Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

Il fine, non il mezzo

ricordo di Giorgio Bettinelli

di Vittorio Righini, 8 novembre 2025

Giorgio Bettinelli (Crema, 15/05/1955 – Jinghong, 16/09/2008) è, credo, lo scrittore di viaggi italiano meno noto agli amanti del genere, e penso per una ragione precisa: perché lo conoscono prevalentemente quelli che hanno uno scooter Vespa, vecchia o nuova, giacché lui il mondo che ha raccontato nei suoi libri l’ha girato e rigirato in Vespa. Temo appunto che molti non l’abbiano letto perché i suoi libri sembrano destinati ai motociclisti.

No, la Vespa è davvero solo il mezzo, non il fine; se ne parla il minimo indispensabile, per una foratura, per un getto sbagliato del carburatore e una conseguente grippata, per una caduta sotto la pioggia battente, e per piccoli problemi pratici; ma anche per scorrazzare 5 o 6 bambini nei più sperduti posti del mondo e portarli a fare un giro in paese accolti dai sorrisi aperti dei genitori e degli amici, o infine per caricare qualche temporanea fidanzata.

Non sono libri da comprare per leggere nuove informazioni sul più noto e popolare mezzo meccanico italiano a due ruote, che ha movimentato tanta brava gente dal dopoguerra in poi; semmai sono da leggere anche se non avete una Vespa, non siete mai saliti in moto ma amate la narrativa di viaggio, il fine ultimo di Bettinelli.

Ho letto molti libri di viaggi in moto: ad esser sincero, la maggior parte non mi sono piaciuti. Perché alla fine ciò che conta è l’autore, come ragiona, come vede le cose e come le racconta, come scrive. E Giorgio scriveva in modo semplice, corretto e molto scorrevole, fluido e senza terminologie astruse, spesso con le parole in lingua originale adeguatamente spiegate e rese comprensibili.

Posto queste paginette leggere per consigliare la lettura di uno dei suoi libri a tutti coloro che vogliono viaggiare per il mondo con la mente, andando indietro di qualche anno comodamente seduti in poltrona, e ancora non lo conoscono. Nella narrativa di viaggio italiana, Bettinelli secondo me è uno di quelli più ‘‘inglesi’’, nel senso positivo del termine, nel senso riferito ‘‘solo’’ ad alcuni scrittori inglesi, non a tutti. Umile, modesto, per nulla snob, sempre vicino ai più poveri, anche solo per quel poco che poteva dare.

Mai aggressivo, mai sentenzioso, mai tuttologo, mai politicamente sbilanciato, al contrario di qualche famoso e idolatrato scrittore italiano di genere simile che negli ultimi libri si era fatto prendere un po’ troppo la mano.

Un passato da musicista in gioventù in Italia, certo poco noto ai più ma abbastanza di successo (io non lo ricordo proprio), quando incise la hit Barista, una divertente canzone che riscosse consensi nella seconda metà degli anni ‘70, e che trovate su youtube eseguita con I Pandemonium.

Ha suonato in diversi gruppi, in televisione e nei tour, dalla musica sperimentale al pop, fino alla performance al Festival di Sanremo del 1979 proprio con I Pandemonium e alle collaborazioni col Maestro Mazza (il Maestro “Mazzo” di Arboriana memoria).

Ha lavorato con Gabriella Ferri, Rino Gaetano e altri ancora; inoltre era presenza fissa nelle puntate in televisione del Gino Bramieri show. Nel mentre si era laureato in Lettere all’Università di Roma e aveva continuato il suo peregrinare asiatico, iniziato all’età di 17 anni.

 Con la Vespa tutto era cominciato per caso, a Bali, dove un suo amico, per pagare un debito che Giorgio non avrebbe sicuramente riscosso, dato il suo carattere bonario e generoso, gli regalò una vecchia Vespa. Da quel momento in poi è stato seduto sul sellino per oltre 300.000 km, in ogni angolo del mondo. Sempre da solo … tranne che per qualche bella passeggera occasionale.

È morto nel 2008, a soli 53 anni, per una disgraziata infezione, accudito dalla amorevole compagna cinese Ya Pei, ma probabilmente curato in modo inadeguato dalle autorità mediche locali, a Jinghong, Cina, sulle rive del Mekong, dove abitava da qualche anno con Ya Pei. Stava completando un libro sul Tibet, ma non ci è riuscito.

In Brum Brum, il secondo libro, a pag. 215 c’è un passaggio che ben identifica il personaggio, e che vi trascrivo:

(Guadalajara, Messico, Hotel Los Escudos, fine anni ‘90):

“Seduta sul marciapiede davanti all’ingresso, con la pigmentazione del viso marezzata da una malattia della pelle e i polpacci deformati dalla gotta, una vecchia chiede la carità biascicando una giaculatoria, con un sorriso salivoso. Lascio cadere qualche peso cercando di non guardarla e di resistere all’odore che emana dai suoi vestiti, mentre ripenso a quel ragazzo (nota: ragazzo invalido di guerra incontrato in un precedente viaggio in Africa) della Sierra Leone e alle sue parole su questo shitty place pieno d’ingiustizie: ma sappiamo già tutto fin nei minimi dettagli, anche se cerchiamo di pensarci il meno possibile, come il meno possibile pensiamo alla morte, altrimenti la vita sarebbe insopportabile. Qualcuno riesce a fare di più, qualcun altro di meno; c’è chi prende un aereo e va nei lebbrosari di Calcutta, e c’è chi si trova ad entrare nel foyer di Los Escudos e prende una camera e una birra gelata. L’importante, credo, sia non fingere; giocare la partita con le carte che si hanno in mano cercando di essere più buena gente che hijo de puta, sentendosi più vicini alla nobiltà di chi ha perso che all’arroganza di chi ha vinto, e più lontani dalla meschinità di chi ha perso che dalla generosità di chi ha vinto.”

Giorgio dedica decine di pagine a ogni minuscolo stato del centro America, e poche paginette, scarne e distaccate, all’attraversamento degli Stati Uniti dall’Alaska al Messico, che lo lascia indifferente e poco entusiasta di quella parte di mondo.

Con la sua delicata scrittura, evita di avventurarsi in discorsi estremamente politicizzati, ma la sua simpatia per gli States è pari alla mia, cioè pari a zero. Lui, che appunto da giovanissimo era già arrivato all’Oriente e che a quel modo di vivere si era sempre ispirato, si sentiva fuori luogo sulle strade impeccabili degli Stati Uniti. Era troppo abituato a ostacoli metaforici e non solo, come le strade sterrate, piene di buche, trafficatissime e pericolose ma vive e animate dei suoi luoghi più amati. Di ogni paese incontrato, anche il più piccolo, narra brevemente storia recente e vicissitudini e questo permette di dare, almeno a me, una ripassata a luoghi e avvenimenti (spesso tragici) diversamente destinati all’oblio, trattandosi di paesi piccoli e lontani, e la memoria labile.

La sua posizione nei confronti della ex-Unione Sovietica e del periodo staliniano è esplicita; la descrive mentre attraversa faticosamente la Siberia da Mosca a Magadan (Brum Brum, pagina 270): “[…] durante la dittatura di Stalin la Siberia divenne sinonimo di morte: mentre Josif Vissarionovich sedeva al Cremlino, più di 20 milioni di uomini furono sterminati nei gulag, spesso con l’unica colpa di essere ebrei o artisti, o semplicemente conoscenti di ebrei a artisti […]. La storia dell’umanità sembra essere soltanto la cronistoria efferata dei crimini che gli uomini commettono contro altri uomini […]. Alcuni storici calcolano che nel quarantennio tra il 1918 e il 1958, sui fronti delle guerre, nei lager, nelle prigioni, siano morti complessivamente da 80 a 100 milioni di sovietici”.

Quasi 2 milioni di questi morti, aggiungo io, sono stati causati dalla folle politica di Stalin dello scambio delle popolazioni sul territorio sovietico: deportazioni forzate di intere etnie nelle più spopolate e inabitabili regioni sovietiche, come ad esempio molte etnie caucasiche, popolazioni considerate nazionaliste o contrarie al potere di Mosca, abituate al clima temperato delle loro regioni, trasferite in Jakuzia, Kamkatcka e fino a Vladivostok e al Mar del Giappone, nei posti più freddi al mondo, su terreni infertili.

Bibliografia

Il primo libro si intitola In Vespa. Da Roma a Saigon: (possiedo la prima edizione gialla della Feltrinelli Traveller, collana che amo e colleziono). Libro ispirato, libero e felice, per alcuni il migliore, ma forse anche perché è il primo.

Ho appena riletto Brum Brum, e ora rileggerò, con calma, La Cina in Vespa, forse la sua opera più matura, 39.000 km. in tutte e trentatre le provincie cinesi (sono in pochi ad averlo fatto), terminato nel 2007, un anno prima della morte prematura.

Infine comprerò Rhapsody in Black. In Vespa dall’Angola allo Yemen, l’unico che mi manca.

Ci sarebbe poi l’interessante libro fotografico In Vespa oltre l’orizzonte con le foto dell’autore, piuttosto raro e costoso.

P.S.: la mia vecchia Vespa PX bianca, come quella della foto di copertina a seguire, mi guarda, di sotto in garage, come a dire: ma tu, pirla, perché mi porti solo fino a Ponzone o al Beigua invece di affrontare le strade del mondo?

E io mi giro da un’altra parte e faccio finta di niente … torno in casa, mi metto in poltrona e salgo in Vespa con Giorgio. È più sicuro.

La fine di un Mondo

La deriva culturale del popolo della sinistra

di Giuseppe Rinaldi, 13 settembre 2025[1]

1. Ci sono[2] dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti, ma che non vengono mai esplicitamente portati all’attenzione e fatti oggetto di analisi. Perciò restano conoscenza implicita, senza alcuna riflessione[3]. Questi fenomeni corrispondono un po’ a ciò che Raffaele Simone ha chiamato fenomeni vaghi[4]. Solo in particolari occasioni, in seguito a qualche evento critico, pubblico o privato, ci si rende conto – “si prende coscienza”, si diceva una volta – dell’esistenza di qualcosa di nuovo, anche se magari di assai vecchio nella sostanza. Solo a questo punto, il fenomeno vago può essere circoscritto, diventa familiare, può avere una sua denominazione, può essere analizzato, magari anche compreso nella sua portata.

2. Un caso tipico è quello dell’attuale deriva culturale della sinistra italiana[5]. Intendo qui la sinistra come categoria sociologica, la gente della sinistra o il popolo della sinistra. Si tratta di un fenomeno da tempo collocato sotto gli occhi di tutti, pur non avendo mai avuto alcuna ufficializzazione. Fenomeno vago, appunto. Deriva culturale non vuol dire semplicemente che si perdono le elezioni, come peraltro avviene da un pezzo. Non sto parlando neanche di un eventuale tradimento dei principi e valori della sinistra da parte dei suoi dirigenti, oppure di un abbandono da parte dei partiti della sinistra del proprio popolo. Questi sono fatti che, in qualche misura, sono stati ampiamente rilevati e commentati, come ha fatto, ad esempio, Luca Ricolfi[6]. Io stesso, nel mio piccolo, ho scritto noiosi articoli e saggi in merito, anche se a un certo punto mi sono stancato, visti gli scarsi riscontri. Deriva culturale qui fa piuttosto riferimento alla evaporazione inesorabile della cultura politica della sinistra, come era diffusa e radicata in gran parte del Paese. Sto parlando proprio di un degrado della materia prima, cioè di un degrado intrinseco allo stesso popolo della sinistra. In breve: non siamo più quello che eravamo una volta.

3. Vorrei trattare qui, insomma, della condizione materiale e morale del popolo della sinistra. È una questione intorno alla quale ho sempre creduto, magari a torto, di saperne abbastanza. Sono infatti cresciuto in un ambiente di sinistra, in mezzo a tanti altri come me, in mezzo ai cosiddetti compagni. La qualifica di “compagni” in realtà non ha mai significato un granché, poiché, anche tra i compagni, quelle che emergevano erano sempre le differenze: teorie, ideologie, punti di vista, “sensibilità”, programmi politici e così via. Anche differenze di atteggiamento. Differenze che spesso portavano a rotture, frammentazioni, troncatura di amicizie di rapporti. C’erano anche le invidie e le antipatie personali. C’erano poi anche i furbetti che riuscivano sempre a farsi trovare nel posto giusto, nonostante i tempi cangianti e le incertezze del momento. Tuttavia, al di là della sempre difficile navigazione, al di là dei diversi schieramenti e contrasti, restava sempre la vaga percezione che tutte quelle persone avessero un quid comune, magari davvero assai tenue, capace tuttavia di accomunare, di distinguere dal resto. Di fare la differenza. Si trattava dell’individuazione di un noi collettivo. Un lievissimo comune sentire che si poteva appena avvertire e nel quale si poteva tuttavia confidare. Che magari sarebbe senz’altro emerso, nell’analisi di un fatto politico, nazionale o internazionale, oppure in un momento critico dello scontro politico, in una campagna elettorale importante. Ma sarebbe emerso anche discutendo di libri, oppure discutendo di cinema. Oppure in occasione di una raccolta di firme per qualche iniziativa. Anche la scelta circa la modalità di passare il fine settimana, o di fare le vacanze estive, poteva avere un implicito sottofondo comune. Anche certi hobby avevano un che di distintivo.

4. Su questi vaghi elementi, invero assai indefiniti, superficiali, occasionali ed evanescenti, si basava un senso del noi, un sentimento identitario che derivava da una scelta compiuta, implicita ma anche consapevole, di far parte e di voler continuare a far parte di un certo Mondo[7]. Un Mondo sentito, più intuito che ragionato, ma che per questo non era meno reale[8]. Anche perché gli altri “mondi” erano considerati negativi fuori ogni discussione, erano considerati come dei perfetti disvalori. E, bene o male, questo senso del noi era davvero diffuso. Percepito e condiviso da un numero davvero ampio di persone. Quando c’era qualche iniziativa comune, quelle iniziative davvero basilari, qualificanti, quelle cui non si poteva mancare, ci guardavamo intorno soddisfatti: eravamo comunque in tanti. Magari anche intimamente diversi, ma tanti. Naturalmente qui si sta parlando soprattutto dei tempi andati, del fantastico Mondo dei Boomer[9] e della loro cultura politica. Costoro hanno una descrizione sociologica abbastanza precisa. Sono i nati tra il 1946 e il 1964 e sono stati così chiamati in riferimento al boom demografico (baby boom) indotto dalla fine della guerra[10]. Si tratta oggi della generazione più anziana ancora vivente, che si è particolarmente distinta per una sua specifica cultura politica e per uno straordinario coinvolgimento attivo nelle vicende politiche nazionali e internazionali. Le culture politiche precedenti sono ormai in gran parte trapassate, ahimè, con i loro stessi portatori fisici, e quelle successive, come dirò, costituiscono, proprio sul piano della cultura politica, un notevole punto interrogativo.

5. Premetto qui due righe di teoria sulle questioni generazionali. La nozione sociologica di generazione è incentrata intorno all’esperienza collettiva di un gruppo di età[11]. In questo senso, gli appartenenti a una generazione, accanto al possesso di analoghe caratteristiche di tipo anagrafico, economico e sociale, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati da quella esperienza stessa. Si fa dunque riferimento a qualche tipo di esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo chi l’ha compiuta. Esperienze che abbiano avuto un profondo carattere formativo ed educativo. Si suppone che queste modifiche rimangano in qualche misura come permanenti, sia pure in forma compatibile con lo svolgersi della vita ulteriore. Anzi, queste modifiche dovrebbero costituire un background capace di determinare un comune modo di reagire di quella generazione alle più diverse occorrenze della vita pubblica e privata.

6. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché hanno condiviso una qualche comune esperienza, hanno anche avuto modo di sviluppare una loro auto rappresentazione (una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una loro propria memoria collettiva). Esse, inoltre, proprio in quanto entità bene individuabili, grazie alle caratteristiche che hanno maturato, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle narrazioni di altri soggetti (altre generazioni, i media, la letteratura o talune ideologie). Le generazioni dunque sono dei costrutti sociali, ma sono ben lungi dall’essere arbitrarie, poiché sono un prodotto preciso della storia, dell’azione collettiva e della memoria collettiva.

Se è vera la nostra ipotesi, che sia cioè in corso, o sia addirittura in fase avanzata, una progressiva deriva culturale del popolo della sinistra, allora questa deriva culturale dovrebbe, come minimo, essere fatta risalire indietro nel tempo, a cominciare proprio dai Boomer e dovrebbe coinvolgere progressivamente anche le generazioni successive. Naturalmente si tratta, in questa ricognizione, di prendere in considerazione anche le eventuali continuità o discontinuità nella trasmissione culturale tra le generazioni.

7. Un dato di fatto, per intanto, è che il senso del noi dei Boomer aveva ancora un carattere trans generazionale. C’erano gli anziani (tecnicamente ora definiti come Silents[12]) da cui si poteva sempre imparare qualcosa. C’era una tensione spasmodica nel tentativo di trovare tra loro delle figure guida, dei riferimenti di valore. Dei Maestri[13]. C’erano poi i più giovani di noi, ai quali ci sembrava di avere qualcosa di importante da trasmettere. C’era poi chi aveva all’attivo esperienze significative e magari esemplari da proporre. Quelli della Resistenza, quelli della nuova sinistra dei primi anni Sessanta, come ad esempio quelli dei Quaderni Rossi. C’era il mondo degli intellettuali, ampio, variegato e diffuso anche a livello locale, ma c’erano anche quelli del sindacato e c’era il vasto mondo del lavoro. E poi c’eravamo noi, gli studenti, che eravamo affacciati su questo Mondo. C’erano quelli del volontariato. C’erano poi gli iscritti e i militanti di numerose organizzazioni single issue. Oppure anche soltanto quelli che non sono mai riusciti a prendere una tessera, nemmeno una volta. Quelli, cioè, impietosamente definiti come cani sciolti. Erano sciolti ma avevano un tasso elevato di coinvolgimento e di partecipazione politica.

8. La sinistra, dunque, aveva allora un profilo nettamente pluri generazionale. La cultura politica, le conoscenze, i principi e i valori, le esperienze si cumulavano e si trasmettevano. E la sinistra pareva comunque in crescita. A un certo punto però è subentrata quella che può essere definita come una rottura generazionale. Non mi riferisco tanto alla Generazione X, ancora legata ai postumi del Sessantotto e alle complesse problematiche del riflusso, e peraltro ancora estranea alle nuove tecnologie, bensì soprattutto alla Generazione Y, quelli che sono detti anche Millenial. È quella la generazione che ha, di fatto, accantonato il patrimonio delle generazioni precedenti. Sono coloro che hanno cercato, attivamente e consapevolmente, di costruire una cultura politica completamente diversa, che doveva essere nuova e alternativa. Una politica che fosse antipolitica, di movimento, caratterizzata da un attivismo pragmatico e anti ideologico. Il che finiva per concretizzarsi in cose strane, come il non partito, il non statuto, il mandato imperativo e, soprattutto, il rifiuto della distinzione tra destra e sinistra. La politica, per intenderci, del Vaffa, che poi ha avuto la sua più rilevante espressione nel movimento di Grillo. Il Vaffa non si riferiva soltanto ai santuari del potere, ma anche all’intera cultura della sinistra precedente. Non a caso, come manifestazione estrema del nuovo che avanzava, c’era l’infrastruttura della rete e la famosa piattaforma di Casaleggio, che ebbe poi degli sviluppi tragicomici[14]. Sono loro i veri e definitivi sciolti dal giuramento. Direi, sciolti da ogni giuramento. Con loro la deriva stava cominciando a divenire tangibile. Tutto questo mentre il PD cercava di raccattare confusamente le frattaglie della vecchia destra (la DC) e della vecchia sinistra (il PCI), in una nuova cultura politica detta “democratica” che, in realtà, non è mai nata.

9. Abbiamo allora cominciato a capire che i più giovani, tra quelli delle generazioni successive, non avevano più quell’impercettibile senso del noi di cui s’è detto. Se ne infischiavano del senso del noi, del magico quid che a lungo aveva unito le nostre generazioni e le altre precedenti. Non consideravano la cultura cumulativa delle generazioni, guardavano principalmente al presente. Il passato e il futuro cominciavano a cadere fuori dal campo di attenzione. Era anche quello un fenomeno vago che avrebbe dovuto allarmare, ma che è stato digerito senza troppo scompiglio. Ma non è di questi esiti che intendo occuparmi. M’interessa inseguire che fine ha fatto quel senso del noi che era così diffuso tra i Boomer, che ci ha segnato abbastanza profondamente e che, bene o male, ha caratterizzato una intera stagione politica del nostro Paese. L’ultima stagione che ha visto di fatto, nel bene o nel male, una forte politicizzazione della sinistra.

10. Dicevo che non siamo più quelli di una volta. C’è oggi, sotto il naso di tutti, un fenomeno emergente, proprio tra i vecchi “compagni”, quelli per lo meno che, compatibilmente con l’età, sono ancora attivi, che ancora leggono, scrivono, discutono, partecipano, ciascuno a suo modo. E forse anche tra coloro della Generazione X – i cosiddetti quarantenni – che stanno faticosamente prendendo in mano quel che resta della politica. Questo fenomeno è il senso di estraneità (cioè l’esatto opposto del senso del noi) che emerge subito, ogni qualvolta si cominci appena ad accennare a qualche tipo di questione che abbia, anche solo vagamente, a che fare con la politica e la cultura, vuoi locale, nazionale o internazionale. In altri termini, non ci si capisce proprio più. Il magico quid è evaporato. È andato a ramengo. Quello che una volta era stato per noi Boomer il “Mondo della sinistra” è diventato un mondo di estranei. Determinando così, appunto, la prospettiva demartiniana della fine di un Mondo. Tralascio qui, per motivi di spazio, le implicazioni psicopatologiche che De Martino attribuiva alla sua “fine del mondo”. Sarebbe interessante, in proposito, trattare ampiamente della nozione di de-storicizzazione. Chi fosse interessato, può ricorrere al mio saggio già citato nella nota n. 7.

11. La cultura politica delle fasce più anziane, come i Boomer, è oggi decisamente cambiata. Lo scambio politico tipico, quando c’è, è configurato come una serie di chiacchiere superficiali[15] unite a una mitragliata di slogan sempre più brevi, emozionalmente carichi e dal carattere intransigente. L’impressione è che i pochi Boomer che sono rimasti attivi sulla scena della cultura politica della sinistra credano per lo più di esser giunti a conclusioni definitive. Solo che queste conclusione sono tutte diverse, non coincidono proprio. E queste conclusioni le buttano fuori, le eruttano così come viene, senza alcuna voglia di esaminare e discutere le conclusioni altrui. Certezze ormai consolidate, ma anche fossilizzate e incancrenite. Al posto di qualsiasi attitudine alla riflessione e alla discussione, sembra essersi sostituito l’impulso a produrre una espressione qualsiasi, urgente e necessaria. Alla stregua della classica parresia[16]. È come se le complesse articolazioni della vecchia cultura politica avessero lasciato il posto a poche enunciazioni schematiche. Le antiche disparità di opinione sono ricondotte a poche stanche formule dogmatiche, del tutto rituali. Ciò rende gli attuali consessi dei Boomer ormai sempre più carichi di posizioni schematiche, di noiose ripetizioni e di quel senso di estraneità reciproca di cui si diceva.

12. Questa deriva incombente verso la fossilizzazione non facilita il rapporto con le altre generazioni, anzi lo rende quasi impossibile. La cultura politica dei Boomer sopravvissuti appare oggi, agli occhi delle generazioni successive, del tutto fuori luogo. Notoriamente, la qualifica di Boomer è sempre più usata in forma spregiativa. Essa è salita alla ribalta, e ha fatto il giro del mondo, in una data precisa. Si tratta del novembre 2019, quando il famoso motto “OK Boomer!” è stato usato, nel Parlamento neozelandese, come qualificazione negativa, da una deputata venticinquenne contro un altro deputato, peraltro della Generazione X. Il gergo dispregiativo anti Boomer, dicono le cronache, era tuttavia già in circolazione sui media da almeno una decina di anni.

Così, dopo esser stati a lungo ignorati, i Boomer da almeno un decennio stanno cominciando a divenire – come generazione – oggetto di attenzione da parte delle altre nuove generazioni, che tendono sempre più a considerarli come un blocco residuale dotato di alcuni tratti comuni eminentemente negativi e inopportuni. In altri termini, i Boomer, da soggetti di una complessa e articolata cultura politica quali erano, diventano ora principalmente oggetti di contumelie e invettive. Qui non si tratta solo più di una rottura generazionale, un mancato passaggio della cultura politica cumulata, bensì di un conflitto generazionale che si sta facendo sempre più palese e aperto. I Millenials e la Generazione Z sembrano sempre più infastiditi anche solo dalla presenza dei Boomer[17]. Il conflitto è ovunque sempre più evidente. Non c’è, a sinistra, una sola formazione politico culturale che sia in grado di costituire uno spazio comune di discorso tra i Boomer e le successive generazioni.

13. Nell’ambito della sinistra, ci troviamo dunque di fronte a un fenomeno di estraneità generalizzata, oppure, se vogliamo, a una doppia estraneità. Anzitutto quella ormai ricorrente entro la generazione dei Boomer ancora in attività e poi, secondariamente, anche e soprattutto, quella tra i Boomer e le generazioni successive. Quest’ultima sta prendendo l’aspetto non solo di una rottura ma anche di un vero e proprio conflitto. La prospettiva di un conflitto delle generazioni più giovani contro i Boomer emerge in maniera abbastanza chiara e preoccupante nel lucido e corrosivo OK Millenials! di Brice Couturier[18]. Emerge anche, in forma assai preoccupante, in termini sociali ed economici, dall’analisi di Luca Ricolfi contenuta ne La società signorile di massa[19].

14. Il mio intento tuttavia è quello di caratterizzare soprattutto la deriva dal lato dei Boomer. Facciamo un esempio. Non amo parlare in pubblico delle mie esperienze personali, poiché credo che, in fin dei conti, siano del tutto irrilevanti. Ma questa volta, farò una piccola eccezione. Ho avuto modo di provare il senso di estraneità intra generazionale di cui sto parlando, qualche tempo fa, nel corso di una conversazione con una persona della mia stessa generazione, appartenente in qualche modo a quel Mondo comune, politico e culturale, di cui sto descrivendo e lamentando il progressivo e forse definitivo deterioramento. Stavamo discutendo dei fatti di Gaza, di Netanyahu e quant’altro. In quel contesto, essendomi pronunciato su alcune questioni, peraltro di dettaglio, mi sono sentito rivolgere l’epiteto di antisemita. La cosa mi ha dato un qualche fastidio, anche perché, alla mia età e con la mia storia alle spalle, quella era davvero la mia prima volta nei panni dell’antisemita.

15. Mi sono reso conto in quel frangente, in termini esistenziali più che intellettuali, della perfetta inutilità della discussione che stavo facendo. È proprio così, più o meno con una specie di intuizione, che i fenomeni vaghi diventano fatti reali. Il comune percorso generazionale e il senso del noi, il magico quid, non erano più sufficienti a trovare uno straccio di terreno di discorso comune, peraltro su una questione a proposito della quale ormai c’è una storiografia consolidata e una bibliografia enorme, oltre a innumerevoli prese di posizione di studiosi, intellettuali e opinion leader. Una questione oltretutto che, per quelli della mia generazione, esiste da sempre, fin da quando eravamo bambini. Insomma, mi trovavo esattamente come se il mio interlocutore, Boomer anch’esso, fosse un estraneo qualsiasi incontrato per caso, in treno o al bar. Esattamente come se il famoso quid non fosse mai esistito.

16. Ho citato questo fatterello perché mi pare emblematico e perfettamente generalizzabile. Nel campo di discorso della sinistra, soprattutto dal lato dei Boomer – ma la cosa vale certamente a maggior ragione anche per le generazioni successive – ormai, al posto di una esperienza formativa e costitutiva comune, al posto di una cultura politica cumulativa, ci sono solo più innumerevoli questioni divisive, che vengono “risolte” apostrofando l’altro come un nemico, rovesciandogli addosso le più improbabili accuse, utilizzando l’insulto e lo screditamento morale. Siamo diventati tanti piccoli fondamentalisti che, invece di studiare le questioni e di argomentare, si beano di aggiungere delle reazioni, come se fossimo costantemente su Facebook. O in un talk show permanente. Il termine reazione è perfetto, per qualificare questa modalità deteriorata e residuale di rapporto.

17. Si dice, in sede di psicologia sociale, che i social media avrebbero avuto l’effetto di produrre, nei loro utenti, un pensiero schematico e semplificato, oltre ad averli abituati ad avere reazioni emotive amplificate e di pancia. Ma i Boomer dovrebbero essere oggi quelli meno contagiati di tutti. Sono ormai gli unici, tra i rimasti ancor vivi, ad avere passato ben più di mezza vita senza computer, senza smartphone e senza social media. In più, il Movimento del Sessantotto aveva avuto, come sua caratteristica, l’impiego massiccio della parola scritta, dalle scritte sui muri fino all’interminabile serie degli opuscoli politici e degli articoli e saggi pubblicati nelle riviste. Passando attraverso una miriade di ciclostilati e fotocopie. Fino ai malloppi dei vari Maestri della teoria che circolavano come non mai. Ho esaminato in dettaglio questo aspetto della cultura dei Boomer nel mio saggio: Un Sessantotto gutemberghiano[20]. Tutto questo curricolo formativo è silenziosamente caduto nel dimenticatoio. Come non fosse mai esistito.

18. Era ovviamente da un bel po’ che questo senso di estraneità aveva pieno effetto, che era ormai onnipresente e si infilava più o meno in tutte le questioni. Più o meno in tutti i rapporti interpersonali. Ma sembravano sempre estraneità di volta in volta particolari, specifiche e occasionali. Estraneità di cui si prendeva magari atto, ma magari come “contraddizioni in seno al popolo”, per usare un frasario un po’ datato. Ora sembra proprio il caso di prender atto che sta sopravvenendo una estraneità generalizzata.

Bisogna riconoscere che, ben oltre alla questione palestinese, in effetti, veniamo da stagioni divisive davvero straordinarie. Vediamone alcune, a mo’ di esempio. La sarabanda delle scissioni avvenute intorno al PD e all’ineffabile Renzi. Il conflitto contro tutti del movimento del Vaffa, nato proprio entro la Generazione Y. Il senso di estraneità reciproca con i No-Vax, nato intorno alle discussioni sulla questione delle vaccinazioni. E più in generale intorno alla valutazione della scienza e della tecnologia. Oppure sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina. Uno degli argomenti più divisivi è ancora oggi costituito dalle cause della guerra tra Russia e Ucraina. La NATO poi è in assoluto uno degli argomenti più divisivi. La definizione di cosa sia il regime di Putin è un’altra questione altamente divisiva. Più o meno come era stata divisiva la questione intorno alla vera natura della Unione Sovietica, negli anni Venti e Trenta. Per non parlare delle questioni relative alla pace e alla guerra, con tutti gli annessi e connessi, tra cui la questione delle spese militari. Tutte le volte che parlo della democrazia, quella sostanziale, non quella formale, vedo intorno a me sguardi di pena e commiserazione. Per la maggior parte dei Boomer la democrazia era sempre stata “borghese” e sempre lo sarà! Meglio poi non parlare di magistratura, di legge elettorale, di regolamentazione dei partiti e dei sindacati. Mi dicono che anche nel movimento femminista ci sono oggi delle profonde spaccature.

19. Non parliamo poi ancora di Jobs Act e di questioni legate al mondo del lavoro e al ruolo del sindacato. Il recente Referendum del giugno 2025 ha visto profonde divisioni interne alla sinistra, come una valanga che nessuno più riesce a fermare[21]. Sulle questioni ambientali ci sono poi innumerevoli dissidi, come sulla cosiddetta democrazia diretta e sui beni comuni. Non parliamo poi dei diritti civili e del politically correct. Anche sulla immigrazione siamo riusciti a creare nemici e fronti contrapposti. Possiamo aggiungere anche le ricorrenze del calendario civile, con punte estreme il 25 aprile. Non parliamo poi dell’Europa. Non parliamo poi ancora dell’America e dell’Occidente, sempre colpevoli, secondo alcuni, di qualsiasi nefandezza. Si riesce anche a litigare, in campo filosofico, in maniera piuttosto irriducibile, sui principali filosofi degli ultimi tre o quattro secoli.

Insomma, ci ritroviamo divisi su tutto. Ripeto, su tutte queste questioni è del tutto legittimo esistano punti di vista diversi. Meno comprensibile è che non ci siano più chiavi interpretative minimamente condivise e che ormai nessuno abbia più voglia di dibattere, di studiare, e che le opposte fazioni si affrontino a colpi di insulti, condanne moralistiche e interdizioni perpetue. Ovviamente tutte queste questioni divisive rendono impossibile la formulazione di un qualsiasi programma elettorale progressista di sinistra. Tutto ciò, ovviamente, si è tradotto e si tradurrà in pessimi risultati elettorali. Il 2027 non è poi così lontano. Ma questo sembra non importare a nessuno. Gli effetti concreti della deriva culturale si sono visti nel 2022, quando la sinistra disunita ha fatto vincere la destra.

20. E qui vengo alla questione dell’Occidente senza pensiero, nella sua versione più idiosincrasica. Nel particulare cioè delle nostre vite e dei nostri rapporti quotidiani. Se appena si cerca di approfondire qualcuna delle questioni in gioco, ci si troverà di fronte sempre e soltanto a pezzi di ragionamenti, talvolta di senso comune, talvolta provenienti da epoche passate, talvolta raccattati sui social o presso qualche sito di riferimento di nicchia. Tutte le posizioni, anche le più strampalate, hanno oggi il loro sito di riferimento che coordina i loro adepti. Le analisi (che riguardano magari questioni di grande complessità) sono spesso ridotte all’osso. Spesso si tratta di semplificazioni difficilmente accettabili e del tutto inutili. Al posto dell’approfondimento, abbiamo le ripetizioni martellanti. Le poche e vecchie cause motrici della storia e della società, ossificate, vengono invocate per spiegare le conseguenze più varie, per proporre politiche del tutto improbabili. Scattano sempre gli stessi modelli esplicativi. Colpa dei padroni, degli americani, delle banche, della UE, della finanza internazionale, dei rigurgiti neofascisti, del neoliberismo, del patriarcato, dell’antisemitismo[22], degli immigrati[23] e di quant’altro.

21. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? Io mi do la seguente spiegazione. Finché c’erano le ideologie[24], nel Mondo di cui ci stiamo occupando, c’erano anche le agenzie di produzione ideologica, c’erano gli intellettuali di riferimento, c’erano innumerevoli corpi intermedi che si occupavano intensamente della produzione delle idee. E le idee che circolavano avevano un carattere decisamente professionale. E di idee in circolazione ce ne erano assai. Alcune erano sicuramente pessime, ma alcune decisamente illuminanti, capaci di dar senso alla nostra vita e alla nostra storia. C’era di che scegliere. Tra gli intellettuali c’erano – come dice Aldo Schiavone nel suo saggio – i Maestri, coloro che erano in grado di analizzare le grandi questioni e di operare le grandi sintesi prospettiche che davano senso alle nostre vite e al nostro impegno nella storia. Nonostante le differenze di analisi e di opinione, si aveva l’impressione di una qualche omogeneità, per lo meno nei presupposti di metodo, che consentivano un qualche dibattito civile. Le nuove interpretazioni, quando c’erano, venivano soppesate, i dibattiti procedevano con un certo ordine. Tutti avevano l’impressione di occuparsi all’incirca delle stesse questioni, quelle all’ordine del giorno, che erano perciò considerate da tutti come le più importanti. Magari ci si divideva, ma c’era la consapevolezza che le questioni erano quelle. In genere, ci si divideva per delle ragioni. Se non si era d’accordo con qualcuno o qualcosa, si sapeva sempre spiegare perché. Questo anche perché investivamo tempo e denaro per informarci, per studiare.

