha deciso l’itinerario autonomamente, all’insaputa della famiglia (anche se di fronte al fatto compiuto il padre provvederà a finanziargli parte delle spese). E ne approfitta. Infatti non rientra, ma durante l’estate del 1814 si sposta in Inghilterra e in Irlanda, e passa poi in Scozia. Oltremanica constata i primi effetti della rivoluzione industriale sul paesaggio, sulle tradizioni, sui costumi e sui caratteri, e ne è disgustato. “Quel che non si sente più è la voce del Bardo. Né più si incontra la dolce ospitalità né la valorosa ferocia. Grazie a quelle malnate novità si sono aperte per ogni dove delle nuove strade, si sono costruiti dei ponti, si tagliarono i boschi. Invece dei famosi guerrieri si ritrovano dei grossi mercanti accorti nel loro interesse […].” In un viaggio successivo sarà invece positivamente colpito dalle istituzioni anglosassoni, soprattutto dopo aver assistito alla sobrietà di una seduta parlamentare. Per ora rientra infine attraverso Belgio e Olanda, ripassando nuovamente per Parigi e rinnovando il suo giudizio negativo.

Nel frattempo è assai cresciuto, e non solo intellettualmente. La descrizione fattane da un corregionale che lo ha incontrato a Parigi nel 1814 ci offre un sembiante ben diverso da quello rimandato dai suoi unici due ritratti esistenti. “[…] grandissimo di statura, ma cotanto magro che di più nol potea essere. La di lui fisionomia era veramente brutta, la pelle giallognola, la bocca squarciata, mostrando denti e gengive in pessimo stato, dimesso assai nel vestire, gonzo nel camminare e vi si aggiungeva la vista breve […]. Ma allorché parlava, era tanta la sua istruzione, tale la sua eloquenza, che tutto facea dimenticare l’orrido della sua presenza […]. Era erudito nelle lingue italiana, latina francese e inglese, e tutte le parlava con facilità e bella pronuncia. Era avido di apprendere le costumanze delle genti ove egli recavasi […].Era tutto originalità del modo suo di vedere e di giudicare […]. Al clavicembalo […] suonava con grande maestria e profonda espressione. Avea una voce perfida, ma la sapea modulare a cagionar diletto.”

Evidentemente i viaggi, soprattutto se affrontati come in questo caso con scarsità di mezzi, lasciano il segno. Sembra davvero il brutto anatroccolo: e il prosieguo del racconto, dove si parla di un suo brutale arresto a Le Havre per sospetto di spionaggio o di contrabbando, e di come il conte abbia atteso di essere portato davanti a un tribunale per palesare la sua identità e impartire una lezione di civismo alle autorità francesi, completa il quadro.

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Romantico controvoglia

La vera vita di Carlo Vidua, quella che a me interessa, comincia dunque proprio mentre si chiude in Europa la parentesi napoleonica. Non è solo una coincidenza. A chi come lui è assetato di gloria la cappa grigia della restaurazione chiude nel vecchio continente ogni orizzonte. Scrive a Cesare Balbo: “Credi tu che gl’istorici dei nostri tempi tra la folla dei nomi da tramandare ai posteri sceglieranno il mio? Mai no: fuori che una qualche circostanza rarissima attacchi il mio nome a qualche grandissimo avvenimento”. Cosa che oggettivamente non solo a Conzano, ma in tutto il Piemonte, per uno che oltretutto rifiuta di entrare nella guardia imperiale, è difficile attendersi. Per qualche tempo, tra il luglio 1815 e la primavera del 1818, torna dunque a muoversi tra Casale e Torino, mettendo mano anche alle osservazioni maturate nel primo viaggio; ma ha ormai chiaro ciò che vuole e già progetta mete lontane (nel mirino ci sono gli Stati Uniti, il Canada e l’America Latina). Coltiva pertanto le amicizie e le conoscenze che possono procurargli agganci e agevolare i suoi futuri spostamenti, si dedica alle studio delle lingue e delle storie, e comincia a maturare il disegno di una grande opera comparativa tra i vari sistemi politici di tutto il mondo, da fondarsi sull’esperienza diretta.

Con tutto questo non rimane estraneo al dibattito culturale acceso in Italia dal clima della Restaurazione, quello che contrappone i “classicisti” ai “romantici”. Vi partecipa anzi tempestivamente, stendendo nel 1816 (o forse già nel 1813) un discorso Dello stato delle cognizioni in Italia che anticipa non solo nei tempi, ma nei modi e nelle conclusioni, il leopardiano discorso Sullo stato presente dei costumi degli italiani, pubblicato otto anni dopo (nel 1824). Lo fa però a modo suo: sia perché sposta il discorso dal piano artistico-letterario e da quello politico all’analisi storico- antropologica, sia perché alla fine non pubblica il trattatello (che verrà dato alle stampe ad opera di Cesare Balbo solo dopo la sua morte, nel 1834).

Nel suo scritto Vidua imputa il ritardo accumulato dalla cultura italiana principalmente a tre fattori. Intanto la tendenza dei nostri intellettuali a oscillare tra l’imitazione pedissequa e idolatra dei classici, che si risolve in pura erudizione, e quella altrettanto acritica degli stranieri. Poi l’ignoranza diffusa tra le classi basse. A questo proposito più tardi scriverà: “Dobbiam confessare per nostra vergogna che in molte parti d’Europa e specialmente in Piemonte v’è molta minor proporzione di persone del popolo che sappian leggere che nelle Filippine e tra’ Cristiani delle Molucche”. Su questa ignoranza hanno fatto sempre leva le classi dominanti (nelle quali Vidua però non fa rientrare la Chiesa: le riconosce anzi una funzione civilizzatrice), usandola strumentalmente per il loro dominio, mentre “ormai la propagazione della lingua, la celebrità della letteratura, ed il vanto delle cognizioni sono divenute una maniera di acquistar reputazione, un titolo di gloria nazionale, uno strumento di potere”. Strumento da utilizzarsi nei confronti del popolo “ad addolcirne i costumi, ad affezionarlo alla patria e ad istruirlo nei rudimenti della religione, della lingua e dell’ agricoltura”.

Viaggiando in rimoti paesi 08Per intanto il primo dei problemi da affrontare è, secondo Vidua, l’assenza di una lingua comune, conseguenza di un desolante provincialismo: “Siamo più stranieri a noi stessi che agli altri: è cosa deplorevole che più differenza e opposizione di idee e di costumi vi sia tra l’una e l’altra delle nostre province e un’altra nazione europea o anche asiatica”. Questo nasce, oltre che dalle contingenze storiche (le diverse dominazioni che si sono susseguite sulla penisola), dal fatto che da noi la classe colta ha continuato testardamente e arrogantemente ad esprimersi in latino, salvo poi nel corso del Settecento volgersi al francese, allargando così sempre più la forbice culturale nei confronti degli altri ceti e non favorendo l’evoluzione dei diversi volgari verso un idioma comune. In realtà, gli esempi per la costruzione di una lingua condivisa esistono, arrivano da tutta la letteratura rinascimentale pre-barocca e possono costituire la base per mettere fine alle sterili dispute in difesa degli usi lessicali localistici. E una volta individuata la direzione, la lingua per Vidua deve essere difesa da un lato contro la “corruzione dei dialetti”, dall’altro dall’“infranciosamento”, dall’adozione di termini e costrutti stranieri che sono le crepe attraverso le quali si insinuano anche le perniciose idee d’oltralpe.

Ciò non implica assolutamente un atteggiamento di chiusura nei confronti delle culture straniere. Il ritardo nei loro confronti è evidente, e Vidua indica naturalmente come rimedio più efficace per ridurlo quello dei viaggi (citando tra l’altro come esempi proprio i fratelli Humboldt, un linguista e uno scienziato-viaggiatore): “Di due fratelli illustri in Prussica, un passava come ambasciatore dall’una ad altra corte d’Europa, mentre l’altro passava come dotto dall’una all’altra Cordigliera del Perù”.

Quanto alla mancata pubblicazione del suo piccolo trattato, Carlo la spiega poi in una lettera lamentando incertezze sullo stile e accampando la necessità di lasciar decantare lo scritto per qualche mese: ma la ragione vera è che ha altro per la testa. Ha superato i trent’anni, è uno spilungone alto più di un metro e novanta e in buona salute, possiede tutti i numeri e la preparazione di base per svolgere un lavoro scientifico serio, compresa la conoscenza di diverse lingue, antiche e moderne, sa conversare piacevolmente, perché sa porre le domande e soprattutto sa ascoltare le risposte, gode finalmente anche di una discreta indipendenza economica per aver ereditato dai nonni materni: non può perdere altro tempo rispetto ai suoi progetti. E, non ultimo, vuole sottrarsi il più possibile al controllo del padre.

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Dalla Lapponia all’Equatore

Per questo continua a scalpitare, e alla fine di aprile del 1818 s’incammina nuovamente per Parigi e Londra, questa volta in compagnia dell’amico Alessandro Doria e di un domestico, Leonardo. È riuscito “dopo qualche difficoltà” a strappare l’assenso del padre – o almeno così lui dice in una lettera alla matrigna, alla quale chiede ora sostegno, e non solo morale: “Il desiderio mio di istruirmi, di non perdere l’occasione di essere con un amico, i grandi vantaggi e per conto della sicurezza e anche pel caso di malattia che derivano dall’essere in buona compagnia, la considerazione che se ritardo ancora a viaggiare, aspetterei poi troppo tardi a maritarmi […] mi spinsero a partir subito ed a fare quanto era in me per non lasciar sfuggire questa opportunità. […]. Ma i viaggi lontani a farli con comodo e senza rischiar la salute esigono assai maggior spesa, a cui lo stato presente dei miei interessi non potrebbero forse bastare, laonde […] la prego volermi aiutare in questa circostanza … Se n’avrò i mezzi, l’idea mia sarebbe di fare tutto in una volta il giro di que’ paesi, che meritano esser veduti, onde poi tornare a casa tranquillo e stabilirmi”.

Dall’Inghilterra, dove si riconcilia se non col paesaggio almeno con la cultura giuridica e politica anglosassone, passa all’inizio dell’estate in Danimarca, e poi in Svezia. Assiste ad alcune udienze concesse dal sovrano ai rappresentanti dei diversi ceti popolari, e le trova decisamente istruttive. Risale quindi la penisola scandinava spingendosi sino alla Lapponia, dove soggiorna per un mese. Ha probabilmente in mente l’esperienza di Giuseppe Acerbi (all’epoca direttore de la Biblioteca Italiana, la rivista dei “classicisti”), che in Lapponia era stato negli anni 1798/99, e aveva poi raccontato i suoi viaggi in due fortunati volumi: ma non è escluso abbia notizia anche del Viaggio settentrionale di Francesco Negri, pubblicato più di un secolo prima. Raccoglie numerose notizie sulla demografia e sui costumi dei Sami, che affida al suo taccuino, e trova e annota le tracce dei viaggiatori che lo hanno preceduto.

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Ridiscende quindi attraverso la Finlandia sino a Pietroburgo (1 ottobre), dove è ricevuto persino dallo zar Alessandro I, e a Mosca, dove dimora per altri due mesi. Sin qui ha in pratica seguito l’itinerario del suo quasi concittadino Vittorio Alfieri, che all’epoca, assieme al Foscolo, è un po’ il modello di tutti i giovani italiani, e in specie dei piemontesi. La Russia, al contrario della Svezia, non gli piace granché: ma vi dimora comunque undici mesi e fa incetta di documenti e di incontri. E non ha nei confronti del dispotismo russo la stessa reazione sprezzante che era stata dell’Alfieri (che non aveva neppure voluto essere presentato a Caterina II).

A questo punto, mentre Doria rientra in Italia, Vidua prosegue per Novgorod e quindi verso il Caucaso. Il viaggio occupa la primavera e l’estate del 1819, e durante questi mesi il conte entra a contatto con Cosacchi, Circassi e Tartari, e partecipa anche alle loro attività di caccia. Per un certo periodo si ferma poi presso i Calmucchi, dei quali apprezza soprattutto i riti religiosi, le danze e la musica. Infine passa in Crimea.

Da Odessa attraversa dunque il Mar Nero e il primo di settembre è a Costantinopoli. Trova i turchi sgarbati ed insolenti, sospettosi e ostili nei confronti degli stranieri, per cui è necessario viaggiare sempre accompagnati da un giannizzero. In realtà ciò che maggiormente lo disturba è la difficoltà nel reperire quei piccoli tesori archeologici dei quali altrove fa man bassa. Lascia dunque la capitale ottomana e visita Smirne e le isole greche, e alla fine del 1819 approda in Egitto. Qui si fermerà per un anno, spingendosi nel corso di varie spedizioni lungo il Nilo sino alla seconda cateratta, nella Bassa Nubia.

Viaggiando in rimoti paesi 11Il trasferimento da Alessandria al Cairo è compiuto con una piccola carovana che consente di farci un’idea di come viaggia Vidua: è accompagnato da due arabi che conducono un cammello, un cavallo e due asini con i bagagli, mentre lui e il suo domestico Lorenzo viaggiano a loro volta a cavallo. Il bagaglio comprende una tenda, due letti, le vesti, la biancheria e le scarpe, i fucili e le pistole, più una batteria da cucina, i viveri e le bevande. Non è l’immagine classica (e romantica) dell’esploratore o del giramondo alla quale noi oggi siamo abituati, ma occorre considerare come all’epoca, e specialmente in quelle terre, non fosse facile trovare sistemazioni notturne e posti di ristoro. Non mancavano certamente gli avventurieri capaci di affrontare i deserti o le foreste africane armati solo del loro coraggio (vedi René Caille o, più tardi, Richard Burton), ma Vidua non è né un esploratore né un avventuriero, è un giovanotto di famiglia patrizia che ha scelto di compiere il suo Gran Tour, il suo viaggio iniziatico, fuori dell’Europa. L’equipaggiamento di cui sopra è comunque praticamente lo stesso col quale si muoveva nei medesimi luoghi, esattamente due secoli prima, un altro viaggiatore italiano, Pietro della Valle.

In Egitto dà la concreta dimostrazione di non essere un viaggiatore per diporto, ma uno studioso dotato di notevole intuito e di metodo nella ricerca. Lo testimonia l’egittologo Frédéric Caillaud, che condivide con lui un breve periodo di ricerca: “Durante il mio soggiorno al Cairo ho conosciuto un viaggiatore assai interessante, il conte Vidua di Torino, che era arrivato in Egitto dalla Lapponia: aveva già visitato i monumenti della Bassa Nubia, disegnato le piante di quei monumenti con la cura più scrupolosa, e usato la stessa esattezza nel copiare le iscrizioni […]. Eravamo insieme sulla via per Suez quando ho scoperto gli alberi pietrificati […]. Ho ascoltato i suoi racconti con viva curiosità, ed egli volle ascoltare con lo stesso interesse la narrazione dei miei viaggi”. Vidua visita appunto tutti maggiori siti storici, corredando i suoi appunti con disegni, e trascrive una serie di iscrizioni trovate all’interno del tempio di Abu Simbel (che pubblicherà dopo il ritorno, unica opera sua edita in vita). Il colpo da maestro è però l’acquisto a nome del governo sabaudo della collezione di antichità egizie raccolte da Bernardino Drovetti, un ex ufficiale napoleonico con l’animo dell’avventuriero e del saccheggiatore, che ha ammassato una quantità di reperti unica al mondo. Questo acquisto porrà le basi per la nascita del museo egizio di Torino, mentre la raccolta di iscrizioni lo farà conoscere a tutti gli studiosi della nascente egittologia, compreso Champoillon, che cercherà di associarlo alle sue ricerche.

Viaggiando in rimoti paesi 12Carlo Vidua non è però uomo da concentrarsi su un solo paese e votarsi a un unico campo di studi. Vuole lasciare la sua impronta un po’ in tutti. Intanto comincia col lasciarla concretamente. In Egitto, ad esempio, incide il proprio nome su tutti i monumenti visitati, tanto da guadagnarsi lo stigma negativo di Flaubert: “Leggiamo nei templi i nomi dei viaggiatori: mi sembra una vana piccineria. Ce ne sono che hanno richiesto tre giorni per essere incisi. Qualcuno si ritrova dappertutto, con una costanza di imbecillità sublime. C’è uno di nome Vidua, che non ci lascia mai […]”. In effetti, la cosa può riuscire fastidiosa: ma è chiaro che nel caso del nostro non è una imbecillità da turista, bensì quasi un marcare il territorio, e inviare un messaggio agli amici e ai posteri. Che a volte lo recepiscono: è già capitato a lui in Lapponia, e quando qualche anno dopo Santorre di Santarosa troverà su una colonna di un tempio di Atene il nome di Vidua, suo amico, inciderà accanto ad esso il proprio.

È comunque evidente che il viaggio non è più per lui solo lo “stromento efficacissimo onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”: quando fa incidere su uno dei colossi di Abu Simbel “Carlo Vidua Italiano qui venne dalla Lapponia” posa un mattone per un suo futuro monumento. E lo stesso fa quando racconta in termini “eroici” agli amici le proprie esperienze: “Ho sofferto il soffribile, otto giorni con acqua putrida nel mese di luglio sotto questo sole, tre giorni non avendo altro cibo, né bevanda che quattro meloni, trottar sui dromedari: infine ho voluto provare che cosa era un viaggio al deserto, e ne posso dire qualche cosa”.

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Nella culla della civiltà europea

Ad agosto del 1820 Vidua lascia l’Egitto e risale verso la Terrasanta. Qui compie il rituale pellegrinaggio a Nazareth, a Betlemme e al Santo Sepolcro di Gerusalemme: poi trascorre l’autunno visitando Tiro, Sidone, Damasco, Tripoli e Beirut, e spingendosi sino a Palmira. Nel dicembre finalmente decide di rientrare in Europa, facendo scalo prima a Cipro e poi a Rodi. Il maltempo che osteggia la navigazione lo costringe a sbarcare nell’isola di Cos, e qui la sua imperturbabilità di fronte al genere femminile viene scossa: “Le donne sono molto belle, molto vivaci, molto disinibite, e lungi dal coprirsi il volto come in tutto il resto della Turchia, esse amano guardare e farsi guardare […]. Le ragazze si affrettano ad andare alla passeggiata o a danzare per le vie, dove piazzate davanti alle porte delle loro case stuzzicano gli uomini con proposte piccanti, e si divertono a ridere, a motteggiare, a sostenere conversazioni sfrontate”. Sembra di leggere pari pari l’elogio delle donne di Cos tessuto due secoli prima da Della Valle. Quindi, delle due l’una: o Vidua ha letto i Viaggi di Della Valle, o le donne di Cos sono davvero sempre state così, belle e impudenti.

Durante la successiva navigazione nell’Egeo deve addirittura sostituirsi al comandante della nave su cui viaggia, visto che “[…] il capitano, il pilota e tutti i marinai erano nelle tenebre”. Approda ad Atene nell’aprile del 1821 e vi si ferma per sei settimane. La città è in rivolta contro il dominio ottomano, ma il conte non sembra affatto essere emotivamente partecipe della vicenda. L’unico suo coinvolgimento arriva da una palla di cannone che gli entra in camera durante il bombardamento turco: “Una palla di cannone venne a trovarmi in camera, mentre ero ancora a letto, senza far altro che guastare un poco il muro […]. Quanto alle palle di fucile, ne vennero molte in casa mia, senza far danno né a me, né ad altri. Se i turchi avessero saputo […]”. Per il resto, passeggia tranquillamente per la città mentre piovono le bombe. Sembra il tipico understatement inglese, un po’ cinico e decisamente antiromantico, ma in realtà è lo stesso atteggiamento col quale Leopardi (ancora lui) prendeva le distanze dai patrioti “progressisti” del circolo Viesseux. È uno sguardo disincantato sulle cose e sulla storia, che non significa rassegnazione, ma ricerca di senso, per sé e per il mondo, in ideali filosofici ed estetici più alti delle infatuazioni patriottiche o delle lotte per le cause perse. Insomma, per dirla in altre parole, Vidua è senz’altro in cerca di gloria e di fama personale, ma vuole guadagnarsi l’una e l’altra con qualcosa che vada oltre il bel gesto o l’atto di insensato coraggio. A combattere con i Greci è invece il suo domestico Leonardo, che rompe gli indugi, lascia il padrone dopo avergli sequestrate tutte le armi e passa nelle fila dei rivoltosi, facendo una carriera militare rapidissima. “A quest’ora sarà diventato generale”, commenta sarcasticamente Carlo quando ne dà notizia al padre. E licenzia il domestico.

Viaggiando in rimoti paesi 14Intanto, le vicende rivoluzionarie che potrebbero magari direttamente coinvolgerlo (i moti piemontesi del 1821), e che vedono protagonisti i suoi amici Balbo e Santorre di Santarosa, si stanno consumando in sua assenza. Ma anche su quelle, a posteriori, il suo giudizio non si spingerà oltre la personale simpatia per gli sfortunati (e ingenui) patrioti.

A risparmiare a Carlo la necessità di schierarsi interviene comunque il caso. Ripartito da Atene dopo aver assistito alla sua capitolazione, si trova nuovamente bloccato per due mesi a Smirne, dove nel giugno del 1821 assiste inorridito alle stragi compiute dalle milizie ottomane. Anche il resto del viaggio è travagliato, o quanto meno interminabile, tanto da fargli scrivere: “Pareva che fossimo incaricati di disegnare le coste, o di dar l’ispezione ai porti”. Arriva infatti in vista di Marsiglia solo alla fine di settembre del 1821. Qui però deve scontare un lunghissimo periodo di quarantena (due mesi senza poter sbarcare dalla nave e altri due confinato in un lazzaretto della città), perché proveniente da località nelle quali imperversa la peste. La descrizione che fa di questo soggiorno conferma i lati migliori del suo carattere: “Io del resto mi trovo qui molto bene. Ho una buona camera con due gabinetti. In uno dormo io, e nell’altro un Francese molto civile e cortese […]. Egli suona bene del flauto. Mi sono fatto affittare un buon cembalo per opera del console che mi mandò anche della musica. Così facciamo de’ concerti, io compongo delle piccole arie per flauto, egli le eseguisce. Inoltre possiamo aver comunicazione colle nostre signore – Esse vengono la sera in camera mia, e come ce ne sono tre giovani che cantano, io le accompagno, gli altri quarantenari vengono ad ascoltarci, e così passiamo una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte”.

Viaggiando in rimoti paesi 15Le “nostre signore” di cui parla sono le componenti di una bizzarra famiglia di otto donne, che così ha prima descritto: “Una bisava decrepita – due sue figlie vecchie, di cui una ha tre figlie, una delle quali maritata ha una serva indocile, e una bambina che completa la quarta generazione, e ch’è la sola persona tranquilla di tutta la famiglia. S’immagini tutta questa gente col loro cane rinchiusi con me ed un altro passeggiero (negoziante Francese assai buona persona) in una piccola camera, gridando, piangendo, disputando fra loro, con noi, col capitano; la bambina che stride, la decrepita che tosse, il cane che abbaia, non è un vivere, ma è continuo morire. La notte, per caldo che faccia, vogliono restar stivati nella camera colle finestre chiuse, e cento altre indiscrezioni colle quali corrispondono alle cortesie ed attenzioni, che abbiamo usato verso loro”. Il quadretto è fantastico, per l’essenziale efficacia della scrittura ma soprattutto perché dimostra che Vidua è un viaggiatore vero. Riesce prima ad adattarsi ad una simile infernale situazione, e a reinterpretarla poi simpaticamente come una “dolce quarantena”.

Si capisce comunque molto bene da un’altra lettera dello stesso periodo perché questo indugio non gli pesi affatto. “Il mio viaggio è terminato. Non ho scordato che tu (n.b. il Marchese del Carretto) ne facilitasti il principio, Tutto sta nell’uscir una volta di prigione. Ora vado a costituirmi di nuovo. Veramente il solo stimolo che mi v’induca, e credo il solo piacere che avrò nel rivedere il paese natio sarà quello di rivedere mio padre, mia sorella, e qualche raro amico. come te, e come pochi altri. E che vi farò? Durante il mio viaggio ho trovato de’ peregrini pari miei, che anelavano al momento di finire le loro peregrinazioni. Altri che mi dicevano: oh, quando sarete ritornato in Piemonte sarete un oggetto di curiosità, Vi opprimeranno d’interrogazioni […] io rideva, e pensavo tra me stesso: eh quanto poco conoscete il Piemonte! È vero che altrove i viaggi danno buona riputazione, da noi piuttosto la tolgono. Buono per me, che non li ho intrapresi per vanità ma per mia istruzione, e particolarmente per mio diletto. Posso dire di aver vissuto in questi tre anni e mezzo, e se avrò lunga vita le memorie che ne serbo faranno il divertimento della mia vecchiaia”.

Finalmente agli inizi della primavera del 1822 rientra nel regno di Sardegna. Non è un ritorno trionfale, come Carlo aveva ben presagito. I moti ‘patriottici’ sono stati soffocati da un pezzo, alcuni amici sono in carcere, altri in esilio, e il clima, in generale e in casa Vidua in particolare, è decisamente pesante: lo constata appena mette piede in Piemonte, allorché gli viene imposto di tagliare immediatamente i baffi che aveva lasciato crescere alla turca e che portava da due anni (c’è un’ordinanza reale apposita). Non ha così modo di mostrarsi ai familiari nel suo nuovo look orientaleggiante, spettacolo per il quale si era munito di caffetani e turbanti. Ma, ciò che più importa, non è ancora rientrato che già il padre e tutto il parentado tornano all’attacco con le insistenze sul matrimonio.

Carlo riesce a prendere respiro per altri tre anni opponendo una resistenza passiva. Trova mille motivi per procrastinare: deve stendere le relazioni dei suoi viaggi (ma ha molti dubbi sull’interesse che possono destare nei piemontesi), redigere un libro sulle iscrizioni antiche che ha raccolto in Egitto e in Grecia (le Inscriptiones antiquae a comite Carolo Vidua in Turcico itinere collecte, unica opera sua edita in vita, Parigi 1826), ma soprattutto deve curare la fase decisiva dell’affare Drovetti, che si conclude solo nel 1823 con l’acquisizione della collezione da parte del governo sabaudo, e comporta ora la sistemazione museale dei materiali.

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In America!

All’inizio del 1825 lo troviamo nuovamente in Francia: l’aria di casa si è fatta irrespirabile. A Parigi questa volta conosce Alexander von Humboldt. La mia prima curiosità nei confronti di Vidua è nata proprio da questo incontro, dalla menzione che Humboldt ne fa sia nelle sue lettere, lodando il libro sulle iscrizioni, sia nel Kosmos, dove parla di “un viaggiatore dalle molte peregrinazioni e libero ricercatore, il mio amico piemontese conte Vidua”. Il grande viaggiatore-scienziato tedesco è in quegli anni una vera star, ammirata in tutta Europa, ed è estremamente disponibile nei confronti dei giovani animati da curiosità scientifica e spirito d’avventura. Vidua possiede entrambe queste caratteristiche, e in più è fortissimamente determinato a metterle a frutto. E Humboldt gliele riconosce subito. Un loro contemporaneo (il conte Federico Sclopis) qualche anno dopo la morte del viaggiatore racconta: “Ho incontrato in questa biblioteca il signor Humboldt, col quale abbiamo parlato dei viaggi di Vidua, che egli ha personalmente conosciuto e che sembra tenere in grande considerazione. Egli ritiene che l’idea dominante in Vidua fosse quella della politica, e che guardasse soprattutto a quella in tutti i suoi viaggi […]. Il signor Humboldt non conosceva che le iscrizioni raccolte da Vidua nel suo viaggio mediorientale, le ritiene importanti e si è fatto l’idea che questo viaggiatore dovesse avere una grande conoscenza delle lingue antiche”.

È vero che Humboldt ha conosciuto praticamente mezzo mondo, e che tendenzialmente andava d’accordo con tutti, ma l’apprezzamento espresso nei confronti del casalese, anche molti anni dopo la scomparsa di quest’ultimo, è decisamente lusinghiero. Dimostra che i due si sono trovati e subito intesi. Vidua d’altra parte non è lì per caso: sta per mettere finalmente in atto il suo progetto americano. Ne espone al barone le motivazioni e le linee principali e riceve un profluvio di consigli sulle mete, sui tempi di percorrenza, sull’equipaggiamento; ma soprattutto ottiene una serie di lusinghiere commendatizie, che gli permetteranno di incontrare le figure più importanti della politica americana del tempo. Non poteva godere di un viatico migliore.

Viaggiando in rimoti paesi 17Molto diversa, com’era da attendersi, è la reazione paterna. Carlo ha meticolosamente programmato e preparato il viaggio in America, ma non ne ha mai discusso in famiglia. Tutto rischia quindi di saltare quando a Marsiglia, poche settimane prima della data fissata per la partenza, arriva un ordine restrittivo dello stato sabaudo nei suoi confronti, fatto emanare probabilmente proprio dal padre. Il giovane non si rassegna, e in una lettera al genitore fa chiaramente intendere che da un rimpatrio inglorioso non uscirebbe offuscata solo la sua immagine. A quanto pare tocca il tasto giusto, perché l’ordine è rapidamente revocato. Carlo si imbarca dunque per l’America alla fine di febbraio del 1824, salpando dal porto di Le Havre.