22. Bastava leggere qualche rivista o qualche libro ben scelto, per tenersi aggiornati sugli sviluppi dei dibattiti nazionali e internazionali. Magari c’erano dei benemeriti che ogni tanto si peritavano di fare delle sintesi ad usum delphini. Magari anche ricche di copiosi riferimenti storici e con repertori bibliografici che avrebbero ammazzato chiunque. Oppure bastava frequentare le numerose e diffuse conferenze in cui si faceva il punto delle principali questioni. Si poteva dibattere con i relatori, fare delle domande. Ma poi, come ho già accennato[25], c’era un sacco di gente che scriveva. Lettere, articoli di giornale, saggi di vario genere, inchieste, denunce, relazioni a convegni, documenti politici. Habermas avrebbe detto che c’era qualcosa che somigliava al suo modello della opinione pubblica democratica. Al modello del Diskurs. Oggi, a sinistra, non ci sono più dibattiti, non c’è più opinione pubblica, ci sono solo risse da stadio.

23. Con la fine delle ideologie, questo universo culturale comune, questo universo pubblico di discorso, è progressivamente venuto meno. Non sto qui a esaminare in dettaglio perché e come questo sia avvenuto. Sarebbe troppo lungo. Di fatto gli intellettuali pubblici sono diventati dei chiacchieroni televisivi, le riviste hanno chiuso, le case editrici hanno cominciato a sfornare paccottiglia per le nuove generazioni dalla bocca troppo buona. Perfino i corsi scolastici e gli esami sono stati drasticamente semplificati. Oggi si può pigliare una laurea triennale con una tesina di 25 pagine. Così, è accaduto che ciascuno dei Boomer, neanche più tanto giovani, si è trovato a dover ricominciare a camminare con le proprie gambe. Gestire in proprio (cioè da soli) la ricerca delle informazioni e la loro interpretazione. Gestire in proprio la costruzione e il mantenimento di uno straccio di visione del mondo. Tanto per sapere cosa si vive a fare.

24. Di fronte al venir meno di un comune universo di discorso, i più “deboli” (mi sia permesso questo aggettivo, che nell’intenzione vuol essere di grande simpatia) si sono subito persi per strada. Magari anche sommersi dalle accidentalità e dalle incombenze, sempre più difficili, della vita quotidiana. Un riflusso lento e progressivo che in generale ha significato comunque un impoverimento della partecipazione. I più tenaci, sempre più pochi, hanno invece cercato di concentrarsi sulle questioni più commestibili, quelle più alla loro portata, lasciando da parte gli aspetti più ostici, quelli che avrebbero richiesto competenze e linguaggi specializzati. Direi che – contro Lyotard[26] e la schiera dei post-marxisti postmoderni – sia sopravvenuta un’incapacità generalizzata di produrre grandi narrazioni che fossero appena decenti[27], la qual cosa ha assicurato il proliferare delle piccole narrazioni, particolaristiche e identitarie, come quelle della cultura woke. O quelle dei tanti cespugli della sinistra minoritaria nostrana.

25. Avvenne così che, da quella che era sempre stata una galassia, si è dato luogo alla formazione di tanti piccoli micro sistemi – “giochi linguistici” di tipo pragmatico, direbbe il solito Lyotard – sempre più isolati e incomunicabili, sempre più concentrati a cuocere nel proprio brodo. Le idiosincrasie individuali e il progredire delle età anagrafiche hanno fatto il resto. Gruppi di irriducibili, sempre meno numerosi, entro cui ormai si perpetuavano pochi spezzoni di cultura politica, sempre più ripetitivi, sempre meno efficaci a cogliere nel segno i processi e i cambiamenti sociali, e le grandi vicende internazionali. Sempre meno efficaci a indicare prospettive credibili per affrontare la grande trasformazione tecnologica ed economica di fronte alla quale ci troviamo. Ciò ha prodotto anche l’allontanamento dal pensiero scientifico, dalle scienze economico sociali in particolare. Dalle scienze umane. E l’allontanamento dalla filosofia e dai valori dell’umanesimo. Umanesimo, oltre a democrazia, è un’altra parola che suscita ilarità e compassione nel mio circondario, tutte le volte che la pronuncio. Con l’aggravante del fatto che il pensiero politico ha comunque fondamentali risvolti filosofici. La filosofia è nata con la polis, ma la polis non sta in piedi senza una qualche passabile filosofia politica condivisa.

26. Coltivare in proprio anche solo qualche spezzone di discorso approfondito diventava sempre più oneroso, sempre meno remunerativo. E così è venuto il momento in cui ci siamo arresi. Siamo diventati tutti ritualisti nel senso di R. K. Merton. Coloro cioè che, essendo ormai del tutto impossibilitati nei mezzi, continuano inutilmente a vagheggiare i vecchi fini. Si pensi, ad esempio, al degrado subito dal dibattito nel campo delle scienze dell’educazione. Che pure è un campo che coinvolge innumerevoli professionisti, dotati di un certo livello di istruzione, nelle scuole di ogni livello. La qualità scadente della istruzione che trasmettiamo alle giovani generazioni è allarmante, ma nessuno si preoccupa. Neanche le giovani generazioni stesse. Tutti contenti.

27. All’appartenenza viva a un Mondo – la cultura politica della sinistra funzionava proprio come un Mondo demartiniano – con tutte le sue variegate sfaccettature, è così succeduta la coltivazione di costellazioni di identità rituali, rigide, impermeabili a ogni cambiamento. Lasch parlerebbe di Io minimo[28]. Che queste identità siano confinate in piccoli gruppi di irriducibili (destinati a sciogliersi solo con la sopravvenuta inabilità dei singoli appartenenti) oppure confinate entro la soggettività di singoli cani sciolti. Finché c’era un Mondo, era facile partecipare, discutere, scegliere tra le diverse alternative, magari anche cambiare posizione, ingenuamente anche infinite volte. Venuto meno il Mondo, l’economia del cambiamento non poteva più funzionare. Cambiare prospettiva da soli[29] era diventato sempre più oneroso, sempre più difficile. Non restava che rinchiudersi in una sorta di Fortezza dei Tartari. Ormai si costruiscono solo più cinte difensive, fortificazioni per difendere quelle quattro idee in croce che qualcuno ancora conserva gelosamente. Cimeli di un passato che una volta era stato vivo ma che ora è poco più che ridotto a un fossile museale. In generale, possiamo dire che alle elaborazioni complesse delle analisi e dei punti di vista che erano propri di un Mondo, è subentrato il fai da te individualizzato e, soprattutto, disperato. È subentrata la presunzione autoreferenziale di albergare e mantenere un residuo di cultura politica senza un autentico confronto, senza elaborazione, senza pubblico discorso, ma semplicemente sventolando una bandierina.

28. Se qualcuno poi cerca faticosamente di mantenere qualche standard culturale appena un po’ più elevato, magari affine a quei Maestri cui pure si era ispirato in passato, oppure se cerca di armeggiare con qualche forma di pensiero meno semplicistico, un po’ più articolato, oppure se cerca di tenersi aggiornato al panorama culturale internazionale, ebbene costui sollecita e suscita, nel circondario, l’incredulità e poi le immediate diffidenze. E talvolta aperte ostilità. Financo aggressività. L’Io minimo, oggi così diffuso, non può che produrre il rancore contro i diversi. Perché l’appiattimento cui siamo soggetti è una cosa che si deve consumare tutti insieme. Chi non si appiattisce come tutti, è decisamente un provocatore. Mal comune, mezzo gaudio. Sono reazioni in fin dei conti comprensibili, sebbene non giustificabili. Non si hanno ormai più gli strumenti per capire ciò che appena si distanzia dal senso comune. Costui sta dalla mia parte oppure è contro di me? Devo dargli ragione o devo dargli torto? Nel dubbio, è sempre meglio tenersi alla larga, meglio bannare senza esitazione. L’Io minimo è implacabile.

29. Quando vengono progressivamente meno i criteri di valutazione in termini di cultura politica, cioè criteri legati a un comune universo di discorso, a un universo di principi e valori, a un’enciclopedia di concetti condivisi, a un Mondo, come si diceva poc’anzi, allora si fa strada con prepotenza la logica realistica dell’amico/ nemico. Quella che è piaciuta tanto a certi nostri marxisti post-marxisti. Che hanno mollato Karl per avere in cambio l’altro Carl. Non contano più le idee, bensì i rapporti tra le persone. Si passa, ahimè, come dice Lyotard, dalla semantica alla pragmatica. La tendenza allora è quella a costituire piccole consorterie di sodali, che discutono di niente al proprio interno, ma che sono convinti di avere alcune comuni ideebandiera, alcuni vessilli simbolici da sventolare, qualche vecchia canzone da ascoltare, qualche rito periodico da compiere. Qualche causa assurda da sostenere. Appunto, cose come i “giochi linguistici” e le “piccole narrazioni” di Lyotard. Da brandire contro tutto il resto del mondo. Soprattutto da brandire contro i concorrenti interni alla sinistra stessa. Il che avviene oggi ancora esattamente come nella vecchia Unione sovietica. Il capitalismo poteva anche aspettare, ma quello che dovevi combattere, e far fuori subito, era il tuo immediato concorrente interno. Al di sotto degli striminziti e spesso assurdi vessilli simbolici, se si va a ben guardare, spesso ci sono soltanto piccoli interessi di bottega. Occupare qualche posto nella pletora di piccole organizzazioni che non contano più nulla, piazzare gente della tua lobby negli incarichi e organismi dirigenti, far venire qualcuno dei tuoi a tenere una conferenza da fuori, o a presentare un libro, mandare qualche post su Facebook per intrattenere la tua cerchia, rilasciare qualche intervista a nome della tua organizzazione, fare delle cene per raccogliere fondi, farsi invitare a tenere qualche pubblico dibattito. In tutto questo attivismo da amico/ nemico, accade così inevitabilmente che il famoso merito, tanto blaterato in teoria quanto sempre ignorato in pratica, vada a farsi benedire e si generi quella caratteristica selezione degli incapaci, così tipica ormai ad ogni livello delle organizzazioni superstiti del popolo della sinistra. Deriva culturale e selezione degli incapaci sono un miscuglio tossico che caratterizza sempre più il panorama tardo della fine di questo Mondo.

30. Spero di avere adeguatamente motivato che un Occidente senza pensiero[30], l’argomento del mio precedente saggio, non è solo un vezzo intellettualistico. O un argomento salottiero di moda. È piuttosto qualcosa che ha riguardato da vicino le nostre vite, quel che eravamo e quel che siamo purtroppo diventati. E che determina oggi la chiusura delle nostre prospettive e delle nostre speranze rispetto al futuro. Per noi e per quelli che verranno (anche se a costoro la cosa sembra davvero poco importare!). Si tratta di una deiezione nella quale siamo scivolati, senza neppure accorgercene. Senza neppure gridare. Senza neppure invocare aiuto. Semplicemente perché stavamo precipitando tutti nella stessa direzione, e ci sembrava allora una cosa del tutto normale.

In questo saggio mi sono occupato soprattutto del Mondo che ho conosciuto meglio, quello dei Boomer di ieri e di oggi. Se questo è però il quadro della deriva della cultura politica nell’ambito dei Boomer – cioè, quella generazione ancor vivente che nel contesto della propria formazione ha avuto le maggiori iniezioni di cultura politica – ci si può seriamente domandare allora quale sia la situazione presso le generazioni successive. Su questo argomento ho avuto qui solo il modo di fornire qualche flash estemporaneo. Magari tornerò sull’argomento. Qualche tempo fa mi sono ampiamente occupato della questione[31] e posso dire che, in merito, è ormai disponibile una vasta letteratura e che questa non è delle più confortanti. Peraltro, basta guardarsi intorno.


OPERE CITATE

1983 Anderson, Benedict, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.

2021 Couturier, Brice, OK Millenials! Puritanisme, victimization, identitarism, censure. L’enquête d’un baby-boomer sur les mytes de la génération “woke”, Éditions de l’Observatoire, Paris.

1984 Lasch, Christopher, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.

1979 Lyotard, Jean-François, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.

1952 Mannheim, Karl, The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London. [1923]

2000 Putnam, Robert D., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York. Tr. it.: Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna, 2004.

2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

2019 Ricolfi, Luca, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.

2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.

1969 Riesman, David & Glazer, Nathan & Denney, Reuel, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven and London. Tr. it.: La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999. [1950]

2012 Rinaldi, Giuseppe, “La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino”, in Anima e Terra, n. 2, ottobre, pp. 133-157.

2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.


NOTE

[1] Pubblicato su Finestre rotte il 28 agosto 2025.

[2] Recentemente ho scritto un saggio di analisi intitolato Occidente senza pensiero. In quel saggio, in dialogo ideale con Aldo Schiavone (Cfr. Schiavone 2025), mi occupavo di una questione un poco astrusa, cioè del destino culturale dell’Occidente, nella attuale tormentata fase storica. Devo dire che il mio saggio, tranne lodevoli eccezioni e qualche latrato fuori luogo, non ha suscitato grandi reazioni, né positive né negative. Il saggio che qui presento, tratta esattamente e pervicacemente gli stessi argomenti dell’altro, non più però dal punto di vista generale, bensì dal punto di vista idiografico, cioè particolare. Diciamo che qui mi occupo del lato particolare del vuoto di pensiero dell’Occidente, quello che ci riguarda da vicino e ci tocca direttamente come individualità storiche. Mi aspetto pertanto almeno qualche reazione negativa, ma staremo a vedere. Preciso, dati i tempi, che nella stesura di questo testo non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.

[3] Senza concetto, avrebbe detto Hegel.

[4] Ho provveduto a spiegare dettagliatamente la nozione di fenomeno vago nel mio saggio Il fenomeno vago della postverità.

[5] Userò il termine “sinistra” in senso ampio, senza alcuna distinzione interna, riferendomi soprattutto agli elementi basilari della cultura politica sinistrese. Circoscrivo per semplicità il discorso alla sinistra italiana. Quanto al termine deriva, così recita il Passerini Tosi: «Andare alla deriva = Detto di nave che non si può più governare ed è trascinata dalle correnti. […] In senso figurato […] lasciarsi trascinare senza reagire. Esser come in completa balia degli eventi».

[6] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.

[7] Uso qui il concetto di Mondo, che ha avuto una rispettabile tradizione filosofica, a cominciare da Kant e Schopenhauer per continuare con Dilthey e Husserl, e che, specificatamente nel campo storico sociale, culmina con uno dei miei Maestri virtuali, Ernesto de Martino. Sulla nozione di “mondo” in Ernesto De Martino si può vedere il mio saggio Rinaldi 2012. Il saggio è stato da poco rivisto e ripubblicato sul mio blog: Finestre rotte: La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012).

[8] Su questo punto, il riferimento ovvio è Comunità immaginate di Benedict Anderson. Cfr. Anderson 1983.

[9] Uso questo termine, anziché termini similari, solo perché è più preciso e permette così il raffronto con le altre generazioni. Sociologicamente, i Boomer sono coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 61 e 79 anni. La generazione successiva è la cosiddetta Generazione X, che comprende i nati tra il 1965 e il 1979. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 46 e 60 anni. Sono costoro a rappresentare il contingente più ampio dell’attuale personale politico. La generazione successiva è quella dei Millenial (detti anche Generazione Y) che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1994 e che, nel 1925, hanno una età compresa tra 31 e 45 anni. Costoro – vista la gerontocrazia tipica del nostro Paese – si apprestano a costituire la schiera new entry nell’ambito del personale politico. La generazione successiva è la Generazione Z, nata tra il 1995 e il 2012. Oggi nel 2025 hanno un’età compresa tra 13 e 30 anni. Data la loro età, sono ancora in gran parte coinvolti nei processi di formazione. Sono coloro cui dovrebbero essere rivolte formidabili e obbligatorie iniziative di formazione alla cultura civica e alla vita politica. Sarebbe questo il solo investimento che potrebbe provare a invertire la deriva di cui stiamo parlando. Ma nessuna forza politica nostrana ha all’ordine del giorno qualcosa di simile.

[10] Il boom demografico vale soprattutto per gli Stati Uniti. Un po’ meno per l’Italia.

[11] Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.

[12] Sociologicamente così è stata denominata la generazione dei nati prima del 1946, tra il 1928 e il 1945.

[13] Sembra strano oggi, ma queste figure guida c’erano, erano numerose e distribuite anche a livello locale. Le si poteva incontrare, si poteva discutere con loro, si potevano ascoltare le loro conferenze o leggere i loro articoli sulle riviste. Oggi, a destra e a sinistra, tutti credono di saperne abbastanza e di non aver alcun bisogno di figure guida. Chi si presentasse come figura guida sarebbe perfettamente ignorato. Ovviamente, fanno eccezione i leader populisti.

[14] Tutto ciò è ormai caduto nel dimenticatoio. Il danno arrecato è stato grave, ma costoro uno straccio di analisi e di autocritica non la faranno mai. Scurdammoce o’ passato!

[15] Non posso non evocare qui il mondo della chiacchiera come descritto da alcuni filosofi esistenzialisti.

[16] La parresia è l’impulso irrefrenabile a dire pubblicamente quella che si ritiene essere la verità, a qualsiasi costo.

[17] La mia impressione è che le radici ultime di questa conflittualità siano assai profonde. Non ho spazio qui per entrare in argomento. Altrove ho parlato di mutazione antropologica. Cronologicamente, i primi a rilevare qualcosa di simile a questa mutazione sono stati David Riesman (1909-2002) e Marshall McLuhan (1911-1980). A seguire poi molti altri studiosi, come ad esempio Cristopher Lasch (1932-1994). Si tratta di una diversa strutturazione dell’Io dovuta a processi sociali e soprattutto culturali. Riesman, nel suo The Lonely Crowd, contrappone il tipo psicologico degli inner-directed a quello degli other-directed. Ho trattato diffusamente di questa problematica nel mio saggio David Riesman e l’individuo ben socializzato, peraltro mai pubblicato su Città Futura. Cfr. Finestre rotte: David Riesman e l’individuo ben socializzato. Si veda eventualmente Riesman 1969 [1950].

[18] Cfr. Cuturier 2021.

[19] Cfr. Ricolfi 2019.

[20] Si veda il mio saggio Un Sessantotto gutemberghiano.

[21] Si veda eventualmente la mia analisi dei risultati referendari nel mio recente saggio: Finestre rotte: Referendum 2025.

[22] Oggi anche l’ONU è da taluni considerato come antisemita. Mi sento dunque in buona compagnia.

[23] In occasione del Referendum 2025, è accaduto spesso di sentire rudi militanti della “rivolta” landiniana sostenere che la presenza, nel pacchetto dei Referendum, della questione della cittadinanza agli immigrati avrebbe alimentato l’assenteismo elettorale e fatto perdere voti ai referendum sul lavoro. Un chiaro invito a non ripetere più l’errore di simili connubi contro natura.

[24] Assumo qui – seguendo l’opinione corrente – che ci sia stata effettivamente una fine delle ideologie, anche se la questione è davvero assai discutibile e controversa. È senz’altro riscontrabile che siano finite giustamente alcune ideologie decisamente dannose e financo perverse. Insieme a loro sono state buttate ideologie invece del tutto indispensabili, come l’umanesimo, la democrazia, l’eguaglianza oppure il cosmopolitismo Non ho spazio qui per trattare questa problematica.

[25] Vedi nota 18.

[26] Cfr. Lyotard 1979. Lyotard è un filosofo post-strutturalista e postmodernista.

[27] Il problema non è se le narrazioni siano piccole o grandi, bensì se siano giuste o sbagliate. Siccome Lyotard è un relativista, guarda soltanto alla dimensione delle narrazioni (grandi o piccole) e non al loro contenuto.

[28] Cfr. Lasch 1985.

[29] Mi riferisco qui allo studio di Robert Putnam Bowling Alone. Cfr. Putnam 2000.

[30] Vedi la nota n. 2.

[31] Ho, da tempo, un saggio in sospeso su questo argomento. Non ho grandi incentivi a completarlo.

 

Occidente senza pensiero

di Giuseppe Rinaldi, 13 luglio 2025

Pubblichiamo il saggio più recente di Beppe Rinaldi, già comparso nei giorni scorsi sia sul blog personale, Finestre rotte, sia su Città futura on line. Lo pubblichiamo perché riteniamo meriti, come tutti gli altri scritti di Rinaldi che abbiamo ripresi e quelli che vi invitiamo a leggere direttamente sul suo sito, la maggiore visibilità possibile. È difficile di questi tempi trovare analisi altrettanto puntuali ed esaurienti dell’attualità politica e delle derive del pensiero contemporaneo, e siamo quindi ben felici di poterle ospitare. Paolo Repetto

***

1. Il titolo di questo saggio[1] fa riferimento a un recente libretto di Aldo Schiavone nel quale egli descrive e denuncia un ormai consumato degrado della vita intellettuale e morale dell’Occidente e, dunque, anche e soprattutto del primo Occidente, cioè dell’Europa. La nozione di un Occidente senza pensiero costituisce una sintesi assai evocativa di una situazione di vuoto culturale che si sarebbe instaurata, sulle sponde atlantiche, pressappoco con l’affievolirsi delle cosiddette ideologie, proprio quelle ideologie peraltro già in crisi che avevano avuto il loro ultimo momento di gloria nell’ambito della Guerra fredda.

2. Sulla cosiddetta fine delle ideologie sono state ormai scritte intere biblioteche[2]. Daniel Bell, già alla metà del secolo scorso, parlava di una «exhaustion of political ideas». Su questa “fine”, e su altre “fini”, la baldanzosa corrente filosofica postmodernista ha campato di rendita per alcuni decenni. Qualcuno ha anche provato a ipotizzare una fine della storia. Con la fine delle ideologie, comunque si valuti l’evento, ci si poteva attendere il luminoso inizio di una nuova prospettiva culturale, scevra di ideologismi, realistica, con i piedi ben piantati in terra, capace di guidarci con sicurezza nell’affrontare le difficili sfide che abbiamo di fronte. Invece, a quanto pare, l’ipotesi più probabile è che sia subentrato il vuoto. Un vuoto che non si può soltanto più considerare come un momentaneo smarrimento, una crisi di crescita. Si tratta piuttosto di un vuoto che si appresta a diventare un vuoto permanente, visto che il Muro è caduto nel 1989, quasi quarant’anni fa, 36 per la precisione.

3. Cosa vuol dire che siamo rimasti “senza pensiero”? È proprio vero? Perché non ce ne eravamo accorti prima? O non si tratta forse dell’ennesima moda denigrativa dell’Occidente, tanto popolare nella cultura woke e recentemente denunciata, ad esempio, da Federico Rampini[3]? Le assenze sono decisamente più difficili da rilevare delle presenze. I vuoti non parlano, non protestano, non hanno effetti causali diretti. Per cui occorre un certo tempo perché vengano identificati, perché venga loro attribuito uno status, per così dire, ontologico. Non è facile – soprattutto nel dominio culturale – rendersi conto del fatto che ci manca qualcosa. Che siamo sull’orlo di un buco nero. A parere di chi scrive l’avvertimento acuto della assenza di un pensiero dell’Occidente (e dell’Europa) si è avuto piuttosto tardi, in concomitanza con una serie di fenomeni che avrebbero dovuto avere una interpretazione univoca e una risposta altrettanto univoca da parte dell’Occidente. E invece non l’hanno avuta. Fenomeni come: 1) l’aggressione russa all’Ucraina; 2) la diffusione stessa della cultura woke entro e fuori degli USA; 3) la Brexit che in sostanza ha costituito una scissione dell’Unione Europea; 4) la prima vittoria di Donald Trump alle elezioni nel 2017, l’assalto al Campidoglio e la sua seconda elezione nel 2024; 5) l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele e la reazione sproporzionata dello “Stato degli ebrei” nei confronti del territorio di Gaza; 6) lo svuotamento dell’ONU e dei Tribunali internazionali (a seguito delle guerre di Ucraina e di Gaza); 7) in generale, poi, la estrema lentezza e riluttanza con cui si sta realizzando la unificazione europea. Se si vuol essere un poco più drastici, il blocco ormai pluridecennale del processo di unificazione europea. Se ne potrebbero citare altri.

Questi meri fatti hanno diviso profondamente il mondo della politica, gli intellettuali e l’opinione pubblica europea e hanno mostrato come, da tempo ormai, fosse diventato impossibile l’impiego di criteri comuni di interpretazione, di fronte a questioni che pure sono di enorme importanza, che pure toccano profondamente i valori e i principi fondamentali. Se di fronte a fatti di questa portata non hai una risposta tendenzialmente univoca, vuol dire che non sai tanto bene chi sei, che non hai propriamente un’identità. È lecito domandarsi se non ci sia un limite nella disomogeneità di pensiero che possa essere sopportato da una società, in termini di coesione e di funzionamento. Una società che peraltro è impegnata in un programma di unificazione politica.

4. Se si guarda alla fase storica precedente, quella della Guerra fredda, avevamo mezzo mondo mobilitato per la costruzione del socialismo, in qualcuna delle sue molteplici varianti (alcune delle quali davvero discutibili). Un altro mezzo mondo era alacremente impegnato nella costruzione delle società democratiche aperte e per resistere alla minaccia del socialismo o comunismo reale. Un “Terzo mondo” era poi impegnato nella costruzione di nuovi Stati nazione, per liberare i diversi Paesi dal colonialismo e dallo sfruttamento straniero. Non si può certo dire che mancassero ideologie, valori e finalità. Non mancava dunque il pensiero. Certo, c’erano dei conflitti e alcuni “pensieri” erano del tutto sbagliati, ma questo è il rischio che si corre sempre quando si è impegnati a fare la storia in qualche modo.

Con l’implosione dell’Unione Sovietica e con la fine della Guerra fredda, l’Occidente, che poteva considerarsi come il virtuale vincitore della lunga contesa, è invece entrato in una sorta di stato comatoso, in una sconcertante assenza di progettualità e di prospettive, in una stupida concentrazione sugli egoismi nazionali e sui particolarismi. Sono diventati così visibili, in un certo senso, i due Occidenti, uno dalla statualità muscolare e l’altro dalla statualità evanescente. L’Occidente europeo evanescente ha delegato all’altro, agli USA, una serie importante di responsabilità[4] collettive e questi – oggi possiamo affermarlo con totale certezza – si sono dimostrati assolutamente incapaci, assolutamente non all’altezza del compito. Con una “assenza di pensiero” forse ancora più plateale di quella diffusa in Europa. Basta nominare, uno in fila all’altro, i recenti Presidenti americani. Ve li trascrivo qui di seguito per comodità. Richard Nixon (1969-1974), Gerald Ford (1974-1977), Jimmy Carter (1977-1981), Ronald Reagan (1981-1989), George H. W. Bush (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), George W. Bush (2001-2009), Barack Obama (2009-2017), Donald Trump (2017-2021), Joe Biden (2021-2025) e Donald Trump (2025-). Messi così, uno in fila all’altro, che impressione vi fanno? Riuscite a identificare una qualche linea di pensiero?

5. Gli ultimi quarant’anni della nostra storia, nel primo e nel secondo Occidente, ci mettono drammaticamente di fronte a questo vuoto di prospettiva, vuoto di politica, vuoto di cultura, vuoto, appunto, di pensiero. Un vuoto che si sta facendo sempre più evidente nella misura in cui i problemi, abbandonati a se stessi, urgono per una soluzione e si incancreniscono sempre più. Nel proseguimento di questo saggio – che non va propriamente inteso come una recensione – prenderò in considerazione soprattutto la parte introduttiva e la parte conclusiva del libro di Schiavone, al solo scopo di meglio caratterizzare questo fenomeno, oggi per me divenuto evidentissimo, di un Occidente senza pensiero.

6. Così esordisce Schiavone nel suo libretto: «Nel quadro delle conoscenze e dei saperi che alimentano la vita pubblica delle nostre società […] si è aperto da qualche tempo, nell’indifferenza generale, un vuoto inquietante. Prodottosi quasi di colpo, ha per causa un fatto senza precedenti, con conseguenze che si stanno rivelando via via più disastrose: la scomparsa dalla scena d’Europa del grande pensiero sull’umano: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali»[5].

Va notata qui l’espressione “pensiero sull’umano”, una terminologia di cui sembra si sia persa decisamente l’abitudine. Vorrei ricordare che anche le atroci lacerazioni del Novecento vertevano comunque, bene o male, intorno a un qualche “pensiero sull’umano”. L’amaro tribunale della storia ha alfine decretato qualcosa di abbastanza preciso, intorno all’umano e al disumano. Qualcosa abbiamo dovuto forzatamente imparare. Oggi, per contro, l’umano e il disumano sono mescolati in una poltiglia inestricabile: Hamas, Trump, Putin, Netanyahu, cui possiamo aggiungere, fuori Occidente, gli ayatollah, i talebani e diverse varietà di islamisti. Ma anche Xi e Kim Jong-un. Eppure ci siamo così abituati che invocare l’umano oggi suscita senz’altro, presso il pubblico, ilarità e compassione.

Schiavone qui giustamente denuncia il progressivo venir meno della cultura umanistica nell’attuale contesto europeo, e più ampiamente nel contesto di quello che suole definirsi come Occidente. È implicito nel suo discorso che la cultura umanistica costituisca ancora una componente fondamentale nella definizione degli orientamenti di una società. Possiamo aggiungere che non assistiamo soltanto a un venir meno della prospettiva umanistica e alla proliferazione del cinico disincantato, stiamo assistendo a una promozione sfacciata dell’antiumanismo, in una varietà di forme che hanno sempre più successo o che comunque, invece di una condanna, suscitano solo benevola indifferenza[6]. Difendere l’umanismo oggi significa spesso fare la parte dell’anima bella che sogna i bei tempi andati. Significa essere malamente apostrofati dai truci realisti della politica che oggi abbondano più che mai. Questa tendenza antiumanistica si accompagna costantemente con lo screditamento della modernità, lo screditamento della tradizione stessa dell’Occidente e con l’implicito e conseguente screditamento della democrazia.

7. Schiavone chiama direttamente in causa le humanities: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali. Altre volte cita le discipline giuridiche, l’etica, l’economia. Chi scrive si è occupato di filosofia e scienze umane fin da quando era sui banchi di scuola. Ebbene, la filosofia occidentale, nella sua versione continentale, sta attraversando una crisi epocale dalla quale difficilmente riuscirà a riprendersi. Ho trattato ampiamente di questo argomento nel mio recente saggio Esiste la filosofia continentale?[7] L’aspetto interessante della questione è il fatto che, a partire dagli anni Settanta la filosofia continentale europea, soprattutto tedesca e francese (la french theory), ha completamente colonizzato le facoltà umanistiche americane, gettando le basi di quella cultura del piagnisteo politically correct, che si svilupperà poi nel movimento stay woke. In altri termini, stiamo importando in forma peggiorativa, come vuoto di pensiero, quello che abbiamo esportato oltre atlantico qualche decennio fa.

Per le scienze sociali è avvenuto un processo inverso. Le scienze sociali americane del primo Novecento, che avevano studiato per prime la nuova società di massa, sono state esportate in Europa, dove hanno avuto una diffusione straordinaria e hanno contribuito alla conoscenza e all’ammodernamento delle società europee, almeno quelle al di qua del Muro. Per decenni le scienze sociali nord americane furono le sole capaci di fare una dura concorrenza all’ortodossia marxista, che pretendeva il monopolio della conoscenza sociale. Esse diedero notevoli contributi ai processi di riforma delle società europee postbelliche. Negli anni Novanta tuttavia le scienze sociali americane caddero vittima dei social studies, del piagnisteo politically correct e lo stesso accadde, di converso in Europa. Con l’avvento del neo liberismo (la Tatcher sosteneva che “la società non esiste”) e con l’abbandono dei grandi progetti di riforma, le scienze sociali cominciarono a perdere qualsiasi ruolo e centralità. Contribuendo così a quel vuoto di pensiero di cui stiamo discutendo.

8. Una delle manifestazioni più tangibili di questo vuoto inquietante è – per Schiavone – la progressiva scomparsa dei Maestri. «Una volta c’erano tra noi i Maestri. Non in un’età ormai lontana, ma appena qualche decennio fa, ancora nel tardo Novecento. Guide da cui non si poteva prescindere e con cui ci siamo a lungo confrontati, fin quasi al passaggio del secolo. Spesso discussi e criticati, e non soltanto seguiti e imitati, ma comunque riconosciuti in grado di misurarsi con le grandi personalità del passato, e di aprire, attraverso quel dialogo, vie inesplorate per affrontare i problemi del presente nella continuità di una tradizione: quella stessa della modernità»[8].

La collocazione cronologica posta da Schiavone, “appena qualche decennio fa”, dell’avvento del vuoto di pensiero, è all’incirca quella che ho segnalato nella mia introduzione. Va poi ricordato che intellettuali e modernità hanno costituito, per secoli, un binomio inseparabile. Gli intellettuali, pur con molte contraddizioni, hanno costantemente svolto il ruolo di coscienza critica della modernità. Anche i conflitti del Novecento sono stati elaborati e consumati nell’ambito di un aspro dibattito intellettuale intorno alla modernità, o a quel che ne restava.

Ma è ora subentrata la postmodernità, la reazione contro la modernità che ha finito per scindere il ruolo stesso degli intellettuali nei confronti della società e della storia. Intellettuali e modernità sono due categorie che hanno subìto, negli scorsi decenni, un attacco violentissimo. Proprio ad opera della postmodernità che, in virtù di questo vandalismo di principio, ha mostrato alla fine la propria vacuità e inconsistenza. Senza l’apporto della modernità, senza il ruolo degli intellettuali, abbiamo perso progressivamente la capacità di pensare al nostro passato, al nostro presente, al nostro destino. Abbiamo rinunciato a domandarci chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Con chi ci accompagniamo.

9. Schiavone usa alcune pagine per elencare una nutrita schiera dei grandi Maestri cui faceva riferimento in apertura. «Era insomma la grande cultura formatasi nel cuore del ventesimo secolo che continuava a svolgere il proprio ruolo, e finiva con l’illuminare un’intera civiltà. […] Di comparabile a tanta ricchezza, oggi non rimane più nulla: ed è così che il buio è sceso senza preavviso sul cuore dell’Occidente. I primi risultati sono sotto gli occhi di tutti: un’America irriconoscibile, e un’Europa che tace o balbetta»[9].

Si noti che l’elenco dei Maestri citati, che qui non riporto e discuto per brevità, comprende posizioni culturali anche assai diverse e talvolta incompatibili. In omaggio dunque alla natura sempre conflittuale del pensiero. Per quel che riguarda invece il buio che ha colto il secondo Occidente, ci dovremmo soffermare a lungo sulla cultura woke, che è insieme causa e conseguenza della sparizione dei grandi Maestri e del rifiuto della modernità. Luca Ricolfi nel suo saggio sul Follemente corretto[10] ha esaurientemente descritto il fenomeno e ne ha tracciate alcune linee interpretative. Il politically correct e la cultura woke, con tutti i loro annessi e connessi, hanno gravemente minato la libertà di pensiero, uno dei principi cardine dell’Occidente.