In questo periodo l’America non è ancora meta di migranti economici in fuga dal nostro paese, come lo sarà alla fine dell’Ottocento: è frequentata invece dal fior fiore della intellighenzia italiana. I giovani si recano oltreoceano per viaggi più o meno lunghi, come nei casi di Paolo Andreani e di Francesco Arese, o per trapiantarsi definitivamente, spesso in ruoli di prestigio, come il librettista Lorenzo da Ponte, gli storici e politici Filippo Mazzei e Carlo Bellini, il militare e trapper Francesco Vigo, o addirittura per portarne a compimento l’esplorazione, come Costantino Beltrami. In molti casi si tratta di fuorusciti politici, reduci dalla militanza napoleonica o dalle rivoluzioni costituzionaliste degli anni venti (Pietro Maroncelli è uno di questi). Sono attratti da un’istituzione repubblicana che sembra funzionare e si propone come alternativa ai dispotismi restaurati in Europa: ma anche dalla vastità di un mondo aperto sull’Ovest, nel quale è pensabile ogni esperimento sociale, ogni realizzazione economica, ogni fuga dall’avanzata del moderno o, in alternativa, da ogni ritorno dell’antico. Carlo Vidua in qualche modo riassume in sé tutte queste motivazioni.

La traversata oceanica è tutt’altro che tranquilla: la nave passa da un fortunale all’altro, impiegando quarantatre giorni per raggiungere il nuovo continente. Ma anche in questa occasione il conte non si smentisce: mentre fuori infuriano i marosi si distrae suonando la spinetta. Sembra un atteggiamento alla Chateaubriand (che durante la traversata si tuffava in mare dalla nave per fare un po’ di moto – salvo poi dover essere fortunosamente recuperato), un’esibizione per impressionare gli altri passeggeri e farsi precedere da un alone di imperturbabile eccentricità: ma direi che è in linea con la sua personalità, e se anche l’aneddoto, che dobbiamo al protagonista stesso, fosse inventato, sarebbe comunque verosimile.

Vidua approda a New York nei primi giorni di aprile. Di lì prosegue per Filadelfia, e visita in successione Boston, Washington e Monticello. Grazie alle lettere di presentazione di Humboldt e a quelle che si è procurato nelle varie ambasciate ha modo di incontrare durante questo tour tre ex-presidenti e il presidente in carica, prima separatamente e poi eccezionalmente tutti assieme. Certamente l’essere figlio di un ministro di uno stato europeo e l’essere munito di commendatizie autorevoli gli apre le porte: ma è poi lui, col suo genuino interesse e la sua intelligenza a guadagnarsi una sincera e spontanea ospitalità, perché gli americani ci tengono a che il loro sistema di governo sia correttamente conosciuto nel vecchio continente. Tutti coloro che lo incontrano ne sono conquistati.

Eppure Vidua è molto diverso dal barone tedesco che lo aveva preceduto vent’anni prima, e che a sua volta aveva suscitato entusiasmo negli stessi interlocutori. Non li lascia storditi e quasi in soggezione: è al contrario uno che fa domande, è curioso di quel mondo e apprezza l’immediatezza e la semplicità che caratterizza anche i rapporti con persone di altissimo rango. Per questo piace molto ad esempio al presidente Quincy Adams, che così annota nel suo diario: “Il conte è davvero curioso […] è un ottimo concertista al pianoforte, ci ha suonato due o tre arie […]” e ancora “[…] è una persona di grande intelligenza e conoscenza”. A sua volta a Vidua piace Adams, perché è un moderato e perché dotato di un forte senso etico: non a caso il presidente una volta tornato all’avvocatura assumerà, diversi anni più tardi, la difesa degli schiavi ammutinati dell’Amistad, e ne otterrà l’assoluzione. Tra i due si instaura una calda simpatia, tanto che Vidua viene trattenuto a colloquio e a pranzo dal presidente più volte in pochi giorni. “La prima visita fu un dialogo lungo e animato di un’ora. Lunghi discorsi tenemmo pure il giorno che mi invitò a pranzo, ed un’altra sera che passai seco, e se mi fossi fermato lungamente a Washington avrei potuto vederlo bene spesso, giacché mi fece padrone di andare a passare ogni sera con lui.”

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La cosa si ripete a casa di Thomas Jefferson, dove si trovano in visita altri due ex-presidenti, Madison e Monroe, oltre allo stesso Quincy Adams. “I momenti che si passano con uomini di questa sorta sono preziosi, ma ordinariamente perduti, perché la presenza di altre persone e la circospezione impediscono di interrogare e di rispondere. Qui invece eravamo in villa, eravamo soli, io straniero, essi ritirati dagli affari, sicchè la conversazione non potè essere né più libera né più interessante. E siccome essi non si mostravano schivi di rispondere, io non mostrai paura di interrogare.” Credo di non sbagliare pensando che i quattro si fossero riuniti lì appositamente per conoscere lui, incuriositi dagli elogi che Adams junior ne aveva tessuto. E credo anche che posti di fronte a domande come: “Quanto tempo è credibile che la loro propria (repubblica) duri senza separarsi?” abbiano capito di avere davanti uno che vedeva lontano.

Un altro ex-presidente, John Adams (il padre di Quincy), incontrato qualche tempo dopo, ne riceve evidentemente un’immagine altrettanto positiva: “[Adams] le aveva parlato molto di me, dicendole che certo io avevo studiato bene la loro storia, e che di tanti viaggiatori che gli erano stati presentati nessuno gli aveva mai fatto interrogazioni di quella natura, che gli avevo fatto io”. E anche il sindaco di Boston scrive: “Analitico, curioso, intelligente, […] Vidua è intento in modo non comune nella ricerca della storia e dello stato attuale di questo paese”.

Questa la favorevolissima impressione che Vidua desta (e che ricambia, parlando dei singoli personaggi). Ma che impressione matura riguardo le istituzioni e le prospettive della giovane repubblica? Quando da Boston e da Washington si sposta a New York incontra un altro tipo di americani. “New York – scrive – non mi piace quanto Boston. È vero che or molta gente è in villa, e poi queste gran città commerciali non sono mai fatte per divertire uno straniero. La gente vi è troppo occupata a far denari.” E anche a fare politica, ma in maniera diversa da quella dell’aristocrazia schiavista della Virginia. Gli uomini nuovi sono i grandi imprenditori, i mercanti alla John Jacob Astor, i lobbisti e i finanzieri come Aaron Burr e Martin Van Buren, che condizionano la macchina elettorale e di lì in poi determineranno la politica americana.

La nube sul futuro degli Stati Uniti è rappresentata per Vidua da personaggi come Andrew Jackson, già candidato alla presidenza e all’epoca probabile futuro presidente, mercante di schiavi e odiatore degli indiani, fondatore del partito democratico e sostenitore del protezionismo: il tipico self made men semi-analfabeta che ha fatto carriera per la sua spregiudicatezza e irruenza, quanto di più lontano dall’aristocrazia intellettuale che ha così benevolmente accolto il giovane conte europeo.

Più in generale, Vidua sembra essersi fatto questa idea. La rivoluzione americana è stata gestita da una minoranza di privilegiati che aveva come scopo principale quello di sostituire la propria egemonia a quella inglese. Lo stesso vecchio Adams gli ha confermato che la maggioranza degli americani era contraria all’indipendenza o era indifferente. Ma tutto sommato gli artefici della rivoluzione, pur partendo da concezioni di fondo molto diseguali, e pur adottando nella competizione politica e nell’ accaparramento del consenso mezzi molto spregiudicati, hanno creato un sistema equilibrato, anche se fragile per l’esistenza nelle diverse ex-colonie di esigenze economiche spesso contrastanti. È un sistema che garantisce in primo luogo le libertà, quindi costituisce un esempio cui guardare. Vidua è colpito ad esempio dalla tranquillità nella quale si svolgono le operazioni di voto: “Ho assistito ad una elezione nello stato del Maine; ciascuno andava a portare il suo biglietto, la gente di diverso partito s’incontravano senza dir nulla, ciascuno dava il voto al suo candidato, i signori di città ne tenevano registro, un silenzio, una quiete, non si sarebbe sentito volare una mosca; quando scadde il tempo fissato per dare i voti, fu fatto lo scrutinio ossia il sommario dei voti in presenza di tutti, e fu dichiarata l’elezione senza gridi, senza tumulto”. (mi chiedo cosa penserebbe oggi!). O ancora, dall’ordine e dalla sicurezza che regnano nelle ex-colonie: “Sui costumi e sulla religione di questo popolo vi sarebbe molto che dire; ma esso merita questo grande encomio, che sebbene si governi da sé, e la forza pubblica vi sia debolissima, pure le persone e le proprietà vi sono talmente sicure che si viaggia ad ogni ora, e le case sono aperte fin di notte, senza serrature, senza chiavi e senza feriate” (anche su questo, avrebbe forse dei ripensamenti).

Ritiene però che quello americano sia un modello difficilmente ripetibile al di qua dell’oceano. In effetti, le condizioni sia fisiche (gli spazi) che sociali (l’eguaglianza dei diritti) degli Stati Uniti sono ben diverse da quelle europee. Inoltre, tutto il conclamato egualitarismo, che teoricamente è la base del modello democratico, è clamorosamente smentito dal fatto che una parte considerevole della popolazione, tra nativi che vengono espropriati delle loro terre e schiavi che sono stati importati (e continuano ad esserlo), non partecipa di nessuna liberà, né civile né politica (nel 1830, a fronte di una popolazione di oltre quindici milioni, i votanti sono un milione e mezzo) Col passare del tempo, secondo Vidua, questi problemi diverranno sempre più gravi, e peseranno moltissimo sulla tenuta dell’unione. “Una tranquillità perfetta che continuerà tanto che non ci sia sovrabbondanza di popolazione, una sicurezza personale illimitata, e indipendente dal capriccio dei governanti, una libertà intera di vivere e di scrivere, limitata però dall’uso dei duelli, da processi per calunnia e in certi punti dalla pubblica opinione, nessun timore di potere arbitrario, questi sono beni reali e preziosi, e certo questi beni si godono in America dai cinque sesti degli abitanti. Ma lo spettacolo dell’altro sesto, cioè di due milioni di creature umane staffilate, vendute, affittate come bestie sol perché non hanno la pelle bianca, mi amareggiava continuamente il soggiorno sì vantato della terra di libertà.

Ciò che intravvede, e che non ha potuto poi dettagliare e commentare con calma e in maniera più approfondita, è né più né meno ciò che vedrà Alexis de Tocqueville esattamente cinque anni dopo.

Tocqueville arriva in America nel 1831, con Gustave De Beaumont, inseparabile sodale di una vita. La motivazione ufficiale del suo viaggio è lo studio del sistema giuridico e penale degli Stati uniti, ma il soggiorno di quasi un anno gli consente indagare in profondità le differenze tra la “rivoluzione” americana e quella francese. Studia gli effetti della democrazia, e constata che questa promuove l’uguaglianza a scapito della libertà e l’individualismo a scapito della coesione sociale. Il rischio (a suo parere molto concreto) sul lungo termine è quello della massificazione e del trionfo del conformismo: la democrazia finisce allora per scadere nel dispotismo della maggioranza. Questo il succo de La democrazia in America, il poderoso saggio scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno, e destinato a dargli la fama.

Vidua non ha modo di ordinare le sue impressioni, non effettua questi collegamenti, ma coglie già perfettamente quelli che ne saranno i presupposti. Nel resoconto della sua esperienza americana inviato all’amico Roberto D’Azeglio, rispondendo alla domanda di quest’ultimo: “Osserva ben quegli uomini, e dimmi se veramente son più felici degli altri. Vi trovi libertà vera?” scrive: “Non andai in America fanatico, ma a dir vero inclinato in favore. Non ho incontrato nessun dispiacere … nessuno disse male di me, e alcuni dissero più bene che non merito. Lungi dall’aver motivo di disgusto, ho dunque doveri di gratitudine. Ma pur la verità, ch’è il primo dei doveri, mi costringe a confessare che quegli uomini e quel paese mi gustaron pochissimo. … quanta diremo sia la felicità di un popolo che tutto intero corre ansante, senza riposo e senza intermissione in cerca del solo guadagno; in cui le scienze e le arti sono coltivate solo nell’interesse commerciale; in cui l’attività individuale tende ad isolare e a infievolire i nodi più stretti di un popolo sommamente industrioso, è vero, ma privo di fantasia, incapace di passioni generose, tenere o magnanime, del popolo il più freddo e il più calcolatore, che la terra abbia visto giammai? Parlo dell’universale, Dio mi guardi dal calunniare i particolari; son pronto a rendere giustizia a questi, e forse ancora sarei inclinato a riconoscere in favore dell’universale, che que’ difetti medesimi li rendon più capaci di sostenere la libertà, la quale difficilmente si può acquistare, o presto sfugge dalle mani delle nazioni dotate di tempra fervida e di calde passioni. Però, se la libertà si paga a tal prezzo […]”.

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Verso ovest e verso sud

Vidua ha naturalmente letto i libri di Chateaubriand e quelli di James Feminore Cooper, anche se questi ultimi non lo entusiasmano. Cooper l’ha poi anche conosciuto personalmente durante il viaggio. Vuole ora visitare le foreste canadesi teatro delle gesta dell’ultimo dei Mohicani, ma soprattutto completare la sua ricognizione dei sistemi politici nordamericani andando a verificare i modi della colonizzazione inglese: e vuole anche esplorare la frontiera occidentale statunitense, aperta una ventina d’anni prima con l’acquisto della ex Louisiana francese. Negli ultimi mesi del 1825 compie quindi un itinerario che dal Canada lo porta lungo la linea della frontiera sino a st. Louis, nel Missouri. Ha modo di ammirare le cascate del Niagara, delle quali scrive con entusiasmo: “Non mi sazio di vederle: son qui da due giorni e non fo altro che vagheggiarle: la pioggia, la nebbia e soprattutto la luna diversificano in mille modi la scena, e senza essere tacciati di romanticismo si può dire che questo è uno dei luoghi più romanzeschi del globo”. Altrettanto entusiasmo mostra però, oltre che per gli spettacoli della natura, per quello dell’intraprendenza umana, che in pochissimi anni ha creato città come Rochester e Pittsburg, ricche di manifatture d’ogni genere e pulsanti di vita: “È incredibile l’industria e l’attività di questa nazione, qualità in cui essa sorpassa e la Francia e l’Inghilterra che pur sono reputate le nazioni più industriose d’Europa”.

È un percorso più lungo di quello compiuto dallo scrittore bretone trent’anni prima, e anche di quello che di lì a pochi anni intraprenderà de Tocqueville. Tocca l’Ohio, il Kentuky, l’Indiana, l’Illinois e il Missouri: e Vidua si rende conto che il futuro dell’America è proprio nella frontiera.

Tutta questa parte degli Stati Uniti chiamata Western Country, che si estende lungo i grandi fiumi dell’Ohio e del Mississippi, è comparativamente agli altri stati sulle sponde dell’Atlantico, un paese nuovo. […] Questo è il più brillante teatro dell’industria di questo attivissimo popolo. L’americano non ha l’attaccamento al campanile, il rincrescimento di staccarsi dagli amici, dai parenti, da una patria. […] All’età di vent’anni ei si prende una moglie e va a cercare fortuna nell’Ovest. La terra è a buon mercato […] i raccolti di due o tre anni bastano a vivere, a pagare la terra e a fabbricare una cascina. A poco a poco la famiglia cresce, ma crescono le braccia: ed i suoi figli a vent’anni imitano il padre, abbandonando la casa paterna e andando a cercar fortuna sempre più all’ovest.

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Da St. Louis si imbarca su un battello che discende il Mississippi, e nel febbraio 1826 lascia gli Stati Uniti, partendo da New Orleans e recandosi in nave in Messico. È intenzionato a raccogliere materiali per una storia della rivoluzione messicana e più in generale di tutte le recenti rivoluzioni che si sono prodotte o sono ancora in corso nell’America Latina, nelle ex-colonie spagnole: e anche in questo caso non si accontenta di intervistare le massime autorità nei palazzi del potere, ma intende visitare in lungo e in largo i diversi paesi. Vuole ricalcare quasi passo passo le orme di Humboldt, ed aggiornare le considerazioni riportate da quest’ultimo quando l’ondata rivoluzionaria era ancora all’inizio.

In Messico però la delusione è cocente: riguarda il paesaggio (una campagna squallida e deserta), la viabilità (è questo uno dei paesi in cui viaggiare è più costoso, più difficile, più faticoso), gli abitanti, che hanno una fisionomia selvaggia, l’economia, poverissima e se possibile in dissesto, e poi, soprattutto, le istituzioni. La chiesa tollera manifestazioni religiose carnevalesche: “Il giovedì santo, trovandomi in un borgo presso s. Luis Potosi andai In parrocchia dopo pranzo credendo assistere all’ufficio: ma trovai che invece dell’Ufficio sì commovente […] si facevano in cambio tre processioni con grandi mascheroni, con fiaccole, con tiri e spari e musiche di violini come se fosser balli”. La classe politica uscita dalla rivoluzione non promette granché bene: “Qui in tutte le parti sono occupati a costituirsi; con quanta perizia, e quanta scienza politica e governativa nol so”. Vidua presenzia ad alcune sedute degli organismi di governo provinciali, e constata come nei confronti degli spagnoli l’odio sia radicato (e meritato, a giudicare da quel che sente). Ritiene quindi impossibile che la Spagna possa riprendersi le sue colonie. Ma ha anche forti dubbi sulla tenuta del nuovo assetto politico. “Io sono per l’emancipazione, però dopo che ho visto Messico, desidero per loro bene che i Repubblicani arrabbiati non abbian tanta influenza, e che non sia dato loro il potere di piantare il pugnale nelle viscere della loro patria, come sgraziatamente fanno.”

Mentre è in Messico gli capita anche un fatto tra il comico e l’increscioso. “Passando ad altro soggetto, vorrei raccontarti la storia della mia morte, ma non la so bene. Mentre io stava visitando il Messico fu pubblicato negli Stati Uniti il racconto della maniera con cui io era stato ammazzato ne’ deserti dagli Indiani; colà son tanti i giornali! dall’uno all’altro lo ripeterono, e un letterato di Filadelfia, città ove mi aveano conosciuto molto, fece la mia Necrologia, e la fece stampare nel più famoso di que’ fogli periodici […]. Il console generale negli Stati Uniti scrisse al Ministro al Messico per saper s’era vero, ed io poi seppi da lui la mia morte e la mia risurrezione tutto in una volta quando fui di ritorno a Messico. – Desiderava leggere la mia necrologia per la rarità del caso, che al solito non la legge il morto, però finora non l’ho potuta avere. Il suddetto Ministro degli Stati-Uniti al Messico, ch’è mio amico, mi disse ’che m’avean detto molto bene. – Sia un compenso per quelli che dicon male.” Il problema è che la notizia giunge sino in Europa, e solo il sopraggiungere di una tempestiva smentita evita ai famigliari di Carlo un coccolone.

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Anche Città del Messico, dove arriva il 21 giugno dopo aver girovagato per quattro mesi nella zona centrale del paese, non corrisponde affatto alle sue aspettative. La paragona a Torino, per le montagne che le fanno cornice, ma trova che tanto il panorama che la configurazione urbana siano decisamente inferiori. Naturalmente non manca di raccogliere tutto ciò che può, e di spedire dalla capitale il solito stock di casse pieno di libri, tele, statuine, medaglie, ecc…

Nel paese dilaga però la febbre gialla, e decide allora di lasciare il Messico e dirigersi verso il Perù. Non senza concedersi, lungo il cammino che lo porta verso la costa pacifica, un mese di sosta a Guadalajara, che giudica la più bella città del Messico e dove trova ospitalità presso un gentiluomo inglese. In realtà è anche incerto se proseguire nel suo progetto dell’America Latina o volgersi direttamente all’Asia (ha in mente la Persia).

A sciogliere ogni dubbio arriva una missiva della sorella che lo informa del grave stato in cui versa la salute del padre. Sconvolto dal rimorso, Carlo intraprende una galoppata che in un mese lo riporta a Città del Messico, e di lì a vera Cruz, dove trova un passaggio per l’Europa. Si imbarca il 22 febbraio e giunge a Bordeaux nell’aprile del 1827, dopo una traversata ancora una volta tempestosa. Ma sta scritto da qualche parte che il ritorno non sia definitivo. Un duro contrasto epistolare con il padre, nel frattempo ristabilitosi, induce il nostro a non rientrare in patria. I motivi della rottura si possono facilmente immaginare: gli viene dettato l’ennesimo ultimatum, pena l’essere definitivamente diseredato. Carlo non è disposto ad accettarlo e si ritiene quindi sciolto moralmente da ogni vincolo. “Sarebbe stato naturale qualche rincrescimento della strada fatta indietro, e quale strada! Tuttavia pensai che non era possibile pentirsi di aver fatto ciò che si deve, e io sono contento di aver avuto occasione di mostrare in un modo così poco volgare il mio rispetto e affetto per mio padre. Avevo compiuto un dovere. Tal dovere non esistendo più, era naturale di finire ciò che avevo incominciato. Invece di fare il giro della palla da levante a ponente, questo accidente me lo fa fare da ponente a levante.”

Del resto, era già chiaro molto prima, quando a proposito di matrimonio e di carriera scriveva ad un amico: “Se mai mi decidessi, sarebbe unicamente per far piacere a mio padre. Capisco che ei ne dee avere gran desiderio, e s’io fossi a suo luogo l’avrei. Ma la perdita della libertà, l’interruzione de’ miei studi, e soprattutto l’obbligo di dovere vivere in un paese sì diviso, e in mezzo a tante piccolezze, e ad opinioni che per la loro esagerazione da una parte e dall’altra, non si combaciano con le mie idee moderate […]”.

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Nell’Estremo Oriente

Vidua deve aggiornare i suoi programmi, e non impiega molto. Solo tre mesi dopo il rientro, nel luglio del 1827, riparte da Bordeaux per quello che nelle intenzioni dovrebbe essere il suo ultimo viaggio (così almeno scrive alla sorella): la destinazione prossima è l’Estremo Oriente, in particolare la penisola indiana e il sud-est asiatico, ma il progetto è molto più ambizioso: prevede l’Australia e la traversata del Pacifico sino al Cile e al Perù, e quindi di valicare le Ande per toccare Buenos Aires e Rio de Janeiro.

Arriva dunque a Calcutta a metà novembre del 1827 (dopo cinque mesi di navigazione!). Nel gennaio dell’anno successivo risale il Gange fino a Benares, per essere poi a Delhi in febbraio. Il tam tam che lo precede funziona, comincia ad essere conosciuto anche negli angoli più remoti del mondo come “il Viaggiatore”. Le credenziali a questo punto se le firma da solo. Incontra così i massimi esponenti della Compagnia delle Indie ed è presentato personalmente al Gran Mogol. Ha il tempo anche di frequentare i “salotti” coloniali, e di biasimare la spocchia che li caratterizza. Gli inglesi guardano con sprezzo alla sua curiosità per culture che ritengono inferiori: e al contrario degli americani ritengono inferiore anche la cultura sua. Significativo è quanto racconta a proposito di un’accesa discussione a casa di un alto funzionario della Compagnia: “Alla fine milady alzandosi mi disse che ero bigot. Le risposi: è bigot chi attacca, non chi si difende, chi vuol perseguitare, non chi apologizza, io amo i protestanti, non ho declamato contro di essi. È bigot chi fa accuse senza fondamento, chi vuole escludere i suoi compatrioti dall’esercizio di egual diritti, ecc […]”. Questo ci rimanda un illuminante quadretto degli ambienti frequentati da Vidua, ma ci dice anche che lo stesso non ci sta a recitare la parte dell’ospite che si fa andare bene tutto.

È indignato soprattutto dalla netta linea di separazione che gli inglesi hanno tirato tra sé e gli indiani, e dallo sfruttamento di questi ultimi: a Calcutta “io tentai qualche passeggiata a piedi: gli indiani mi fissavano come si guarda un pazzo, sì poco sono avvezzi a veder un bianco muovere le gambe. I cavalli stessi paion riservati solo ad usi nobili, condurre carrozze o portar eleganti cavalieri. Raro si vedon cavalli condurre carrette; bestie da soma son gli indiani, cavalli di stanza son gli indiani, l’ufficio degli asini, dei buoi è fatto dagli indiani: tutte le mercanzie son care fuorché la carne umana”.

D’altro canto, “il pregiudizio della casta è insuperabile, e necessita questo numero considerevole di domestici giacché non ridurreste mai quel che vi veste a servirvi a tavola e quel che vi serve a pranzo a salir dietro il cocchio, uno non può toccar le scarpe perché è pelle di animale; l’altro non può portarvi il brodo perché è bevanda immonda, tutto li contamina, tutto li sporca, gettano il resto delle nostre vivande appena abbiamo finito di pranzare! Indi nasce quel notabile e quasi incredibile contrasto, che cento milioni di uomini rispettano ed ubbidiscono a pochi europei, ciascun dei quali è riguardato da loro come creatura sì nauseosa, sozza, immonda, che nemmeno il più povero non consentirebbe a dividere seco lui un pezzo di pane”.

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In India non si ferma a lungo. Abbastanza però per raccogliere un sacco di materiale, da spedire a casa in un “ricco baule”, pieno di “manoscritti Indiani in differenti lingue, ornamenti donneschi, rappresentazioni de’ costumes ossia abiti delle differenti condizioni di persone, ed altri vari oggetti”. Nell’aprile del 1828 è comunque sui primi contrafforti dell’Himalaya, senza peraltro sembrarne particolarmente impressionato: si limita a prendere atto che le vette sono indubbiamente molto più alte di quelle alpine, e che per salirle occorrerebbe una sosta prolungata, ma le trova molto meno spettacolari.

Poi, tornato alle pianure, si sposta nell’estate a Singapore e trascorre un intero anno tra il porto aperto di Canton e i possedimenti portoghesi (Macao) e spagnoli (Manila).

Canton è diventata verso la fine del secolo precedente la sede ufficiale dei traffici inglesi con la Cina, soppiantando il ruolo che era stato in precedenza dei portoghesi di Macao (a metà dell’Ottocento sarà a sua volta soppiantata da Hong Kong). In una lettera al padre (col quale la comunicazione epistolare è ripresa) Vidua racconta come gli stranieri che risiedono a Canton siano soggetti a forti restrizioni nei movimenti e a continui controlli. In sostanza non possono uscire dalle aree destinate allo scambio commerciale. Qualora ciò accada, c’è il rischio di essere aggrediti e bastonati da una moltitudine di cinesi furiosi. Gli stessi impiegati della compagnia delle Indie non possono risiedere sul territorio cinese per più di sei mesi l’anno, e trascorrono gli altri sei a Macao. Non possono nemmeno portare con sé le mogli o la famiglia.

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La curiosità di Vidua però la vince. Con vari espedienti, come l’accompagnare un medico della compagnia nelle sue visite ai maggiorenti della città, o dietro invito diretto di ricchi mercanti cinesi, riesce ad intrufolarsi in alcuni templi e monasteri, o in grandi ville con magnifici giardini, e persino ad assistere a rappresentazioni teatrali. Si arrischia anche, assieme ad altri tre giovani europei, a sbarcare su una spiaggia deserta a qualche chilometro dalla città, e a fare poi un giro nell’interno della campagna, mantenendosi sempre fuori vista e annotando tutto il possibile sui sistemi di coltivazione, sulle abitazioni rurali, sulle piantagioni del the, ecc. Scrive a suo padre, forse anche per dimostrargli che non va a spasso senza scopo: “La campagna nei dintorni di Cantòn è molto coltivata e le fattorie frequenti, i canali di irrigazione e i diversi livelli del suolo destinato alla coltivazione del riso molto bene curati, indicano grandi progressi anche in Cina in questo settore così importante dell’agricoltura”. È l’occhio del proprietario di risaie in Italia.

Alla fine del febbraio 1829, data del trasferimento semestrale degli europei, il governatore della Compagnia delle Indie gli offre un passaggio per Macao. A dispetto della sosta forzatamente breve Vidua è riuscito a raccogliere una gran quantità di oggetti che forniscono una importante documentazione sulla Cina dell’epoca: statuine di divinità o di personaggi del taoismo, paesaggi in miniatura, mappe locali o del Giappone, carte da gioco, armi, nonché una intera Bibliothèque Chinoise, che spedisce immediatamente al padre.

Il 3 maggio abbandona definitivamente l’Estremo Oriente continentale diretto a Singapore. Durante la primavera ha intanto iniziato la stesura di un trattato politico, in cui intende riunire proprie le osservazioni sugli ordinamenti dei luoghi visitati. Pervenuto a Cesare Balbo e confluito infine nella Biblioteca nazionale di Torino, il manoscritto dell’opera incompiuta è andato distrutto nell’incendio che devastò la biblioteca nel 1904.