10. Tuttavia Schiavone mette anche l’accento sul deterioramento qualitativo della produzione culturale. Ciò ovviamente mette in causa i meccanismi stessi della produzione e riproduzione dei saperi umanistici. Afferma Schiavone che: «[…] se si considerasse l’elenco dei docenti di una qualunque importante Facoltà umanistica in Francia, in Germania, in Italia qual era quaranta o cinquanta anni fa, e lo si mettesse a confronto con coloro che vi insegnano oggi, sarebbe arduo sottrarsi all’impressione di una distanza crescente e incolmabile, se appena si avesse una cognizione non superficiale delle materie prese in esame: filosofiche, storiche, giuridiche, sociologiche»[11].

Va osservato, da parte nostra, che l’appiattimento qualitativo riguarda non solo l’offerta culturale, ma anche il lato della domanda. Le capacità medie conseguite dagli studenti nelle nostre scuole sono in caduta libera. Lo stesso vale per le capacità medie dei cittadini di svolgere efficacemente i doveri loro prescritti dalla Costituzione. Anche su questo appiattimento ormai esiste una letteratura ampia e ben documentata.

11. Ciò vale perfino – ci permettiamo di aggiungere – nel campo dell’intelligenza. Secondo gli studiosi dell’effetto Flynn, nei Paesi occidentali anche l’intelligenza media avrebbe cessato di crescere. L’Effetto Flynn[12] era quel fenomeno, ben conosciuto dagli psicologi, per cui le prestazioni nei test di intelligenza tendevano a crescere col passare del tempo (3 punti ogni decennio). Questo fenomeno era stato rilevato sulla base dell’accumulo dei dati conseguenti alla pratica sistematica della somministrazione dei test di intelligenza diffusa in varie nazioni e istituzioni. Dall’inizio del nuovo secolo sono comparsi diversi studi che testimoniano di un arresto del fenomeno di crescita dei punteggi medi nei test di intelligenza. O, addirittura, sembrano avallare la presenza generalizzata di un effetto Flynn rovesciato. Col passare del tempo, le prestazioni individuali nei test di intelligenza non solo avrebbero cessato di crescere ma addirittura tenderebbero a diminuire. La cosa è tuttora controversa sul piano statistico, ma decisamente allarmante, se collegata ad altri sintomi di degrado del livello culturale medio delle nuove generazioni.

12. Eppure viviamo in un’epoca formidabile di progresso tecnico scientifico. Abbiamo fotografato i buchi neri, abbiamo scoperto il bosone di Higgs e intercettato le onde gravitazionali. L’intelligenza artificiale contribuisce a migliorare la nostra vita in un’enorme quantità di settori. Schiavone precisa che, a suo giudizio, il vuoto di pensiero incombente concerne proprio il contesto delle humanities, visto che, per quel che riguarda le scienze della natura, non pare proprio esserci alcuna crisi alle porte. Non abbiamo dunque a che fare con disturbi funzionali di base, visto che nel campo scientifico hard il prodotto è rimasto per ora del tutto competitivo. Abbiamo proprio a che fare col vuoto di pensiero sull’umano. Un autentico smarrimento. Come un gigante dotato di un’enorme muscolatura, ma col cervello di un moscerino.

Schiavone confronta l’epoca della prima Rivoluzione industriale, quando il passaggio d’epoca fu caratterizzato da un intenso lavorio culturale allo scopo di comprendere le trasformazioni che stavano avvenendo, con l’epoca nostra, un’epoca di grandi trasformazioni che avvengono in una totale mancanza di comprensione. «Ma questa volta dov’è il pensiero – filosofico, economico, sociale, politico, giuridico, etico: in una parola, l’indagine sulle società e sull’umano in trasformazione e sui loro nuovi caratteri – che dovrebbe fare da guida al passaggio d’epoca, orientandone direzione e conseguenze, come è accaduto con le grandi rivoluzioni della modernità?»[13]. Stiamo, in altri termini, vivendo una grande trasformazione con gli occhi completamente bendati.

13. Insiste Schiavone: «Quello che manca è in particolare una cultura – storica, filosofica, sociale – che si ponga il problema di una lettura d’insieme dei processi che si stanno sviluppando nel mondo, dei loro caratteri e delle loro tendenze, e che offra soluzioni innovative alla politica. Un pensiero che analizzi da vicino, con capacità teorica adeguata, il salto di qualità avvenuto nella struttura dell’economia capitalistica in seguito alla rivoluzione tecnologica, con il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali – il lavoro della classe operaia. Un passaggio, quest’ultimo, che ha posto fine a un intero tratto della modernità, ha provocato il crollo dei regimi comunisti, e ha portato alla nascita di uno specifico meccanismo unico di tecnica e di economia per la prima volta senza alternative nell’intero pianeta – sul quale tuttavia sappiamo pochissimo dal punto di vista della sua teoria e della sua critica»[14].

Qui torna uno dei problemi su cui Schiavone aveva già insistito, in passato, e cioè «il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali». Si tratta di un motivo ben presente nel suo Sinistra! Un manifesto del 2023[15]. La presenza del conflitto di classe aveva caratterizzato i due secoli precedenti della modernità e aveva monopolizzato i dibattiti intorno alla configurazione della società. Intorno alla società giusta. Ora quella centralità storica non c’è più e ciò imporrebbe lo sviluppo di un nuovo pensiero intorno al futuro stesso delle società occidentali. Un manifesto, appunto, per una nuova sinistra[16]. Ma la sinistra europea appare ammutolita e in difficoltà. Non parliamo poi dei Democratici americani. Sia le destre tradizionali, sia le sinistre, che bene o male avevano entrambe una qualche solida visione della società e della storia, sono oggi soppiantate dal non pensiero dei populismi organizzati, spesso inestricabilmente rossobruni, nazicomunisti nei loro fondamenti. A ogni consultazione elettorale questi registrano incrementi preoccupanti di consensi.

14. Così Schiavone sintetizza la situazione: «L’Occidente è rimasto in tal modo orfano della sua stessa intelligenza: che lo ha lasciato all’improvviso completamente solo, a metà strada di un cammino incompiuto. E ne è rimasta orfana in particolare la politica, sia progressista sia conservatrice. Una specie di nuovo “tradimento dei chierici”, consumato quando mettere in campo nuovo pensiero sarebbe stato indispensabile per concepire e realizzare scenari adeguati alle peculiarità della nuova realtà capitalistica e al suo rapporto con la tecnica e con la politica»[17]. In questi passi si evoca il tradimento dei chierici, uno smarrimento cioè della funzione intellettuale, un inchino del mondo della cultura a interessi totalmente estranei. Il riferimento ovviamente va a Julien Benda (1867-1956) e al suo noto Tradimento dei chierici (1927)[18]. E il tradimento dei chierici ha avuto effetti esiziali sulla politica: «E invece proprio nel momento cruciale del salto, il circuito delle conoscenze si è interrotto. E la politica è diventata cieca, senza concetti e categorie in grado di leggere oltre la superficie dei processi che ci coinvolgono, nei caratteri e nelle tendenze di lunga durata del mutamento»[19].

La debolezza della politica è senz’altro un effetto della debolezza del pensiero. Il problema è che, in un simile quadro, pare davvero impossibile che la politica riesca a porre un qualche rimedio alla stessa debolezza del pensiero. L’immagine che se ne trae è quella di un Occidente sempre più invischiato in un circolo vizioso autolesionistico. Invece di politica e cultura, come in Norberto Bobbio, avremo sempre più politica senza cultura.

15. Non seguiremo da vicino i vari capitoli nei quali Schiavone approfondisce la propria analisi. Dove si affrontano questioni come il degrado della politica, la globalizzazione, l’impatto delle nuove tecnologie, i problemi della democrazia, la situazione americana. Le conclusioni di Schiavone si aprono con un’affermazione davvero impegnativa: «Solo una rivoluzione intellettuale e morale dell’intera cultura europea di portata eguale alla trasformazione che stiamo vivendo potrà essere in grado di indirizzare per il meglio il cambiamento in cui siamo immersi. Perché lo ripetiamo: la tecnica dona potenza, non assicura salvezza. Stabilisce la direzione e l’irreversibilità del cammino, contribuendo a fissare la forma dell’umano attraverso l’aumento del suo controllo sulle proprie condizioni materiali di esistenza; non garantisce il buon esito dell’intero viaggio»[20].

La tecnica ci rende sempre più forti ma non può darci alcuna indicazione su come usare proficuamente questa stessa forza. Mentre i vari corifei della sinistra in senso lato invocano il disarmo, oppure gli ennesimi provvedimenti di tutela a favore di questi o quelli – quelli che non arrivano alla fine del mese – oppure ancora evocano il diritto alla rivolta e il ritorno alla lotta di classe, ebbene Schiavone va contro corrente e avverte che è necessaria principalmente una «rivoluzione intellettuale e morale», due rivoluzioni con cui nell’immediato «non si mangia». Due rivoluzioni senza cui non sapremmo neanche quale sia la meta verso cui andare. Non ci mancano i mezzi, ci mancano i fini. O forse ne abbiamo di troppi, e di confusi. Il che è come non averne neanche uno.

16. Sarebbe allora da fare una riflessione profonda intorno al significato di queste parole. Cosa significa «rivoluzione intellettuale e morale»? In estrema sintesi, così interpreto io, l’Occidente senza pensiero ha coltivato – ancora una volta – la fiducia nei meccanismi automatici. Come quando aveva creduto alle leggi marxiane della storia. Oggi si tratta della fiducia nelle leggi automatiche dei mercati, nella iniziativa individuale e nella concorrenza, nello slogan «Enrichissez vous!», nella fiducia del gocciolamento del benessere verso tutti gli strati della società. L’Occidente senza pensiero ha fatto di tutto per ridurre ai minimi termini lo Stato e le istituzioni, per dare mano libera alla vandalica deregulation. È stata questa una comune ubriacatura che ha coinvolto sia la destra sia la sinistra. Destre e sinistre che la capacità di pensare l’avevano forse persa da tempo. Così ci siamo ritrovati immersi nel populismo e stiamo così mettendo a repentaglio le stesse istituzioni democratiche. L’Occidente europeo ha pensato che bastasse «laissez faire, laissez passer». Che bastasse stare a guardare, e tutto si sarebbe aggiustato da sé.

17. Ora, a quanto pare, la storia ci sta presentando il conto, e non sappiamo cosa fare. Il fatto è che – di questo dobbiamo davvero convincerci – la società va pensata. La società è fatta proprio per essere pensata. Soprattutto le società altamente complesse come le nostre. Per le quali occorre un pensiero di pari complessità. Invece abbiamo creduto alle semplificazioni. Da noi, per stare a casa nostra, abbiamo creduto al pensiero semplice di Berlusconi, di Bossi, di Renzi, di Grillo, di Meloni, di Salvini. Mi spiace molto dirlo, ma anche quello di Schlein e di Landini, di fronte ai problemi che abbiamo davanti, è puro pensiero semplice[21].

In Europa, pensare di continuare a sopravvivere come uno Stato senza Stato (che non unifichi in sé le fondamentali prerogative di uno Stato) è puro pensiero semplice, come quello dei pacifinti che vogliono la pace e la sicurezza, non vogliono la NATO e non vogliono spendere una lira per comperare le cartucce. Pensiero semplice anche quello dei governi europei che vorrebbero, a fasi alterne, una politica estera di grande potenza, senza però cedere alcun potere a un Ministro degli esteri europeo di un Governo europeo. Purtroppo siamo guidati dal pensiero semplice e gli elettori, divenuti semplici anch’essi, non sembrano neanche più persuasi di dover andare ogni tanto a votare. Non vanno più a votare non perché siano delusi dalla politica ma perché sono divenuti incapaci di un qualsiasi pensiero effettivamente politico. Ricordo che gli esponenti del secondo partito di opposizione italiano andavano in parlamento agitando l’apriscatole. Non solo intellettuali senza pensiero dunque, ma anche elettori senza pensiero.

18. Già, ma allora, come possiamo fare per recuperare un pensiero alto, degno dell’Europa e dell’Occidente migliore? Davvero all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte? Schiavone si pone il problema, ma qui mi permetto di dubitare alquanto sulla fattibilità della sua proposta. Dice: «[…] almeno in Europa, per rimettere in moto la macchina del pensiero serve una scossa esterna al mondo delle idee, tanto forte da rendere possibile la ripresa del cammino interrotto. Un impulso che può venire soltanto dalla politica: da una politica che sappia spezzare con la forza di una decisione il vuoto di idee che la circonda. E questa non può consistere in altro se non in un passo avanti decisivo verso l’unificazione del continente»[22].

Qui Schiavone incorre purtroppo in una qualche circolarità di pensiero, visto che, nella introduzione ha sostenuto che proprio il vuoto di pensiero confina la politica alla mera amministrazione. Come farà una politica priva di pensiero a trovare da sé la forza di una decisione? Personalmente una risposta ce l’ho, ed è una risposta poco piacevole. Solo una colossale esternalità negativa, una grave catastrofe, potrà costringere i nostri maestri del pensiero semplice a prendere decisioni forti. A prendere finalmente le ovvie decisioni indispensabili. Non resta che sperare nella catastrofe.

19. Così l’Occidente si è cacciato in un circolo vizioso che lo condanna a rendimenti sempre più bassi. A continuare a rimandare e ad attendere, come se avessimo davanti un tempo infinito. Certo, è comodo fare l’ammuina. Schiavone avverte che: «Progresso tecnico e scadimento morale e sociale possono coesistere, entro certi limiti. Con la conseguente deriva verso un mondo in cui l’anomia sarà diventata la regola di un suprematismo capitalistico – tecnologico fuori controllo: segnato dal dominio di minoranze più o meno ristrette – arroccate nei privilegi derivanti dalla loro posizione rispetto al dispositivo tecnoeconomico globale – su moltitudini uniformate dalla comune sconfitta e dal patimento condiviso della sopraffazione»[23]. L’Amministrazione Trump è oggi un perfetto esempio di coesistenza di progresso tecnico e scadimento morale, intellettuale e sociale. Questo è forse il destino che ci aspetta.

Rincarando la dose, secondo Schiavone oggi ci troviamo in: «Una congiuntura in cui la capacità del pensiero sull’umano di padroneggiare e di orientare verso paradigmi di razionalità fondati sul bene comune quel potere di trasformazione del reale che stiamo acquisendo con tanta velocità appare drammaticamente ridotta, se non addirittura azzerata. Se non riusciremo a riequilibrare in corsa questo scompenso; se una parte di quella che chiamiamo la nostra civiltà continuerà a rimanere indietro rispetto all’altra, il prolungarsi del ritardo renderà realistiche ipotesi di futuro nelle quali l’aver cancellato la comune identità dell’umano diverrà il principale carattere di una costituzione materiale del pianeta fondata esclusivamente sulla discriminazione e sul dispotismo»[24].

Val la pena di aggiungere che non sarà certo demandando alla intelligenza artificiale la soluzione delle maggiori questioni – come qualcuno auspicherebbe – che risolveremo il nostro deficit di pensiero. Un imbecille con l’AI diventa un imbecille al quadrato. C’è già chi pensa di infilare l’intelligenza artificiale nelle scuole, così avremo finalmente il pensiero semplificato a disposizione di tutti, paziente, autorevole, efficiente e del tutto incontrollabile. Non sono tra gli scettici oppositori della AI, sono piuttosto tra gli scettici che dubitano della nostra capacità di controllare la AI, cui ci stiamo affidando con tanta disinvoltura e dabbenaggine. Anche qui è in gioco il vuoto del pensiero. Chi pensiero non ha, non può darselo artificialmente.

20. Schiavone manifesta tuttavia, nonostante tutto, un certo ottimismo: «[…] nonostante tutti gli ostacoli che si frappongono, credo che in questo frangente sia proprio dall’Europa che possa partire il primo e più forte segnale di risveglio; che sia da qui che si possa riannodare il filo spezzato del nostro pensiero»[25]. Schiavone entra qui nel merito di alcuni punti di forza restanti su cui l’Europa potrebbe basarsi per dare il via a una ripresa. In effetti, dopo il declino ormai palese e profondo della democrazia americana, del secondo Occidente, non resta che riporre qualche speranza nel primo Occidente. Effettivamente se il patrimonio di pensiero dell’Occidente non è rimasto da qualche parte in Europa, può allora esser tranquillamente dichiarato in via di estinzione. Basti pensare al trattamento inferto da Trump alle università americane per rendersi conto che da quelle parti non verrà più fuori alcunché, per un bel po’. Bisogna riconoscere che Alexandr Dugin, al di là del suo tono profetico ed esaltato, nei suoi scritti è andato vicino a una diagnosi ben precisa della capitolazione dell’Occidente di fronte all’Euroasiatismo. In un suo scritto[26] di qualche anno fa aveva individuato proprio in Trump il capofila inconsapevole della reazione dei popoli del Mondo contro l’Occidente, irrimediabilmente corrotto e pervertito.

Comprendiamo che Schiavone, nel suo ruolo di pubblico intellettuale, si sforzi di mostrare un volto tutto sommato ottimistico. Comprendiamo come si sia sentito in dovere di considerare la partita del pensiero dell’Occidente ancora come aperta. Di mostrare una strada praticabile per uscire dalla crisi. Di considerare come ancora non del tutto perduto il nostro patrimonio di pensiero, la nostra scala di valori e le nostre istituzioni. In questo senso, il suo saggio è un appello. Purtroppo la sua diagnosi è perfetta, ma una eventuale prognosi positiva è invece dipendente da una miriade di condizioni che, se considerate da vicino, non possono che risultare altamente improbabili.

21. Il lettore, compulsando attentamente il testo di Schiavone, potrà farsi un’idea di quanto realistiche siano le possibilità di successo di un programma di rinascita del pensiero europeo da lui intravisto e propugnato. Personalmente, siamo alquanto più pessimisti e il vuoto di pensiero dell’Occidente oggi ci sembra ormai decisamente irreparabile. Più che di un improbabile programma di rinascita, oggi ci pare quanto mai necessario un programma di resistenza. Un appello disperato che chiami alla resistenza le poche forze del pensiero d’Occidente sopravvissute, e non ancora del tutto stravolte. Una resistenza, appunto, intellettuale e morale. Una resistenza destinata tuttavia a diventare sempre più clandestina, sempre più confinata nei bantustan o nelle riserve indiane. Il trattamento inferto da Trump alle università americane è di una chiarezza esemplare. Una resistenza nella lucida consapevolezza che la guerra è stata ormai perduta, che i barbari sono alle porte e che domineranno per secoli. Si tratta allora di mettere da parte e conservare i codici, ricopiare e commentare i testi, trasmettere la tradizione, tenere acceso il lumicino in attesa di un’improbabile nuova alba. Proprio come i monaci irlandesi nei secoli bui della decadenza europea.

Opere citate

1960 Bell, Daniel, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo Edizioni, Milano, 1991.

1958 Benda, Julien, La trahison des clercs, Editions Grasset, Paris. [1927]

2021 Dugin, Alexandr, Contro il Grande reset. Manifesto del Grande risveglio, AGA Editrice.

2022 Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, Milano.

2024 Rampini, Federico, Grazie Occidente!, Mondadori, Milano.

2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino.

2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.


[1] Nella scrittura di questo saggio non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.

[2] La prima occorrenza della questione risale al 1960. Si veda Bell 1960.

[3] Cfr. Rampini 2022 e Rampini 2024.

[4] Tra queste responsabilità, attribuite di fatto dall’Europa agli USA, abbiamo la difesa (attraverso la NATO), il governo monetario e del commercio internazionale, la politica internazionale, il controllo degli Stati canaglia, il governo delle crisi internazionali derivanti da alcuni Paesi ex comunisti e dall’insorgente fondamentalismo islamico, compresa anche la lotta al terrorismo. Possiamo aggiungere la responsabilità della salvaguardia e della promozione delle organizzazioni internazionali. A uno sguardo retrospettivo, gli USA hanno fallito in tutti questi compiti. Marcatamente, in politica internazionale hanno fallito sulla questione israelo-palestinese, hanno fallito in Iraq e in Afghanistan. Solo per elencare le crisi più importanti. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, gli USA hanno dato un notevole contributo al loro indebolimento.

[5] Cfr. Schiavone 2025: 15.

[6] Fanno parte dell’antiumanismo, a nostro parere, anche il transumanismo e il postumanismo nelle loro varie e confuse manifestazioni.

[7] Si veda Finestre rotte: Esiste la filosofia continentale?

[8] Cfr. Schiavone 2025: 16.

[9] Cfr. Schiavone 2025: 19.

[10] Cfr. Ricolfi 2024.

[11] Cfr. Schiavone 2025: 20.

[12] Dal nome dello psicologo neozelandese James Robert Flynn (1934-2020).

[13] Cfr. Schiavone 2025: 25.

[14] Cfr. Schiavone 2025: 26-27.

[15] Cfr. Schiavone 2023.

[16] In un mio saggio precedente ho analizzato dettagliatamente il Manifesto di Schiavone. Per chi fosse interessato, si veda Finestre rotte: Prolegomeni a una nuova sinistra.

[17] Cfr. Schiavone 2025: 30.

[18] Cfr. Benda 1958.

[19] Cfr. Schiavone 2025: 30.

[20] Cfr. Schiavone 2025: 123.

[21] Mi permetto qui di richiamare la mia recente analisi sui Referendum del giugno 2025: Finestre rotte: Referendum 2025.

[22] Cfr. Schiavone 2025: 123.

[23] Cfr. Schiavone 2025: 124.

[24] Cfr. Schiavone 2025: 124.

[25] Cfr. Schiavone 2025: 124-125.

[26] Cfr. Dugin 2021.

Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

di Paolo Repetto, 14 aprile 2024 – dall’Album “Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

Nikolaj Konstantinovič Roerich Le cattedrali di pietra copertinaLa cultura russa della prima metà del Novecento ha sfornato palate di personaggi bizzarri e controversi, ma questo è davvero singolare. La figura di Nikolaj Konstantinovic Roerich, nato a San Pietroburgo nel 1874, è talmente sfaccettata da non poter essere incasellata in alcuna definizione. Era un pittore, un archeologo e un esploratore, ma anche un appassionato di religioni orientali e di studi cabalistici, e si reinventò da ultimo maestro del pensiero, fondando una filosofia esoterica (la Agni Yoga) che pescava dalla teosofia di Elena Blavatskij, dal cristianesimo ortodosso, dal buddismo, dall’induismo, dallo sciamanesimo nonché dal burkhanesimo (una religione diffusa nella regione russo-asiatica degli Altai). Ancora oggi questa filosofia ha i suoi bravi seguaci, soprattutto nella Russia asiatica, ma sparsi anche un po’ in tutto il mondo. Per converso, Roerich è considerato da molti solo un ciarlatano, e si sospetta addirittura che abbia agito come spia del regime staliniano.
Le cattedrali di pietra 02Andiamo però con ordine. Roerich coltiva precocemente i suoi interessi artisti e filosofici, e soprattutto frequenta sin da giovanissimo gli ambienti culturali all’avanguardia. Collabora come scenografo e costumista alle messe in scena di Sergej Diaghilev, il creatore del balletto russo, e firma con Stravinsky la scenografia del balletto della “Sagra della Primavera”.
La grande svolta nella sua vita avviene però nel 1901, quando sposa Elena Ivanova Shaposhnikova. Da lei, che già ha tradotto in russo le opere della Blavatskij e scritto sui fondamenti del buddismo, riceve la spinta verso gli interessi esoterici. Al termine del primo conflitto mondiale i due danno inizio a una serie di viaggi diretti dapprima verso occidente, in Svezia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, poi decisamente a oriente, in India, nel Turkestan cinese, negli Altai, in Mongolia e in Tibet. Visitano anche la Manciuria cinese, raggiungendo poi Shanghai e Pechino e spingendosi fino a Tokyo.
I loro viaggi nell’Asia centrale, in un’area che negli stessi anni vede in azione Sven Hedin e gli archeologi dell’Ahnenerbe himmleriana, si traducono presto in vere e proprie esplorazioni. Oggetto della ricerca è il mitico paradiso buddista di Shambala. Di qui dovrà partire la rigenerazione dell’Umanità, una nuova era guidata da una figura femminile, Urusvati (nella quale non è difficile riconoscere la stessa Elena Ivanovna), che insegnerà all’umanità l’amore per la natura e la sintonia con le energie emanate dalla terra. L’armamentario per una filosofia di vita precorritrice della New Age c’è tutto, compreso il vegetarianesimo e il culto delle vette “sacre”.

Le cattedrali di pietra 03

Il pensiero di Roerich è stato indubbiamente condizionato, e in maniera pesante, dall’influenza della moglie. Di suo, lui ha saputo tradurlo da un lato in visibilità e successo, e in qualche modo in una sorta di lasciapassare, dall’altro in ispirazione per la sua pittura. Verso la fine degli anni Trenta ha lanciato un “Patto Roerich”, una sorta di “Croce Rossa della cultura”, sancito alla Casa Bianca alla presenza di Roosevelt, che aveva come scopo la protezione dai danni della guerra di monumenti, chiese, biblioteche, istituzioni culturali di ogni tipo. Nel frattempo ha continuato a girovagare per la Russia e per il mondo senza subire restrizioni dalla polizia politica staliniana, e sempre godendo di notevole disponibilità economica. Di qui i sospetti su una sua possibile attività spionistica al servizio del regime.
A noi interessa però eminentemente la sua opera. A prima vista è difficile che questa ci conquisti. Sembra anzi presentare diversi limiti: un segno pesantemente calligrafico, quasi esasperato nella semplificazione dei tratti e dei contorni; un cromatismo monocorde, vincolato alla successione disciplinata delle sfumature; il ripetersi degli stessi soggetti, colti da un’angolazione quasi simile. Come ad essere in presenza di un lavoro diligente, piuttosto che ispirato. Ma subito dopo la percezione cambia: si capisce che quelli che possono sembrare difetti di “manico” o di “maniera” sono in realtà l’esito di una “sublimazione”, mirata a creare una dimensione metafisica, nella quale il peso dei massi rocciosi, dei grandi volumi montani inscritti in ideali solidi geometrici, che pure è sottolineato proprio dalla semplificazione del segno, non ci grava addosso, è solidità, è base sulla quale poggiare i piedi e la vita.
E allora ne siamo attratti: da quelle vette (ma anche dagli edifici religiosi, dagli scorci di villaggi) ci arriva un richiamo, e la loro distanza non ci esclude.
Che poi Roerich fosse o meno un ciarlatano, o un fanatico religioso, o addirittura un agente dell’NKVD, e che le sue opere vengano riprodotte oggi sui cuscini o nelle tappezzerie, poco importa. Ci ha lasciato l’idea di un mondo nel quale, forse, l’utopia era ancora possibile.

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Il legno storto

Una dieta ricostituente. Ho chiesto a Beppe Rinaldi l’autorizzazione a riportare sul sito dei Viandanti delle Nebbie due suoi recenti saggi, già postati nel blog Finestre rotte. Il link che rimanda a Finestre rotte compare da tempo nella home page dei Viandanti, e a quello avrei potuto semplicemente indirizzare: ma ho ritenuto opportuna in questo caso anche la pubblicazione diretta, per più di una ragione.

In primo luogo perché ritengo che questi scritti abbiano una rilevanza intrinseca assoluta: ultimamente ho letto ben poche cose di questo livello (forse nessuna) e mi pare dunque doveroso pubblicizzarli e renderli disponibili il più possibile. La nostra non sarà una gran tribuna, ma è comunque una “finestra” in più.

In secondo luogo perché ho egoisticamente “calcolato” (eccola la “ragione calcolante” tanto aborrita dai post-moderni) che la loro pubblicazione avrebbe alzato decisamente il tiro e il tono del nostro sito, negli ultimi tempi piuttosto moscio.

Infine perché questi scritti costituiscono una sfida, alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di concentrazione: stiamo rammollendo i nostri cervelli, nutrendoli di pappine omogeneizzate e precotte che non richiedono alcuno sforzo nell’assunzione e nella digestione, ma atrofizzano le nostre papille gustative e il vello intestinale. I risultati purtroppo si vedono, non solo in tivù o nell’informazione cartacea, ma nella impossibilità di un qualsivoglia confronto serio nel dibattito “domestico”, conviviale, socratico, chiamatelo un po’ come volete. Questi saggi vanno in una direzione diametralmente opposta: esigono impegno nella lettura e coerenza nella riflessione. Li ho letti una prima volta, mi hanno colpito e li ho riletti, non perché temessi di non aver capito – si capisce tutto benissimo, ogni argomento è spiegato e sviscerato come meglio non si potrebbe – ma per assicurarmi di non aver saltato alcun passaggio. Ora li ripropongo agli amici, appunto come una sfida, come stimolo a rompere un po’ la linea sulla quale si va appiattendo il pensiero.

Gli scritti di Beppe mi sembrano costituire il miglior campo base per ogni eventuale tentativo di risalita. Le sue argomentazioni e le idee ad esse sottese possono essere condivise in toto, com’è nel mio caso, oppure discusse e contestate: ma se si vuole chiudere la ricreazione e tornare allo studio serio non si può prescinderne.

Spero dunque sia evidente che non propongo questi saggi come testi sacri, novelli Atti dei Viandanti, o come manifesti programmatici del sodalizio: li promuovo a titolo personale, me ne assumo ogni responsabilità, e li concepisco come strumenti per tornare a far lavorare un po’ i nostri cervelli. Sono strumenti che vanno dalla pinzetta da orafo al martello pneumatico, per cui ci sarà da divertirsi (e da nutrirsi) per tutti.

Il piano di pubblicazione prevede per i due saggi (che sono piuttosto impegnativi rispetto allo standard dei documenti digitali) momenti separati, un intervallo di qualche settimana l’uno dall’altro, per dare modo ai Viandanti “volenterosi” di digerire e assimilare con calma il loro enorme apporto proteico. Nel frattempo io rimango in attesa, curioso di vedere se la nuova dieta avrà qualche effetto.

Il tema che Beppe tratta in questo primo saggio è quello della pace. Tema scivoloso e controverso, rispetto al quale siamo abituati a prendere posizioni decisamente rozze (cfr. ad esempio il mio Contare a fino a dieci, del 2003) o ambigue e superficiali, oppure assolutamente ipocrite (vedi le manifestazioni pacifiste che finiscono a sassate e manganellate): sempre comunque dettate da una profonda ignoranza rispetto all’argomento. Qui ci è offerta l’occasione, una volta per tutte, di avere almeno chiaro di cosa parliamo quando parliamo di pace. Dopodiché, non ci saranno più alibi all’uso improprio o distorto o strumentale del termine.

di Paolo Repetto, 18 ottobre 2023

Una dieta ricostituente 01

Il legno storto

Note di filosofia della pace e della guerra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 24 novembre 2022

1. Solo quando scoppiano le guerre[1], come quella attuale in Ucraina, tendiamo a porci una serie d’interrogativi sulla pace come fossimo nati ieri. E gli interrogativi tendono a moltiplicarsi, quanto più le prospettive della pace si fanno oscure e incerte e quanto più siamo coinvolti dalla guerra, anche nella nostra vita quotidiana. La riflessione sulla pace e sulla guerra sembra dunque procedere a sbalzi, al ritmo delle guerre che ci colpiscono da vicino. Le due Guerre del Golfo (1990-91 e 2003-11) erano state, in ordine di tempo, l’ultima ormai scordata occasione di riflessione pubblica sull’argomento. Quasi contemporaneamente, analoghi dibattiti si erano tenuti in occasione delle Guerre jugoslave (1991-2001) e in occasione dell’11 settembre 2001. Nessun dibattito ovviamente intorno alle innumerevoli guerre lontane o guerre dimenticate[2], quelle guerre che, abitualmente, appena possiamo, ci scrolliamo di dosso.

La guerra russo ucraina combattuta alle porte dell’Europa ci ha dunque trovati piuttosto impreparati e così abbiamo finito per rispolverare e riportare in auge vecchi luoghi comuni. Si sono avute molte grida ma decisamente poche riflessioni approfondite e argomentate. E si è preferito trascurare l’ampio patrimonio di riflessione sulle questioni della pace e della guerra che si è ormai accumulato nel campo degli studi politologici e filosofici, nonché nel campo storiografico. In questo scritto cercherò di compiere un’esposizione sintetica intorno alle principali questioni teoriche che si pongono da sempre a proposito della pace e della guerra. Niente di particolarmente nuovo dunque, ma una sintesi intorno alle questioni fondamentali. Insomma, quello che a me pare il minimo indispensabile da cui partire.

2. Pace e definizioni. Per mettere un po’ di ordine nelle diverse questioni, è preferibile, come sempre, cominciare dalle definizioni. Cominceremo proprio dalla pace. Si tratta anzitutto, in via preliminare, di mettere da parte certi usi generici della parola “pace”. La pace che ci interessa e sulla quale ci concentreremo è quella connessa all’ambito stretto delle comunità politiche, sia nei loro rapporti esterni, internazionali, sia al proprio interno, come nel caso della guerra civile. Il termine “pace” sta a indicare genericamente, in quest’ambito, un’assenza di conflitto violento[3], quel tipo di conflitto cioè che generalmente è identificato con il termine guerra. Parlare di pace significa necessariamente tirare in ballo il suo rovescio, cioè appunto il conflitto violento e la guerra. Si tratta dunque di una definizione in termini negativi. La pace, a quanto pare, non ha un suo significato autonomo e non può che essere definita in stretta antitesi con la guerra. Pace e guerra sono due diversi alternativi stati possibili. Una familiare dicotomia suggerisce che ci si trovi in pace, oppure ci si trovi in guerra.

Le cose tuttavia non sono così semplici. Se appena facciamo un qualche sforzo di riflessione, ci renderemo conto immediatamente che, all’occorrenza, possiamo individuare diversi stati intermedi compresi tra la pace e la guerra. In certi casi può anche risultare non del tutto chiaro se una certa situazione sia di pace o di guerra. Nel linguaggio comune si esprime qualcosa di simile dicendo: “Siamo sull’orlo di una guerra”, oppure: “Ci sono segnali di pace all’orizzonte”. In taluni casi, un chiarimento definitivo può derivare solo da un’esplicita dichiarazione di guerra o dalla sottoscrizione di una tregua, oppure di un trattato di pace. Ci sono poi delle situazioni che possono essere considerate come guerre anomale o guerre non convenzionali.

Una simile incertezza terminologica e concettuale la stiamo sperimentando proprio in questi mesi. Notoriamente, per i Russi l’aggressione all’Ucraina non è una guerra. È stata denominata operazione militare speciale. I cittadini russi che la chiamassero “guerra” potrebbero essere perseguiti penalmente[4]. Del resto nessuna esplicita dichiarazione di guerra è stata pronunciata da entrambe le parti. Secondo Putin, chi fornisce armi all’Ucraina è già “in guerra” con la Russia. Secondo alcuni pacifisti, gli USA, la UK, l’Europa sarebbero già in guerra con la Russia. Secondo il papa, questa sarebbe la Terza guerra mondiale “a pezzi”. Secondo alcuni altri, poi, la NATO aggressiva era già in guerra con la Russia fin dagli anni Novanta. Come si vede, la definizione dei confini tra pace e guerra è tutt’altro che semplice. I dati di fatto e la propaganda sembrano ormai intrecciarsi in maniera indissolubile.