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Morire nelle isole della Sonda

A metà del 1829 si trasferisce a Giava, dove rimane sei mesi ed entra in contatto con un sistema di colonizzazione diverso. La compagnia olandese delle Indie pratica una politica più morbida, ma non meno repressiva, rispetto a quella inglese: a Vidua sembra decisamente più intelligente. Ma a Giava, forse per la suggestione del paesaggio, porta avanti un altro progetto, direttamente ispirato dalla Naturgemalde (più o meno, la descrizione della natura) di Humboldt: quello di percorrere e in lungo tutta l’isola e di mapparne l’orografia, determinando con il barometro l’altezza delle principali montagne. In effetti ne scala due che superano i quattromila metri, col risultato di dover poi rimanere a letto e a digiuno per diversi giorni. Giava non è innervata da una vera e propria catena montuosa, ma sulla linea da est ad ovest sorgono ben centoventi vulcani, un quarto dei quali ancora attivi. Vidua si propone di censirli e di redigere poi una serie di tavole che presentino la distribuzione geografica delle piante, che nell’isola varia dalla foresta equatoriale lungo le coste ai boschi di tipo alpino oltre i duemila metri.

Nel marzo del 1830 si sposta alla vicina isola di Madura, e successivamente ad Ambon, nelle Molucche, dove è ospite del governatore olandese. Viaggia sull’Iris, una goletta comandata da Jan Hendrik De Boudyck-Bastiaanse, che gli dedicherà i suoi Voyages faits dans les Moluques, à la Nouvelle-Guinée et à Célèbes, avec le comte Charles de Vidua, de Conzano, à bord de la goëlette royale l’Iris (Parigi 1845). Nel corso della navigazione vengono scoperte alcune nuove isole, e ad una di esse viene dato il nome di Isola di Vidua: ciò che la dice lunga sulla stima e sull’amicizia che “il Viaggiatore”, come ormai è chiamato ovunque, riesce rapidamente a conquistarsi. Il comandante scriverà di lui che era anche un abilissimo navigatore (complimento non comune per un piemontese), e che a bordo lavorava come qualunque altro membro dell’equipaggio.

Viaggiando in rimoti paesi 26L’esplorazione delle isole della Sonda è però solo un’ulteriore tappa di avvicinamento al continente australe, rispetto al quale l’interesse torna ad essere prevalentemente politico. “Il mio scopo nel visitare la Nuova Olanda è di osservare nella sua infanzia una colonia tutta di razza europea, destinata a divenire in cento o centocinquant’anni uno stato importante. Ho visitato gli stati Uniti nell’età giovanile. Visitar la Nuova Olanda è come veder dei secondi Stati uniti ancor bambini […]

È anche ossessionato dalla perfetta salute fisica: non che sia un ipocondriaco, anzi, non manca mai, nelle lettere a parenti e amici, di sottolineare come con tutto il suo viaggiare non si sia mai beccato un malanno: e quando questo accade, nell’ultimo anno, lo rileva con rammarico e stupore, quasi un presagio.

A dispetto delle febbri intestinali, ad agosto Vidua è sull’isola di Celebes, viaggiando sempre con Bastiaanse: e qui avviene la tragedia. Durante un’escursione in una caldara scivola con una gamba nella lava bollente. Un po’ se la cerca; il governatore delle Molucche scrive ad un suo omologo: “La rapida fine del conte Vidua deve essere attribuita all’accidente che gli è capitato nelle contrade dell’interno di Menado, e del quale è stato lui stesso la causa, non avendo voluto ascoltare il capo indigeno che lo aveva avvertito del pericolo e voleva trattenerlo, cosa di cui egli si era mostrato irritato. Il defunto era posseduto da un ardore eccessivo: non concedeva al suo corpo alcun riposo”. L’incidente appare subito molto grave, ma non per questo il casalese vuole rinunciare alla sua esplorazione. Trova però un medico solo venti giorni dopo, a Ternate, la regina delle Isole delle Spezie: e qui deve necessariamente fermarsi. Sfrutta comunque l’immobilità forzata mettendo ordine nei suoi appunti e scrivendo. Spera ancora di poter riprendere il viaggio: ma la situazione si va velocemente aggravando. La cancrena alla gamba sale sino alla coscia: l’ultima flebile speranza è legata all’amputazione.

Il 21 dicembre s’imbarca pertanto per Ambon, dove spera di farsi operare: ma è troppo tardi. Muore durante il viaggio, il giorno di Natale del 1830. In una lettera inviata quindici giorni prima al governatore olandese suo amico ha scritto: “Ciò che rimpiango è di non avere davanti altri tre anni di vita, per poter raccogliere il frutto di tante fatiche, di tante ricerche, di tanto lavoro nelle quattro parti del mondo. Sia fatta la volontà di Dio”. Chiede anche che tutti i suoi scritti vengano distrutti. Il suo corpo è tumulato sulla spiaggia dell’isola, dove il governatore fa erigere un sepolcro. Anche il luogo dove è avvenuto l’incidente porta oggi il suo nome: è il Count Vidua Solfatara Field, sul vulcano Tondano.

Poi, nel 1833 almeno le sue spoglie tornano finalmente a casa. Il padre si attiva in tutti i modi e la salma, con un’ultima lunghissima navigazione che passa per Rotterdam e Genova e che sembra rinnovare postuma le peregrinazioni del Viaggiatore, è traslata a Conzano.

Pio Vidua gli sopravvive sei anni. Un anno dopo, nel 1837, muore anche la sorella. Il timore che aveva angustiato il padre per trent’anni si avvera: il ramo casalese dei Vidua si estingue. Ma si avvera anche, almeno in parte, e almeno fino ad oggi, quello che aveva angustiato il figlio: sul suo nome cade l’oblio.

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Sulle consonanze

Non mi resta ora che spiegare brevemente i motivi della particolare simpatia che provo per Carlo Vidua. Sono tantissimi e diversi, e in qualche caso anche un po’ difficili da spiegare, perché il personaggio è un groviglio di contraddizioni. Provo a riassumerli.

Intanto c’è il suo straordinario curriculum di viaggiatore. L’ho scoperto colpevolmente tardi ma ha calamitato subito il mio interesse, perché nell’Ottocento nessun altro italiano ha viaggiato quanto lui. Quando poi ho saputo dei suoi rapporti con Humboldt l’interesse naturalmente si è moltiplicato. A rendermelo particolarmente caro è stato infine il suo tragico destino, che non solo lo ha strappato alla vita ma lo ha anche relegato in un angolo in ombra della storia. Diciamo che rientra a pieno titolo tra i “quasi adatti” dei quali mi sono prevalentemente occupato: di quei “perdenti” che non inseguendo il successo, ma la virtù e la conoscenza, a volte anche inconsapevolmente, hanno in realtà vissuto esistenze straordinarie.

Che tipo di viaggiatore fosse l’ho già detto. Non è annoverabile tra i grandi camminatori perché si è mosso quasi sempre a cavallo (o su cammello), in carrozza o in nave, in genere con uno o più servitori al seguito. Nemmeno è stato un viaggiatore “eroico”, di quelli che cercano il confronto coi propri limiti o si spostano sempre sul filo della sopravvivenza. Ha visitato un’enorme fetta di mondo ben coperto sia sul piano economico che su quello delle conoscenze e delle credenziali. Era perfettamente consapevole di godere di una condizione di privilegio, non se ne scusava affatto e riteneva semmai doveroso metterla a frutto: “Coloro appunto, cui la fortuna fu larga de’suoi doni, e che talvolta come usarne non sanno, quelli potrebbero agevolmente andar ricercando le contrade straniere, onde giovare alla patria, ed illustrare il loro nome”. Non dunque da turisti, ma da studiosi. Come tale Vidua pianificava meticolosamente i suoi percorsi, solo che questi poi si dilatavano e si ramificavano in ogni direzione, senz’altro perché poteva permetterselo, ma prima ancora perché trovava costantemente nuovi motivi di interesse, scopriva e inseguiva nuove curiosità. Il fine “scientifico” di tutto questo vagare era autentico, almeno negli intenti, anche se credo che con l’andar del tempo sia diventato quasi un pretesto, e che Vidua abbia continuato a spostare sempre un po’ più in là gli orizzonti per non dover affrontare, una volta fermo, l’onere di un bilancio. A dispetto dei reiterati propositi di ritorno e di stabilizzazione definitiva, espressi soprattutto nelle ultime missive, penso che ad un certo punto il viaggio sia diventato per lui, da strumento che era, il fine. O che lo fosse sin dall’inizio.

Cos’ho trovato dunque di particolarmente attrattivo nel Vidua viaggiatore? Senz’altro la determinazione: intraprendeva quasi tutte le sue avventure in compagnia di amici o conoscenti che ad un certo punto, per vari motivi, rinunciavano, mentre lui proseguiva imperterrito. E fino all’ultimo, anche a dispetto del grave incidente occorsogli, non intendeva rinunciare al completamento del giro del mondo. Mi piace poi il suo senso di responsabilità, anche se talvolta può sembrare pretestuoso: se uno sceglie di viaggiare non è giusto, né nei confronti propri né in quelli altrui, che contragga legami ai quali poi non può convenientemente ottemperare: “Quando l’uomo si marita, conviene che rinunci ai viaggi, e stabilisca di tenere compagnia bene o male a quella donna che per sua ventura o disgrazia ha scelto”.

E mi piace infine la capacità di adattarsi. Non mi riferisco chiaramente alle condizioni materiali del viaggio, che erano comunque disagevoli, anche muovendosi col minimo di comodità concesso dall’epoca, ma a quelle psicologiche. Si trovava altrettanto a suo agio ovunque e con qualunque interlocutore, fossero sovrani, presidenti, marajà, governatori coloniali, mercanti o beduini: non adulava, non si umiliava, li interrogava mostrando un interesse genuino, li ascoltava e cercava di trarre da tutti il numero maggiore di informazioni possibili: non era lì per giudicare, anche se poi nelle lettere i suoi giudizi li esprimeva, ma per capire.

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Il Vidua “uomo” mi ha intrigato invece perché sfugge ad ogni incasellamento. È impossibile metterlo perfettamente a fuoco. Lui stesso non ha collaborato granché. Non ha lasciato opere compiute (se si eccettua la raccolta di iscrizioni antiche, che è un lavoro specialistico), fallendo malinconicamente nell’adolescenziale assillo di tutta una vita, la costruzione di una immagine di sé ricalcata su quella degli eroi antichi. Quindi non abbiamo un autoritratto “autorizzato”, la sua versione soggettiva. Ma riesce difficile anche ricostruirne un ritratto sufficientemente oggettivo attraverso ciò che ci è rimasto, perché le sue lettere, che pure di quella immagine sono piene, la cambiano poi in realtà a seconda dei destinatari: la loro scrittura si adatta di volta in volta a trasmettere ciò che Carlo riteneva l’interlocutore si aspettasse.

Viaggiando in rimoti paesi 29Ciò non significa che Vidua fosse uno Zelig, un uomo senza personalità. Era semmai un personaggio un po’ pirandelliano, costantemente lacerato tra la mozione paralizzante degli affetti e quella liberatoria degli istinti. Alla fine ha prevalso la seconda, ma non ha mai soffocato definitivamente la prima: così che ogni esperienza è stata da lui vissuta sotto una doppia luce. Dovessimo giudicare solo dalle lettere al padre, ad esempio, ne verrebbe fuori un aristocratico un po’ eccentrico che si compiace soprattutto delle sue frequentazioni altolocate – oggi sarebbe un cacciatore di selfie con le celebrità –, del rispetto tributato alle sue ascendenze nobiliari e del ruolo di ambasciatore itinerante dello stato savoiardo nel mondo: mentre è evidente che tutto questo serviva solo a tentare di giustificare davanti al genitore la propria disobbedienza, e che la frequentazione di quegli ambienti era strumentale al lavoro che intendeva compiere (e alla fama che sperava ricavarne). Così, in quelle agli altri famigliari la preoccupazione costante è di rassicurarli sul proprio stato di salute, sulla sicurezza dei viaggi e sul fatto che non si dimentica di loro, usando però spesso la formula “è stato un po’ pericoloso, o un po’ difficile, ma comunque sono ancora vivo e sano”, come a tenerli comunque allertati sull’eccezionalità di quanto stava facendo; mentre nelle lettere agli amici si compiace di inserire aneddoti, avventure e osservazioni che rimandino l’immagine di un originale freddo e coraggioso e riscattino la sua apparente diserzione dalle lotte patriottiche.

Le testimonianze esterne trasmettono invece un Carlo Vidua molto diverso: Quincey Adams ne parla come di una persona semplice e alla mano; Caillaud è conquistato dalla sua serietà e al tempo stesso dalla sua disponibilità; il comandante olandese dell’Iris racconta come sulla nave si adattasse volenterosamente a qualsiasi compito, pur essendo un passeggero pagante. Alla fine la versione meno credibile è proprio quella del suo già intimo amico e primo biografo Cesare Balbo, che nell’editarne le lettere ha costruito con tagli mirati una oleografica figurina di eroe romantico, malinconico e sfortunato.

Io mi sono fatto questo personalissimo quadro. Vidua è un personaggio anacronistico. Ma lo è nel senso più letterale del termine; sta fuori dal tempo, e non solo dal suo. Non era un romantico, pur avendone tutte le caratteristiche, non era un illuminista, pur utilizzando tutti i criteri illuministici di interpretazione della realtà. Questo crea l’impressione che non abbia mai veramente capito quanto stava accadendo e avesse idee piuttosto confuse su quanto sarebbe potuto accadere in futuro. Io credo invece che Vidua si sia volutamente (e quindi consapevolmente) rifiutato di capirlo, perché ciò che lo circondava andava a configgere, oltre che con la sua indole irrequieta, con tutte le sue idealità: e non parlo delle convinzioni politiche e religiose, ché quelle sono legate all’ambiente in cui era cresciuto e al periodo in cui ha vissuto, ma delle idealità etiche delle quali si era nutrito sin da bambino. C’è un passo di una sua lettera (a Roberto d’Azeglio) che fa intendere benissimo la sua posizione: “È vero che a Torino, a sentir le esagerazioni insopportabili di certa gente, mi sentivo sì trascinato alla liberalità, che mi facevo forza per non diventarlo eccessivamente. – Così nell’altro mondo le esagerazioni liberali mi disgustavano tanto, che mi facevo forza per non diventare partigiano delle Soirée de st.Petersbourg”. È una frase che avrebbe potuto essere pronunciata da Corto Maltese (tra l’altro, fisicamente Vidua gli somiglia un po’), e che naturalmente sottoscrivo.

Vidua era un aristocratico, ma non un codino. Era un conservatore, ma non un reazionario. Si rifaceva agli ideali degli àristoi greci e latini come raccontati da Plutarco e da Tacito, ma quelle idealità le vedeva reincarnate anche nei crociati e nei paladini cristiani, o nei missionari gesuiti del Paraguay (quelli del film Mission). Tra i contemporanei che più ammirava c’erano i quaccheri americani, perché non si limitavano a professare la fede, ma la praticavano, e il filantropo inglese John Howard, uno che aveva girata tutta l’Inghilterra e buona parte dell’Europa visitando le carceri, denunciandone le atrocità e formulando suggerimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri. Ecco, Howard era il suo modello più prossimo: un grande viaggiatore (si calcola abbia percorso più di 70.000 chilometri) e un benefattore dell’umanità, ascoltato dai potenti, riconosciuto e celebrato (almeno nella sua epoca) un po’ ovunque. E Vidua lo contrappone in positivo, ad esempio, al nostro Beccaria, che si era conquistato la fama cercando di applicare alla realtà italiana i principi riformatori d’oltralpe, senza mai muoversi dal suo studio.

Insomma, Vidua era un utopista: ma non di quelli che immaginano un’utopia buona per tutti gli uomini, e cercano sciaguratamente di attuarla, bensì di coloro che se ne creano una individuale e cercano il più possibile di abitarla.

Già questo basterebbe ad assicurargli un posto nel mio cuore. C’è però molto di più. Sono convinto infatti come Machiavelli che i lettori più attenti del presente siano sempre i conservatori, che sanno ciò che perdono con il cambiamento, e non i progressisti, che oggettivamente non sanno cosa troveranno e ritengono che ogni novità sia di per sé positiva. E sono anche convinto che per lo stesso motivo i grandi reazionari (si pensi a De Maistre) siano i più sensibili ai dettagli anche minimi del cambiamento, coloro che ne scorgono prima degli altri gli indizi e ne presagiscono più lucidamente le derive negative. Il bilancio che traccia al termine del viaggio in America è la migliore testimonianza di questa capacità premonitoria.

Altri motivi di consonanza sono forse più banali, ma per me non meno significativi. Dell’ammirazione per Humboldt e di quella per De Maistre ho già parlato: aggiungerei quella per Vico, che all’epoca di Vidua era ignorato dalla gran parte dei nostri intellettuali, e ha continuato ad esserlo almeno sino alla riscoperta da parte di Croce. Ma pure quella per Plutarco e Tacito e Senofonte tra i classici antichi, e per Machiavelli tra i moderni.

C’è poi il legame forte con la campagna. Certo, nel suo caso è il legame che può avere un proprietario di risaie, dalle quali trae la rendita che gli consente di viaggiare, troppo distratto da altri impegni negli ultimi quindici anni di vita per curarne l’amministrazione. Ma dalle lettere traspare comunque un certo orgoglio per la propria origine “rurale”. Si manifesta anche in questo caso la bipolarità di Vidua, diviso tra l’ammirazione per l’industriosità e la crescita economica e la nostalgia per un mondo preindustriale che va scomparendo. Ciò spiega il fastidio per i disboscamenti selvaggi in Inghilterra prima e in America poi, la preoccupazione per perdita della centralità economica dell’agricoltura, che porta con sé il tramonto del millenario assetto sociale ad essa connesso. Ma spiega anche l’attenzione ai tipi di coltivazione, alle tecniche, alle rese, laddove la maggioranza dei viaggiatori suoi contemporanei in genere non distingueva una spiga di grano da un’erbaccia.

Viaggiando in rimoti paesi 30Tale senso di appartenenza gli fa anche ad apprezzare, ad esempio, le musiche della tradizione popolare in ogni parte del globo; e persino le espressioni dialettali, dalle quali vorrebbe liberare la nostra lingua, ma delle quali sente comunque, almeno in particolari contesti, la forza e l’espressività: racconta ad esempio divertito delle esclamazioni cui si abbandonava il suo maestro di musica: “così s’fa pu prest”, o “à l’è na bestia”.

E questo ci riporta al tema della lingua. Nel Discorso sullo stato delle cognizioni in Italia parla, come abbiamo già visto, della necessità per la lingua (e per la nostra cultura in genere) di spiemontizzarsi e sfrancesizzarsi, di “sottrarsi all’imbarbarimento”. Ma non è solo questione di tornare ad una purezza lessicale che in fondo il nostro idioma non ha mai conosciuto, e che semmai andrebbe costruita: ciò che Vidua auspica è una lingua il più possibile aderente all’oggetto, senza fronzoli e ghirigori, semplice ed efficace. Chiede di uscire dalle esasperazioni metaforiche e immaginifiche del Barocco, che nascono dall’assenza di contenuti, ma anche di rifiutare gli orrori e i languori lessicali del romanticismo. Oggi dovrebbe chiedere un risciacquo nella prosa calviniana per liberare il nostro lessico dai tecnicismi forzati, dagli anglicismi superflui, dagli idiomatismi virali, ma anche delle massicce iniezioni di concretezza nei temi e nelle argomentazioni. Sarebbe più anacronistico che mai, e si sentirebbe più che mai estraneo alla sua terra e alla sua gente. Sensazioni che conosco bene, così come conosco quella di incompiutezza, che fortunatamente in me è stata messa a tacere dall’età. Lui è stato meno fortunato.

I motivi dell’affezione per Vidua sono dunque svariati. I più significativi sono paradossalmente proprio quelli legati alle sue “debolezze”, alle incoerenze che anziché farmi avvertire una distanza me lo hanno avvicinato: il rapporto contradditorio col padre e con i luoghi dell’infanzia, l’oscillazione costante tra nostalgia del passato e speranza nel futuro, l’anelito all’assoluta libertà e la giustificazione, pur parziale del dispotismo, l’apertura e la disponibilità al confronto e l’intimo arroccamento su posizioni pregiudiziali. Ci accomuna persino il rapporto con la scrittura. Scrive a Roberto d’Azeglio: “Ho bisogno de’ tuoi consigli sullo scrivere o non scrivere viaggi — e in che lingua — la nostra è la più bella. Pur se li scrivo in Italiano, nessuno li leggerà. — Dall’uno canto ci inclino — dall’altro penso che già troppi viaggi sono stampati”.

Come esco, dunque, dal viaggio compiuto in compagnia di questo personaggio e delle sue lettere? Con un sentimento di rammarico: per lui, perché non ha completato il viaggio attorno al mondo, e soprattutto non lo ha potuto degnamente raccontare. Per me, che il viaggio non l’ho nemmeno iniziato, perché non ho mai visitato l’isola di Cos.

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Una bibliografia commentata

Nell’intraprendere la scrittura di questo pezzo ero pienamente consapevole dell’inadeguatezza delle mie forze (non ho le capacità di concentrazione indispensabili per una ricerca che risponda ai crismi “scientifici”) e anche del fatto che questo lavoro, indipendentemente dal risultato, non avrebbe contribuito granché ad arricchire e a divulgare la conoscenza del suo oggetto. Dovevo farlo per adempiere ad un impegno preso con Vidua diversi anni fa. Diciamo che era diventata una questione tra me e lui. Ho voluto comunque che nel suo piccolo la narrazione fosse la più esatta possibile. Per questo, oltre che dei testi originali delle lettere e dei pochi scritti editi di Vidua, mi sono avvalso di diversi studi a lui dedicati, scoprendo con mia sorpresa che sono molti più di quanto inizialmente reputassi. Quest’ultima constatazione da un lato mi rallegra, dall’altro mi fa deplorare il fatto che non sia ancora stata realizzata una biografia del Viaggiatore capace di sottrarlo al destino di nicchia, una di quelle cose all’inglese che rendono avvincente anche la storia di impiegato del catasto.

I materiali per un lavoro di questo genere sono a mio giudizio già presenti nel lavoro su Carlo Vidua. Un romantico atipico, di Roberto Coaloa e Andrea Testa, edito a cura del Comune di Casale Monferrato nel 2003, che rimane comunque una raccolta di testi redatti in diverse occasioni. Se organizzati in una corretta sequenza narrativa e depurati delle eccessive ripetizioni potrebbero già offrire un’immagine sufficientemente completa e accattivante del personaggio. Per quanto mi concerne, ho saccheggiato spudoratamente da questo testo le citazioni riferibili ai materiali inediti utilizzati dagli autori. Spero non me ne vogliano.

Per chi si fosse appassionato all’argomento sono reperibili (con un certo sforzo) una serie di testi su aspetti particolari della sua vicenda:

Angela Ferraris – Carlo Vidua. La virtù infelice, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Vincenzo Moretti – Carlo Vidua viaggiatore, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Un inquieto aristocratico subalpino, in “Studi piemontesi”, nov. 1986 vol. XV-2

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Viaggiatore e collezionista – Casale M., 1987

Andrea Testa – Carlo Vidua viaggiatore italiano negli Stati uniti, in “Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e di Asti” CV 1996

Andrea Testa – Riflessioni sugli ultimi viaggi di Carlo Vidua alla ricerca di nuovi mondi – Atti del convegno “L’altro Piemonte nell’età di Carlo Alberto”, ottobre 1999

Esiste anche uno schizzo biografico di misura analoga a quell0 mi0, un po’ datato nell’approccio “ideologico”, ma nel complesso esauriente e piacevole. È Il conte Carlo Fabrizio Vidua viaggiatore monferrino dell’800, di Mario Cappa, comparso sulla “Rivista di Storia, Arte Archeologia per le province di Alessandria e Asti”, anno LXXXII, 1973

Per leggere direttamente Vidua si possono (insomma!) vedere

Carlo Vidua – Relazioni del viaggio in Levante e in Grecia – Olschki, Firenze 2011 (stampato in facsimile)

Carlo Vidua – In Viaggio Dal Grande Nord All’impero Ottomano – Edizioni Dell’Orso, Alessandria (lo si trova a un prezzo che va dai 350 ai 380 euro)

Carlo Vidua – Narrazione viaggio alla Nuova Guinea 1830 (testo bilingue, a cura di Marisa Viaggi Bonisoli), ed. Angolo Manzoni, Torino 2003

Le Lettere sono rintracciabili invece solo nella versione digitale o a prezzo di antiquariato: Lettere del conte Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo. Tomi I – II – III, presso G. Pomba, 1834, all’indirizzo https://books.google.it/books/about/Lettere_del_conte_Carlo_Vidua.

Per una bibliografia esauriente (ma aggiornata fino al 2003) rimando al volume di Roberto Coaloa e Andrea Testa.

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considerazioni sull’attualità

di Carlo Prosperi, 28 febbraio 2022

Inutile girarci intorno: la politica è ancora (e da sempre) quella delineata da Machiavelli e regolata dalla forza o, meglio, dalla combinazione di forza e astuzia, di “lione” e di “golpe”. E il motto latino Si vis pacem, para bellum è più che mai di attualità. Dimenticato troppo presto da un’Europa imbelle ed, etimologicamente parlando, imbecille, illusa di poter fare a meno della forza per difendersi o fin troppo fiduciosa nella forza (l’ombrello) del “padrone” americano, paciosa e pacifista per ignavia, per calcolo o per paura. Chi non ricorda: “Meglio rossi che morti”? Eppure, la nostra mitizzata Resistenza ha richiesto il ricorso alle armi e il rischio della vita. Ci siamo illusi che bastassero le parole (del diritto, della diplomazia, della religione), il mantra del “volemosi bene” ad ogni costo e lo sviluppo dei traffici per imbrigliare le pulsioni della volontà di potenza, per stornare o per sedare gli appetiti dei popoli più agguerriti. La persuasione dei retori, la melassa verbale dei chierici, l’arte imbonitrice dei mercanti. E insieme l’evocazione dell’apocalisse dietro l’angolo, a mo’ di deterrente.

Bisognerebbe ricordare la ben nota risposta di Freud alla lettera di Einstein che sollecitava da lui un consiglio su come agire sulla mente umana per indirizzarla al rifiuto della guerra. Nella storia – secondo il padre della psicanalisi – i conflitti d’interesse tra gli uomini si sono generalmente risolti mediante la violenza, per eliminare o asservire il nemico, assecondando un’inclinazione pulsionale. Ebbene, due sono i tipi di pulsione: uno, Eros, tende alla conservazione; l’altro, Thanatos, tende all’aggressione e alla distruzione. Per quanto essi siano antitetici, anche il primo presuppone una qualche dose di aggressività, in quanto pure la pulsione amorosa mira ad appropriarsi dell’oggetto desiderato. Nondimeno, per infrenare in qualche modo la propensione alla guerra, non resta che incentivare quei legami tra gli uomini che creano amore e solidarietà; né questo basta a garantire la pace, giacché la comunità, fin dall’inizio, comprende elementi di forza disuguale: uomini e donne, genitori e figli, classi sociali diverse, diversi temperamenti. E ciò fa sì che non manchino mai motivi e momenti di competizione. La conflittualità convive così con l’amore. Non sempre armonicamente, non sempre pacificamente. Freud conclude pertanto che non c’è speranza di potere eliminare le inclinazioni aggressive degli uomini. Ed aggiunge che anche i bolscevichi speravano di sopprimere l’aggressività garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza tra tutti i membri della loro comunità, ma intanto avevano provveduto ad armarsi con il massimo scrupolo. E sappiamo che cosa ne è seguito.

L'ignavia delle democrazie 02

Ci siamo crogiolati nel benessere materiale, mentre altrove “i grandi Barbari bianchi” si preparavano ad affrontare “lunghe battaglie cruente”. Lo diceva Verlaine, più di un secolo fa; prima di lui Tacito, nella Germania, aveva inutilmente ammonito i Romani sul pericolo che incombeva su di loro. Noi ci siamo affidati alla diplomazia, abbiamo confidato nei “profeti disarmati”, ed ora ecco che i nodi vengono al pettine. Senza la forza non si difendono né i diritti né gli interessi. I trattati vengono stracciati, il lupo rimbrotta l’agnello di volerlo azzannare: un déjà vu impressionante. La storia stessa viene artatamente piegata dal prepotente a sostegno delle proprie ambizioni. Modeste all’inizio, almeno all’apparenza, ma si sa: l’appetito vien mangiando. L’orso ha prima ingoiato la Crimea, ora s’appresta a fagocitare il Donbass, domani punterà su Odessa … Già ha detto che per lui l’Ucraina è un’espressione geografica. La storia, come vediamo, si ripete. E l’Occidente parla di sanzioni, che dicono devastanti. Ma per chi? E poi la memoria è corta: le sanzioni non hanno fermato nemmeno l’Italietta di Mussolini, anzi, per certi versi, hanno contribuito a compattare la nazione attorno al Duce, a consolidarne il consenso. Peraltro, gli effetti più incresciosi delle sanzioni ricadono in genere sui più poveri …

La situazione attuale, mutatismutandis, ricorda molto quella del settembre 1938, sfociata nel disastroso accordo di Monaco. Contro Chamberlain, che lo sottoscrisse, inveì allora Churchill, bollandolo con le impietose parole: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore ed avranno la guerra”. Per quanto terribile – mi viene da chiosare –, la guerra è meglio che arrendersi, sperando nella pace, a chi la guerra vuole a tutti i costi e la farà, senza chiederci il permesso per quanto pacifisti ci dimostriamo. Non ho mai provato grande simpatia per Churchill, che giudico cinico, ma è fuor di dubbio che aveva ragione: “il pacifista è quello che nutre il coccodrillo sperando che lo mangi per ultimo”. È ben vero che grandi sono le colpe dell’Occidente e, in particolare, degli USA, che, dopo aver illuso Tbilisi, ora ha fatto lo stesso lasciando balenare agli occhi degli ucraini un’impossibile adesione alla Nato. Biden ha già fatto rimpiangere Trump, ed è tutto dire. Frustrato della pessima e ignominiosa figura fatta in Afghanistan, ha cercato di rivalersi facendo la voce grossa contro la Russia, agitando davanti all’orso il drappo rosso della Nato, fomentando contro di esso il risentimento del popolo ucraino, aizzandolo a distanza, usandolo come cavia, in una versione aggiornata dell’”Armiamoci e partite!” di casa nostra. Un vero apprendista stregone. E sono convinto che a incoraggiare e a convincere Putin a invadere l’Ucraina sia stato proprio la disastrosa ritirata dall’Afghanistan, che ha dimostrato al mondo come gli Stati Uniti non si siano ancora ripresi dal trauma del Vietnam.