Ancora più complessa è la situazione nel caso della guerra interna, o guerra civile. È difficile che le guerre civili siano dichiarate (anche se talvolta accade). Ci sono guerre civili de facto che non sono mai state combattute come tali e che sono state riconosciute come tali solo successivamente. È il caso, ad esempio, del riconoscimento, da parte dello storico Claudio Pavone, della Resistenza italiana al nazifascismo come guerra civile. È probabile che nel Donbass, dal 2014 in poi, si sia combattuta una guerra civile, con ogni probabilità fomentata dalla Russia con l’introduzione clandestina di uomini e mezzi. O forse una guerra di secessione.

3. Almeno due tipi di pace. Nella letteratura filosofica e politologica è stato spesso fatto notare come si possano annoverare due tipi di pace, quella negativa, quella più ovvia cui abbiamo già accennato, e quella positiva. La distinzione risale a Johan Galtung 1969. Galtung tratta non tanto della guerra quanto della violenza. La pace negativa è costituita dalla assenza di violenza personale, mentre la pace positiva è costituita dall’assenza della violenza strutturale. Per Galtung la pace positiva coincide dunque con la giustizia sociale. La distinzione tra pace negativa e positiva è stata poi usata ampiamente da Bobbio specificatamente in relazione alla guerra. Si parla comunemente di pace negativa quando il significato che si conferisce al concetto è soprattutto quello di negazione della guerra, cioè negazione del conflitto violento interno o internazionale. Si parla invece di pace positiva quando, oltre alla mera negazione della guerra, si vuol riempire il concetto della pace di una serie di connotazioni positive, che appartengano solo e soltanto alle situazioni di pace. Queste connotazioni dunquesi aggiungono alla pace negativa, cioè all’assenza di guerra. Si può parlare, in tal caso, di cessazione della violenza strutturale, ma anche di tranquillità, felicità, di fioritura umana, di prosperità, di progresso e simili. Oppure anche di armonia, integrazione, aiuto reciproco, cooperazione e scambio. Come ben si vede da questi esempi, se la nozione di pace negativa come assenza di guerra è relativamente precisa, pur con tutti i problemi del caso, la nozione di pace positiva è ancor più vaga, tanto che questa può essere ricondotta al capitolo generico dei benefici della pace – quali che questi possano essere. Oppure anche delle conseguenze positive della pace[5]. Si noti tuttavia che la condizione di pace positiva non si presta a definire un modello preciso di società, come, per esempio, la società cristiana, la società aperta, oppure la democrazia o il socialismo. Cioè, la pace difficilmente si lascia tradurre in un preciso modello di società che sia alternativo ad altri modelli. Sono i diversi modelli di società che possono sperimentare, talvolta, la condizione della pace positiva (o della guerra).

4. La guerra. Se vogliamo sapere cosa è la pace, almeno nella sua forma elementare, dobbiamo dunque come minimo sapere bene cosa sia la guerra. La guerra necessita dunque, a sua volta, di una definizione, che può risultare anch’essa piuttosto difficoltosa. Di solito non basta però definire la guerra come non pace. La guerra ha invece una sua definizione in positivo, cioè dotata di suoi specifici e autonomi contenuti. Vagamente, il termine guerra può significare un conflitto di qualsiasi tipo, ma abbiamo già detto che ci sono conflitti che non sono guerre. Allora abbiamo dovuto introdurre fin da subito la specificazione di “conflitto violento”. La guerra è un conflitto la cui caratteristica precipua è l’uso sistematico della violenza. Secondo una definizione esaustiva proposta da Bobbio, la guerra in senso stretto sarebbe caratterizzata dal conflitto violento entro o tra comunità politiche e/o Stati[6]. Osserva Bobbio: «Va da sé che, una volta definita la pace come non guerra, la definizione di pace dipende dalla definizione di guerra […]. Le più frequenti connotazioni di “guerra” sono queste tre: la guerra è, a) un conflitto, b) tra gruppi politici rispettivamente indipendenti o considerati tali, c) la cui soluzione viene affidata alla violenza organizzata»[7].Si noti che, secondo Bobbio, la guerra rientra nel novero della politica e che la violenza impiegata non ha da essere sporadica o casuale, bensì organizzata.

5. La questione della violenza. La definizione della guerra non poteva che evocare anche la questione della violenza. La violenza è uno dei principali contenuti della guerra. La nozione di violenza, ovviamente, è assai più ampia della nozione della guerra. Non ogni violenza è guerra. Possiamo pensare alla violenza dei fenomeni naturali, a parole violente, alla violenza nei confronti degli animali, oppure alla violenza psicologica. Nel caso della guerra, siamo interessati a un particolare uso della violenza allo scopo di risolvere un conflitto di tipo politico, tra comunità politiche o entro di esse.

Che tipo di violenza è quella della guerra? Secondo Hobbes la guerra era lo stato prepolitico per eccellenza che comportava svariate forme di violenza, la cui massima espressione poteva giungere fino all’estremo dell’uccisione del nemico. La soglia minima che ci interessa in questo caso sembra sia proprio l’ammissibilità dell’uccisione del nemico. Altrimenti anche un incontro di boxe potrebbe essere considerato come una guerra. Per Hobbes, la costituzione dello stato politico attraverso il contratto determinava la fine della guerra di tutti contro tutti e del conseguente rischio di essere ammazzati. La pace negativa (la negazione della guerra) si oppone dunque al conflitto violento entro le comunità politiche e tra gli Stati e, dunque, a quelle forme di violenza che, oltre alla distruzione delle cose, ammettono l’uccisione del nemico.

Fatta questa distinzione fondamentale, tuttavia, fin dai tempi di Hobbes le forme della violenza connesse alla guerra si sono moltiplicate a dismisura, in un museo degli orrori senza fine. Dalla generica uccisione del nemico si è giunti al genocidio, ossia al tentativo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Oppure alla minaccia atomica, la quale implicherebbe la possibile distruzione dell’intera umanità.

Occorre riconoscere che si è fatto uno sforzo per codificare l’uso della violenza in guerra, giungendo alla proibizione di determinate condotte e alla definizione dei crimini di guerra e di tribunali internazionali. Alla messa al bando di determinati tipi di armi. Va tuttavia riconosciuto che lo ius in bello, cioè il diritto bellico, nazionale e internazionale, nonostante i lodevoli sforzi, ha ottenuto scarsi successi nel governo della violenza in guerra. L’attuale guerra russo ucraina fornisce in merito una documentazione impressionante di barbarie. D’altro canto questa guerra mostra anche come non tutti i contendenti sono uguali nell’osservanza del diritto bellico e nel contenimento della barbarie della guerra. Qui mi riferisco precisamente alla guerra contro i civili messa in atto sistematicamente dai Russi in Ucraina. Ciò va detto chiaramente, contro le troppo facili generalizzazioni che corrono. E contro le troppo comode equidistanze.

In generale, abbiamo dunque la possibilità minimale di cercare di controllare l’uso della violenza in guerra, oppure la possibilità di far cessare ogni violenza bellica attraverso la pace. Abbiamo tuttavia anche la possibilità di rifiutare altri tipi di violenza che sono di fatto possibili. Fino al rifiuto di tutti i tipi possibili di violenza – ammesso che ne sia possibile un inventario[8]. In questo caso non possiamo parlare semplicemente di diritto bellico o di pace negativa, ma dovremo parlare proprio di un’altra cosa e cioè della nonviolenza[9]. Questa va oltre la guerra in senso stretto e diventa così un atteggiamento, una predisposizione a comportarsi, da applicare sempre, in tutte le situazioni, in tutti i casi della vita, non solo in contrapposizione alla guerra. L’insieme della nonviolenza è dunque assai più ampio dell’insieme della pace negativa. Anche se la pace negativa non può che essere uno degli aspetti compresi nella nonviolenza.

6. La nonviolenza. Trascrivo qui una definizione generale e generica: “La nonviolenza è una pratica personale che consiste nel non causare offesa ad altri in qualsiasi caso. Essa può derivare dalla credenza che offendere persone, animali e/o l’ambiente non sia necessario per ottenere qualsiasi tipo di scopo. Può avere come riferimento una filosofia complessiva che implichi l’astensione da ogni violenza. Può essere basata su principi morali, religiosi o spirituali, oppure le ragioni per promuoverla possono anche essere di tipo strategico o pragmatico[10]. La nonviolenza è dunque anzitutto una pratica personale, più che uno strumento di lotta politica, anche se questa è stata talvolta impiegata proprio in questo senso. Si noti che la nonviolenza, secondo Aldo Capitini, non andrebbe intesa semplicemente come negazione della violenza, bensì dovrebbe essere intesa come un valore autonomo, dotato di un proprio contenuto positivo.

Per comprendere la posizione della nonviolenza, che riguarda indubbiamente il nostro discorso e a cui faremo spesso riferimento, può essere utile riandare a Lev Tolstoj (1828-1910). Preferisco rifarmi a Tolstoj, piuttosto che al ben più noto Gandhi, perché la sua posizione mi pare più chiara ed esemplare. Per una considerazione critica di Gandhi, si veda Losurdo 2010. Tra la fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito all’ esperienza personale della guerra, Tolstoj visse una profonda crisi[11] e sperimentò un’intensa trasformazione interiore che lo spinse alla fede in Dio, alla semplicità volontaria, al rifiuto di tutte le forme di violenza, alla dieta vegetariana e all’animalismo. In questo ambito elaborò i principi fondamentali della nonviolenza, in un contesto fondamentalmente di tipo religioso. I riferimenti principali da cui aveva attinto sono costituiti dai Vangeli, dal cristianesimo minoritario (ad esempio i Quaccheri), da alcuni testi orientali e da alcune filosofie, tra cui quella di Schopenhauer.

Nell’ambito della nonviolenza, la dottrina centrale di Tolstoj – che si rifà soprattutto al Discorso della montagna evangelico – è quella della non-resistenza al male con il male[12]. Tolstoj ritiene che la non resistenza al male, quando sia perseguita rigorosamente, possa condurre – oltre che alla liberazione interiore – a un’autentica trasformazione sociale e possa provocare il dissolvimento degli ordinamenti sociali oppressivi e disumani. Tutto ciò senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Per questo occorre tuttavia un radicale impegno personale individuale, fino a giungere a praticare la disobbedienza civile, rifiutare il servizio militare e rifiutare il pagamento delle tasse, poiché queste sono usate dagli Stati per finanziare le guerre. In ciò seguendo David Henry Thoreau (1817-1862) come precursore. Il fondamento ultimo della nonviolenza è posto da Tolstoj nel comando divino contenuto nel Vangelo. E in ultima analisi nella fede. Notoriamente fu Tolstoj a influenzare Gandhi, con tutto quel che ne seguirà, circa la dottrina della nonviolenza, dottrina che in Gandhi prende il nome di ahimsa.

Come si può notare, si tratta di un pensiero senz’altro estremamente profondo. È stato tuttavia sempre fatto notare come sia anche piuttosto difficile da praticare, poiché implica, negli eventuali praticanti, un cambiamento radicale di vita e, di fatto, uno scontro radicale con l’esistente, in pressoché tutte le sue manifestazioni. Si noti che la strada proposta dalla nonviolenza implica uno scoglio di gran rilievo in materia di etica, su cui avremo modo di discutere ampiamente, e cioè la possibilità che il male sia lasciato libero di agire senza ostacoli. Questo poiché gli eventuali ostacoli posti al male implicherebbero a loro volta il ricorso alla violenza. E dunque alla riproposizione della violenza stessa. Questa posizione – come vedremo oltre – implica un’irrisolvibile incongruenza dei valori.

Una dieta ricostituente 03

7. Bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Siamo così giunti a circoscrivere, in termini di prima approssimazione, oggetti concettuali come pace negativa e positiva, guerra, violenza e nonviolenza. Siamo ora in grado di meglio comprendere le dottrine o le elaborazioni teoriche corrispondenti a questi concetti e, conseguentemente, anche una serie di movimenti pratici che vi si ispirano. Avremo dunque le teorie pacifiste (nel senso della pace negativa ed eventualmente della pace positiva), le teorie belliciste (ed eventualmente violentiste, cioè le filosofie della violenza, anche se queste sono state raramente esplicitate e professate[13]) e le teorie della nonviolenza sul modello tolstojano e poi gandhiano. Avremo dunque, di conseguenza, come prima sistemazione, su un continuum, orientamenti e movimenti bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Si potrebbero produrre ulteriori distinzioni, ma la cosa andrebbe troppo oltre i nostri scopi.

8. Esistono davvero i bellicisti? Dei tre punti di vista, il bellicismo è oggi l’orientamento meno caratterizzato, meno teorizzato, meno organizzato. Si tratta di un “–ismo”, il che comporterebbe, in senso proprio, una sorta di esaltazione della guerra, una sua promozione fino alla sua massima realizzazione, che corrisponderebbe al perseguimento di una sorta di guerra perfetta o di guerra perpetua[14]. Sicuramente, guardando al passato, possiamo trovare in merito numerosi casi storici. Molte società del passato si sono costituite avendo la guerra come fulcro. O, per lo meno, avendo al proprio interno gruppi sociali interamente devoti alla pratica della guerra. I quali spesso, proprio per questa loro attività connessa all’esercizio della forza, finivano per ricoprire una posizione sociale centrale e dominante. Oggi, in generale, nelle più diverse società, la centralità della guerra sembra in via di superamento. Anche molti di coloro che oggi sono impegnati settore della guerra, nel settore militare, ritengono auspicabile non doversi mai ricorrere effettivamente alla guerra. Il termine “bellicismo” oggi – almeno in Occidente – viene applicato in forma residuale soprattutto per designare coloro che ritengono possibile l’uso della guerra in determinate situazioni, oppure che, pur non esaltando la guerra, la accettano come necessaria, oppure ancora coloro che, una volta scoppiata una guerra, non vi si oppongano con la dovuta risolutezza. Talvolta si tratta di un termine che ha abbandonato la connotazione descrittiva e ha assunto connotazione retorica e dispregiativa, come il ben più noto termine guerrafondaio.

La domanda che ci dobbiamo porre allora è se oggi esistano realmente i bellicisti in senso proprio, o se questi non siano soltanto dei pacifisti deboli. Oppure pacifisti minimali, pacifisti moderati, o anche pacifisti imperfetti. In talune situazioni retoriche coloro che, pur non desiderandola, accettano la guerra come una necessità sono stati considerati come dei bellicisti. Si ponga mente al dibattito occorso in Italia alla vigilia della Grande guerra. Bellicisti autentici erano sicuramente gli interventisti, ma oggi sarebbero considerati bellicisti anche coloro che avevano come motto “Né aderire, né sabotare”, oppure i cattolici che, pur disapprovando la “inutile strage”, la ritenevano comunque doverosa in termini di obbedienza alle leggi vigenti dello Stato. Ancora diversa la posizione di taluni interventisti democratici, che volevano unicamente quella guerra per porre fine a tutte le guerre.

Come si vede, anche in questo caso, la distinzione tra bellicismo e pacifismo sembra piuttosto evocare un continuum, piuttosto che una secca dicotomia, come sembra invece emergere invece dal dibattito superficiale dei giorni nostri. Può essere anche comprensibile il fatto che nello scontro politico si sia indotti a dicotomizzare, ma è sufficiente un minimo di riflessione per concludere che la dicotomia tra pacifismo e bellicismo costituisce una ben povera rappresentazione della realtà. Soprattutto una rappresentazione di fatto priva di utilità. Tratteremo più in là della teoria della guerra giusta, che è un caso esemplare di situazione di continuità tra i due opposti.

9. Militaristi. Abbiamo visto che la guerra è una forma di violenza organizzata. Nelle società a elevata divisione del lavoro, i militari sono i professionisti della guerra. La questione degli armamenti, degli eserciti e più in generale della tecnica militare, è una conseguenza delle distinzioni precedenti. Armi, eserciti e tecniche militari sono impiegati per produrre i conflitti violenti e organizzati tra le comunità politiche ed entro gli Stati, cioè le guerre. La posizione attribuita all’organizzazione militare nell’ambito della società diventa dunque fondamentale. Quando la sfera strumentale della guerra tende a prevalere e a sopravanzare le altre sfere della società, si parla di militarismo e di società e/o Stati militaristi. Possiamo parlare più correttamente, in generale, di società a trazione militare. Si tratta di società la cui attività fondamentale ruota attorno alla guerra e dove i militari giocano un ruolo centrale nelle principali decisioni. E dove consumano nella loro attività le principali risorse economiche e finanziarie accumulate dalla società stessa. Nel corso dei secoli, in Occidente siamo stati testimoni del passaggio progressivo da società a trazione militare verso società a trazione commerciale, o a trazione industriale, tecnologica e finanziaria. Queste ultime tendono ad attribuire al settore militare un ruolo sempre più strumentale e marginale. Questa tendenza si è accentuata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il caso degli USA è esemplare: pur essendo una potenza militare, la sua trazione fondamentale è di tipo tecnologico, industriale e finanziario. Oggi è di moda trascurare questo punto, a causa dell’anti americanismo pregiudiziale assai diffuso nel nostro Paese. Sul piano del militarismo, gli USA e la Russia non sono proprio la stessa cosa. La Russia di Putin, insieme a pochi altri esempi, è invece effettivamente una potenza a trazione militare (o si illude di esserlo, viste le scarse prestazioni sul campo).

Dunque, armamenti, eserciti e tecnica militare costituiscono dei mezzi che rendono possibile l’esercizio della guerra. Secondo un certo senso comune diffuso, il semplice possesso di armamenti ed eserciti sarebbe un indice certo di militarismo. Si trascura tuttavia il fatto che oggi, nella maggioranza dei casi, il possesso di armamenti ed eserciti ha la funzione di provvedere alla difesa. Questo per garantire un bene pubblico indubbio che si chiama sicurezza. Si è discusso a lungo su come ottenere la sicurezza senza disporre tuttavia di apparati di difesa ma una soluzione efficace non pare sia stata ancora trovata. Se comunque nel mondo tutti gli eserciti servissero solo per la difesa, non ci sarebbero più guerre. Forse è vero che in determinate circostanze i mezzi militari rendono anche più probabile l’esercizio della guerra. Ma è anche del tutto possibile pensare ad armi, eserciti e tecniche militari che siano perfettamente approntate, ma mai adoperate. L’idea che se hai un’arma prima o poi la usi è un’idea stupida e superficiale. Anche gli svizzeri tengono lo schioppo sotto il letto, ma è difficile pensarli come pericolosi aggressori e guerrafondai. Secondo la teoria della deterrenza, le atomiche sarebbero armi prodotte proprio per non essere mai usate.

Una dieta ricostituente 04

C’è ancora indubbiamente, da qualche parte nel mondo, un militarismo aggressivo. Ci sono ancora imperialismi a trazione militare, com’è proprio il caso della Russia. Ma oggi nel mondo c’è anche un realistico impiego di eserciti e armamenti per la mera difesa. O anche per gli interventi umanitari nelle situazioni di crisi. L’esigenza di finanziare con risorse pubbliche una forza di difesa non può che dipendere dalla valutazione razionale di quanto pericoloso sia l’ambiente internazionale in cui ci si trova. I recenti avvenimenti dell’aggressione della Russia all’Ucraina hanno indubbiamente reso più pericoloso l’ambiente internazionale, determinando così – a parere di molti – l’esigenza di maggiori investimenti nella sicurezza[15]. Dunque, anche nell’ambito del militarismo, sarebbe il caso di introdurre delle distinzioni. Anche il povero Enrico Letta è stato rappresentato con l’elmetto. Non tutti i militarismi sono uguali. Dovrebbe essere evidente che il militarismo della NATO non è esattamente uguale al militarismo della Russia di Putin. Le semplificazioni eccessive precludono la comprensione della realtà e impediscono un’azione efficace nel mondo.

Può ben essere che il superamento e infine l’abolizione dell’apparato militare possa essere in futuro una conseguenza desiderabilissima dell’affermazione universale di una situazione di pace positiva. Magari connessa anche all’accettazione universale della prospettiva filosofica e religiosa della nonviolenza. Al giorno d’oggi però un simile obiettivo non sembra essere alla nostra portata. Può al più costituire al più una idea regolativa, nel senso kantiano del termine.

10. La pace si dice in molti modi. Gli elementi definitori che abbiamo fin qui introdotto hanno mostrato la complessità delle questioni affrontate, tale da afflosciare la sicumera di molti protagonisti dell’odierno dibattito pubblico. La prima acquisizione inevitabile, per chi frequenti ancorché saltuariamente questo campo, è proprio quella per cui la pace “si dice in molti modi”. Questo vuol dire che, a dispetto del senso comune, non c’è un concetto unico di pace. Si tratta piuttosto – come dicono i filosofi – di una “somiglianza di famiglia”, cioè di una rete di concetti interconnessi e di relativi usi linguistici. Dunque chi dice di essere per la pace non ha ancora detto niente: dovrebbe sforzarsi di esplicitare chiaramente cosa intende per pace. Altrimenti, bisognerebbe concludere inevitabilmente che tutti vogliono la pace. Ma una volta affermato il punto, tutti si scontrerebbero immediatamente intorno alle questioni che hanno appena evitato di chiarire. Nella letteratura filosofica e politologica si fa riferimento ad almeno quattro tipi di pace[16]. Molto diversi tra loro. Abbiamo dunque: a) la pace come resa incondizionata; b) la pace come tregua; c) la pace come trattato; d) la pace positiva. Potremmo aggiungere un quinto tipo: e) la pace come conseguenza della nonviolenza, che sarebbe poi un tipo particolare di pace positiva, alla quale abbiamo tuttavia già accennato.

11. La pace come resa incondizionata. È questo un tipo di pace che sopravviene quando uno dei contendenti (o più di uno) è talmente coartato che non può neanche decidere di scendere in guerra. Di solito si cita in proposito un famoso esempio da Rousseau. Il filosofo, all’inizio del suo Contratto sociale[17], scrive contro Hobbes: “Si vive tranquilli anche nelle carceri: basta questo per trovarcisi bene? I Greci rinchiusi nell’antro del Ciclope ci vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati”. Si trovavano dunque certo in pace i marinai di Ulisse, chiusi nella prigione del ciclope, in attesa di essere divorati. È questa una condizione di pace (senz’altro assenza di guerra e di violenza nell’immediato!) che deriva dalla totale passività, dalla totale costrizione, cioè dalla resa incondizionata al nemico.

La storia è piena di casi in cui una comunità politica avrebbe sicuramente scelto di combattere, solo se appena avesse potuto farlo. Possiamo pensare a situazioni nelle quali l’oppressione è così forte che i soggetti non hanno neppure la possibilità di scegliere eventualmente la via delle armi. L’attuale Afghanistan gode senz’altro di una situazione di pace in seguito alla resa incondizionata ai talebani. L’attuale Iran, che godeva senz’altro della pace interna, sta mostrando che quella pace si fondava sostanzialmente sull’oppressione (in particolare delle donne) e sta precipitando verso una situazione di guerra civile. Spesso ci si dimentica che per decidere di scendere in guerra occorre perlomeno disporre di un minimo di libertà d’azione. Rispetto a una situazione di totale dominazione, checché ne pensasse Tolstoj, la possibilità di combattere una guerra può anche essere considerata, in taluni casi, come una sorta di miglioramento della propria posizione, un auspicabile avanzamento. Solo la determinazione assoluta di non opporsi al male può sconsigliare di ricorrere alla guerra nelle situazioni più estreme di oppressione.

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12. La pace come non libertà. Coloro che sono nella situazione descritta da Rousseau hanno sicuramente la pace (ammesso che così si possa chiamare), ma non hanno alcuna libertà. Non si tratta di un caso tanto raro. Assomiglia questa alla situazione hobbesiana post contrattuale, dopo che i cittadini hanno ceduto tutti i loro poteri al Leviatano (lo stato assolutistico) e sono così diventati sudditi. Hanno la pace ma sono sottomessi in tutto e per tutto al potere assoluto. Per di più l’hanno fatto per propria scelta e volontà. Si ricorderà che quella situazione, secondo Hobbes, in un solo caso si sarebbe potuta risolvere in una guerra civile: qualora il Leviatano avesse attentato alla vita dei cittadini. I sudditi sottomessi nel patto hobbesiano sarebbero dunque appena più fortunati dei marinai di Ulisse nella prigione del ciclope. Questo tipo paradossale di pace, intesa come resa incondizionata e totale sottomissione all’arbitrio, è stata ampiamente teorizzata e praticata. Ad esempio, nel caso di certi martiri cristiani. O nel caso della nonviolenza tolstojana già citata. È tuttavia davvero singolare – dovrebbe indurre a qualche riflessione coloro che in questa materia mostrano grandi certezze – che il tipo più infimo di pace, la pace come resa incondizionata, finisca con il coincidere con quella che taluni presumono essere il tipo più nobile di pace e cioè quello derivante dalla applicazione integrale della nonviolenza.

13. Una digressione nell’attualità: forse la pace non è tutto. Più recentemente, e assai più ignobilmente, nel dibattito nostrano seguente alla guerra in Ucraina, il noto opinionista prof. Orsini ha teorizzato l’opportunità della resa incondizionata di fronte all’aggressore russo, pur di avere salva la vita. Così, secondo il professore, avrebbero dovuto fare gli Ucraini di fronte all’invasione russa. In uno dei tanti talk-show, il prof. Orsini ci ha ricordato anche che: “Anche sotto il fascismo i bambini potevano vivere felici”. Poiché Putin non avrebbe probabilmente divorato gli Ucraini come il ciclope – anche se avrebbe potuto far ammazzare il loro presidente – dunque gli Ucraini, se si fossero subito arresi, avrebbero certo perso totalmente la libertà ma avrebbero guadagnato comunque la pace. Almeno per la popolazione civile e per i bambini. Dunque, ne conseguirebbe che i morti che la resistenza degli Ucraini ha indirettamente provocato (militari, civili e i bambini) sarebbero tutti da mettere sulla coscienza di Zelens’kyj, del suo bellicoso governo, con tutti i suoi alleati, che non si sono prontamente arresi. E sulla coscienza di tutti quelli che hanno dato ragione a Zelens’kyj e lo hanno aiutato. Si tratta ovviamente, questa di Orsini, non della conseguenza di una professione di fede nonviolenta, ma di una davvero singolare applicazione dell’etica della responsabilità (vedi oltre). Al professor Orsini non viene neppure in mente il punto problematico fondamentale e cioè il fatto che forse la pace non è tutto.

14. Scoglio: la pace e l’incongruenza dei valori. La situazione della pace come resa incondizionata ci fornisce l’occasione per affrontare uno scoglio teorico di notevole interesse. Ci costringe a domandarci se la pace (la pace prima di tutto, a qualunque costo) possa essere davvero considerata come il bene supremo. Se possa cioè essere considerata indipendentemente dalla situazione nella quale essa si realizza. Se possa cioè essere valutata in piena autonomia da ogni altra considerazione, se sia davvero un valore in sé, incomparabile rispetto ad altri valori. Appena la pace viene tolta dal suo carattere assoluto e viene considerata in termini situazionali, viene cioè confrontata con altri valori, o altri beni, nascono molte questioni inaspettate. Per avere in cambio la pace, possiamo rinunciare completamente alla nostra libertà? Cos’è una pace senza libertà? Anche la giustizia può essere tirata in causa. Una pace ingiusta è una vera pace?

Molti autorevoli intellettuali nostrani, soprattutto di sinistra, negli infiniti talk-show che si sono susseguiti dopo il 24 febbraio, seguendo più o meno consapevolmente il prof. Orsini, consigliavano senz’altro agli Ucraini di non resistere. Che deponessero le armi. Qualcuno si affannava addirittura a negare con argomentazioni fantasiose che quella messa in atto dagli Ucraini fosse una resistenza. Addirittura, si sentivano di decidere che non si dovessero mandare armi agli Ucraini, perché questi si arrendessero prima, dunque con meno danni per loro. Qualcuno, beato lui, s’inventò anche le “armi non offensive”. Possiamo qui parlare di altruismo? Se gli Ucraini avessero subito obbedito a questi desiderata, oggi sarebbero senz’altro in pace, sarebbero cioè sotto la pace di Putin (dove senz’altro anche i bambini potrebbero vivere felici!). Qualcuno ha pensato di mettere a confronto il bene di una simile pace con i beni della libertà e della giustizia? Qualcuno di questi “altruisti” ha pensato almeno di chiedere il parere degli Ucraini? Cioè dei diretti interessati. Purtroppo nell’epoca del pensiero incontinente nessuno si ferma ad approfondire le questioni.

Credo abbia colto nel segno il filosofo Alexandr Dugin (un filosofo russo euroasiatista e nazibolscevico, per chi non lo conoscesse) quando dice che gli Occidentali si sono rammolliti, sono in piena decadenza, perché non sono neanche più in grado di pensare di poter morire per la propria causa. Del resto Heidegger era dello stesso parere. Fa davvero pena, oggi, vedere coloro che hanno imbracciato le armi per difendere il proprio Paese, o chi per essi, negare ad altri di fare la stessa cosa, in nome della pace.

Queste considerazioni (e questi esempi) ci pongono di fronte a un problema ben noto nell’ambito dell’etica. Normalmente si pensa che i valori e/o i beni siano semplicemente di carattere additivo, che possano cioè essere sempre assommati tra loro a piacere. Per questo tutti i valori e/o i beni dovrebbero sempre essere tra loro compatibili. In realtà è noto fin dalla filosofia antica che i valori o i beni possono non essere compatibili tra loro. Perseguire determinati valori può implicare necessariamente la rinuncia ad altri. I due tipi aristotelici di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa, ad esempio, non sono affatto compatibili. Per avere l’uno si deve necessariamente sacrificare l’altro. In generale, è poi noto come sia molto difficile essere giusti e buoni contemporaneamente. In campo teologico, se Dio è giusto, non può essere buono, e viceversa. Nel caso del contratto hobbesiano, accade che per avere la pace si debba sacrificare la libertà. Questa spiacevole situazione è nota come incongruenza dei valori[18]. Dunque – spiace per taluni pacifisti puri – la pace deve scendere dal piedistallo del bene assoluto o per lo meno deve accettare di essere messa a confronto con altri possibili valori o beni. Come minimo con la libertà e la giustizia. Ma anche con beni assai più prosaici. Come ad esempio la sopravvivenza materiale, cioè la vita[19]. Per Orsini, la vita dei bambini vale la capitolazione e dunque la pace come resa incondizionata. Per altri tuttavia la guerra può significare una possibilità di vita. I poveri buriati (una delle etnie asiatiche prevalenti nell’esercito Russo attuale che combatte in Ucraina – la Repubblica di Buriazia è una repubblica della Federazione Russa) sono spinti ad arruolarsi e a combattere perché è pressoché l’unico lavoro che è messo loro a disposizione. Non possono permettersi di fare i pacifisti più di tanto. Poiché l’incongruenza dei valori è una questione fondamentale, ce ne occuperemo oltre.

15. La pace come tregua o “situazione di pace”. È questa la pace che corrisponde all’interruzione temporanea delle ostilità. Se vogliamo, corrisponde alla nozione della tregua. I contendenti sono ostili tra loro. Sono liberi di decidere se continuare o meno a combattersi. Decidono tuttavia di sospendere le ostilità. Siamo cioè in una situazione di ostilità non belligerata.

È questa una situazione ben nota, poiché l’abbiamo sperimentata nel corso della lunga Guerra fredda. Anche se la Guerra fredda è stata in realtà belligerata indirettamente, attraverso una serie notevole di proxy war, le guerre indirette o guerre per procura. È questa anche la situazione descritta dalla locuzione della pace armata. È anche la situazione descritta dall’equilibrio del terrore, o dall’equilibrio della deterrenza. Non si combatte più, cioè ci si è messi in una situazione di tregua, per il fatto che la prosecuzione dei combattimenti produrrebbe esiti non desiderati o temuti da entrambe le parti. Dunque, ci si mette in uno stato di tregua per la paura degli effetti di una continuazione dello stato di guerra belligerata. Si accetta di smettere di combattere perché si è sottoposti a una minaccia (o a uno svantaggio) più grande (sia da parte dell’altro contendente, sia da parte di un Terzo che sia intervenuto). Tuttavia perdura l’inimicizia e la minaccia reciproca, e resta alta la probabilità di riprendere il conflitto.

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16. Scoglio: si può imporre la pace? Un caso filosofico interessante, un vero e proprio scoglio etico, è quello dell’imposizione della pace (nel senso della tregua o del trattato). Affinché si dia il caso, occorrono minimamente due contendenti e un Terzo, il mediatore, il pacificatore, che costringa i due a deporre le armi. Usando magari la persuasione, l’influenza, distribuendo garanzie e vantaggi di qualche tipo. Ma è possibile anche pensare che il Terzo possa provvedere all’imposizione della pace attraverso l’uso della forza.

Non sarà sfuggito al lettore che, in un certo senso, la possibilità di imporre la pace, cosa spesso effettivamente successa nella storia, ha in sé qualcosa di contradditorio. In una visione completamente irenica, la pace dovrebbe in un certo senso imporsi da sé. Tuttavia purtroppo la guerra, una volta iniziata, tende ad auto alimentarsi, tende addirittura a intensificarsi. Il Terzo allora è posto di fronte al dilemma di lasciare che la guerra continui oppure di imporre la pace. Se tuttavia sceglie di imporre la pace, si troverà a usare una guerra per imporre la pace. I pacifisti si scandalizzeranno, ma questo è un altro problema legato all’incongruenza dei valori. Per avere la pace si finisce per accettare che si apra una nuova guerra tra il Terzo pacificatore e i due contendenti. Non affrontiamo qui quali possano essere gli eventuali interessi del Terzo nello scendere in guerra per imporre la pace. In generale, dall’intervento del Terzo non si ha alcuna garanzia preventiva; potrebbe certo scaturire anche una pace senza libertà e/o senza giustizia.

L’idea di un Terzo pacificatore attraverso l’uso della forza non dovrebbe tuttavia risultare così peregrina. Si tenga conto che l’ONU dovrebbe, in teoria, proprio agire come un Terzo virtuoso, capace di sedare i conflitti internazionali eventualmente anche con la forza, come sta scritto nella sua Carta. Si noti tuttavia di sfuggita che, se appena si accetta la prospettiva che il Terzo possa (o sia tenuto a) intervenire con la forza per riportare la pace, allora si dovrà come minimo ammettere che non tutte le guerre sono uguali. Alcune sarebbero guerre comuni destinate a continuare o a finire con la sopraffazione dell’uno da parte dell’altro. Altre sarebbero invece guerre determinate dall’intervento del Terzo che avrebbe tuttavia come scopo il ristabilimento della tregua o della pace.

Dovrebbe suscitare un certo stupore il fatto che – in concomitanza con la attuale guerra russo ucraina – a livello mondiale non si sia aperto per lo meno un acceso dibattito circa la riforma dell’ONU, organizzazione oggi pesantemente screditata dal fatto che lo Stato palesemente aggressore, la Russia, siede nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il diritto di veto. Questo significa che la Russia, con la sua aggressione, ha di fatto privato il mondo intero di quel minimo di organizzazione internazionale abilitata a fungere da Terzo virtuoso nelle controversie. È come pretendere da ora in avanti che – ove sia violata – la pace si ristabilisca da sola. Perché questa reticenza ad affrontare la questione della riforma dell’ONU? Evidentemente l’idea di una forza militare internazionale capace di fare interventi di pacificazione anche con le armi non è così popolare, in parte per una forma di pacifismo estremista ma in parte anche per malcelato bellicismo: qualora ci si trovasse nella situazione di fare la guerra è preferibile avere le mani libere.