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Putin, maestro di provocazioni, ma di pasta ben diversa dal Giovannin Bongee di portiana memoria, di provocazioni non aveva bisogno per attaccare, ma se n’è servito per coonestare una decisione già presa e volta a restaurare, su nuove basi, l’impero sovietico. Non è un caso che le truppe russe stanzino tuttora in Bielorussia, donde aveva promesso di ritirarle in breve; non è un caso che siano intervenute nel Kazakistan, dove ovviamente sono state invocate dall’ineffabile Nazarbayev; ed ora entrano, sollecitate a pacificarlo, nel Donbass. Il solito copione, mille volte già sperimentato. Tutto per portare la pace. Oggi la guerra si chiama pace: quante volte l’abbiamo già sperimentato: in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Afghanistan, in Iraq, in Serbia, in Kosovo e altrove! In fondo, anche il monaco medievale agiva così: quando non aveva pesci a disposizione per i giorni di magro, ricorreva ad analogo espediente, prendeva cioè un pezzo di carne e, tracciando su di esso un segno di croce, diceva: Ego te baptizo piscem.

Ma non è finita qui: questo, anzi, è solo l’inizio. La storia – dicevo – si ripete: al patto Ribbentrop-Molotov corrisponde quello tra Putin e Xi Jinping. E si può scommettere che, mentre la Russia sbranerà l’Ucraina, la Cina azzarderà un allungo su Taiwan. Si ripeteranno insomma i drammi della Polonia e della Finlandia. Come se tutto fosse già scritto. Parliamo tanto del caso, ma dietro il caso s’intuisce una logica – quella degli eventi – che ogni volta ci sorprende. Ma ciò dipende dal fatto che “la storia non è magistra di niente che ci riguardi”. O dal fatto che noi non vogliamo vedere, per non fare i conti con la realtà, con la sua granitica durezza.

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Qualcuno pensa davvero che la nostra democrazia sia davvero riformabile dall’interno? Quando la libertà diventa licenza, gli uzzoli diritti, l’irresponsabilità verso la comunità e il bene comune la norma, il relativismo nichilista la stella polare, dove si può andare se non alla deriva? La democrazia per funzionare dev’essere sana e forte: deve farsi rispettare. E questo da noi non avviene più. E troppi non sono più disposti ai sacrifici che la sua difesa comporta. Come se, vivendo nel migliore dei mondi possibili, non ci fosse più da preoccuparsi di alcunché. La democrazia – diceva qualcuno – è un plebiscito quotidiano, ma per molti oggi è una sinecura. Oggi le democrazie faticano (per usare un eufemismo) a immaginare una dimensione militare. I despoti, a differenza delle democrazie, sono disposti e non hanno remore a pagare in vite umane. Chi non era disposto ieri a morire per Danzica, non lo è oggi per Kiev, non lo sarà domani per Taiwan. Le dittature sanno che nessuno si azzarderà a contrastarle, se non a parole. Già in Siria, a parole, per Obama la linea rossa da non superare era l’uso delle armi chimiche. Assad, però, non esitò a superarla, e Obama non intervenne. L’Occidente, oggi, si limita ad ammirare la resistenza eroica del popolo ucraino, la incoraggia, ne auspica il prolungarsi, ma, a ben pensarci, sa che non riuscirà a frustrare i piani dell’aggressore. Tanto vale, allora, che finisca presto, prima che il bagno di sangue si espanda.

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Ad ogni piè sospinto inneggiamo all’Europa, ma dov’è l’Europa, la sua unità d’intenti, la sua lungimiranza? Dov’è la progettualità realistica, il respiro in grande, l’azione comune? Dove imperano gli egoismi, dove la gelosia prevale, non può esservi solidarietà. E là dove si rinunci alla sovranità, il cittadino non è motivato ad agire. La sovranità non si può delegare, non può diventare un processo burocratico o essere affidata ad una casta di tecnici o, peggio ancora, ad una élite di poteri forti. Manca un idem sentire, anche perché i valori storico-culturali che potrebbero fare da collante si sono diluiti nella fluidità delle società moderne, dove ognuno la pensa a suo modo e a suo modo agisce, senza saldi punti di riferimento, senza principi regolativi, senza coerenza e senza coscienza.

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Se la consideriamo con distacco, la realtà ci dice che i regimi da noi democratici esecrati, autocratici o dispotici che siano, a volte funzionano. Anche meglio della democrazia. Prendiamo ad esempio quel monstrum che è la Cina, dove il comunismo si è realizzato come capitalismo di Stato. Intanto, però, è riuscito a sfamare un miliardo e mezzo di persone e a consolidare un impero, eminentemente economico, evitando l’anomia, il caos e la disintegrazione con il classico binomio del bastone e della carota, all’occorrenza pure con il pugno di ferro; altrimenti non vi sarebbe riuscita. Noi che siamo affezionati alla democrazia, non ci avvediamo che essa – come ha ben spiegato Nick Land – è tirannia della maggioranza, e purtroppo, vista la composizione di ogni maggioranza, tirannia dei peggiori. La democrazia è legata all’espansione infinita dello Stato e non può che finire male. Spogliata da ogni retorica, è solo un sistema per depredare (nei casi migliori a turno) le minoranze del momento attraverso la redistribuzione delle tasse. Aspettarsi dalle volubili democrazie un modello di sviluppo sensato è insensato. Nella democrazia, conta il presente: bisogna depredare il possibile perché al prossimo turno il governo potrebbe toccare ad altri. Questo fenomeno predatorio riguarda la politica ma anche i gruppi sociali rappresentati dai partiti vincitori. Dice Land: “Mentre il virus democratico distrugge la società, le abitudini scrupolosamente accumulate e gli atteggiamenti di lungimirante e cauto sviluppo umano e industriale vengono sostituiti da un consumismo sterile e orgiastico, dall’incontinenza finanziaria e da un circo politico in stile reality show”.

Non so se la Russia ambisca ricalcare le orme della Cina, se ne sia in grado. Guardando alla storia, si direbbe di no. Ma intanto sembra che Putin, tappa dopo tappa, stia impeccabilmente realizzando il suo progetto di restaurazione imperiale. Qualcuno (e chi se non Trump?) lo ha addirittura definito un genio, e del grande dispiegamento di carri armati russi presentati come una forza di pace ha parlato con l’ammirazione dimostrata dal Segretario fiorentino per le gesta omicide del Valentino. O, per restare più vicino a noi, con la basita stupefazione che indusse Karlheinz Stockhausen a definire l’attentato alle Twin Towers come “la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo”.

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Buoni propositi

di Paolo Repetto, 31 dicembre 2021

Sono le otto del mattino del 31 dicembre e ho deciso di accettate la sfida. La sfida è con me stesso, e consiste nel riuscire a buttar giù entro le prossime dodici ore un elenco di possibili temi di discussione con i quali festeggiare (insomma) la dipartita di questo ennesimo anno funesto. È una cosa da fare entro le venti per consentire a Fabrizio di postare il tutto sul sito, ed entro oggi perché immagino una serata in tono minore (o maggiore, a seconda dei punti di vista) per un sacco di gente, soprattutto per gli amici che non godranno della mia compagnia: un capodanno trascorso mestamente in casa, col rischio di intossicazione alcoolica o televisiva. Ho quindi in mente come destinatarie di questo messaggio riunioni amicali o familiari ristrette, di quelle in cui lo spazio per la comunicazione di eventi quotidiani positivi o negativi (accoppiamenti/separazioni, promozioni/problemi sul lavoro, ecc. ) o di gossip ordinario è molto ridotto, perché si sa già tutto di tutti, mentre è per una volta un po’ più ampio quello temporale per affrontare argomenti di stampo diverso. Ma potrebbe anche essere il caso di un capodanno solitario, o di coppia, e in questo caso l’interlocutore potrebbe diventare magari il computer (sono un po’ scettico sul livello del dibattito domestico, a prescindere dall’oggetto dibattuto).

I temi che propongo alla discussione non sono in effetti quelli scelti di solito per riempire l’attesa di un’ora tanto simbolica. Ma anche gli argomenti apparentemente meno distensivi possono essere trattati con un filo di leggerezza, come si conviene alla specifica occasione: ad esempio, riflettendo sul fatto che nelle varie parti del globo quell’ora è diversa, che in Australia quando noi facciamo fare il botto allo spumante si accingono al primo pranzo dell’anno nuovo, mentre a New York escono dal lavoro dell’ultimo giorno di quello vecchio. E che per altri ancora, più della metà dell’umanità, il capodanno arriva in un altro giorno (quello ortodosso, ad esempio, il 14 gennaio) o addirittura in un altro mese (quello cinese il 1 febbraio). Il che sarebbe già più che sufficiente a togliere ogni sacralità e legittimità al nostro festeggiamento, e a farci laicamente decidere di andare a letto (col che il problema di riempire l’attesa non si porrebbe).

Buoni propositi 02Mettiamo però che per qualche loro ragione, fosse anche solo per abitudine, il gruppetto, la coppia o il singolo decidano di tirare dritto e approdare alla mezzanotte. Non possono rimanere con forchetta e coltello in mano dalla cena all’ora x, almeno qui in Piemonte, dove il pasto serale inizia alle 20. Bisogna mettere sul tavolo, oltre ai ravioli, alle lenticchie, ai panettoni e alle bevande, anche qualcos’altro. E non è necessario farlo in maniera ufficiale, dichiarando il tema della serata e inducendo subito tutti a lasciar cadere le braccia e le posate. Si può buttare l’amo con leggerezza, innescandovi un banale riferimento o una battuta: che so, la nascita di un nipote o il rifiuto sempre più diffuso di responsabilità familiari da parte dei figli potrebbe aprire la strada a un dibattito sulla sovrappopolazione; una considerazione sul tipo di fauna che monopolizza i programmi televisivi potrebbe far scivolare verso la questione gender, ecc. L’importante è che poi la discussione e le argomentazioni rimangano su un piano di assoluta levità: ovvero, non scadano nel litigio o nella volgarità, e l’occasione non venga sfruttata per tenere conferenze o impartire lezioni.

Confesso però che quello dell’attesa “impegnata” è solo un escamotage. Non sono così sadico da voler rovinare a qualcuno la serata. Il vero scopo di questo elenco non è quello di nobilitare “culturalmente” la vigilia. L’ho pensato come un’agenda da trasmettere al prossimo anno: una serie di punti che vorrei vedere trattati nell’immediato futuro sul sito, con tutta la serietà possibile, che significa con ragionevolezza e con un po’ di cognizione di causa. La sfida in questo caso non è al tempo, ma agli amici e a tutti i frequentatori del nostro sito. Esistono senza dubbio innumerevoli altri argomenti di altrettanta rilevanza, ma quelli che troverete elencati già bastano ed avanzano per giustificare l’attività di riflessione di un intero anno, e anche di quelli successivi, se verranno. Ed è evidente che nessuno ha la presunzione di dare risposte o scovare formule che salvino il mondo o ne correggano anche in infinitesima parte le storture: semplicemente, si tratta di viverci, in questo mondo, per quel poco di tempo che ci è dato, in maniera per quanto possibile consapevole e dignitosa. Di provarci, almeno.

Col che, bando alle chiacchiere e passiamo a considerare questi possibili argomenti. Non li elenco secondo un qualche criterio di rilevanza, ma semplicemente in ordine di apparizione (alla mia mente)

Buoni propositi 031. L’intelligenza artificiale, ad esempio. Viene per prima perché è lo stimolo che ha fatto scattare tutta questa operazione. Ne ragionavo ieri con Nico, e mi è rimasto in testa. Non è, come dicevo sopra, uno degli argomenti di cui si parla normalmente a tavola, soprattutto in questo periodo, nel quale la pandemia ha fatto uscire semmai allo scoperto un grave deficit di intelligenza naturale. Ma il motivo vero per cui non se ne parla è che le competenze in proposito sono decisamente poco diffuse. Preferiamo lasciare che se ne occupino i matematici, gli informatici e i cognitivisti.

Eppure, con l’intelligenza artificiale già conviviamo da un pezzo. È applicata in campo medico, nel controllo della finanza, nella traduzione e nell’elaborazione di testi. Abbiamo a che farci quotidianamente guidando le automobili di ultima generazione, segnatamente quelle elettriche, e stanno arrivando quelle a guida totalmente autonoma. Oppure, nella comunicazione, interloquiamo costantemente con assistenti telefonici automatici, mentre oltreoceano troviamo addirittura quotidiani già diretti da un software. Il fatto è che, a differenza di quanto accade per i mutamenti climatici, questa presenza non la notiamo granché, ad essa ci stiamo rapidamente assuefacendo. Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema. La domanda è: sarà in grado l’intelligenza artificiale di superare quella umana? E se si, quali possono essere le conseguenze? Io naturalmente qualche idea ce l’ho, e la butto lì come innesco alla riflessione. L’intelligenza artificiale è in grado di viaggiare, nell’elaborazione dei dati e nella formulazione delle risposte, a una velocità infinitamente superiore a quella del cervello umano. Il suo vantaggio è questo. Il suo handicap, paradossalmente, è invece costituito dal fatto che non può sbagliare, almeno in relazione alle cose per le quali è programmata. E noi sappiamo che le conquiste umane, l’evoluzione stessa, si basano sulla possibilità di errore: ogni mutazione biologica è frutto di un errore di duplicazione cromosomica, ogni grande scoperta è frutto di uno scarto da quella che appariva la giusta strada. Quindi: l’intelligenza artificiale, per complessa che sia, non dovrebbe arrivare a superare quella umana. Ma senz’altro può mettere fuori gioco quest’ultima, proprio in ragione della velocità. Abbiamo sempre più bisogno di questa velocità, ma a questo punto l’intelligenza artificiale è diventata autoreferenziale ed è essa stessa a indurre questo bisogno, lasciandoci sempre più indietro. Già si stanno creando le condizioni per le quali non riusciremo più a tenerla a bada. Inoltre, proprio perché organizzata in modo da non contemplare l’errore, l’intelligenza artificiale sviluppa e impone una logica tutta sua, lineare, con la quale interpreta un mondo che lineare non è affatto, che è invece dominato da forze che sfuggono a qualsiasi riduzione ad algoritmo, e abitato da uomini che agiscono in maniera tutt’altro che logica e prevedibile. L’unica cosa che possiamo ragionevolmente prevedere è che, comunque la si metta, non ne verrà fuori nulla di buono.