Così avviene che si stia togliendo di mezzo proprio il Terzo virtuoso che sarebbe in grado di intervenire con la forza e di “rendere il male con il male” all’aggressore. Ciò paradossalmente potrebbe anche essere in linea con i migliori auspici dei nonviolenti. Quel che seguirà tuttavia a questa nuova situazione non sarà il regno della pace positiva ma il regno dell’anarchia internazionale, dove ognuno farà quello che vuole, o quello che si potrà permettere, grazie magari alle sue bombe atomiche. Così gli Stati deboli cercheranno la protezione degli Stati forti, di coloro che sono in grado di vendere protezione nel più puro stile mafioso.

17. La pace come ordine privo di ostilità. È la condizione che si configura quando cessano tutte le ostilità. Solitamente questa è la condizione che si consegue sul piano del diritto attraverso la stipulazione di un trattato di pace e, in termini fattuali, attraverso la cessazione delle violenze, il ritiro delle forze e il disarmo. È quella che Bobbio, sulle orme di Aron, chiamava la pace di soddisfazione. Perché è così difficile la pace di soddisfazione? La difficoltà è dovuta al fatto che la condizione di pacificazione, una volta raggiunta, non garantisce il mantenimento della pace stessa. Detto in altri termini, la pace non si auto rigenera, la pace non è in grado di garantire il mantenimento della pace stessa. Poiché i trattati di pace possono sempre essere violati, la condizione pacifica guadagnata è sempre reversibile. La pace non ha alcuna autonomia, è comunque instabile e può tendere a precipitare verso la guerra.

Si tratterebbe allora di comprendere quali siano le condizioni, che non dipendono dalla pace stessa, che possono favorire (o addirittura garantire) il mantenimento della pace. Ad esempio, secondo un famoso assunto del politologo Michael W. Doyle, gli Stati democratici di solito non si fanno la guerra tra loro. Dunque la democratizzazione globale degli Stati costituirebbe una delle precondizioni per il mantenimento di una pace priva di ostilità. Anche un ONU riformato e funzionante (non quello attuale) potrebbe dare un contributo. È chiaro che le condizioni che potrebbero mantenere la pace potrebbero essere le più varie. Non posso entrare nel merito. C’è un’intera disciplina dedicata a questo tipo di questioni e cioè i peace studies, o anche peace and conflict studies.

In generale, possiamo però dire con relativa certezza che una delle cause principali della fine della pace è il sopravvenire dell’ingiustizia, sia all’interno delle nazioni sia tra di loro. Il mantenimento di un ordine privo di ostilità, il mantenimento di una pace di soddisfazione conseguita, implica evidentemente la giustizia. La pace senza giustizia percorre poca strada. Chi voglia mantenere una pace ordinata senza ostilità dovrebbe dunque contemporaneamente procurare la giustizia. È chiaro che una condizione di ingiustizia può spingere al ricorso alla violenza, determinando una catena causale che può portare alla guerra, interna o esterna. Sappiamo bene tuttavia che la pace di per sé non è senz’altro in grado di procurare la giustizia. D’altro canto, lo scopo di procurare la giustizia può implicare anche la rottura della pace. Per questo la pace è sempre a rischio. Ovviamente, la giustizia sussistente in una data situazione viene sempre giudicata dal punto di vista dei soggetti coinvolti, i quali potrebbero non essere affatto concordi sulla natura giusta o ingiusta della pace in questione. Anche in questo caso si presenta l’opportunità di ricorrere all’intervento di un Terzo, capace di intervenire nel merito delle ingiustizie rivendicate. Ma il Terzo come si è visto non è sempre un ospite gradito.

Queste semplici considerazioni stanno a significare che gli sforzi per realizzare e mantenere la pace non possono avere mai fine. Una volta stipulato il trattato di pace c’è sempre il rischio che l’ingiustizia, sopravvenuta o latente, rovini la pace. Allora al pacifista consapevole non resterebbe altro che reinterpretarsi come politico impegnato indefinitamente per l’implementazione della giustizia. Impegnarsi solo per la pace è indice davvero di corte prospettive sulla natura della pace stessa.

18. Pace positiva. I filosofi hanno spesso anche trattato della pace positiva, della quale abbiamo già accennato in apertura, per circoscrivere la pace negativa. Questa non è soltanto un effetto del diritto, attraverso un trattato di pace, che come abbiamo visto può però sempre essere violato. È piuttosto la condizione che la società nazionale e la comunità internazionale assumono dopo che si sia instaurata una pace giusta e sia stata instaurata la giustizia. Un caso tipico è costituito dalla teoria di Galtung, cui abbiamo già accennato.

Spesso questo concetto è stato tacciato di essere un concetto assai vago e di fatto utopico. Esso implica l’esistenza di società pacifiche e giuste e la contestuale trasformazione spirituale degli individui in modo da diventare essi stessi pacifici e giusti. Quando si pensa alla pace positiva non si può fare a meno di evocare la kantiana pace perpetua[20]. La quale tuttavia – Kant era un pessimista cronico – assomigliava più a una pace trattata che non a una pace positiva universale. Sul piano filosofico si può disquisire se una pace positiva fondata sulla giustizia sia possibile, sia effettivamente alla portata della natura umana o se non sia piuttosto incompatibile con questa. Per qualificare la inemendabilità della natura umana Kant ha usato la nota metafora del legno storto: “Dal legno storto dell’umanità non si potrà mai cavare alcuna cosa dritta”[21]. Non posso addentrami in questa problematica del rapporto tra la guerra e la natura umana ma la segnalo al lettore come stimolo per la riflessione.

Tutto ciò ha comunque una conseguenza importante, cui ho già accennato ma che vale la pena di ribadire in forma più estesa. La realizzazione della pace positiva non può essere conseguita restando all’interno dell’esclusivo dominio della pace stessa (e dei relativi pacifismi). La pace da sola non è sufficiente. Non pare bastevole alla sua compiuta realizzazione positiva. Questo significa che l’impegno per la pace non può essere disgiunto dall’impegno politico per la realizzazione di una società giusta. L’impegno per la pace non può dunque essere single issue. Raramente tuttavia i movimenti pacifisti mostrano esser consapevoli dell’esigenza, per la costruzione e il mantenimento della pace, di connettere strettamente la difesa della pace con la realizzazione della giustizia. Questa miopia dei pacifisti si spiega col fatto che ammettere di doversi impegnare per la giustizia finirebbe per sporcare le mani alla purezza apparente dell’impegno per la pace. Queste considerazioni mostrano anche i limiti della nonviolenza. La quale azzarda a ritenere che sia sufficiente la diffusione della nonviolenza per la realizzazione della giustizia. Una società con una maggioranza di nonviolenti praticanti sarebbe presumibilmente comunque sempre ostaggio di una minoranza di violenti praticanti. Anche a Paperopoli c’era la Banda Bassotti.

19. Un’altra classificazione. I diversi tipi di pace di cui abbiamo discusso rappresentano solo una delle tante classificazioni delle situazioni di pace[22]. Un’altra classificazione della pace, che riprende alcuni aspetti della precedente, è stata fornita da Raymond Aron[23].Egli distingue tre tipi di pace. A) Anzitutto la pace di potenza. È la pace che si ottiene grazie al sopravvenire di un potere forte che impone l’ordine e, dunque, la pace. Può essere di tre tipi, di equilibrio, di egemonia o di imperio. B) Abbiamo poi la pace di impotenza, che era quella fondata – all’epoca di Aron – sull’equilibrio del terrore tra le potenze atomiche. Queste erano costrette a non farsi la guerra poiché la guerra avrebbe implicato la mutua distruzione assicurata. C) In ultimo, abbiamo la pace di soddisfazione. È la pace che sopravviene quando ciascuno è in sé soddisfatto della propria situazione, per cui non cerca in nessun modo l’aggressione. Spiega Bobbio che: “La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri, e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (che è proprio l’opposto del timore reciproco); pace di soddisfazione è quella che vige dopo la seconda guerra mondiale fra gli stati dell’Europa occidentale”[24].

La classificazione di Aron ha il merito di mettere in luce la dimensione di potere (e di disuguaglianza) che comunque è spesso connessa anche alle situazioni di pace (come nel caso estremo dell’antro del ciclope) e che contribuisce drammaticamente a privare la pace di quel manto idealistico che spesso i pacifisti le attribuiscono. La pace non elimina il potere e questo può sempre riprodurre l’ingiustizia.

20. Dai tipi di pace ai tipi di pacifismo. Visti i diversi tipi di pace, si possono anche dare per definiti i principali obiettivi possibili dei diversi movimenti pacifisti, cui – come dicevamo – possiamo aggiungere anche i movimenti nonviolenti. Per la chiarezza del discorso pubblico, e per l’efficacia del dibattito, questi movimenti dovrebbero però dichiarare esplicitamente quale tipo di pace vorrebbero raggiungere, nelle diverse specifiche situazioni. E dovrebbero evitare di contrabbandare un tipo di pace per un altro, come invece amano fare abitualmente, quasi senza accorgersene.

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21. Intermezzo. Nell’intento di capitalizzare i dubbi del lettore volenteroso che sia giunto fino a questo punto, propongo un esercizio di riflessione su un caso concreto[25]. Vediamo con qualche dettaglio la narrazione di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (RepublikaSrpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una delle tre enclave bosniache in territorio serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito serbo nei confronti delle poche enclave rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il 6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale Mladich, circondarono l’enclave, la conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono sistematicamente il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.

Nonostante vari processi e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata ancora del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado di intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione[26]. In un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche timida trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.

Quando si resero conto di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i Serbi, avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi, i caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo olandese.

Il caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come “al di là del bene e del male”. Ecco allora qualche motivo di riflessione circa la filosofia della pace e della guerra. Qualcuno può sostenere che l’ONU, come pacificatore armato, non dovesse neppure trovarsi nella ex Jugoslavia, lasciando così che i diversi contendenti di quella guerra si pacificassero da soli. Qualche sincero umanitario può sostenere che, pur essendo inferiori in termini di forze, i caschi blu dovevano comunque intervenire per tentare di proteggere la popolazione; avrebbero cioè dovuto fare il loro dovere morale comunque, eventualmente anche sacrificando la propria vita. Oppure si può sostenere che l’ONU abbia peccato di omissione: doveva intervenire con regole di ingaggio più dure, con maggiori forze e più efficacemente, costringendo i Serbi a stare al loro posto. Anche con la minaccia o l’uso delle armi. Ma c’è anche un altro interessante punto di vista: i caschi blu olandesi non hanno fatto altro che tenere un comportamento del tutto consono con le prescrizioni nonviolente tolstojane di non rispondere al male con il male.Meglio dunque sarebbe stato in questo caso che non si fossero neanche presentati in Jugoslavia.

22. Un po’ di metaetica. Dopo il nostro intermezzo, passiamo ora a proseguire il nostro ragionamento. Finora ci siamo accontentati di individuare diversi tipi di pace, mostrando svariati problemi ad essi connessi. Ci siamo cioè occupati principalmente dei diversi obiettivi che possiamo avere in mente quando dichiariamo di essere per la pace. Dovrebbe essere emerso come minimo che la pace è un obiettivo di per sé assai problematico. Ma la pace non è solo problematica in quanto obiettivo. È anche decisamente problematica se consideriamo il modo con cui la vogliamo. Ebbene sì, la pace non solo si dice ma anche si vuole in diversi modi. Prenderemo in considerazione due modi principali. Ce ne sarebbero anche altri, ma questi due sono i più importanti. In termini di metaetica[27], la pace può essere considerata in due modi diametralmente opposti: dal punto di vista deontologico oppure da quello consequenzialista. Si tratta di una distinzione del tutto analoga a quella forse più nota di Max Weber tra l’etica dell’intenzione (o convinzione) e l’etica della responsabilità. Il primo punto di vista tende a considerare la pace come principio in sé. Il secondo punto di vista tende a considerare la pace in base alle sue conseguenze. Detto in sintesi, se assumiamo la pace come un principio universalmente valido, e dunque moralmente doveroso, saremo portati a disinteressarci delle sue conseguenze, le quali però, come s’è visto, possono anche non essere sempre buone. Se consideriamo invece primieramente le conseguenze della pace, non saremo più in grado di trattare la pace come un principio universale, valido sempre e comunque. Potremmo anche mettere in conto, in certi casi, di dover rinunciare alla pace, per evitare certe sue conseguenze negative e/o per conseguire altri beni che siano ritenuti preferibili o prioritari.

23. Deontologi. Vediamo meglio. Chi adotta la prospettiva deontologica ritiene in generale che ci siano dei principi, proprio come la pace, che sono buoni o cattivi in sé. Questi principi sarebbero dunque dotati di un loro valore intrinseco. Questa convinzione si traduce in un dovere, in un comandamento morale al quale si deve soltanto obbedire. Chi non obbedisce si rende colpevole e si colloca ipso facto dalla parte del male. Il principio della pace è dunque considerato una cosa buona di per sé e dovrebbe sempre essere realizzato senza discutere, a tutti i costi: etsipereat mundus.

Resta allora solo il problema di definire come si giunga a stabilire un principio come quello della pace, quale ne sia il fondamento o la giustificazione. I fondamenti che possono essere individuati sono molteplici e curiosamente possono anche essere in contrasto tra loro. Tuttavia mirano tutti a conferire alla pace il suo valore intrinseco. Qui può essere utile, a scopo meramente illustrativo della problematica, rammentare la vecchia classificazione kantiana delle etiche eteronome, formulata a seconda del carattere internoo esternorispetto all’individuo del principio che le guida. In termini esterni, il dovere della pace può derivare da un comando divino, oppure da un’abitudine sociale trasmessa (la tradizione e l’educazione) oppure ancora da una legge degli uomini. In termini interni può derivare invece da un impulso socievole, fornitoci dalla natura, oppure da un sentimento morale, oppure ancora dalla spinta verso la perfezione derivante dalla nostra coscienza razionale. Se si vuol essere kantiani fino in fondo, si può poi invocare anche l’imperativo categorico, come caso di etica dell’autonomia[28].

Quale che sia il fondamento posto alla sua base, è opportuno notare che, in ambito deontologico, il principio della pace viene in tal modo assolutizzato. Ciò indubbiamente lo mette al riparo da qualsiasi dubbio e da qualsiasi eccezione. Questa strategia può tuttavia essere controproducente. Già Kant aveva avvertito come l’assolutizzazione di un principio possa costituire l’anticamera del perfezionismo morale, del ritualismo e financo del fanatismomorale. In fin dei conti le cose dai tempi di Kant non sono cambiate molto. L’impressione è che coloro che si auto proclamano pacifisti in senso deontologico non siano gran che consapevoli di questi rischi. Se il principio così individuato è considerato come un assoluto allora non può mai essere confrontato e messo in concorrenza con altri valori. Gli eventuali insuccessi pratici derivanti dall’applicazione del principio (la prova dei fatti) non scalfiscono minimamente il valore che è stato assunto. Il tutto in linea con la convinzione che le conseguenze non interessino più di tanto: “Il mio dovere l’ho fatto, accada ciò che vuole”.

24. Qualche esempio particolare. Discutiamo più concretamente qualche caso. Almeno i casi principali. Chi è religioso è facile che, per fondare la pace, invochi la legge divina. Spesso in ambito cristiano si cita il Vangelo come legge suprema. Tuttavia ciò non sempre sembra bastare. Il caso di Tolstoj mostra come ci si possa trovare in disaccordo anche a partire dal Vangelo. Tolstoj riteneva che il vangelo predicasse una forma radicale di nonviolenza e ciò lo portò allo scontro con la sua Chiesa. Il moscovita patriarca Kirill oggi benedice la guerra di Putin. Il Catechismo della Chiesa cattolica sostiene invece la teoria della “guerra giusta” discostandosi dalla prospettiva deontologica (vedi oltre). Non ci potrebbero essere interpretazioni più divergenti dello stesso principio.

Secondariamente, tra i deontologisti c’è chi preferisce fondare il principio della pace sulla legge umana, sulle prescrizioni del diritto. In Italia, ad esempio, c’è chi sostiene che la nostra Costituzione proibirebbe la guerra in tutte le sue forme. Secondo i pacifisti che fondano la pace sulla Costituzione, poiché la Costituzione proibisce la guerra, il nostro Paese non dovrebbe neppure partecipare alle missioni internazionali di pacificazione, non dovrebbe produrre e vendere armi. Non dovrebbe stare nella NATO. In teoria non dovrebbe neppure possedere un esercito e (forse) non dovrebbe neppure difendersi in caso di aggressione. È evidente che una simile interpretazione della Costituzione istituirebbe la Pace non solo come obbligo morale o politico individuale ma anche come obbligo legale per tutti i cittadini italiani e le loro istituzioni. In realtà sappiamo che la questione è piuttosto controversa. Secondo autorevoli giuristi, sembra che la Costituzione proibisca certamente le guerre di aggressione. Tuttavia non è certo che proibisca le guerre di difesa e/o di resistenza. Altrimenti non sarebbe stato neanche previsto un Ministero della Difesa.

In terzo luogo è stata spesso indicata come fondamento della pace una convinzione della coscienza, intima e individuale, che imporrebbe all’ individuo di non indossare divise, di non portare armi, di non fare il servizio militare, di rifiutare dunque la guerra, o anche tutte le forme di violenza. Si tratta della cosiddetta obiezione di coscienza. Si tratta questo di un principio che non è fatto valere per tutte le coscienze o per le istituzioni ma limitato alla coscienza individuale. L’obiettore, insomma, ammette che gli altri eventualmente facciano la guerra, tuttavia rivendica per sé la prerogativa di seguire la propria coscienza e di rifiutarsi di farla. Il principio dell’obiezione di coscienza è stato accolto – com’è noto – dalla legge italiana dopo molte controversie (è appena il caso di ricordare in merito la figura di Don Milani[29] e la sua polemica con i cappellani militari). Naturalmente anche in questo caso la convinzione intima può derivare da una pluralità di fonti, dall’adesione a qualche religione, dall’adozione di un qualche imperativo morale, o simili, da un sentimento di amore verso tutti gli umani o addirittura verso tutti gli esseri viventi. Molte delle argomentazioni individuali addotte per l’obiezione di coscienza possono essere legate non solo al rifiuto della guerra ma anche al rifiuto di ogni violenza.

25. Consequenzialisti. Vediamo ora l’altra posizione metaetica. Secondo la prospettiva consequenzialista, o dell’etica della responsabilità, non accade mai che un’azione sia buona o cattiva in sé, ma va sempre valutata in base ai suoi effetti o conseguenze. Una scelta è buona solo se produce conseguenze buone, anche e soprattutto nel caso specifico. Unico criterio normativo che deve stare alla base della scelta sono dunque le conseguenze. Questo orientamento si richiama alla responsabilità di colui che sceglie la linea di condotta. L’eventuale ossequio a principi a-priori implicherebbe invece laderesponsabilizzazioneindividuale e una universalizzazione irrealistica. Per comprendere questa posizione ci si può rifare dibattito intorno alla questione dell’obbedienza assoluta alle leggi. Se n’è discusso alquanto a proposito del caso Eichmann. Se obbedire alla Legge o allo Stato è sempre un atto dovuto, allora non si sarà mai responsabili delle eventuali conseguenze dannose. Deontologicamente, in senso stretto, Eichmann avrebbe avuto perfettamente ragione. La sentenza di condanna contro Eichmann – piaccia o no – è stata pronunciata in un quadro consequenzialista.

Mentre sul piano deontologico, il principio della pace è considerato come universale, sul piano del consequenzialismo invece non può mai essere considerato come universale, deve sempre essere messo in relazione alle specifiche situazioni. Dipende, in altri termini, dalle circostanze. Questo significa che il principio della pace, come ogni altro principio, viene considerato come contingente. Poiché le conseguenze di una scelta possono essere diverse da caso a caso, nella prospettiva consequenzialista è ammesso dare valutazioni diverse a seconda dei casi. In certi casi si può decidere per la pace, in altri per la guerra. Dato quest’approccio per così dire minimalista, i consequenzialisti tendono a non assolutizzare le loro scelte e così rischiano assai meno di incorrere nel perfezionismo morale o nel fanatismo.

26. Obiezioni. Un’obiezione al consequenzialismo è che non possiamo conoscere tutte le conseguenze delle nostre scelte, per cui il processo decisionale per essere corretto dovrebbe essere infinito. Inoltre tutti i principi sarebbero relativizzati alle singole situazioni esaminate. Ogni decisione sarebbe unica e diversa da ogni altra. In questo modo il mondo dei valori diverrebbe altamente instabile, sottoposto all’arbitrio valutativo di ciascun singolo e di ciascuna situazione. Un’altra obiezione è che possiamo non trovarci d’accordo sull’analisi delle conseguenze, poiché, in quanto umani, ragioniamo sempre in condizioni di incertezza o di relativa ignoranza. Oppure siamo sempre sottoposti ai condizionamenti più diversi. Il consequenzialista dunque non avrebbe alcuna garanzia di essere nel giusto, non potrebbe mai rifarsi ad alcun fondamento consolidato. I consequenzialisti risponderebbero che è proprio così, che queste sono le autentiche condizioni di ogni scelta morale.

 

27. Qualche implicazione. Vediamo qualche concreta implicazione. Nello specifico della guerra russo-ucraina, i pacifisti deontologici anche più soggettivamente sinceri si stupiscono di essere considerati spesso come “amici di Putin”. In realtà essi, adottando deontologicamente il principio della pace, facendo dunque il loro “dovere”, non si faranno mai carico delle specifiche conseguenze delle loro azioni, anche quando siano abbastanza prevedibili. Ad esempio, è fattualmente abbastanza chiaro che se si togliessero gli aiuti militari all’Ucraina, questa sarebbe facilmente sopraffatta. I deontologisti tuttavia non si sentono minimamente imbarazzati da simili conseguenze, perché le conseguenze non li riguardano affatto. Se tutti ragionassero come loro, Putin avrebbe già vinto. Ma questo, appunto, non li riguarda proprio. E così si stupiscono di essere considerati “alleati oggettivi” di Putin.

Anche gli interventisti consequenzialisti (si noti che i consequenzialisti possono anche essere non interventisti) hanno un dilemma da risolvere. Accettando la guerra, anche dopo articolata riflessione, non possono che accettarne anche le gravose conseguenze, le quali si manifesteranno però solo dopo la scelta. Essi, al momento della scelta avevano ritenuto che le conseguenze sarebbero state tutto sommato accettabili se messe a confronto con un male peggiore che sarebbe derivato se avessero deciso altrimenti. Tuttavia costoro si espongono alla confutazione da parte della realtà. La posizione dei deontologi resta invece inconfutabile. Il consequenzialista interventista può essere comunque accusato di avere scelto il male minore della guerra, perché è comunque un male. Ma potrebbe anche essere ancor più accusato qualora il male minore si riveli essere in realtà un male peggiore. Il consequenzialista non può mai avere la coscienza del tutto tranquilla, finisce sempre per avere in qualche modo le mani sporche. E questo può sempre essergli rimproverato dal deontologo (il quale può sempre comodamente dire “Non in mio nome!”). In altri termini, i consequenzialisti sono indotti, in ogni situazione, a cercare di calcolare e prevedere i risultati (di cui saranno comunque responsabili, nel bene e nel male) e a scegliere di conseguenza. Ai deontologi invece non importa dei risultati specifici, dei quali non si sentono responsabili. Per loro conta solo l’aderenza al principio assoluto.

Una dieta ricostituente 08

28. Dell’incompatibilità delle due posizioni. Possiamo domandarci a questo punto se sia possibile conciliare queste due prospettive. Ebbene, no, non è possibile. Si può solo stare da una parte o dall’altra. Si può, volendo, argomentare a favore dell’uno o dell’altro punto di vista, in maniera più o meno convincente, ma mai in termini risolutivi. Per questi due mondi, “fare la cosa giusta” può significare cose completamente diverse.

Che fare allora? Di fronte a questi due orientamenti incompatibili si finisce spesso per scegliere una modalità o l’altra a seconda dei casi. Diciamo pure a seconda della convenienza del momento. Si finisce per formulare delle argomentazioni miste che possono essere anche abbastanza ridicole. Ci sono tuttavia dei soggetti che sono invece più costanti e tendono più o meno a essere sempre deontologi oppure sempre consequenzialisti, in base a un atteggiamento personale spesso poco consapevole. Una specie di predisposizione.

Mi permetto qui di suggerire una scappatoia. Di porre all’attenzione la possibilità di adottare un criterio di tipo decisamente pragmatico, un criterio piuttosto “a spanne”, anche se si tratta di un criterio piuttosto vicino al modo di pensare consequenzialista. Si tratta di far ricorso alla casistica empirica nota, all’esperienza passata. Nella storia passata hanno avuto migliori risultati (cioè, hanno fatto meno disastri) coloro che hanno applicato ciecamente i loro valori o principi, oppure coloro che hanno esaminato attentamente e prudentemente le possibili conseguenze delle loro scelte? Cosa convien fare in generale, sulla base del senno di poi? È chiaro che ciascuno formulerà la propria risposta. Dal mio punto di vista, da un esame spassionato, emerge come i consequenzialisti siano meglio adattati alla democrazia. Le ragioni dovrebbero essere facilmente ricavabili da chiunque conosca appena un po’ le regole elementari della democrazia. Propongo al lettore questo compito come esercizio. Sono disposto a correggere gli elaborati.

29. La teoria della guerra giusta. Il caso più celebre di consequenzialismo è senz’altro quello della teoria della guerra giusta[30] alla quale val la pena di riservare uno spazio particolare. È una teoria che risale addirittura ad Agostino e a Tommaso d’Aquino[31]. Prima ancora si trova, ad esempio, in Cicerone. È stata ripresa nell’ambito del giusnaturalismo moderno e, per suo tramite, è giunta fino a noi. A tutt’oggi è una teoria che ha molti sostenitori ed è ancora ampiamente dibattuta. C’è una letteratura immensa sull’argomento. In campo filosofico, tra i sostenitori contemporanei della teoria della guerra giusta possiamo annoverare i filosofi Michael Walzer[32] e Norberto Bobbio[33].

La premessa minimale della teoria è che le guerre non sono tutte uguali. Ci sono guerre inique e guerre giuste. Le guerre giuste si distinguono per essere tali sia nelle motivazioni che le hanno scatenate (jus ad bellum) sia nella condotta sul campo (jus in bello). Per quel che concerne lo jus ad bellum, la sola guerra giusta tendenzialmente è quella che è messa in atto per difendersi da una aggressione. La guerra di offesa non è mai giusta. Nel corso della complessa storia di questa teoria sono state dettate precise condizioni affinché si possa parlare di guerra giusta. Abbiamo, nell’ordine: 1) La giusta causa. 2) La retta intenzione. 3) L’autorità appropriata (legale) e la dichiarazione pubblica. 4) La guerra come ultima risorsa. 5) La probabilità di successo. 6) La proporzionalità. Entrare nel merito dei punti precedenti esula dalle finalità di questo scritto. Il lettore che fosse interessato non farà fatica a trovare un’adeguata documentazione. Va segnalato che l’epiteto di “guerra giusta” non ha in questo caso alcun significato morale, bensì ha un significato giuridico. È definita giusta la guerra che abbia determinati requisiti accertabili in base alla tecnica giuridica. La teoria permette dunque di esprimere un giudizio di tipo giuridico sulla guerra. Il giudizio ovviamente, come tutti i giudizi, potrebbe anche essere errato. Potrebbe anche essere riconsiderato nel caso del sopravvenire di nuovi dati.

Non manca chi ha fatto notare come la teoria della guerra giusta sia del tutto corretta ma che nessuna delle guerre passate sarebbe in grado di passare la prova, se questa fosse condotta in maniera rigorosa. Questa teoria si presta soprattutto a essere impiegata quando in sede internazionale un consesso di nazioni (ad esempio in sede ONU) deve decidere se operare o meno un intervento. Come accade facilmente nelle faccende umane, la teoria è tuttavia stata anche usata strumentalmente dai bellicisti. L’aggressione americana all’Iraq nel 2003, ad esempio, è stata giustificata anche col pretesto che fosse una guerra giusta[34]. In quell’occasione fu anche elaborata una assai discutibile dottrina della guerra preventiva. Occorre dunque tener conto di un possibile uso ideologico e propagandistico della teoria della guerra giusta. Le strumentalizzazioni non bastano tuttavia a invalidarla e, come si diceva, è ancora ampiamente dibattuta.

Taluni hanno sostenuto – lo riporto per imparzialità affinché siano chiare tutte le posizioni – che la teoria della guerra giusta poteva valere per le guerre convenzionali. Non varrebbe più ora che c’è la possibilità della guerra atomica. Norberto Bobbio ha discusso ampiamente su questo punto. Il problema è che la possibilità della guerra atomica non ha messo fuori mercato le altre guerre convenzionali. E su queste, che sono di fatto le uniche a essere praticate, è comunque il caso di pronunciarsi. In effetti l’arma atomica ha una funzione di deterrenza ed è poco probabile che venga mai più usata (dopo il caso del Giappone) poiché con la tecnologia odierna l’uso dell’arma atomica implicherebbe la mutua distruzione assicurata. Le guerre convenzionali hanno invece molta più probabilità di essere utilizzate e di fatto lo sono. Abbiamo dunque bisogno anche di ragionare circa il da farsi relativamente alle guerre non atomiche.

Ma avremmo anche bisogno di ragionare rispetto alle armi atomiche. Negli ultimi decenni l’arsenale atomico mondiale è rimasto congelato dal TNP (Trattato di non proliferazione nucleare) e l’opinione pubblica non pare si sia mai preoccupata più di tanto circa la questione dello smantellamento. Solo nel 2017 è stato proposto da un ristretto gruppo di Paesi il TPNW (Trattato per la proibizione delle armi nucleari) cui però non hanno aderito gli Stati possessori delle bombe o aspiranti tali. Certi pacifisti si rifiutano di mandare qualche cartuccia e qualche obice agli Ucraini che stanno facendo la loro resistenza, un caso cioè che sarebbe generalmente riconosciuto come guerra giusta, ma non dedicano neanche un tweet alla causa della messa al bando delle armi nucleari. Meno male che ci ha pensato Putin a riproporre la questione.

30. L’ambiguo caso della Chiesa cattolica. Come ho spiegato ampiamente in un mio saggio precedente[35], da sempre la Chiesa cattolica sostiene esplicitamente la dottrina della guerra giusta, fin da Agostino e Tommaso d’Aquino. Nel mio saggio ho mostrato dettagliatamente come il Catechismo della Chiesa cattolica sia totalmente incentrato intorno alla teoria della Guerra giusta. Ciò significa l’adesione piena a una prospettiva consequenzialista. Ciononostante, il Papa nel suo attuale pubblico insegnamento mostra di condividere una prospettiva deontologica talvolta assai estrema, fino quasi alla nonviolenza tolstojana, cioè alla proibizione di rendere il male con il male. Questo soprattutto quando sono in questione gli aiuti militari e le spese per la difesa. Ma poi il Papa non trae tutte le conseguenze dalla sua adesione alla nonviolenza. Il messaggio è dunque piuttosto ambiguo. Nel Catechismo si teorizza il diritto alla difesa e alla resistenza da parte di chi è aggredito e invece nelle piazze la Chiesa tuona contro l’invio delle armi in Ucraina e contro gli investimenti nella sicurezza. Si tratta di una palese contraddizione che, nel mio saggio, ho sintetizzato nella formula del peace populism. Intendendo con ciò che questa contraddizione sia dovuta principalmente allo scopo più o meno consapevole della Chiesa di ottenere una qualche popolarità a buon mercato. Un pacifismo deontologico e fondamentalista è senz’altro più popolare di un consequenzialismo responsabile.

Va notato che la teoria consequenzialista della guerra giusta della Chiesa cattolica (almeno quella contenuta nel Catechismo) si espone alle critiche deontologistiche di coloro che professano rigorosamente la teoria della nonviolenza. Per rendersene conto, basta mettere a confronto il Catechismo della Chiesa cattolica con Tolstoj[36]. Agli occhi di Tolstoj, il Catechismo cattolico sarebbe da considerarsi come una mera manifestazione di eresia, un vero e proprio tradimento dell’insegnamento di Cristo. Se stiamo alla lettera, è probabile che Tolstoj abbia ragione. Solo la plateale ignoranza dilagante presso il grande pubblico permette oggi alla Chiesa cattolica di sostenere e insegnare la guerra giusta nel Catechismo e, contemporaneamente, di presentarsi come sostenitrice di un pacifismo deontologico nonviolento, senza che nessuno ne ravvisi le incongruenze.

31. Di che pacifismo sei? Da quanto detto, dovrebbe risultare chiaro fin qui che i problemi che questa materia comporta sono davvero complessi e che ciascuno dovrebbe essere attentamente impegnato nel costruire la propria posizione personale. Una posizione comunque che, per la natura stessa della cosa, non sarà alla fine esente da lati oscuri, incongruenze, conseguenze non desiderate. Sarà dunque una posizione che avrà punti forti, ma anche punti di debolezza. Sarà una simile posizione che sarà poi utilizzata per formulare gli opportuni cauti giudizi sui casi concreti. Dovrebbe dunque risultare chiaro che non ci si può accontentare di superficialità e banalità. Se il ragionamento fin qui sviluppato sarà sembrato eccessivo, ebbene pensi il nostro coraggioso lettore che quel che qui è stato fornito è solo un approccio del tutto elementare. La complessità delle questioni è ben maggiore. In altri termini, non c’è via di scampo, bisogna studiare! Vediamo allora in sintesi, ad usumdelphini, quali sono le principali posizioni possibili.

32. Nonviolenti. Abbiamo anzitutto i nonviolenti. Pare questo il caso relativamente più chiaro, sebbene sia il più difficile da mettere in pratica. Riteniamo di doverli collocare in una loro categoria a parte per il fatto che essi hanno, come obiettivo, non tanto la eliminazione della guerra bensì l’eliminazione della violenza in generale. Se poi intendono – come fa Galtung – per violenza anche la violenza sociale (cioè le disuguaglianze, lo sfruttamento, l’impedimento allo sviluppo delle potenzialità umane di ciascuno, la discriminazione e simili) essi sarebbero impegnati nella impresa di costruire, senza fare uso della violenza, una società completamente nuova, in una vera e propria rivoluzione, sia sul piano istituzionale sia sul piano degli individui. Dal punto di vista metaetico, l’approccio dei nonviolenti è generalmente di tipo deontologico, con tutti i suoi pregi ma anche con i difetti che abbiamo ampiamente discusso in precedenza. I nonviolenti, posti di fronte alla guerra, si troveranno comunque a dover affrontare e risolvere la molteplicità dei dilemmi circa la pace e la guerra che abbiamo segnalato. In particolare, potranno facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e ai paradossi derivanti dal “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Un problema particolare poi è quello della efficacia effettiva in termini pratici della metodologia nonviolenta.

33. Pacifisti assoluti. Abbiamo poi i pacifisti deontologici. Sono coloro che – per i principi più diversi – scelgono sempre la pace, “senza se e senza ma”. Costoro potrebbero essere definiti come pacifisti assoluti. Diciamo pure che costoro, per quanto ampiamente variegati al loro interno, costituiscono un blocco relativamente monolitico. Questa posizione deve comunque risolvere il problema (che non hanno i nonviolenti) di identificare cosa si debba intendere per guerra, cioè di identificare l’oggetto della loro opposizione. Abbiamo visto che l’oggetto guerra è piuttosto fuzzy e, a seconda di quel che si intende, può produrre comunque già delle differenziazioni interne assai marcate nello schieramento. Ci possono essere posizioni assai radicali ove si vietino la produzione e il commercio di armi, ove si chieda lo smantellamento degli eserciti, ma anche ove si vietino i cosiddetti interventi umanitari, le varie forme di interposizione, oppure gli interventi dell’ONU. Ove si condannino nel passato e nel futuro tutte le forme di resistenza armata e ove si condanni anche la guerra passata al nazifascismo. C’è poi anche chi intende la pace solo come obiezione di coscienza individuale (la riserva solo per sé e non la impone agli altri) e chi la intende invece come norma legale da imporre a tutti attraverso una Costituzione. Anche i pacifisti deontologici possono facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e al paradosso di “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Il pacifismo assoluto sembrerebbe dunque la posizione più facile ma al proprio interno, osservando un minimo di rigore, può riservare molti problemi piuttosto difficili da risolvere.

34. Pacifisti relativi. Ma l’elenco non è finito. L’approccio metaeticoconsequenzialista pone più di un problema, per quel che riguarda il da farsi rispetto alla pace (e alla guerra). Se i pacifisti deontologici sceglieranno pressoché sempre la pace, senza badare alle conseguenze, i consequenzialisti invece potranno essere indotti a scegliere, in casi specifici diversi, sia la pace sia la guerra. Ma allora, i consequenzialisti sono da considerare come pacifisti o non piuttosto come bellicisti? Oppure vanno considerati di volta in volta, solo sulla base della loro scelta del momento? Risultando così come dei ballerini morali che transitano troppo facilmente da una posizione all’altra?

Una dieta ricostituente 09Facciamo un esempio per capirci. Bertrand Russell (1872-1970) è ritenuto generalmente un’importante figura di filosofo e attivista pacifista. È famoso per essersi impegnato per la messa al bando delle armi atomiche. Si è opposto alla partecipazione della Gran Bretagna alla Prima guerra mondiale. Per questo fu privato della cattedra e fu perfino incarcerato. Eppure Russell, dopo un notevole impegno per prevenire il conflitto, giunse ad approvare la guerra contro la Germania nazista. Come dovremmo considerare la sua posizione? Siamo in presenza di un pacifista eroico, oppure di un bellicista guerrafondaio? Oppure di un voltagabbana? Russell ha chiarito la sua posizione in un famoso articolo del 1943[37] nel quale egli si considera non un pacifista assoluto ma “pacifista politico relativo”[38]. Ben al di là di essere un altalenante, egli si considera dunque un pacifista perfettamente coerente. Ma come tale, e proprio in quanto tale, ammette che talune guerre vadano appoggiate. Va da sé che i nonviolenti e i pacifisti assoluti difficilmente accetterebbero Russell in loro compagnia.

Se non vogliamo trattare anche Russell come un guerrafondaio allora non possiamo fare altro che accettare la sua argomentazione e ampliare la nostra classificazione dei pacifisti. Avremo allora, da un lato, i pacifisti assoluti che deontologicamente scelgono sempre la pace e poi avremo, d’altro canto, anche i pacifisti non assoluti, pacifisti “relativi”, che non scelgono sempre la pace e si riservano di giudicare caso per caso. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, almeno a partire dall’esempio di Russell, che i pacifisti relativi non possono essere assimilati tout court ai bellicisti (i quali sceglierebbero pressoché sempre la guerra). Assumiamo dunque che non basta dare un appoggio circostanziato a una certa guerra, per essere considerati tout court bellicisti o guerrafondai. Si può combattere Hitler anche in nome della causa della pace. Anche qui, le distinzioni sono importanti, non si tratta della stessa cosa! Nella recente letteratura anglosassone sulla pace e sulla guerra si parla tranquillamente di relative pacifism, di contingentpacifism, oppure di conditionalpacifism. Se non si accetta questa soluzione si corre il rischio di screditare una categoria di pacifisti sicuramente numerosa e ben impegnata. Facendo un cattivo servizio alla causa della pace. Si tratterebbe dunque di ammettere una buona volta che i pacifisti relativi siano comunque dei pacifisti a pieno titolo e che un pacifista in certi casi possa anche stare dalla parte della guerra. Pazza idea! Ancora una volta, questa non è una questione che può essere affrontata in maniera schematica. Il pericolo del fanatismo è sempre alle porte.

35. Pacifisti relativi insufficienti. I pacifisti relativi (che non possono che essere consequenzialisti) costituiscono tuttavia un gruppo davvero composito, spesso diviso al proprio interno in base alle diverse analisi condotte circa l’opportunità o i costi e i benefici delle diverse scelte di pace o di guerra. È il caso di ricordare che molti pacifisti relativi (forse la maggioranza!) sembra che, nel caso del conflitto russo – ucraino, abbiano optato proprio per la pace (cioè, di fatto, per la resa incondizionata dell’Ucraina). Sembra tuttavia che i pacifisti relativi facciano notizia solo quando scelgono di appoggiare la guerra. Nel caso della guerra russo – ucraina, diversi di loro hanno appoggiato la resistenza ucraina, fino ad approvare le sanzioni, l’invio di armi, guadagnandosi così l’appellativo dispregiativo di pacifisti con l’elmetto. Ugualmente hanno approvato l’aumento delle spese militari per la sicurezza, beccandosi l’accusa di essere dei guerrafondai e di voler togliere risorse alla sanità, all’istruzione e a una miriade di altre buone cause.

Il livello decisamente poco elevato dell’attuale dibattito italiano sulla guerra in Ucraina suggerisce, ahimè, una pessimistica considerazione circa i molti pacifisti relativi che sono in circolazione. Tra i quali può essere anche collocato il già citato prof. Orsini. Nonostante il parere autorevole di Ockham[39],per tutti costoro mi verrebbe di suggerire una nuova categoria, quella dei pacifisti relativi insufficienti. Se non piace questo termine, si potrebbe anche parlare di pacifisti relativi deboli. Come diceva Viano: “di quelli che non ce la fanno”. O, ancora, di pacifisti relativi opportunisti. Che abbiano optato per la pace o per la guerra, costoro, come consequenzialisti, mostrano abbastanza palesemente di avere operato la loro scelta in base ad analisi assai discutibili delle conseguenze. Purtroppo, l’analisi delle conseguenze non sempre è caratterizzata da onestà e imparzialità, da considerazioni approfondite e di ampio respiro. Talvolta può essere caratterizzata da basse e ciniche convenienze, da abietti e futili motivi. Non tutti si chiamano Bertrand Russell. Non tutti si chiamano Albert Einstein (il quale sulla guerra a Hitler ha sostenuto posizioni analoghe a quelle di Russell). L’analisi delle conseguenze poi può non sempre essere caratterizzata dall’impiego di dati fondati e deduzioni logicamente corrette. Dunque, bisogna purtroppo riconoscerlo, il consequenzialismo è in fin dei conti fin troppo democratico. Ce n’è davvero per tutti i gusti, e anche gli imbecilli sono comunque sempre autorizzati a fare la loro brava analisi delle conseguenze. Del resto in una democrazia è senz’altro giusto che sia così. La democrazia dovrebbe essere così robusta da scoraggiare gli imbecilli e invece li subisce continuamente. E forse li alimenta.

36. Utilitarismo e verità. I pacifisti relativi insufficienti, che sono una legione, non sono purtroppo una sorpresa poiché abbiamo già sottolineato la possibile parentela del consequenzialismo con le etiche utilitaristiche. L’utilitarismo tradotto in pratica purtroppo spesso dimentica il principio cardine che lo dovrebbe improntare, il principio della “maggior felicità per il maggior numero”[40],e tende a scadere in mero opportunismo individualistico. Questo è il motivo per cui, in ambito consequenzialistico occorre sempre esercitare una grande vigilanza affinché l’analisi delle conseguenze non sia viziata dagli innumerevoli bias in cui ci si può imbattere. Mentre in campo deontologico il dibattito non può che vertere intorno ai valori universali (i quali però per lo più si assumono a torto o a ragione senza gran ché dibattere), in campo consequenzialista invece il dibattito è essenziale.Dovrebbe sempre essere approfondito, ampio, documentato, e soprattutto pubblico, per permettere la formazione di un’opinione pubblica matura e consapevole. In altri termini, per fare bene i consequenzialistibisogna studiare. Mi permetto in proposito di richiamare una considerazione recentemente espressa da Emanuele Parsi[41], e cioè che le democrazie non possono proprio funzionare al di sotto di una certa soglia di circolazione della verità. A maggior ragione, ciò dovrebbe valere di fronte a questioni gravi come quelle della pace e della guerra. Occorrerebbe dunque un forte commitment per la verità. È invece un dato fatto che il pubblico medio attuale non si occupa di politica e men che mai di politica internazionale. E le informazioni che circolano sono quelle che corrono sui social media e sui media nazionali. E, soprattutto, i nostri pacifisti relativi insufficienti tendono a decidere piuttosto irresponsabilmente con un tweet o con un Like, magari in base a un bel corredo di fake.

37. Per concludere. Lo scopo di questo saggio, divenuto ormai fin troppo lungo, era quello di fornire alcuni strumenti elementari di analisi a chi volesse condurre una riflessione indipendente e non banale sulle questioni della guerra e della pace. Lo scopo era anche di esercitare un’opera minima di chiarificazione del linguaggio che, su questo tema, è oggi davvero molto inquinato. Spero di avere mostrato ancora una volta come la filosofia possa disseminare dubbi piuttosto che propinare certezze e come possa rappresentare tuttavia uno strumento critico nei confronti per lo meno delle forme più crasse di superficialità. Ho cercato di essere il più obiettivo possibile, non rinunciando ovviamente di volta in volta a esprimere le mie opinioni. Per rispetto nei confronti del lettore, mi sono tuttavia sforzato di rendere sempre ben distinguibili le mie analisi argomentate dalle mie opinioni e valutazioni. Ringrazio i pochi lettori che siano giunti fin qui, sperando di avere fatto loro un qualche buon servizio. Disponibilissimo a ricevere critiche e osservazioni. E a ricevere, qualora fosse il caso, anche qualche ringraziamento. In ossequio al motivo kantiano del “legno storto”, non mi faccio comunque nessuna illusione che tutto ciò possa servire a migliorare anche di un solo millimetro la nostra etica pubblica.

Opere citate

2021 AA. VV., (a cura di), Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Decima edizione, Terra Nuova Edizioni.

1962 Aron, Raymond, Paix et guerre entrelesnations, Calmann-Lévy, Paris.Tr. it.: Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970.

1990 Berlin, Isaiah, “Alla ricerca dell’ideale”, in AA., VV. (a cura di), Etica ed economia, La Stampa, Torino. [1988]

1984 Bobbio, Norberto, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna.

1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.

1991 Bobbio, Norberto, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia.

2010 Losurdo, Domenico, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Bari.

1967 Erasmo, da Rotterdam, Il lamento della Pace (a cura di Luigi Firpo), UTET, Torino. [1517]

1969 Galtung, Johan, “Violence, Peace, and Peace Research”, in Journal of Peace Research, Vol. 6, No. 3 (1969), pp. 167-191.

1995 Kant, Immanuel, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Kant, Immanuel, Scritti di storia, politica e diritto (a cura di Filippo Gonnelli), Laterza, Bari. [1784]

1965 Milani, Lorenzo (Don), L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.

1991 Kant, Immanuel, Per la pace perpetua (a cura di salvatore Veca), Feltrinelli, Milano. [1795]

2022 Parsi, Vittorio Emanuele, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani, Milano.

1992 Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale (a cura di Tito Magri), Laterza, Bari. [1762]

1943-44 Russell, Bertrand, “The Future of Pacifism”, in The American Scholar, Vol. 13, No. 1 (Winter 1943-44), pp. 7-13.

2009 Tolstoj, Lev, La confessione, Feltrinelli, Milano. [1882]

1988 Tolstoj, Lev Nikolàevič, La mia fede, Editoriale Giorgio Mondadori. [1884-1892]

1894 Tolstoi, Leone, Il Regno di Dio è in voi, Fratelli Bocca, Roma.

1997 Walzer, Michael, Just and Unjust Wars, Basic Books, Harper Collins Publishers. Tr. it.: Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990.

[1]Ho iniziato a scrivere questo saggio pochi giorni dopo il 24 febbraio 2022, data dell’aggressione all’Ucraina da parte della Russia. Per questo sono andato a ripescare materiali relativi alla mia attività di insegnamento, insieme a una gran quantità di vecchi appunti e scritti risalenti al periodo delle guerre jugoslave e al periodo della occupazione dell’Afghanistan. Ricordo in proposito di avere dato un mio perdurato contributo alla Campagna contro le mine antiuomo in Afghanistan, condotta dall’ICS. La stesura del saggio è durata per tutti questi lunghi mesi di guerra, nel corso dei quali ho potuto tuttavia assistere al pressapochismo sia del dibattito mediatico sia delle prese di posizione delle diverse forze politiche, pacifisti compresi. Ho potuto assistere anche alle incertezze, alle ambiguità e al tradimento della causa dei resistenti ucraini da parte di molti degli appartenenti alla mia stessa parte politica, fattori questi spesso uniti all’ignoranza e allo stravolgimento della verità storica. Ho pensato più volte di lasciar perdere. Che non ne valesse proprio la pena. Ho trovato la motivazione minima per condurre a termine questo lavoro dopo la liberazione di Kherson. Slava Ukraini!

[2]Cfr. AA. VV. 2021.

[3]Si noti che possono ben sussistere conflitti d’altro tipo, considerati come accettabili o addirittura utili e indispensabili. Come, ad esempio, il conflitto tra i candidati in una democrazia.

[4] Putin dichiara che la sua è un’operazione militare speciale, ma poi dichiara la mobilitazione “parziale” come se fosse in guerra. D’altro canto, l’Ucraina non ha mai dichiarato guerra alla Russia. Si è trovata in guerra suo malgrado.

[5]Si veda il noto saggio di Erasmo da Rotterdam: Il lamento della pace. Cfr. Erasmo da Rotterdam 1967[1517].

[6] È il caso di far notare che perché si possa parlare di guerra occorre che ci siano delle comunità politiche. La nozione di guerra dunque ha poco a che vedere con la questione dell’aggressività umana, com’è stata trattata dagli etologi, o dagli psicologi. Certo, l’aggressività rappresenta uno dei substrati biologici della guerra. Ma si può dire la stessa cosa anche del pollice opponibile.

[7] Cfr. Bobbio 1984: 124.

[8] La definizione di ciò che è considerato violento è senz’altro di tipo storico e culturale. Certi rituali primitivi erano – e sono talvolta tuttora – violenti. Violenti i sacrifici, animali ma anche umani, previsti da talune religioni. Violenti certi metodi educativi, o certe modalità nel rapporto tra uomo e donna. Taluni considerano violento il cibarsi di carne animale o di certi prodotti animali. Qualcuno considera violento anche l’uso di certi aggettivi o espressioni linguistiche. Ma violenza è anche quella legale, esercitata dallo Stato. È nozione comune il fatto che lo Stato moderno abbia il “monopolio della violenza”.

[9] Scrivo “nonviolenza” senza il trattino seguendo un’indicazione di Aldo Capitini.

[10]La definizione è tratta da Wikipedia, versione in lingua inglese. La traduzione è mia.

[11]Di questa crisi è dato conto nello scritto La confessione. Cfr. Tolstoj 2009.

[12] Trascrivo per comodità del lettore quello che secondo Tolstoj costituirebbe l’autentico comandamento del Discorso della Montagna. Il testo è banalmente tratto da Wikipedia:

“Primo precetto (Matteo, V, 21-26). L’uomo non solo non deve uccidere l’uomo, ma nemmeno adirarsi contro di lui, suo fratello; non deve disprezzarlo né considerarlo “stupido”. Se avrà questionato con qualcuno dovrà riconciliarsi con lui prima di offrire i suoi doni al Signore, vale a dire prima di accostarsi a Dio con la preghiera.

Secondo precetto (Matteo, V, 27-32). L’uomo non solo non deve commettere adulterio, ma neppure servirsi della bellezza della donna per il proprio piacere; e se sposa una donna, deve restarle fedele per tutta la vita (nella tradizione cattolica corrente sono qui unificate la seconda e terza antitesi).

Terzo precetto (Matteo, V, 33-37). L’uomo non deve impegnarsi in niente, sotto giuramento.

Quarto precetto (Matteo, V, 38-42). L’uomo non solo non deve rendere occhio per occhio, ma quando qualcuno lo percuote su una guancia, deve porgergli l’altra; deve perdonare le offese, sopportarle con rassegnazione e non rifiutare nulla di ciò che gli venga chiesto.

Quinto precetto (Matteo, V, 43-48). L’uomo non solo non deve odiare i suoi nemici e combatterli, ma deve amarli, aiutarli e servirli”.

[13] Nella filosofia di Hobbes, lo stato di natura è descritto come una lotta violenta di tutti contro tutti, dove è contemplata l’uccisione del nemico. In Hegel la violenza è generatrice della Storia. Si ricordi la sua metafora del bancone del “macellaio della storia”. La volontà schopenhaueriana è eminentemente conflittuale e violenta. In alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche la violenza è contemplata come fondamento stesso della realtà. La teoria darwiniana – che è teoria scientifica – implica, di fatto, la predazione che rappresenta comunque una forma di violenza. Ma una vera e propria filosofia della violenza è contenuta nel darwinismo sociale che è uno stravolgimento della teoria darwiniana. Molte filosofie della razza si fondano sul conflitto razziale inteso come motore della storia. Nonostante molte ragguardevoli filosofie abbiano posto come fondamento la violenza, nella storiografia filosofica si esita a riconoscere l’esistenza di una corrente sotterranea che potremmo chiamare violentismo. Quando si vuol dire qualcosa del genere di solito si ricorre al realismo politico. Ma non è la stessa cosa.

[14]Osserva Bobbio che, mentre si può pensare a una pace perpetua, assai più raramente è stato elaborato il pensiero di una guerra perpetua. I bellicisti che ammettono la guerra normalmente la considerano come un elemento temporaneo, da concludersi con una pace. Sorge dunque il dubbio che i bellicisti possano, in qualche misura, essere considerati minimamente pacifisti.

[15]Coloro che sono contrari alle spese militari di solito lo sono per principio. E tendono a non considerare se la situazione attuale internazionale sia o meno una situazione di insicurezza. Il problema sembra non li riguardi. Posto che si ammetta di essere in una situazione di insicurezza, non spiegano se in tal caso si debba ugualmente procedere con un disarmo unilaterale.

[16]Faccio qui riferimento all’articolo di Andrew Fiala contenuto nella Enciclopedia Stanford. Vedi: Fiala, Andrew, “Pacifism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/pacifism/.Fiala è uno tra i più importanti studiosi anglosassoni della materia.

[17] Cfr. Rousseau Capitolo IV, Della schiavitù.

[18]Per un orientamento sulla questione si può vedere: Hsieh, Nien-hê and Henrik Andersson, “IncommensurableValues”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/value-incommensurable.

[19]Si noti si può sostenere che anche la vita non sia un valore assoluto. E che vada comunque sempre commisurato con altri beni materiali o immateriali altrettanto importanti. È noto che gli umani, essendo animali culturali, sono in grado di sacrificare volontariamente la propria vita, in determinate condizioni. Giusta o sbagliata che sia la decisione. Una riflessione articolata sulla questione si trova nel mio saggio: Durkheim e i “suicide bombers”. Cfr. Finestre rotte: Durkheim e i “suicide bombers”.

[20]Cfr. Kant 1991 [1795].

[21]Cfr. Kant 1995[1784]. La traduzione che propongo qui si trova in Berlin 1990.

[22]Ci siamo rifatti particolarmente ad Andrew Fiala, uno dei più importanti studiosi anglosassoni di queste questioni.

[23] Cfr. Aron 1962.

[24]Cfr. Bobbio :137

[25]Il resto di questo paragrafo è tratto da un mio saggio precedente.

[26]Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..

[27]La pace può essere trattata anche sul piano della metaetica, cioè attraverso quella disciplina dell’etica che riflette sui metodi dell’etica stessa.

[28]Non posso qui dilungarmi su questa classificazione. Chi fosse interessato troverà ampi ragguagli in merito su un qualsiasi manuale di storia della filosofia o in qualsiasi monografia su Kant.

[29] Cfr. Milani (Don) 1965.

[30] Si noti che il consequenzialismo ha prodotto molte altre argomentazioni a proposito della pace e della guerra.

[31] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, Questione 40.

[32]Cfr. Walzer 1997.

[33]Cfr. Bobbio 1984, Bobbio 1989, Bobbio 1991

[34]Detta anche Seconda Guerra del Golfo, fu combattuta nel 2003 anche se gli eventi possono essere datati tra 2003 e 2011. La guerra fu condotta dagli USA (allora presidente era George W. Bush) e da una coalizione dei cosiddetti Volenterosi. Si tratto di una cosiddetta “guerra preventiva”. Le analisi e le inchieste successive dimostrarono che non sussistevano le motivazioni per considerare questa guerra come una “guerra giusta”.

[35]Cfr. il mio saggio Catechismo, guerra e resistenza. Finestre rotte: Catechismo, guerra e resistenza.

[36]Si veda Tolstoj 1988 e Tolstoi 1894.

[37]Cfr. Russell 1943-44.

[38]La qualificazione di “politico” Russell intende distinguere la sua posizione da quella degli obiettori di coscienza.

[39]Il quale sosteneva che le entità (i concetti) non dovrebbero essere moltiplicate se non per estrema necessità.

[40]Il principio benthamiano costituisce un nobile tentativo di universalizzare in qualche modo l’utilitarismo.

[41]Cfr. il recente Parsi 2022.

Sven o della solitudine

Sven o della solitudine - copertinadi Paolo Repetto, 22 luglio 2023

Introduzione

La giovinezza di un eroe

Verso l’oriente

Il viaggio in Persia

La prima spedizione

Seconda spedizione

Terza spedizione

Quarta spedizione

Il tramonto e l’oblio

Riflessioni

Compromesso col nazismo

Razzismo

Spettacolarizzazione

Solitudine e sensibilità

Omosessualità

Infine

Indicazioni bibliografiche

Sven o della solitudine 02

Introduzione

Non cammino mai sulle mie impronte.
Questo è contro la mia religione.

Protagonista di questa mini-biografia è Sven Hedin, un esploratore svedese che a cavallo tra otto e novecento ha cambiato radicalmente la conoscenza geografica di una parte dell’Asia. Non è una new entry: era nel mirino da un pezzo, ma forse, a dispetto delle ripetute professioni di “scorrettezza politica”, sono stato inconsciamente influenzato dal marchio di maudit – non quello della sregolatezza, ma quello dell’infamia – che pesa sul personaggio (nonché dal fatto che sino ad un anno fa avevo potuto leggere uno solo dei suoi libri). Hedin mi offre dunque l’occasione di raccontare una storia che mi ha affascinato e di togliermi al contempo un po’ di sassolini dalle scarpe.

Questo però alla fine. Prima andiamo a conoscerlo, possibilmente tenendo spiegata davanti a noi una carta fisica in scala 1:1.000.000 dell’Asia Centrale. Diversamente rischiamo davvero di perderci dopo poche pagine. E comunque, buona parte di quella carta l’ha disegnata proprio lui.

Sven o della solitudine 01

La giovinezza di un eroe

In My Life as an Explorer, dove riassume in pratica tutta la sua vita, (e che non è mai stato tradotto in italiano) Hedin non si sofferma sull’infanzia. Parte in quarta e scrive semplicemente: “Fortunato quel ragazzo che scopre l’inclinazione della sua vita già durante la fanciullezza. Questa davvero è stata la mia buona sorte. Fin dai primi dodici anni il mio traguardo mi era già chiaramente evidente. I miei primi amici sono stati Feminore Cooper e Jules Verne, e Stanley, Franklin, Payer e Nordenskiöld, in particolare la lunga schiera di eroi e di martiri delle esplorazioni polari […]”. Passa poi immediatamente a raccontare del giorno (o meglio, della notte) di fine aprile in cui con tutta la famiglia aveva assistito al rientro a Stoccolma dell’esploratore polare Nordenskiöld, reduce dall’aver percorso per primo il passaggio a nord-est con la nave Vega[1]. In quella notte si era deciso il suo futuro destino. «Ero in piedi sulle alture di Södermalm con i miei genitori e fratelli, da cui avevamo una vista superba. Ero in preda a una grande tensione nervosa. Ricorderò questo giorno fino alla morte, poiché è stato decisivo per il mio futuro. Un fragoroso giubilo risuonava dalle banchine, dalle strade, dalle finestre e dai tetti. “È così che voglio tornare a casa un giorno”, ho pensato tra me e me».

Sven o della solitudine 03Di ciò che era venuto prima non racconta alcunché, né in questa né nelle altre sue opere che ho letto: probabilmente riteneva la sua infanzia poco rilevante rispetto alle scelte future, e assolutamente normale, per quanto normale possa essere considerata la convivenza con cinque sorelle e due fratelli, in una famiglia governata totalmente dalla figura materna. Ad essere maligni, sarebbe invece già sufficiente a spiegare la smania perenne di lontananza e di solitudine che lo caratterizzerà. Almeno a livello inconscio, perché alla famiglia e a tutte queste donne Hedin sarà in realtà sempre molto affezionato. Solo a queste, però: nella sua vita non ce ne saranno altre, né altri affetti, e neppure vere e proprie amicizie. Non si è mai sposato e non ha avuto figli: con lui si è estinta la sua linea familiare.

Sven o della solitudine 04L’infanzia dunque ce la lascia immaginare, e non dobbiamo nemmeno sforzarci troppo. Piuttosto, è forse opportuno “contestualizzare” Hedin rispetto ai tempi e ai luoghi in cui è cresciuto e si è formato. Il 1865, anno della sua nascita, può essere assunto per i paesi nordici a spartiacque. Si è appena conclusa la seconda guerra tedesco-danese, con una cocente sconfitta del regno di Danimarca e la conseguente perdita dei ducati dello Schleswig-Holstein a favore della Prussia. Questo significa il tramonto dello scandinavismo, un movimento culturale e politico che propugnava l’unione dei paesi scandinavi (Danimarca, Svezia e Norvegia) in una sola nazione, e che aveva infiammato a metà del secolo soprattutto la gioventù studentesca. Produce anche, in particolare negli ambienti più legati all’istituto monarchico, una crescente ammirazione per il nuovo Reich tedesco che si va costruendo proprio in quegli anni sotto la regia di Bismarck. In più, la sconfitta è solo un prodromo alla profonda depressione economica che colpirà i paesi europei nell’ultimo quarto di secolo, e in particolare quelli scandinavi, innescando un forte fenomeno migratorio (testimoniato e raccontato, ad esempio, nei libri di Knut Hamsun).

Si verifica però, nello stesso periodo, anche un deciso mutamento dell’atteggiamento relativo alle attività esplorative. Mantenendo il 1865 come data simbolica, è l’anno in cui muoiono FitzRoy, il comandante del Beagle e compagno di viaggio di Darwin, l’eccentrico Charles Waterton, l’esploratore dell’Africa Heinrich Barth: mentre l’anno precedente sono morti John Hanning Speke e László Magyar. Tutta una generazione di esploratori-avventurieri o di esploratori-scienziati (della quale Alexander von Humboldt era stato l’antesignano) sta scomparendo e lascia il posto a uomini che si muovono con un più o meno esplicito mandato politico. Nell’Asia centrale è in il pieno svolgimento Grande Gioco, mentre la corsa a piantare bandierine in Africa culmina nel Congresso di Berlino del 1885.

In quello stesso 1865 si situa però un altro evento fortemente simbolico, la conquista del Cervino. La vittoria di Wymper segna la fine dell’alpinismo romantico e l’inizio della competizione e della corsa al primato, tra i singoli ma anche, e soprattutto, tra gli stati. Non è neppure privo di significato, sempre a proposito di alpinismo, che proprio in quell’anno nasca uno dei coetanei più famosi di Hedin, quel Guido Lammer che sarà l’interprete più famoso e convinto dell’alpinismo di conquista. Lammer andrà ben oltre i limiti ragionevoli d’un rischio inevitabile, ma contenuto e calcolabile. Il suo delirio di potenza (è un nietzschiano convinto) lo spingerà ad arrampicare sempre solo, spesso senza assicurazione, nelle condizioni più assurde e rischiose: “Il più dolce di tutti i godimenti che la vita può offrire è bagnar le labbra alla coppa della morte! Mettersi coscientemente e volontariamente nel vero pericolo di morte, in cui i piatti della bilancia del vincere e del perdere effettivamente si equilibrano è la cosa più alta e più augusta che possa provare il sentimento dell’uomo” scrive in Fontana di giovinezza. Il fatto è che al di là della folle esasperazione rappresentata da Lammer, sentimenti di questo tipo sono piuttosto diffusi nella sua generazione, Hedin compreso (e lo saranno ancor più in quella successiva, quella del fascismo e del nazismo).

Il nostro respira quindi da subito un’aria particolare, anche se ancora non la si avverte. È nato a Stoccolma in una famiglia agiata, da un piccolo borghese che a forza di volontà e rigore è diventato architetto capo della municipalità e dalla figlia di un ricco mercante (ebreo e con un cognome che è tutto un programma: Westman). Il padre intrattiene ottimi rapporti col sovrano, e questo si rivelerà fondamentale per Sven al momento di ottenere appoggi finanziari e credenziali ufficiali per le sue missioni. La sua è una famiglia molto religiosa, addirittura devota, che segue i principi dei fratelli moravi. Sven porterà sempre con sé nei suoi viaggi il “Dagenslösen”, il libro di preghiere svedese, e non derogherà mai al rituale della lettura serale.

Sven o della solitudine 05Compie gli studi in un liceo prestigioso, conseguendo il diploma di scuola secondaria nel 1885, ma non è un allievo particolarmente brillante: si distingue solo nel disegno e nella cartografia. Mentre ancora frequenta il liceo redige a penna un atlante in sei volumi nel quale sono raccolte le conoscenze orografiche del suo tempo per tutta la terra, e disegna per la Società di Geografia di Stoccolma una carta dell’Asia Centrale che lascia tutti a bocca aperta.

Nel frattempo, soprattutto dopo l’entusiasmante notte di Nordenskiöld, ma senz’altro già da molto prima, matura una fissazione per i viaggi polari. È una passione largamente condivisa dai suoi connazionali e dai suoi coetanei: esauritasi con Livingstone e Stanley la febbre dell’Africa, la corsa ai poli è divenuta l’ultima frontiera delle esplorazioni. Sven ci mette di suo una determinazione eccezionale, e s’impone un’autodisciplina ferrea per prepararsi sia fisicamente che intellettualmente a quel tipo di avventura, temprando il corpo al freddo e ai digiuni (“nelle notti invernali mi rotolavo spesso nella neve e dormivo con le finestre aperte”), aprendo la mente alle lingue e alla geografia, nutrendosi di libri di viaggio e di studi cartografici. Chi lo ha conosciuto quando era ancora all’inizio della sua carriera, ad esempio lord Younghusband (l’uomo che avrebbe aperto Lhasa agli occidentali), lo descrive come fisicamente robustissimo, anche se non molto alto, ma soprattutto imperturbabile, sicuro di sé e incredibilmente deciso.

I requisiti per partecipare alla corsa ai poli se li è creati con una straordinaria volontà: “Ma nelle stelle era scritto diversamente“.

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Verso l’oriente

Alla fine della primavera del 1885, appena uscito dalla scuola secondaria, riceve una di quelle offerte che non si possono rifiutare. Deve accompagnare come precettore privato uno studente che va a raggiungere il padre a Baku, sulle sponde azere del Mar Caspio, dove quest’ultimo lavora come ingegnere nei giacimenti petroliferi della famiglia Nobel. La proposta testimonia dell’ottima reputazione che Sven si è guadagnato a scuola, e lui non vuole smentirla: ma vuole soprattutto mettersi in condizione di approfittarne il più possibile per appagare la sua sete di viaggi. Durante l’estate frequenta dunque un corso di topografia per militari e prende lezioni di disegno (per il quale è già di suo molto portato).

Sven o della solitudine 07I due partono alla volta dell’Azerbaigian a metà agosto. Transitano per Helsinki e San Pietroburgo, e quindi si soffermano a Mosca, dal cui splendore Sven è affascinato. Poi quattro giorni in treno e in diligenza, in mezzo a una natura selvaggia che il giovane non si stanca di cercare di disegnare: foreste immense e praticamente vergini, montagne altissime innevate, valichi incassati tra le rocce, strade che corrono pericolosamente su orrendi strapiombi. Il virus dell’avventura che incubava nel suo animo trova l’ambiente ideale per manifestarsi. Sono a Baku prima della fine del mese, e qui Sven, oltre ad impartire lezioni al suo discepolo, si dedica a studiare in contemporanea una quantità di lingue: è molto portato, conosce il latino, parla quasi correntemente francese, tedesco e inglese, s’impadronisce dei rudimenti delle lingue farsi, russa e tartara. In seguito imparerà diversi dialetti persiani, oltre al turco, al kirghiso, al mongolo, al tibetano e a un po’ di cinese.

Sven o della solitudine 08Sei mesi dopo il suo compito di tutore è esaurito, ma Sven non ha alcuna fretta di fare ritorno a casa. Avverte semplicemente i suoi che posticiperà il rientro, e nell’aprile del 1886 lascia Baku, si imbarca su un vapore che costeggia il Mar Caspio e raggiunge la Persia. Quindi attraversa a cavallo la catena montuosa di Alborz, per toccare successivamente Teheran, Esfahan, Shiraz e arrivare al Golfo persico. Dalla città portuale di Bassora ancora in nave risale il fiume Tigri fino a Baghdad (allora nell’impero ottomano). Torna quindi a Teheran via Kermanshah, e dopo aver trovato un prestito (ha esaurito tutti i suoi fondi) intraprende finalmente la strada di casa, attraversando il Caucaso, veleggiando sul Mar Nero fino a Costantinopoli e facendo ancora tappa a Budapest. È di ritorno in Svezia il 18 settembre 1886.

Ha solo ventun anni, se l’è cavata egregiamente. E ha anche definitivamente realizzato che la corsa ai poli non è l’ultima frontiera. Ci sono ancora un sacco di spazi bianchi da riempire sulle mappe: li ha appena lambiti, e non vede l’ora di penetrarci. I monti caucasici, le steppe, i deserti del centro dell’Asia gli sono entrati nel sangue. Scrive: “Bruciavo dal desiderio di iniziare nuove avventure”. “Quando rientrai in patria, nella primavera del 1991, mi sentivo come il conquistatore di un immenso territorio […] io quindi confidavo di poter dare un nuovo colpo e conquistare tutta l’Asia da ovest ad est […]. Passo a passo mi ero aperta la strada sempre più profondamente attraverso il cuore del più grande continente del mondo. Ora non mi acc0ntentavo più di niente se non di aprire sentieri dove nessun europeo avesse mai posto il piede”.

Sven o della solitudine 09L’anno successivo pubblica un libro sulla sua prima straordinaria esperienza, Attraverso la Persia, la Mesopotamia e il Caucaso. Ricordi di viaggio. Non è un best seller, ma è pubblicato da un editore specializzato nel settore, e incuriosisce tanto gli appassionati quanto gli studiosi, colpiti soprattutto dalla giovanissima età e dalla precoce competenza dell’autore. Hedin ha però potuto rendersi conto durante il viaggio di cosa realmente serve per impegnarsi in una esplorazione. Gli anni successivi li dedica dunque a completare ad altissimo livello la sua preparazione. Studia geologia, mineralogia, zoologia tra il 1886 al 1888 a Stoccolma e a Uppsala, e nel frattempo traduce i Viaggi in Asia centrale di Nicolaï Prjevalski, individuando così la meta per la prossima avventura. In virtù della conoscenza del farsi e del turco viene anche aggregato ad una futura missione presso lo scià di Persia. Nell’attesa della partenza, tra l’ottobre 1889 e il marzo 1890, realizza un altro suo sogno e va a studiare a Berlino con il grande geografo Ferdinand von Richthofen[2].