Buoni propositi 042. Altro argomento poco affrontato all’ora di cena, ma anche in tutte le altre, è quello del sovrappopolamento del pianeta, In questo caso a indurci a glissare sono diversi fattori. Intanto la convinzione che si tratti di un fenomeno ineluttabile, rispetto al quale non c’è politica o scelta che tenga, e che sarà semmai la natura stessa presto o tardi a farsene carico. Poi il disagio, un fastidio da un lato e quasi un senso di colpa dall’altro, che proviamo nel renderci conto come in realtà dalle nostre parti sia in atto già da un pezzo un decremento demografico, mentre altrove, nelle aree che un tempo erano definite sottosviluppate e che in gran parte sono effettivamente tali ancora oggi, la direzione si inverte. Di oggettivo ci sono solo alcuni dati: ci stiamo approssimando agli otto miliardi, e a questo ritmo il prossimo capodanno li avremo superati, perché la popolazione mondiale è cresciuta nell’ultimo anno di oltre ottantun milioni: negli ultimi trentacinque anni è rimasta pressoché stabile in Europa, è più che raddoppiata in Africa, è aumentata di oltre il cinquanta per cento in Asia e in America Latina, e del quaranta per cento nell’America del nord. In Italia il saldo demografico è negativo da dieci anni, il che significa che la popolazione è calata sotto i sessanta milioni, dopo averli abbondantemente superati: quello naturale, il rapporto cioè tra nati e morti, è stato lo scorso anno quasi di uno a due, le nascite sono state la metà dei decessi. Sulle cause di questi differenti fenomeni non mi dilungo, dovrebbero essere appunto il sale della discussione.

Lo stesso vale per le proiezioni: quelle più catastrofiche parlano di una popolazione mondiale che toccherà i dodici miliardi alla fine di questo secolo, altre più ottimistiche si fermano a quasi nove miliardi, prevedendo un picco verso la metà e un calo considerevole nell’ultimo quarto. Ma anche questa seconda prospettiva non modifica significativamente la portata del problema, perché il peso della popolazione è già oggi insopportabile per il globo, e considerando anche lo stato attuale di sfruttamento delle risorse, a partire dall’acqua, la stima di quello ottimale per ripristinare un equilibrio non va oltre i tre miliardi. E non basta appellarsi ad una distribuzione più equa delle risorse: comunque divisa, la torta rimane quella.

Bene, tutte queste cifre spiegano il perché del nostro senso di impotenza e il modo in cui la crescita si differenzia spiega invece il perché del nostro disagio. In sostanza: il decremento demografico in teoria ci va bene, solo vorremmo che si verificasse anche nelle altre parti del mondo. Ma il decremento comporta anche un invecchiamento medio della popolazione, quindi sempre meno lavorativi attivi in grado di garantire il benessere di quelli inattivi. Il che rimanda immediatamente al tema dell’immigrazione. In Italia, ad esempio, abbiamo bisogno di importare forza-lavoro, ma in questo modo importiamo anche culture non sempre compatibili con la nostra (con buona pace dei multiculturalisti): per garantire la sopravvivenza di quest’ultima (sempre che lo si ritenga necessario, e anche su questo le opinioni sono molto diverse) dovremmo invece favorire una politica di incentivazione delle nascite, sul tipo di quelle adottate nei paesi del nord Europa. Contravvenendo però in tal modo a quello che la natura suggerisce. Insomma, un gran pasticcio, del quale siamo decisamente poco consapevoli e meno ancora informati.

Buoni propositi 053. Si parla molto, invece, anche troppo, di identità di genere, e l’impressione è che lo si faccia sempre in termini sbagliati, o quantomeno ambigui. In realtà se ne sente parlare quasi esclusivamente da chi questa identità la vive come un problema, ciò che di per sé sarebbe più che giusto, o da chi l’ha ridotta allo stato “liquido” oggi tanto di moda, e questo invece ci irrita. A disturbarci sono prima di tutto i modi e i luoghi della discussione, l’esasperazione isterica e i salotti televisivi, la sua resa totale alla spettacolarizzazione. Nemmeno questo è dunque un argomento conviviale, sia pure per tavolate ristrette, perché affrontarlo ci mette in difficoltà: da un lato c’è sempre il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno direttamente o indirettamente interessato, dall’altro abbiamo timore di essere fraintesi, oppure proviamo la sensazione di tradire la nostra vocazione “di sinistra”, progressista, che dovrebbe vederci disponibili alle più ampie aperture. Finisce così che quando capita di sbatterci contro liquidiamo la faccenda o assumendo posizioni ideologizzanti o trincerandoci sarcasticamente dietro banali battute.

Questo accade perché ancora una volta un problema reale, quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze e a considerare le diversità un valore, è stato estremizzato sino all’affermazione dell’inesistenza di differenze tra i sessi biologici, dalla quale discenderebbe la possibilità di variare a piacimento la propria identità sessuale. Leggevo ieri che in Danimarca dall’anno entrante l“appartenenza” sarà anche ufficialmente quella “percepita” dal soggetto, sarà cioè sufficiente dichiararla per cambiare il proprio stato anagrafico. Le ricadute di carattere sociale, giuridico e psicologico sono difficili da immaginare, e infatti sino ad oggi l’esercizio è stato proprio quello di provare a immaginarle, troppo spesso però, anzi, quasi sempre, fermandosi al livello della barzelletta o del paradosso. Anche se personalmente non ritengo che al problema si debba dare una priorità assoluta (contrariamente a quanto abbiamo visto accadere con la legge Zan, che ha provocato addirittura tumulti in parlamento, mentre all’atto della discussione e dell’approvazione di una legge sull’eutanasia Montecitorio era deserto), forse varrebbe la pena di cominciare a trattarlo con un po’ di serietà, lasciando da parte ogni “politicamente corretta” ipocrisia.

Buoni propositi 064. In questo gioco delle ipocrisie la “sinistra”, o quel che ne resta, o quel che ancora si autoetichetta tale, senza dubbio primeggia. Non avendo uno straccio di idea, di progetto, di visione del presente e tanto meno del futuro, vive di continui apparentamenti, insegue movimenti e campagne d’opinione specifiche, cerca di stare al passo con un mondo in trasformazione ma non ha chiara nemmeno la direzione in cui muoversi. La miopia relativa al presente e al futuro nasce dalla rimozione del passato. Voglio dire che la sinistra, quella eterodossa non meno di quella tradizionale, non ha mai fatto una pulizia reale nella propria storia: nel secondo caso l’ha semplicemente messa in soffitta pensando di potersi riconvertire (in cosa?) senza pagare alcun dazio, nel primo continua a trastullarsi con scampoli di nostalgie o con cause abbracciate senza alcuno spirito critico, per avere una qualche bandiera, uno slogan, una kefiah da esporre, e un nemico su cui scaricare i mali del mondo. Mi piacerebbe poter sognare una “rifondazione” della sinistra a partire da alcune basilari prese d’atto, ad esempio quella relativa all’inesistenza di una “natura umana” positiva (alla Rousseau, per intenderci) e alla “naturalezza” invece delle soluzioni culturali escogitate dall’uomo per garantirsi la sopravvivenza, con tutto quel che nel bene e nel male ne è conseguito: ma sembra proprio si continui a viaggiare nella direzione opposta. Anzi, a marciare sul posto. L’antisemitismo sinistrorso riemergente e la riscoperta di un’antropologia ideologizzata (i pacifici cacciatori-raccoglitori del paleolitico, le società libere dei nomadi) sono lì a confermarmelo.

Questo si, è un argomento da tavolata, anche di fine anno. Lo è stato, almeno, ai vecchi tempi prepandemici (gli anni ormai sembrano secoli), quando le tavolate si facevano e parlare di sinistra sembrava avere ancora un senso. Potrebbe essere l’occasione per riprendere in piccolo l’abitudine, e il senso reinventarlo. Mi riferisco naturalmente non alla serata, ma all’anno che verrà, anche se nulla vieta di anticipare un po’ i tempi. Ma in questo caso va fatta attenzione al menù: la discussione sulla sinistra si concilia bene solo col cotechino.

Buoni propositi 075. Il cotechino rappresenta un piccolo tassello di conservazione della memoria. Rimanda al maiale, alla sua importanza nell’economia e nella dieta contadina, ai significati positivi che in quella alimentazione rivestivano i cibi molto grassi e alle simbologie ad essi connesse. Questo della conservazione della memoria è un altro tema particolarmente consono alla serata. In fondo si celebra un rituale tradizionale di rinnovamento, che sia pure in tempi diversi è presente presso tutti i popoli della terra.

Due letture recenti mi hanno indotto, attraverso sollecitazioni molto differenti, a soffermarmi proprio su questo tema. Nel saggio La memoria del futuro Alexander Stille analizza i modi in cui, nel vorticoso avvicendarsi dei mutamenti tecnologici, il nostro rapporto con il passato si sta trasformando. Questo rapporto dipende da come il passato lo registriamo, lo fissiamo, ed è naturalmente molto diverso farlo attraverso la tradizione orale, con la scrittura o con le tecnologie informatiche. Ciò può sembrare lapalissiano, ma la cosa si fa interessante quando consideriamo ad esempio la differente idea di conservazione presente nelle culture architettoniche del legno rispetto a quelle della pietra. I giapponesi, per citare un caso, ricostruiscono ritualmente ogni vent’anni tale e quale un tempio scintoista realizzato nel VII secolo d.C., e affidano la patente di antichità piuttosto all’idea che alla sua espressione concreta. Allo stesso modo in Cina prevale la cultura della copia: dal momento che la maggior parte dei dipinti cinesi erano eseguiti su carta, l’opera degli artisti maggiori ci è stata tramandata nei secoli attraverso la realizzazione di copie. Al contrario, in Occidente hanno prevalso tecniche come l’affresco, la pittura a olio e, in campo architettonico, le costruzioni in pietra. Ha prevalso la cultura dell’“autenticità” materiale.

Buoni propositi 08Ora, questo ha qualcosa a che vedere con le lenticchie e tutto il resto? In un certo senso si, e mi riferisco soprattutto alle modalità conservative orientali, dal momento che quelle che chiamiamo tradizioni son in realtà delle copie, nel nostro caso nemmeno tanto fedeli, di costumi antichi. Ma quel che trovo interessante non sono tanto i modi quanto i moventi alla conservazione. Voglio dire: ha senso tenere in vita queste testimonianze del passato, quando poi nella realtà, al di là di un interesse puramente affettivo o nostalgico (quando va bene), esse non ci parlano più?

Me lo chiedevo proprio ieri, dopo che gli effetti collaterali di una ricerca sul web mi avevano condotto ad un sito che ospitava storie a fumetti complete, tratte dal Vittorioso dei primi anni Cinquanta. Le ho scaricate tutte, di alcune avevo un vago ricordo, altre le ho scoperte per la prima volta, ed emanavano lo stesso fascino che mi aveva ammaliato quando le leggevo a sette o otto anni. Mi è parso di aver ritrovato un tesoro, ma appena l’entusiasmo ha cominciato a scemare ho realizzato che quel tesoro non era più spendibile, era tutto in valuta fuori corso, non avrei potuto trasmetterlo nemmeno a mio nipote.

A questo volevo arrivare. Il cotechino ci sta benissimo, e così i ravioli, o le lasagne, o qualsiasi altro piatto legato al rituale celebrativo. Ma manca l’ingrediente principale, non dico la fame, perché non l’ho mai conosciuta, ma almeno l’eccezionalità del menù, quella che creava e giustificava l’attesa. Vale lo stesso per la storia. Non c’è più fame di storia, perché la storia era un propulsore per l’avvenire, e oggi non c’è più avvenire. Quella che consumiamo è storia ripulita, precotta, offerta in confezioni plastificate, che si può congelare e scongelare a piacere. Spesso non nemmeno tale, è soltanto “memoria”, che oggi tira molto di più. Soprattutto ci viene servita in mezzo a innumerevoli altri piatti altrettanto appetitosi, e i gusti si perdono e si confondono. Qual è allora la vera ragione per la quale ci ostiniamo nell’opera di “conservazione”?

Mi sembra a questo punto che il menù sia già sin troppo ricco: può riuscire pesante. Ma volendo si potrebbero introdurre delle varianti: i temi cui attingere non mancano, soprattutto se si scende ai piatti poveri, e vanno dallo stato pietoso dell’informazione alla rinnovata fenomenologia della stupidità, dal breve risveglio ambientalista allo stordimento culturale ed emozionale da pandemia.

Manca solo il dessert, e quello lo offro io, assieme alla promessa (alla minaccia?) che su questi temi tornerò.

Buoni propositi 09Dunque. Due settimane fa sono andato a prendere mia figlia Chiara che sbarcava a Linate. Tra ritardi e controlli sanitari rafforzati ho atteso più di un’ora davanti al varco d’uscita, cosa che si verifica ogni volta e che tutto sommato non mi spiace più di tanto, perché mi consente una panoramica spesso assai divertente sul mondo dei traveller’s. Stavolta però a guastarmi il piacere c’erano sei cani, che giustamente per tutto il tempo dell’attesa hanno fatto cagnara, con sommo compiacimento dei loro padroni, che al contrario dei cani hanno subito fraternizzato. Non mi era mai capitato prima, credevo anzi che fosse loro interdetto l’accesso. Non solo, ma quando finalmente i passeggeri sono sbarcati, all’apparire dal varco il loro grido di gioia era rivolto non a genitori o fratelli o fidanzati, ma ai cani, e così anche il primo abbraccio. Ora, io mi chiedo, e vi chiedo: tutto questo, vorrà dire qualcosa?

Avete un anno per pensarci. Oppure, se pensare vi costa troppa fatica, prendetevi un cane.

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Attenzione!

Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano ​in una villa abbandonata …

di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.

Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!

Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).

E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.

Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.

La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.

La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.

Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.

Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.

Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.

Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.

E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.

La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.

Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.

E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).

Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.

Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.

No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).

Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).

Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…

Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.

Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.

In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.

Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.

E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black! 

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