Richthofen riconosce subito l’eccezionalità dell’allievo, e vorrebbe spingerlo allo studio dei sistemi montuosi dell’Himalaya, della Cina e dell’Asia sud-orientale: ma Hedin ha già fatto le sue scelte. Ha letto le relazioni di viaggio dei fratelli Schlagintweit, si è appassionato e commosso per le loro disavventure. Ora lo attirano soprattutto i deserti, aridi o ghiacciati, la solitudine, i silenzi, e sotto sotto (ma neanche tanto) i disagi da affrontare e i rischi da correre. “Non ero all’altezza di questa sfida. Ero uscito troppo presto per le rotte selvagge dell’Asia, avevo percepito troppo lo splendore e la magnificenza dell’Oriente, il silenzio dei deserti e la solitudine dei lunghi viaggi. Non riuscivo ad abituarmi all’idea di tornare a scuola per un lungo periodo di tempo”. Infatti procrastina ancora il compimento degli studi cui von Richthofen lo esorta. Non gli interessa diventare uno scienziato: è e vuole essere riconosciuto come un esploratore.

Durante il soggiorno in Germania matura inoltre una sconfinata ammirazione per quel popolo, per la sua cultura e per il suo sistema politico. La sua figura di riferimento politico diventa Federico II.

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Il viaggio in Persia

Sven o della solitudine 11La delegazione svedese che deve consegnare allo scià di Persia un’onorificenza (un pretesto, naturalmente, per instaurare rapporti politici ed economici) e in seno alla quale Sven svolge il ruolo di interprete parte nel maggio 1890, e via Berlino e Vienna raggiunge Costantinopoli, dove è ricevuta anche dal sultano. Una volta a Teheran, ed esauriti i suoi compiti ufficiali, il giovane ottiene di poter lasciare la delegazione per riprendere a viaggiare nell’Asia centrale. Ma prima accompagna lo Scià in un’escursione alla catena montuosa dell’Elburz, nel corso della quale assieme a due guide scala il Monte Damavand (5.600 metri). Incontra anche le prime disavventure, perché quasi ci lascia la pelle cavalcando attraverso le montagne innevate dell’Elbruz durante una feroce tempesta di neve.

Il rapporto diretto con lo Scià gli garantisce comunque la più assoluta libertà di movimento. A settembre, dopo essere tornato a Teheran, parte per il Turkestan russo, attraversando la catena montuosa che separa quest’ultimo dalla Persia. Viaggia sulla Via della Seta attraverso le città di Mashhad, Ashgabat, Bukhara, Samarcanda, Tashkent e Kashgar, fino alla periferia occidentale del deserto del Takla Makan. A Taskent ottiene nuovi lasciapassare, lettere di raccomandazione e carte del territorio, con le quali, a dispetto degli avvertimenti delle autorità russe, muove verso il confine cinese. Attraversa l’Alto Pamir nei primi giorni dell’inverno, avendo davanti a sé i panorami mozzafiato del Tibet, e arriva a Kashgar a metà dicembre. Ha raggiunto quella che un tempo era stata una tappa fondamentale lungo la via della seta, ma la cui vivacità è ormai solo un ricordo. Per oltre 200 giorni l’anno Kashgar è avvolta da una gigantesca nube di sabbia sollevata dai venti del deserto: e viene considerata abitata dai “demoni del cielo”, che hanno trovato qui la dimora ideale per nascondersi agli occhi degli umani. Dopo un po’ Hedin comincerà a pensare che un fondo di realtà debba esserci in queste leggende.

Sven o della solitudine 12Nei dintorni comunque ha modo di incontrare gli Uiguri, di etnia turca, imparentati con altre popolazioni che abitano oltre il confine russo: ed è impressionato dalla praticità dei loro sistemi d’irrigazione, che consentono l’agricoltura in un terreno tutt’altro che adatto. A questo punto però, non avendo ottenuto il permesso di proseguire fino a Pechino, è costretto a tornare indietro per una via più settentrionale, che attraversa la catena di Thian Shan, e a fine dicembre riguadagna il territorio russo. È nuovamente nel Turkestan, dove visita la tomba dello studioso russo-asiatico Nikolai Przhevalsky a Karakol, sulla riva del lago Issyk Kul. Alla fine di marzo del 1891 è di ritorno in Svezia

Sven o della solitudine 13Si è trattato solo di un viaggio preparatorio, per mettere a punto le necessità e calcolare i rischi di una spedizione vera e propria. Gli è servito anche per individuare l’area sulla quale focalizzare il suo interesse: la più impervia e sconosciuta, naturalmente. Si tratta del vasto e accidentatissimo territorio al quale afferiscono, con confini definiti in maniera molto incerta, sei differenti stati: Cina, Mongolia, Russia, Persia, Tibet e India. Al centro di questa area, nel Turkestan cinese, c’è il Takla Makan, un deserto di sabbia che gode di una fama sinistra, attorno al quale, e anticamente anche all’interno, transitava la Via della Seta individuata da Von Richthofen.

Sven o della solitudine 14Per intanto ha già raccolto materiale sufficiente per dare alle stampe una Ambasciata del re Oscar allo shah di Persia e soprattutto Attraverso il Khorasan e il Turkestan, pubblicati pochi mesi dopo il suo ritorno, che consolidano la sua fama di esperto della geografia e dell’antropologia dell’Asia Centrale. Nel frattempo si è iscritto all’università di Berlino, dove ottiene in brevissimo tempo (nel 1892) una laurea dissertando sulla sua ascesa al monte Damavand.

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La prima spedizione

Sven o della solitudine 16Ormai è famoso, tanto in Svezia quanto in Germania. Si crea dunque una cordata, lanciata dal sovrano svedese Oscar II e finanziata da banchieri e imprenditori, per raccogliere la somma necessaria ad allestire una spedizione in grande stile. Partecipano anche i russi, conquistati da una conferenza che il giovane ha tenuto a Pietroburgo, davanti ai soci della società imperiale di Geografia. Esauriti i preparativi, la partenza viene però ritardata da un problema agli occhi che tiene fermo Sven per parecchi mesi. Poi, nell’ottobre del 1893, l’esploratore raggiunge Orenburg in treno e successivamente, a cavallo o su un carrettino (un tarantass), guadagna Taskent (“In diciannove giorni avevo attraversato 11 gradi di latitudine, impiegato 111 guidatori, adoperato 317 cavalli e 21 cammelli)” A marzo parte l’esplorazione vera e propria. Mi ci soffermo più a lungo perché è probabilmente l’avventura che, una volta conosciuta, sancirà la fama di Hedin come ultimo grande esploratore romantico, colui che avanza solitario verso un ignoto irto di pericoli.

Nel febbraio 1894 Hedin attraversa il Pamir, in pieno inverno e con temperature che scendono sino a -38°C. Passa a fianco del Mustagh-Ata, una montagna di 7.650 metri, e ne valuta possibile l’ascensione, tanto che ci prova. Raggiunge un’altitudine superiore ai 6000 metri, accompagnato da una guida kirghisa: “Mi sentivo come se stessi sul margine degli spazi incommensurabili dove i mondi ruotano per l’eternità. Solo un passo mi separava dalle stelle. Potevo toccare la luna con la mano”. Deve però fermarsi per una recrudescenza dell’oftalmia, e rimpiangerà quella vetta per tutta la vita.

Per curare gli occhi sosta per un breve periodo a Kashgar, e nel frattempo mette a punto i dettagli della spedizione. Ha deciso di tentare la traversata e l’esplorazione del Takla Makan. Sa cosa rischia: “Nel Takla Makan si riesce ad entrare, ma non si riesce ad uscire”. Nessun occidentale di cui si abbia fama ci ha mai provato, o è mai tornato per raccontarla. Hedin intende tagliarlo da nord a sud, dando inizio a un rilevamento cartografico che con una lunga avanzata dovrebbe condurre sino al Tibet. Si sposta quindi nel febbraio a Merket, poco lontana dalle prime propaggini del deserto. “La parte del grande deserto di sabbia che stavo per attraversare era triangolare ed era cinta a ovest dal Yarkand-daria, ad est dal Kotan-daria e a sud dai monti Kunlun. La distanza da Merket al Kotan-daria era di 175 miglia: ma per noi si presentava molto più lunga per via delle innumerevoli curve che il nostro itinerario doveva fare tra le dune. Speravo di attraversare il deserto in meno di un mese e di proce dere verso le fresche alture del Tibet settentrionale durante i caldi mesi estivi.”

Sven o della solitudine 17L’idea è quella di redigere una carta su grande scala del territorio che sarà percorso, riportante i livelli altimetrici e il reticolo idrografico, completata poi dalla classificazione delle rocce e della flora, dalle caratteristiche climatiche, da una descrizione antropologica delle popolazioni (caratteri fisici, lingue, costumi, …), dalla rappresentazione delle rovine delle antiche città e dei paesaggi. Un progetto decisamente ambizioso.

Ad aprile finalmente la spedizione si muove. Con Hedin ci sono quattro compagni e otto cammelli, questi ultimi carichi di acqua, cibo, armi, strumentazioni scientifiche e materiale per le fotografie. Le cose però si mettono male quasi subito: non ha controllato personalmente l’approvvigionamento d’acqua, che si rivela del tutto insufficiente; è necessario dunque procedere ad un drastico razionamento, e uomini e animali dopo due settimane sono già allo stremo. Deve prendere una decisione: “Non si vedeva altro che sottile sabbia gialla. Fin dove riuscivamo a spingere lo sguardo scorgevamo solo dune alte, spoglie di vegetazione. È strano che sia rimasto atterrito da tale spettacolo e abbia continuato il viaggio”. In realtà non è così strano: esce nettamente allo scoperto in questa occasione quella che sarà sempre la principale caratteristica di Hedin: la determinazione quasi disumana a raggiungere l’obiettivo ad ogni costo, mettendo magari a repentaglio la propria vita, e con scarso riguardo per quella degli altri. Non esita un attimo. “Non avrei cambiato un solo passo del mio percorso. Fui travolto dall’irresistibile desiderium incogniti che abbatte qualunque ostacolo e non conosce l’impossibile.” È il tratto che lo accomuna al suo coetaneo Lammer.

Hedin insiste dunque a proseguire, convinto di poter arrivare in un mese al fiume Khotan, che dovrebbe scorrere in mezzo al deserto. Ma intanto la sete comincia a mietere vittime: prima un cammello, poi altri due, poi due degli uomini. Bevono il sangue degli animali che si erano portati appresso, pecore e galline, e l’urina dei cammelli. Hedin cerca di dissetarsi persino con il liquido per i fornelli (e si sente male). Ci si mette anche una tormenta di sabbia. Il 3 maggio sono ormai rimasti in due, e scoprono di aver marciato per un intero giorno in tondo. In quello seguente arrivano al fiume e lo trovano in secca: a questo punto Kasim, l’ultimo compagno rimasto, non è più in grado di proseguire. Hedin scrive: “Accesi la mia ultima sigaretta. Kasim aveva sempre avuto i mozziconi, ma ormai fumai questa fino in fondo. Mi domandavo se ero ancora sulla Terra, o se questa fosse la valle delle Ombre”. E tuttavia procede ancora, di notte, a quattro zampe, sino a quando nel letto del fiume trova una pozza. È guidato, scrive lui, dal canto di un uccello: “Mi fermai di colpo. Un uccello acquatico, anitra o oca selvatica, prese il volo con ali frullanti, e udii il tonfo. Un istante dopo mi trovavo sul bordo di uno stagno, lungo un ventiquattro metri e largo cinque. L’acqua sembrava nera come l’inchiostro sotto la luce lunare […]. Era fredda, limpida come il cristallo e dolce come la migliore acqua di fonte. Quindi bevvi e bevvi ancora. Bevvi senza frenarmi […] e sedetti acca rezzando l’acqua di quello stagno benedetto”.

Sven o della solitudine 18Sembra un vecchio film di John Ford, e sono convinto che molte storie cinematografiche di traversate del deserto siano state ispirate da queste pagine. Ma il meglio arriva dopo: Hedin riempie d’acqua i suoi due stivali e torna dal compagno. Questi si riprende, ma non è ancora in grado di seguirlo. Hedin torna allora allo stagno, si riposa per un giorno e prosegue poi a risalire lungo il letto del fiume. Si imbatte infine in un gruppo di pastori, che lo rifocilla, e successivamente in una carovana di mercanti che ha raccolto lungo la strada Kasim e un altro membro della spedizione miracolosamente sopravvissuto. Una volta ripresisi i tre si trascinano nuovamente fino a Kashgar. Il bilancio è catastrofico: Hedin ha perso due uomini e molti animali, nonché la gran parte dell’attrezzatura scientifica. La sua prima battaglia col deserto è perduta. O almeno, è rimandata.

A Kashgar infatti Sven rimpiazza le perdite e si prepara a ripartire. Ha un obiettivo duplice: prendersi la rivincita sul deserto e puntare poi a nord per esplorare la parte settentrionale del Tibet ed entrare in Cina, alla ricerca del Lop-Nor, il misterioso “lago errante”. Parte a metà dicembre 1895, e in tre settimane, costeggiando il Takla Makan, arriva a Khotan. Di qui seguendo le indicazioni dei locali compie numerose escursioni nel deserto, in pieno inverno e con temperature proibitive. Scopre, dapprima nei ruderi delle stazioni di sosta buddiste dislocate lungo la via della seta e poi in vere e proprie città perdute nel deserto, sommerse da secoli dalla sabbia, un autentico tesoro di antichi manoscritti, di oggetti devozionali, di affreschi a tema religioso. La stagione gli impedisce di approfondire le ricerche, ma registra le coordinate di tutti i diversi siti e li rende rintracciabili da parte di coloro che verranno dopo di lui. “Lasciai volentieri le ricerche scientifiche agli specialisti. Entro pochi anni anche loro avrebbero affondato i badili nelle sabbie cedevoli. Per me era più che sufficiente aver fatto la scoperta e avere aperto un nuovo campo all’archeologia nel cuore del deserto.

Quando riparte viaggia per un tratto con una carovana di nomadi, giusto il tempo per apprendere gli elementi essenziali della lingua mongola. Intanto segue il corso del fiume Keriya, fino a quando questo si perde nelle sabbie del deserto, e mappa puntigliosamente tutto il territorio attraversato, raccogliendo in diciotto mesi un’infinità di dati. Una volta arrivato a Xining, capitale del Quingai, dopo aver aggirato ed essersi lasciato alle spalle il Takla Makan, scioglie la spedizione e prosegue da solo fino a Pechino. Stavolta ha le credenziali in regola, ha soprattutto l’appoggio dell’ambasciata russa, e nel febbraio 1897 viene accolto senza problemi (ma anche senza entusiasmi).

A Stoccolma, dove arriva tre mesi dopo, al termine di un viaggio estenuante nel corso del quale ha attraversato la Cina, parte della Mongolia e la Russia, l’accoglienza è calda (è anche insignito di una medaglia d’oro da parte del sovrano), ma senz’altro meno entusiastica rispetto a quanto aveva sognato quindici anni prima, mentre assisteva al rientro di Nordenskiöld. I deserti asiatici sono molto più lontani dall’immaginario popolare scandinavo delle distese di ghiaccio polari.

In quasi quattro anni ha percorso 26.000 chilometri e ne ha mappati 10.498 su 552 fogli. Di questi circa 3.600 chilometri hanno attraversato aree precedentemente inesplorate. Redige immediatamente una corposissima relazione del viaggio (Risultati geografici e scientifici dei miei viaggi in Asia centrale. 1894-1897), che con le appendici scientifiche supera le millecinquecento pagine: ma il vero successo arride alla versione ridotta per il grande pubblico, corredata da numerosissimi disegni suoi, che col titolo Il giro del mondo spopola sia in Svezia che in Germania e in Russia, e immediatamente dopo in Inghilterra. Quasi snobbato in patria, viene invece invitato a tenere conferenze e a ricevere riconoscimenti sull’isola. Il “Geographical Journal” lo definisce il più grande esploratore dell’Asia dopo Marco Polo.

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Seconda spedizione

I riconoscimenti ottenuti all’estero si concretizzano in un appoggio sempre più convinto del sovrano svedese Oscar II, ma anche dello zar Nicola II, nonché della famiglia Nobel. Hedin può quindi organizzare immediatamente una seconda spedizione al Tibet. Questa volta l’obiettivo ufficiale è l’esplorazione del bacino del Tarim e della regione del Lop-Nor, aree geografiche che sulle carte rimangono ancora bianche: quello segreto è di arrivare a Lhasa, fedele all’imperativo “Vai là dove nessun bianco è mai stato prima”. E per partire non attende nemmeno la pubblicazione del suo ultimo libro (che esce nel 1900).

Sven o della solitudine 20L’esploratore è infatti già nuovamente in Asia nell’estate del 1899. Il 5 settembre parte dalla solita Kashgar alla testa di una carovana di 15 cammelli e 10 cavalli e raggiunge Lailik, sullo Jarcand-daria. Qui acquista e fa preparare una chiatta, con la quale intende discendere tutto il fiume fino alla sua confluenza col Tarim: “Negli anni precedenti avevo già percorso in tutti i sensi il Turkestan orientale: unica strada che m’era ancora sconosciuta, rimaneva il fiume”. L’imbarcazione è attrezzata con tutti i comfort consentiti dalla situazione: c’è persino un piccolo laboratorio per lo sviluppo delle fotografie. Su una seconda chiatta, più piccola, stipa le provviste (riso, uva, cocomeri legumi, ma anche animali vivi, montoni e galline). C’è infine un piccolo “battello pieghevole” inglese, in tela, da usare per le escursioni negli affluenti. Il 17 settembre il resto della carovana, guidata da due cosacchi, si dirige via terra al punto d’incontro stabilito sul corso del Tarim inferiore: Hedin, assieme ad uno dei compagni sopravvissuti all’avventura precedente, Islam Bai, e con cinque battellieri reclutati sul posto, inizia la sua navigazione. “Incominciò un viaggio idillico. Era una vera gioia vivere nel fiume studiandone la vita palpitante … per uno avvezzo ad avanzare sempre a cavallo o a misurare lo spazio arrampicato sul dorso di un cammello dondolantesi, è una voluttà infinita lasciarsi trasportare dalla corrente e rimanere seduto tranquillamente presso la scrivania […]”. Va da sé che la cosa non può durare. Intanto la chiatta tende ad arenarsi sui banchi di sabbia disseminati lungo il fiume: e quindi il viaggio si rivela molto più lento del previsto. Poi, quando la sua portata è arricchita da nuovi immissari, la corrente prende velocità e le imbarcazioni si salvano solo per la prontezza d’animo di uno dei battellieri. Infine, dopo due mesi, arrivano le avvisaglie dell’inverno, una sottile crosta di ghiaccio che il mattino copre le acque, e che a dicembre si trasforma in lastroni. “Alla fine la vittoria rimase al ghiaccio: la zona ghiacciata che cingeva i fianchi delle chiatte si serrò, il canale libero nel filone del fiume si restrinse, ed il 7 dicembre la crosta gelata formava un ponte che univa le due rive: eravamo imprigionati e dovemmo prendere i quartieri d’inverno.” Facendo capo a questi, Hedin intraprende la ricognizione delle zone interne sulle due sponde, malgrado temperature polari e con un equipaggiamento minimo: “Non portai con me tenda alcuna: per tutto l’inverno dormii all’aria aperta, sebbene il freddo scendesse talvolta a -33°”. È un esercizio di acclimatazione, perché ha deciso di sfidare una seconda volta il Takla Makan. E così a metà dicembre con sette cammelli, due cani, un cavallo e quattro uomini, s’inoltra nuovamente nel mare di sabbia. Nemmeno questa volta è una passeggiata. Rischiano paradossalmente ancora la sete, ma quando sono allo stremo raggiungono piccolissime oasi, o sono soccorsi dalla caduta della neve; si perdono entro tempeste di sabbia; arrivano quasi ad esaurire la provvista di legna. “Noi stavamo accosciati attorno al fuoco, raggomitolati nelle pellicce, stretti l’uno accanto all’altro […]. Al mattino io mi svegliavo completamente sepolto sotto la neve, al punto che Islam doveva spazzarla con una pala per liberarmi dalla nicchia, che lo strato di neve manteneva calda. È un’esperienza più curiosa, a dire il vero, che piacevole, quella di dormire a cielo aperto con -33° di freddo. Allorché ci trovavamo riuniti attorno al fuoco, spesso si avevano 30° di caldo dal lato della fiammata e -30 di freddo alle spalle.”

Sven o della solitudine 21Questa volta comunque il deserto lo attraversano in lungo e in largo, e dopo quattro mesi si ricongiungono finalmente col resto del gruppo. Nel corso di un’ultima puntata esplorativa s’imbattono ancora una volta nelle rovine di antichi insediamenti, dove raccolgono tavole di legno scolpite, monete cinesi, tazze per le cerimonie, ecc… Quando sono ormai sulla via del ritorno alla base uno degli uomini scopre quasi casualmente un’antica città abbandonata, parzialmente dissepolta dall’ennesima violenta tempesta di sabbia. “Volevo assolutamente tornare indietro! Ma che follia sarebbe stata. Avevamo acqua solo per due giorni.” Per una volta il buonsenso ha la meglio. Si ripromette però di tornare l’inverno successivo, e questo cambia i piani della spedizione.

Per tutto l’inverno il gruppo vagabonda nell’immenso territorio compreso tra il Tibet settentrionale e il Takla Makan. Ad un certo punto, mentre si trovano nel deserto di Gobi sembra ripetersi la situazione di cinque anni prima. E ancora una volta la scampano imbattendosi in un fiumiciattolo. Contro il parere dei suoi compagni Hedin decide allora di puntare direttamente a sud, verso quello che un tempo doveva essere il bacino del fantomatico Lop Nor: e finalmente riesce a risolvere il mistero che circondava il lago fantasma. Questo si è spostato nel corso delle epoche storiche diverse volte, riguadagnando ripetutamente le differenti localizzazioni, per una serie combinata di fenomeni erosivi, legati al forte vento che spazza costantemente il deserto e periodicamente lo sconvolge con tempeste di sabbia, e di sommovimenti sismici. È quanto accadrà per l’ennesima volta anni dopo, nel 1921, a seguito di una piena, quando la rottura della sponda sinistra del Konce-daria dirotterà le sue acque nel letto disseccato del Kuruk-daria, il “fiume asciutto” nel mezzo del de serto, confermando appieno l’ipotesi avanzata da Hedin.

Sven o della solitudine 23Ma al di là della soluzione del problema idrografico, a Hedin interessa anche riportare alla luce quelle che erano state importanti città di sosta sulla via della seta e che erano state via via abbandonate, perché i traffici si spostavano seguendo il lago. Tornato nel luogo segnalato da uno dei suoi uomini l’anno precedente, proprio viaggiando nell’alveo del Kuruk-daria, il 18 marzo del 1900 scopre le rovine di una fortificazione (con mura di 340 x 310 metri di lunghezza), che altro non è che l’antica città reale di Loulan. Il sito era stato sede fino al 300 d.C di una guarnigione cinese, poi la popolazione l’aveva abbandonato per il repentino prosciugamento del lago sul quale si affacciava. Hedin identifica l’edificio in mattoni del comandante dell’esercito imperiale cinese, uno stupa e diciannove abitazioni costruite in legno di pioppo, ma soprattutto disseppellisce centinaia di documenti scritti su legno, carta e seta in caratteri Kharosthi. Da questi si trarranno, una volta decifrati, le informazioni sulla storia della città. “I frammenti di queste testimonianze avrebbero narrato dell’epoca in cui il Lop Nor esisteva, degli uomini che qui vivevano, delle loro condizioni, dei loro rapporti con altre parti dell’Asia interna, del nome della loro terra. Questa terra che, per così dire, venne inghiottita dai fenomeni sismici, questi uomini da tempo dimenticati, la loro storia non riportata da annali di sorta, tutto questo sarebbe tornato alla luce […]”.

Sven o della solitudine 24Una volta lasciati gli scavi, la nuova meta è il Tibet. La regione è proibita agli stranieri, e in particolare nessuno di loro può entrare in Lhasa. Questo naturalmente ha sempre stuzzicato la curiosità e la fantasia degli occidentali, che soprattutto nell’ultimo mezzo secolo hanno tentato con vari stratagemmi di eludere il divieto, e molti hanno pagato con la vita. Hedin ha concepito il piano di entrare in territorio tibetano dal Kashmir con tutta la sua carovana, che stavolta conta trenta uomini e centocinquanta animali da carico, così da far concentrare su questa l’attenzione delle guardie confinarie tibetane, e di staccarsene poi travestito da pellegrino mongolo, per filarsela a cavallo fino a Lhasa. Deve però anche superare il veto imposto all’ultimo momento dall’autorità britannica, e ci riesce solo sfruttando la reciproca ammirazione che lo lega a Younghusband, che dovrebbe fermarlo e simula invece un ritardo nella ricezione dell’ordine. I due si sono immediatamente riconosciuti e intesi: “Al momento di ripartire – scrive Younghusband – Sven Hedin mi mise una mano sulla spalla e se gli avessi dato anche il minimo incoraggiamento mi avrebbe abbracciato.

La spedizione parte a maggio del 1901. Risale le pendici settentrionali dell’Altin Tagh e si accampa a 4000 metri, presso il lago di Kum-koll. Di lì poi procede sino alla fine di luglio, dirigendosi indisturbata ma con estrema fatica verso Lhasa, risalendo e ridiscendendo innumerevoli passi montani. A questo punto Hedin, che vorrebbe passare per un pellegrino buriato, si rade completamente, si scurisce la pelle e continua con due soli compagni e un Lama incontrato ad Urga, che ha acconsentito ad accompagnare la carovana e dal quale Hedin apprende i rudimenti della lingua mongola.

Sven o della solitudine 25Dopo una settimana, quando sono ormai a cinque giorni di cammino da Lhasa, incrociano una carovana di nomadi che guida centinaia di yak, e Hedin viene smascherato: infatti il giorno seguente (l’8 agosto) gli si para davanti una pattuglia di soldati che intima loro di tornare indietro. Prende atto che “quando al tramonto il cielo comincia ad oscurarsi ad oriente mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude” e rinuncia allo scopo della missione.

Sven o della solitudine 26Deve prima ricongiungersi al resto della carovana, e poi con essa riattraversare le montagne tibetane. La ritirata è tutt’altro che facile, perché i soldati tibetani gli rimangono sempre alle costole. Hedin decide di puntare ad ovest, verso il Ladakh, ma il viaggio si fa sempre più pesante col sopraggiungere della stagione autunnale prima e di quella invernale poi. Muoiono tre uomini e la maggior parte degli animali, altri componenti la spedizione perdono l’uso delle gambe per congelamento. Il calvario dura quasi cinque mesi, e quando alla fine raggiungono la città di Leh, nell’India britannica, anche Hedin è prostrato.

Ma non è ancora appagato. Da Leh il percorso di Hedin diventa quasi una gita turistica. Visita infatti Lahore, Delhi, Agra, Lucknow, Benares e Calcutta, dove incontra lord Curzon, viceré d’Inghilterra in India. Ha in animo soprattutto di riallacciare le relazioni con le autorità inglesi, che lo hanno in sospetto per i suoi rapporti con i russi. Comincia già a programmare la nuova spedizione.

Chiusa questa pausa diplomatica, riconduce la carovana attraverso gli alti passi del Karakorum, fino a Kashgar. Rientra in Svezia nel giugno del 1902, dopo tre anni di viaggio, riportando oltre 1.149 pagine di mappe, su cui ha raffigurato terre scoperte di recente. La pubblicazione scientifica sulla seconda spedizione, Scientific Results of a Journey in Central Asia, occupa sei testi e due volumi di atlante. Ma a renderlo ancora più celebre è Trans-Himalaya: scoperte e avventure in Tibet, quella che lui stesso definisce la sua “opera popolare” sul viaggio, pubblicata in svedese in tre volumi e tradotta quasi immediatamente in una decina di lingue. È premiato con l’attribuzione di un titolo nobiliare (anche se rifiuterà sempre di anteporre al nome Hedin il predicato di nobiltà “von”) e con la cooptazione nel comitato per l’assegnazione dei premi Nobel.

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Terza spedizione

Sven o della solitudine 28L’attività di Hedin è rallentata nei due anni seguenti da alcuni avvenimenti che turbano sia la vita della Scandinavia (la separazione dei regni di Svezia e di Norvegia) che quella dell’Asia (l’invasione inglese del Tibet). Hedin stesso entra nella competizione politica, dapprima in quella nazionale, schierandosi decisamente al fianco del nuovo sovrano Gustavo V e appoggiandone la volontà di rimilitarizzare la Svezia (contro la scelta di neutralità che data dalla fine delle guerre napoleoniche), e successivamente in quella internazionale, caldeggiando l’avvicinamento della Svezia alla Germania E tuttavia non riesce a rimanere a lungo lontano dai “suoi” deserti.

Le spedizioni successive, tuttavia, pur continuando a produrre risultati eccezionali sul piano della conoscenza geografica (e anche di quella storica e archeologica) hanno ormai assunto un carattere diverso. La situazione si è complicata sia in Russia, dopo il tentativo rivoluzionario del 1905, sia in Cina, dove la rivolta dei Boxer e il successivo intervento occidentale hanno fatto perdere ogni residua credibilità e autorità dell’apparato imperiale. Lo stesso vale per l’impero ottomano. Inoltre, la temporanea uscita di scena della Russia viene compensata dall’ingresso nel Grande Gioco della Germania, che con il finanziamento e la costruzione (iniziata nel 1903) della ferrovia di Baghdad mira ad un grande progetto geopolitico ed economico di influenza sul Medio oriente.

Sven o della solitudine 29Tutto questo fa si che Hedin non possa più muoversi, come in precedenza, seguendo l’estro e le intuizioni del momento. Le simpatie ripetutamente manifestate per la Germania ne fanno un attore sospetto, non più coperto dallo status di cittadino di una nazione neutrale e totalmente estranea al Grande Gioco. Ora deve procedere su progetti laboriosamente concordati con i vari poteri locali (che spesso sono più di uno sugli stessi luoghi), badando a garantire la pura “scientificità” delle proprie ricerche. Vengono fuori in questo frangente le sue doti “diplomatiche”, l’importanza dei rapporti che ha stretto tramite l’attività di conferenziere e di divulgatore (ad esempio, quello col governatore dell’India, Lord Curzoon).

Si dedica quindi, tra l’ottobre 1905 e il 1908, in una prima fase ad esplorazioni specifiche, che riguardano i bacini desertici dell’altipiano iranico e tutta l’area dell’Iran centrale, nonché alla mappatura di vaste zone del Turkestan cinese (lo Xinijang). Usando ancora una volta un espediente torna poi sull’altipiano centrale del Tibet (l’apertura alla penetrazione occidentale imposta dalla spedizione militare inglese di Francis Younghusband rimane molto discrezionale) e una volta penetrato all’interno si affretta a visitare il Panchen Lama (il Dalai Lama è in esilio in Mongolia), suscitando la diffidenza delle autorità anglo-indiane, che vogliono mantenere il monopolio dei canali diplomatici con il Paese himalayano. Per l’ennesima volta non gli è concesso di entrare nell’ex-città proibita di Lhasa, ma il fatto di essere stato preceduto da altri occidentali gli ha fatto perdere ogni interesse per la cosa.

Sven o della solitudine 30È invece il primo europeo in assoluto a raggiungere la regione del Kailash, compresi il sacro lago Manasarovar e il monte Kailash. Secondo la mitologia buddista il Kailash è l’ombelico della terra, il centro dell’Universo, mentre per quella induista è la sacra dimora di Shiva. In questa area Hedin individua anche le sorgenti dei maggiori fiumi sacri del subcontinente indiano, l’Indo e il Brahamaputra, nonché le origini di uno dei più importanti affluenti del Gange. Col che chiude una diatriba annosa e aggiunge una perla alla sua collana di successi: “Stavo lì a meditare se Alessandro il Macedone… avesse la benché minima idea di dove si trovasse questa sorgente e mi inebriavo nella consapevolezza del fatto che, ad eccezione degli stessi tibetani, nessun essere umano tranne me era mai penetrato in questo luogo”. Infine, riconosce per primo, sia pure esplorandone solo tratti marginali, la catena del Transhimalaja, della quale il Kailash fa parte e che si stende da ovest ad est, parallela alla formazione principale, nella parte più meridionale del Tibet. Ancora oggi questa catena montuosa lunga 1600 chilometri viene talvolta indicata in suo onore come “monti di Hedin”.

Sven o della solitudine 31A questo punto le sue ricerche si muovono già su una linea che prefigura il futuro Ahnenerbe (Associazione per la ricerca e la diffusione dell’eredità ancestrale tedesca), di Himmler, che finanzierà anche una missione tedesca in Tibet della quale Hedin sarà inconsapevole ispiratore. Mentre in precedenza si trattava di riportare alla luce civiltà e presenze culturali dimenticate da secoli, ora l’intento è di configurare una linea di continuità proto-indoeuropea, che allaccia le culture germaniche e nordiche ai popoli parlanti lingue di derivazione dal sanscrito. Proprio gli studi linguistici, arbitrariamente letti e interpretati in chiave antropologica, inducono ad identificare una razza ariana, a partire da De Gobineau passando per Huston Chamberlain e per Vacher de Lapouge. Queste teorie, che si basano sullo stravolgimento dei dati biologici e linguistici, trovano poi una cassa di risonanza nelle elucubrazioni teosofiche di Helena Blavaskji, che conoscono una notevole diffusione alla fine dell’800. Alle une e alle altre si rifaranno, in maniera confusa e rozza, Hitler nel suo Mein Kampf, e più ancora Himmler. Nel frattempo, le imprese di Hedin e i libri che le narrano contribuiscono senz’altro a creare un modello eroico di maestro della sopravvivenza che starà alla base delle formazioni giovanili fiorenti a partire dall’inizio del secolo, i Wandervogel in Germania, ad esempio, e soprattutto i Boy Scouts nel mondo anglosassone.

La missione si coSven o della solitudine 32nclude ancora una volta in India, dopo aver attraversato otto volte la catena himalajana per valichi diversi (il più alto, il Ding-La, a 5.885 metri) e percorso oltre 26.000 chilometri: una distanza, sottolinea Hedin, superiore a quella che intercorre tra i due poli (e da questa considerazione trarrà il titolo (From pole to pole) il diario divulgativo che la racconta. Dall’India Hedin torna attraverso il Giappone e la Russia. Al suo rientro a Stoccolma, nel 1909, è accolto stavolta trionfalmente da cinquemila persone, come il suo eroe Nordenskiöld trent’anni prima.

La pubblicazione scientifica della terza spedizione, Tibet meridionale: scoperte in tempi passati rispetto alle mie ricerche nel 1906-1908, conta dodici volumi, tre dei quali sono atlanti.

Nei due decenni successivi l’attività di esplorazione cessa completamente. Non che questo implichi per Hedin lo stare fermo. È impegnato in un vorticoso giro di conferenze, è membro di società scientifiche in tutta Europa e non solo, svolge anche l’attività di corrispondente di guerra, ma la sua popolarità comincia a declinare rapidamente, soprattutto dopo che nel primo conflitto mondiale si è schierato apertamente, anche con pubblicazioni scritte, dalla parte degli imperi centrali.

Sven o della solitudine 33La prima a risentirne è la sua reputazione scientifica, e in molti casi le onorificenze, i riconoscimenti e gli appoggi economici che gli erano stati tributati in Inghilterra, vengono ritirati. Le sue attività esplorative in un’area di forte interesse strategico per l’impero britannico appaiono ora più che mai sospette, e gli stessi dati delle sue rilevazioni geografiche vengono contestati dai geografi dell’Indian Service, cui fanno ombra la sua spregiudicata attività autopromozionale e il suo successo di pubblico. In un’occasione ciò avviene molto platealmente durante una conferenza presso la Royal Geographical Society, e ciò è con ogni probabilità all’origine del suo odio per tutto ciò che è britannico. È significativo che a conferirgli dottorati honoris causa siano stati inizialmente gli atenei inglesi – sia Oxford che Cambridge nel 1909 –, e da un certo punto in avanti siano solo quelli tedeschi: Breslau (1915,), Rostock (1919), Heidelberg (1928), Uppsala (1935) Monaco (1943) e Handelshochschule Berlin (1931).

Nel 1923 quindi intraprende un giro di conferenze per raccogliere fondi un po’ in tutto il mondo. Si reca nel Nord America e poi in Giappone, e di lì torna a Pechino per organizzare una spedizione nel Turkestan cinese (il moderno Xinjiang). Ma il successo dell’iniziativa promozionale è scarso, tanto più che nella regione da esplorare imperversa la guerra civile. Abbandona quindi il progetto e attraversa invece su un’automobile Dodge, in compagnia di un nobile eccentrico, tutta la Mongolia, viaggiando da Pechino sino alla Russia. Raggiunge poi Mosca con la ferrovia transiberiana.

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Quarta spedizione

Sven o della solitudine 35L’occasione per il rientro arriva nel 1927. Hedin ha ormai più di sessant’anni, la salute non è quella di una volta, ma gli viene offerto un ruolo prestigioso. Dovrà coordinare tutte le operazioni e le attività di una grande spedizione internazionale (partecipano trentasette scienziati di sei paesi diversi) nel cuore dell’Asia, finanziata dai governi di Svezia e Germania e appoggiata da quello nazionalista cinese, che svolgerà indagini scientifiche nei campi più disparati. Il suo è un compito prevalentemente logistico, ben lontano da quello del libero esploratore indipendente: ma Hedin lo assolve magistralmente. Tra il 1927 e il 1933 la spedizione indaga sulla situazione geologica, meteorologica, topografica, botanica, archeologica e etnografica in Mongolia, nel deserto del Gobi e nello Xinjiang (il Turkestan cinese).

Le condizioni in cui lavora sono tutt’altro che tranquille. Il pericolo maggiore è rappresentato non più dai deserti o dalle montagne ghiacciate, ma dalla guerra civile che divampa in Cina, tanto che Hedin scrive: “Mi sento di essere un pastore che deve proteggere il suo gregge dai lupi, dai banditi e soprattutto dai governatori”. L’area in cui si svolge la ricerca è infatti teatro di scontro tra fazioni appoggiate rispettivamente dalla Cina nazionalista e dall’Unione Sovietica.

È una zona molto diversa dal resto della Cina continentale, nella quale si confrontano senza esclusione di colpi e di atrocità due popolazioni atavicamente rivali: gli Uiguri, mussulmani autoctoni di lingua turca (tanto che Hedin li chiama genericamente Turchi) e gli Hui, anch’essi di religione musulmana, ma di origine e lingua cinese e di stanziamento più recente. Basta un nulla per essere sospettati dall’una o dall’altra parte come spie, e liquidati sommariamente, ma anche per essere rapinati dalle bande di predoni e di disertori che conducono una guerra tutta loro.

Sven o della solitudine 36Hedin è forse l’unico uomo in grado di controllare la situazione. Mentre gli scienziati lavorano in modo quasi indipendente, lui si fa tramite con le autorità locali, assume le decisioni più importanti rispetto agli spostamenti e ai problemi organizzativi, raccoglie fondi e tiene il diario di viaggio collettivo, registrando ogni passo del percorso seguito. Deve garantire approvvigionamenti e libertà di movimento ad un gruppo che per la sua consistenza, il suo armamento, le salmerie (i soli cammelli sono trecento, e parte dell’equipaggiamento viaggia su tre camion), ma anche per le sue attività in aree che sono fortemente contese dai signori della guerra locali, somiglia a un esercito invasore.

Sven o della solitudine 37Non mancano i momenti di tensione, perché le popolazioni locali sono sospettose e (giustificatamente) ostili, Ma alla fine il lavoro viene svolto pressoché per intero, e i risultati scientifici sono eccezionali. I resoconti relativi ad ogni settore saranno raccolti in quaranta volumi, che ancora oggi costituiscono una miniera per la conoscenza di quelle aree. La versione divulgativa del diario di viaggio o meglio, della sua ultima parte, è quella offerta sotto il titolo de Il lago errante, l’unica tradotta in italiano negli ultimi settant’anni. Viene inoltre redatta una grande carta in scala uno a un milione dell’Asia Centrale; vengono raccolti importantissimi reperti archeologici e paleontologici (resti fossili di dinosauri e altri animali estinti), che dopo essere stati valutati scientificamente per tre anni in Svezia saranno restituiti alla Cina; sono identificate e descritte specie botaniche e animali in precedenza sconosciute. Nel deserto di Lop Nor Hedin ha scoperto anche rovine di torri di segnalazione che sembrano dimostrare come la Grande Muraglia cinese un tempo si estendesse fino allo Xinjiang.

E ci sono anche altri risvolti: la scoperta di riserve di ferro, manganese, petrolio, carbone e oro sarà di grande rilevanza per il futuro economico del paese.

Sven o della solitudine 38Nel 1933 la spedizione ha portato a termine i suoi lavori (ma soprattutto ha esaurito i fondi a disposizione) e viene sciolta ufficialmente. Ma Hedin considera tutt’altro che conclusa la sua missione. A Nanchino ha incontrato il leader nazionalista Chiang Kai-shek, che ha favorito l’iniziativa e ne è diventato uno sponsor (attraverso l’emissione di una serie di francobolli che oggi valgono una fortuna). Ora chiede a Hedin di lavorare per conto del Kuo-mintang, guidando una spedizione tutta cinese che rilevi la situazione idrografica dello Xinjiang e valuti le possibilità di creare un vastissimo sistema di irrigazione, oltre a redigere piani e mappe per la costruzione di due strade carrozzabili lungo la vecchia via della Seta, da Pechino sino all’estremo confine occidentale del Turkestan cinese. Per l’esploratore è un invito a nozze. Si mette immediatamente al lavoro e nel giro di meno di un anno fornisce sia i piani per impianti di irrigazione che trasformeranno l’economia della regione, sia i progetti per due diverse strade che da Pechino conducano a Kashgar. In questo modo rende possibile aggirare completamente il terreno acci dentato del bacino del Tarim.

Sven o della solitudine 39Non è stato un lavoro facile. La sua carovana di autocarri è stata prima dirottata da reparti del Kuomintang in ritirata davanti ad un tentativo di invasione sovietico. Poi è stata attaccata da grappi di ribelli tungani (musulmani di lingua cinese), che hanno catturato lo stesso Hedin e lo hanno detenuto per diversi mesi a Korla, minacciando anche di passarlo per le armi assieme a tutti i membri della spedizione. Le assicurazioni e i permessi concessi dal governo centrale in quelle zone valgono poco e nulla. Al solito Hedin se la cava con la sua pratica della diplomazia e con la conoscenza dei costumi locali. Ma appena tornato libero toglie le tende.

Una cosa però ancora lo tormenta. Durante la prima fase della spedizione ha sentito raccontare da un mercante della piena del Konce-daria che ha dirottato nel 1921 le acque verso quello che era stato in precedenza il fiume asciutto (Kuruk-daria). Scrive: “Per me quel discorso fu come un lampo”. Non ha più smesso di pensarci. È la dimostrazione che quanto aveva intuito decenni prima, nel corso della terza spedizione, era esatto. E adesso vuole andare a constatarlo di persona. Convince il governo cinese che il ritorno della vita in quegli spazi deserti crea ulteriori opportunità di collegamento con le zone più remote dello Xinjiang, ai confini occidentali, che sino a quel momento erano rimaste pressoché incontrollabili. Con l’appoggio di Chiang Kai-shek torna dunque nella zona dove aveva conosciuto tante avventure e corso tanti rischi, verso quello che lui considera il cuore stesso dell’Asia.

Nel maggio 1934 compie finalmente una spedizione fluviale nel “lago errante” Lop Nor, dopo aver navigato per due mesi lungo il fiume Kaidu e il Kum-Darja. Ha chiuso un cerchio aperto quarant’anni prima.

Per il viaggio di ritorno, Hedin sceglie la rotta meridionale della Via della Seta: passa quindi per Hotan e arriva ai primi di febbraio del 1936 a Xi’an. Percorre per l’ultima volta gli itinerari che lui stesso ha riconosciuto e ritracciato, dopo secoli si oblio. Di lì riemerge nel mondo a lui contemporaneo. Prosegue per Pechino, e poi per Nanchino, dove incontra nuovamente Chiang Kai-shek e festeggia il suo settantesimo compleanno. Lo attende l’ennesimo rientro in Svezia, molto più in sordina rispetto a quelli trionfali dei tempi eroici.

Sven o della solitudine 40Potrebbe essere comunque soddisfatto, il successo scientifico dell’iniziativa è indubbio. Non fosse che adesso deve affrontare un altro problema, una situazione finanziaria molto difficile. Si è fatto carico infatti di una quota considerevole del finanziamento della spedizione, contraendo un pesante debito con la banca tedesco-asiatica di Pechino, in un momento peraltro nel quale il deprezzamento della moneta dovuto alla Grande Depressione ha fatto balzare i costi alle stelle. Deve allora ricominciare con un turbinoso giro di conferenze che lo porta a percorrere in pochi mesi una distanza pari a quella della circonferenza terrestre, e arriva a ipotecare tutti i suoi diritti d’autore, nonché la vastissima biblioteca che ha raccolto.

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Il tramonto e l’oblio

Sven o della solitudine 42Dopo il 1935 l’esistenza di Hedin si fa necessariamente più sedentaria. Ma a dispetto di una salute ormai cagionevole l’anziano esploratore non manca di muoversi appena possibile, per tenere conferenze, ricevere riconoscimenti, offrire consulenze. Presso le democrazie occidentali però la sua reputazione, già compromessa dalle posizioni assunte nel primo conflitto mondiale, è definitivamente rovinata dalle simpatie che manifesta per la Germania nazista e che quel regime enfatizza a scopo propagandistico (facendogli ad esempio pronunciare il discorso inaugurale alle Olimpiadi di Berlino nel 1936). Persino in patria, dove per tutti gli anni trenta e sino alla fine del secondo conflitto mondiale il governo rimane a guida socialdemocratica, malgrado il rapporto di amicizia con Gustavo V Hedin comincia ad essere considerato ingombrante.

Sven o della solitudine 45Negli anni che precedono il conflitto si dedica al riordino e alla pubblicazione dei materiali riportati dalla spedizione sino-svedese, che compaiono con il titolo di Rapporti dalla spedizione scientifica nelle province nord-occidentali della Cina sotto la guida del Dr. Sven Hedin. L’opera conosce quarantanove edizioni in svariate lingue, segno che a dispetto dell’ostracismo politico la validità e la rilevanza scientifica delle sue ricerche è ancora riconosciuta. Come già accaduto un secolo e mezzo prima per Alexander von Humboldt, però, i costi della stampa di un materiale iconograficamente così ricco e così complesso, sostenuti per la gran parte dall’autore stesso, danno fondo a quel che rimaneva del suo patrimonio, e determinano prezzi finali altissimi, sostenibili solo da un numero limitato di biblioteche e di istituti.

Sven o della solitudine 43Durante la fase iniziale del conflitto Hedin vive prevalentemente in Germania (e di questo soggiorno lascia una testimonianza dettagliata e rivelatrice, il Diario tedesco). Incontra personalmente Himmler e tramite lui viene a conoscenza del progetto Ahnenerbe e delle due successive spedizioni tibetane che l’istituto aveva promosse. Non è molto impressionato dal capo delle SS: “Non aveva niente nell’aspetto del despota crudele e spietato e sarebbe potuto essere benissimo un maestro elementare di qualche cittadina di provincia. Si avvertiva una mancanza di carattere e di pregnanza sul suo volto, di tratti decisi che irradiano energia e forza di volontà. Non c’era in lui traccia della classica bellezza greca o romana, né un indizio di razza o cultura […]”. Non collabora comunque alle attività dell’Ahnenerbe, anche se Ernst Schäfer, il capo delle missioni al Tibet, si ispira direttamente a lui e ambisce solo ad emularlo[3]. Quando incontra Hitler, invece, Hedin ne rimane stranamente affascinato, al punto da attribuirgli connotati fisici assolutamente improbabili: “Era alto e virile, una figura possente e armoniosa che teneva la testa alta, camminava eretto con fare sicuro”. Il problema agli occhi che lo aveva afflitto già nelle prime spedizioni si è aggravato, ma questa immagine sembra frutto di una totale obnubilazione mentale, oltre che fisica.

Sven o della solitudine 44Gli ultimissimi anni li trascorre dunque mestamente, nel segno di un rapido oblio. Le opere che lo avevano reso famoso in tutto il mondo, soprattutto quelle divulgative in forma di diari di viaggio, libri per giovani e libri di avventura, non vengono più ristampate. Non è più tempo di eroi, di esploratori, di terre incognite, sostituiti nell’immaginario giovanile dai protagonisti degli stadi, degli schermi, del nuovo universo musicale. Le rilevazioni geografiche sono ormai affidate alla fotografia aerea, il rischio è inserito nel tutto compreso dei pacchetti vacanza. Quando Hedin muore, nel 1952, un mondo che ancora si sta leccando le ferite dell’ultimo conflitto pare nemmeno accorgersi della sua scomparsa.

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Riflessioni

Sven o della solitudine 47Impostando questo pezzo avevo in mente di riassumere in tre o quattro paginette la vita e le avventure di Hedin, e di concentrarmi poi soprattutto sulle riflessioni che ne scaturivano. Non è andata così, naturalmente. So che sta diventando quasi una formula di rito, dal momento che non riesco mai a contenere la mia logorrea, ma nel caso di Hedin va detto che la sua esistenza è stata talmente ricca e movimentata che a costringerla in un centinaio di righe si rischiava di perderne le caratteristiche peculiari, l’intensità compulsiva e la determinazione quasi disumana che l’hanno governata. Qualcuno ha scritto che Hedin ha vissuto una vita così piena di avventure e fughe che il solo leggerne è estenuante. Effettivamente, se ne esce frastornati.

In più, all’epoca, e mi riferisco soltanto a un paio di anni fa, non era dato rintracciare in Italia non solo una biografia attendibile del personaggio, ma neppure una trattazione di sintesi, a livello ad esempio di enciclopedia digitale. Avevo letto l’unico suo libro tradotto in italiano negli ultimi settant’anni e avevo poi rinvenuto solo articoletti sparsi su vari blog, recensioni di libri suoi pubblicati un secolo fa e difficilmente rintracciabili persino nel commercio in rete, brevi interventi spesso clonati in successione, dai quali necessariamente usciva mortificata la complessità del personaggio, ma soprattutto scaturivano delle immagini polarizzate sul tutto negativo o sul tutto positivo, e una fastidiosa confusione di date, luoghi e avvenimenti.

Ho pensato allora che avrei potuto riempire sia pure parzialmente un vuoto, come Hedin faceva con gli spazi bianchi delle carte, condensando in una misura divulgativa la parte essenziale della biografia, o almeno quella che a me più interessava, e ripristinando la correttezza cronologica e geografica che avevo trovato invece quasi sempre sacrificata.

Nei due anni trascorsi prima che mi risolvessi a riprendere in mano il progetto molta parte di quello spazio bianco è stata altrimenti riempita. È stato ad esempio ripubblicato col titolo La via della seta, (Iduna 2121), il diario tenuto da Hedin durante la quarta spedizione; ma soprattutto è uscita da pochi mesi, per le edizioni Agorà (2023) una biografia dal titolo Nel cuore dell’Asia. Sven Hedin 1869 -1952, scritta da Marcello di Martino.

Tutto questo avrebbe potuto indurmi a ritenere ormai obsoleto e inutile il mio lavoro, non tanto quello di ricerca ma senz’altro quello di scrittura. Considerando però che Agorà è un’editrice ultracattolica, specializzata negli “studi tradizionali”, e che Di Matino ne è la punta di diamante, ho fiutato dove andava a parare l’operazione, e ho pensato che una versione dei fatti molto più stringata e povera, ma anche molto più laica, poteva avere un senso. Anche perché, con l’aria di restaurazione che circola, temo che nei confronti di Hedin, come di molti altri, stia partendo una campagna di “riabilitazione” tutta intesa a riproporre “valori forti” di infausta memoria. A ciò si aggiunge la consapevolezza che ben pochi tra i frequentatori del sito andranno a leggersi una biografia di duecentottanta pagine, e che quindi un qualche significato di prima informazione il mio lavoro lo conserva.

Chiarito dunque che la biografia di Sven Hedin è nata come pretesto, e che questo schizzo non ha ambizioni di primazia o di riscoperta, vengo finalmente alle riflessioni cui accennavo sopra.

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Compromesso col nazismo

Nella narrazione biografica ho solo accennato alle simpatie manifestate da Hedin per il nazismo, e al fatto che tale atteggiamento ne ha determinato la “damnatio memoriae”, iniziata quando ancora era in vita e proseguita postuma. La faccenda è però un po’ più complessa. Intanto è necessario chiarire da cosa nascevano e fin dove si spingevano queste simpatie.

A rigor di termini Hedin non è mai stato un nazista: non solo perché non si è mai affiliato ad alcuna organizzazione politica di quella matrice, in patria o fuori, ma perché le sue simpatie andavano piuttosto alla Germania in sé, alla sua gente, alla sua cultura (come ha dimostrato già durante la prima guerra mondiale), che al nuovo corso impresso dal regime hitleriano.

Sven o della solitudine 49Hedin era un conservatore, un legittimista intriso sino al midollo di lealtà monarchica, un cristiano tradizionalista, e dopo la rivoluzione d’Ottobre era diventato anche un acceso anticomunista. Nel suo filonazismo non c’era alcuna componente ideologica (le idee di Hedin erano piuttosto elementari, oltre che molto radicate) ma solo l’individuazione di un comune nemico. Durante il primo conflitto aveva inneggiato agli imperi centrali come baluardo contro l’espansionismo zarista, che con le sue pretese sul Baltico minacciava la libertà e la sovranità della Svezia, e aveva caldeggiato per gli stati scandinavi una politica di riarmo: ora vedeva i bolscevichi muoversi in continuità con quel progetto di espansione, e salutava in Hitler l’unico vero loro avversario.

Condivideva certamente anche molto dello spirito superomistico, della concezione agonistica della vita, del richiamo alle mitologie nordiche: ma da cristiano fervente rifiutava il paganesimo nazista di fondo, e da legittimista lo sconvolgimento dell’ordine sociale tradizionale che la “rivoluzione” nazionalsocialista almeno ufficialmente promuoveva. C’è però un’ulteriore, fondamentale dato di fatto che rende ambiguo il suo rapporto col nazismo: Hedin aveva sangue ebraico nelle vene, e non solo non se ne vergognava, ma lo rivendicava anche: “Nel mio sangue ogni sedicesima goccia è di origini ebraiche. Io amo questa sedicesima goccia e non voglio assolutamente rinunciarvi”. Questo lo ha portato quindi a criticare ripetutamente la legislazione antiebraica prima e le persecuzioni poi. Da parte loro i nazisti, Hitler e Himmler in primis, ma anche Goebbels, ciascuno per motivi suoi, fingevano di ignorare quelle origini, un po’ perché l’immagine di Hedin era stata imposta e sfruttata a livello propagandistico ed era difficile a quel punto disfarsene, un po’ perché l’ammirazione per Hedin, soprattutto da parte del primo, era sincera.

Quando le critiche diventano troppo esplicite, però, si sceglie la soluzione di “silenziarle”. Già nel 1937, ad esempio, Hedin scrive un libro (Deutschland und der Weltfrieden – La Germania e la pace nel mondo) nel quale accusa le potenze occidentali di fomentare il conflitto, ma chiama in causa pesantemente anche il governo tedesco, soprattutto per le sue campagne antireligiose, antisemite e contro la libertà della ricerca scientifica. Di fronte alla richiesta del segretario di stato Walther Funk di eliminare le parti critiche, così risponde: “Quando abbiamo discusso per la prima volta il mio progetto di scrivere un libro, ho affermato che volevo solo scrivere oggettivamente, scientificamente, possibilmente criticamente, secondo la mia coscienza, e tu lo consideravi del tutto accettabile e naturale. Ora ho sottolineato in una forma molto amichevole e mite che l’allontanamento di illustri professori ebrei che hanno reso grandi servizi all’umanità è dannoso per la Germania e che questo ha dato origine a molte proteste contro la Germania all’estero. Quindi ho preso questa posizione solo nell’interesse della Germania.

Sven o della solitudine 50La mia preoccupazione che l’educazione della gioventù tedesca, che altrimenti lodo e ammiro ovunque, sia carente in questioni di religione e dell’aldilà deriva dal mio amore e simpatia per la nazione tedesca, e come cristiano considero mio dovere dichiararlo apertamente e, certo, nella ferma convinzione che la nazione di Lutero, che è religiosa in tutto e per tutto, mi capirà.

Finora non sono mai andato contro la mia coscienza e non lo farò neanche adesso. Pertanto, non verranno effettuate cancellazioni”.

E infatti, il libro verrà pubblicato solo in Svezia.

Questo accade prima dell’inizio delle deportazioni e della creazione dei campi di sterminio.

Dopo lo scoppio del conflitto Hedin mantiene i suoi contatti, è in corrispondenza con Hitler, cui dedica un’intervista ancora nel 1939, e nel 1942 scrive L’America nella battaglia dei continenti, dove sostiene che responsabile dello scoppio della guerra è il presidente americano Roosevelt e che le origini del conflitto sono da imputare all’iniquità del trattato di Versailles, e non all’aggressività tedesca. Hitler sentitamente ringrazia.

Sven o della solitudine 51Ora, a mio giudizio, sortite di questo genere sono da interpretare tenendo in considerazione che Hedin ha ormai quasi ottant’anni, vissuti peraltro intensamente, che è animato da sempre da una fortissima ambizione e che certe debolezze con l’età si accentuano (pochi anni prima della morte, isolato e quasi cieco, vantava ancora di essere l’autore svedese più tradotto in altre lingue), per cui non sa sottrarsi alle lusinghe che la propaganda nazista continua a propinargli, assegnandogli premi, onorificenze, lauree honoris causa. Come giustificazione è senz’altro debole, ma all’atto pratico il suo atteggiamento non è molto lontano da quello degli innumerevoli pacifisti senza se e senza ma, sul tipo di Bertrand Russell, che sino a conflitto inoltrato sostenevano la necessità di mantenere aperto il dialogo con Hitler, o del partito comunista inglese, il cui giornale, il Daily Worker, scriveva ancora nel 1940 che la guerra era un pretesto “per schiacciare sotto il peso della macchina bellica imperialista anglo-francese milioni di sindacalisti”. O dei molti che, tanto in Inghilterra (a partire dall’ex-sovrano, Edoardo VIII) quanto in Francia (compresi i numerosi socialisti che collaborarono col governo di Vichy), simpatizzavano apertamente col regime nazista.

La differenza sta semmai nel fatto che Hedin ha usato tutti i suoi contatti e il suo prestigio presso le alte sfere del regime per sottrarre alla deportazione e allo sterminio diversi ebrei e prigionieri politici svedesi, prodigandosi spesso con esito positivo e salvando la pelle ad un sacco di gente. E comunque, in nessuna occasione ha avallato o peggio ancora favorito questa infamia, come dimostra il passo della lettera a Funk che ho riportato.

Ho voluto anche verificare se Hedin abbia dato un qualche apporto diretto all’elaborazione del pensiero nazista, se sia cioè possibile imputargli, al di là di non averne preso decisamente le distanze anche quando ha cominciato a rendersi conto della deriva criminale alla quale questo conduceva, di aver fornito qualche spunto ideologico che non fosse genericamente il modello del superuomo (alla maniera, per intenderci, di D’Annunzio col fascismo). L’ho fatto andando a riprendere i testi più autorevoli sulle origini culturali del terzo reich (Mosse) o quelli più specifici relativi alle sue componenti magico-esoteriche (Galli): ebbene, in nessuno di questi studi compare, nemmeno in una semplice citazione in nota, il nome di Hedin.

Sven o della solitudine 52A fronte di tutto questo, colpisce ancor più la diversità del trattamento riservato ad Hedin rispetto a quello usato nei confronti di altri personaggi, compromessi quanto e più di lui coi regimi totalitari. Un caso esemplare è, proprio per l’Italia, quello di Ardito Desio: esemplare per i molti tratti in comune dell’attività dei due protagonisti e per la differenza negli esiti e nella valutazione storica. Pochi mesi fa è passato in televisione, sul canale culturale della RAI, un documentario biografico su Desio, morto alla ragguardevole età di 104 anni, nel quale si ricordavano tutti i successi e i meriti dell’alpinista-esploratore, ma si glissava elegantemente sugli aspetti più oscuri delle sue vicende, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Grande amico di Italo Balbo, il nostro aveva precocemente aderito al fascismo, ed era diventato la spalla del fascistissimo presidente del CAI, Angelo Manaresi, nell’opera di asservimento del sodalizio al regime; più o meno come era accaduto in Germania, con l’aggravante che là la politicizzazione era stata pressoché spontanea, coincideva con lo spirito alla Lammer che informava l’etica alpinistica tedesca del primo novecento, mentre in Italia era stata più contrastata, imposta ad una maggioranza di alpinisti tutt’altro che ansiosi di intrupparsi (e quindi aveva comportato anche delle esclusioni e delle discriminazioni).

Nel dopoguerra, senza aver mai pronunciato una parola di dissociazione dalla sua militanza fascista, Desio ha mantenuto tranquillamente tutti i suoi incarichi e i suoi titoli “accademici”, nonché le sue entrature politiche, tanto da essere designato a capo della spedizione che ha portato nel 1954 alla conquista del K2. In questa veste Desio, che gli altri componenti il gruppo chiamavano “il ducetto”, ha brigato per escludere Riccardo Cassin, il più forte alpinista italiano del momento, e l’unico che avrebbe potuto fargli ombra, e Cesare Maestri, e non solo ha pilotato l’ascesa in modo da farla compiere a due suoi fedelissimi, ma l’ha poi raccontata, unico autorizzato per contratto a farlo, in modo da mettere in cattiva luce colui che alla fine l’aveva resa possibile, Walter Bonatti. E malgrado le proteste di quest’ultimo la verità sull’intera vicenda è stata ristabilita ed accettata dal CAI stesso solo cinquant’anni dopo, quando tutti i protagonisti erano ormai scomparsi. Ancora nei primi anni Novanta è stato poi chiamato ad inaugurare la “Piramide”, un laboratorio per ricerche ad alta quota collocato a 5.050 metri ai piedi dell’Everest.

La cosa non sorprende, e il caso è tutt’altro che isolato (si pensi agli antropologi e agli etnologi del regime, come Giuseppe Tucci e Giuseppe Cocchiara), se si considera quali furono gli esiti (e le reali motivazioni) della sciagurata amnistia Togliatti. Ma conferma come nel nostro paese la memoria sia particolarmente corta, e più in generale come chi è davvero in buona fede abbia sempre maggiori difficoltà a far valere gli argomenti in sua difesa.

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Razzismo

Tornando a Hedin, gli è stato contestato anche un atteggiamento fortemente intriso di razzismo, e probabilmente solo il fatto di essere stato oscurato già settanta anni fa gli ha fino ad oggi evitato di entrare nelle liste di proscrizione della “cancel culture” (almeno per quanto riguarda l’Italia). Anche rispetto a questa accusa occorre intenderci. È indubbio che nei libri di Hedin, ad esempio in Dalla Persia Dalla Persia all’India attraverso il Seistan e il Belucistan (Treves 1912) si possa trovare tutto il materiale che si vuole per attribuirgli dei pregiudizi. Hedin è infastidito dal carattere poco affidabile, dalla scarsa puntualità, dall’indolenza, dalla suscettibilità rancorosa delle popolazioni mediorientali con le quali viene a contatto. Ogni occasione di confronto sembra testimoniare la superiorità dell’occidentale: ma è da dire che l’occidentale è quasi sempre e solo lui, quindi si tratta di una superiorità personale, piuttosto che etnica. E, soprattutto, di una superiorità culturale, e non biologica.

Diverso però è il discorso se si accusa Hedin di aver fornito delle pezze d’appoggio al delirio nazista sulla ricerca della culla della civiltà iperborea, ovvero alla costruzione della “tradizione” ariana di Thule. Come ho già detto, Hedin non fu direttamente implicato nelle spedizioni tibetane promosse da Himmler, e da nessuna parte ho trovato traccia di suoi accenni ai miti di Sahamballa, o di Agarthi, o del Re del Mondo. La sua ortodossia luterana lo salvava dalle suggestioni della Società Teosofica, così come dall’Ariosophia di Lanz von Liebenfels (capostipite dei rettiliani!), che veniva invece abbracciata da fior di intellettuali “progressisti” nordeuropei come August Strinberg (col quale Hedin ebbe una annosa contrapposizione a proposito del riarmo svedese). Direi piuttosto che con le sue descrizioni estatiche dei panorami himalayani, con le loro trasposizioni sulla carta o sulla tela, hanno anticipato e incoraggiato le esperienze compiute negli anni venti, sulla sua scia, da altri ricercatori nel cuore dell’Asia della terra perfetta: personaggi come Nicholas Roerich, artisti-alpinisti-esploratori e indagatori spirituali.

Sven o della solitudine 54Che la superiorità dell’uomo bianco – diciamo pure, nell’accezione corrente ai primi del Novecento, “dell’ariano” – venga data quasi per scontata, non mi sembra un tratto attribuibile nello specifico ad Hedin. Tutti o quasi gli ambienti culturali occidentali, a partire da quello scientifico e a dispetto della lezione di Darwin, erano intrisi di questa concezione. Non erano solo Kipling o gli epigoni di De Gobineau, Chamberlain e Vacher de Lapouge a condividerla. Esploratori, antropologi, filosofi, scienziati, e persino i rappresentanti del pensiero socialista, in misura più o meno esplicita, l’avevano fatta propria (rileggetevi i romanzi di Jack London, o i saggi di Proudhon, o il dibattito sull’immigrazione al congresso mondiale della Seconda internazionale di Stoccarda, nel 1907). Le voci dissenzienti erano ben poche. Una di queste, quella di Orwell, al solito diretto e senza peli sulla lingua, denunciava a più riprese il razzismo sotterraneo del socialismo inglese.

Ma su questo tema mi spingerei anche oltre. L’idea di considerare “diversi”, diciamo pure “inferiori”, gli appartenenti ad altri popoli, ad altre culture, ad altre religioni, di per sé non è razzismo. È una forma di pensiero che appartiene a qualsiasi popolo (dagli Inuhit, termine che appunto sta a designare “gli uomini”, in contrapposizione agli altri, che non sono considerati tali, fino ai Cinesi, ai Giapponesi, ai Tibetani, persino ai Maori e ai Boscimani). In queste classificazioni l’idea di un’origine biologica diversa magari non è esplicitata, ma è spesso riconoscibile sotto i più ingegnosi travestimenti mitologici. E piaccia o meno, è sempre stato così. Già Erodoto scriveva a proposito dei Persiani: “Loro stessi si considerano in tutto superiori a chiunque altro nel mondo, e concedono alle altre nazioni un certo numero di buone qualità che diminuisce in base alla distanza, il più lontano essendo a loro dire il peggiore”.

Sven o della solitudine 55Hedin in fondo sembra comportarsi allo stesso modo, ma usando criteri di valutazione molto pragmatici: durante le prime spedizioni, ad esempio, nella sua gerarchia vengono per primi gli aiutanti cosacchi, considerati i più affidabili (e con ogni probabilità erano davvero tali). Più tardi, quando lavora con i cinesi, ne apprezza la volontà e l’infaticabilità, mentre rileva lo scarso spirito d’iniziativa (ma spiegandolo con una millenaria abitudine alla sottomissione). Sono quel tipo di giudizi che ciascuno di noi può ascoltare da chi ha dimorato all’estero, foss’anche in quel Nord-Europa dal quale Hedin proveniva, senza che debbano necessariamente essere letti in una qualsivoglia chiave razzista. D’altro canto, l’idea di una “impurità” congenita all’uomo bianco è diffusissima presso le popolazioni arabe e quelle asiatiche in genere. Per questo, quando lo stigma del razzismo è applicato solo agli occidentali, si dà corpo ad una grandissima ipocrisia. Diventa una sorta di razzismo alla rovescia. Se davvero si vuole la “correttezza” politica è necessario applicare gli stessi metri a tutte le situazioni, chiaramente avendo presenti le singole condizioni storiche.

Neppure si può imputare come colpa specifica ad Hedin di aver cinicamente e sconsideratamente sacrificato alcuni dei suoi compagni nel corso delle spedizioni. Certo, sosteneva che esiste una differenza tra “morale comune” e “morale geografica”, ed è facile capire cosa intendesse, e quale praticasse. Ma quella morale l’applicava prima di tutto a se stesso, e si poneva come parametro: esigendo moltissimo da sé, aveva di conseguenza aspettative esageratamente alte rispetto al comportamento degli altri. Intanto va detto che in ogni occasione Hedin si è premurato di incontrare e di risarcire almeno economicamente le famiglie dei suoi aiutanti più sfortunati (pratica che può apparire ovvia, ma che a quanto mi risulta era poco diffusa presso i suoi colleghi): e comunque nella storia delle esplorazioni e delle conquiste le cose hanno sempre funzionato così, da Alessandro Magno alle spedizioni alpinistiche più recenti. Il fatto che i suoi compagni di avventura (e di sventura) fossero sempre degli asiatici non rende diverso il suo operato da quello degli alpinisti che salgono oggi in Himalaya con gli sherpa e che un tempo salivano sulle Alpi con le guide valligiane.

Aggiungo che Hedin era tutt’altro che indifferente alla sorte dei suoi uomini. Tutto il sessantesimo capitolo di Transhimalaya è dedicato alla morte e ai funerali di Muhamed Isa, il suo fedele capo carovana stroncato da un colpo apoplettico, e da esso trapelano un dolore e una partecipazione tutt’altro che di circostanza, comunicati ai compagni con uno stringato e bellissimo discorso funebre. Il capitolo si conclude così: “Quando ho guardato fuori dalla mia tenda, i miei occhi sono stati attratti dalla tomba oscura sulla sua collina. Sembrava come se la tomba ci tenesse stretti, anche se desideravamo allontanarcene. Tutto era tetro e lugubre; ci è mancato Muhamed Isa, e la sua assenza ha causato un grande vuoto. Ma la vita va avanti, come al solito”.

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Spettacolarizzazione

A questo punto vorrei però fosse chiaro che non ho assunto la difesa d’ufficio di Hedin. Non sono mosso da quella simpatia immediata che nei confronti di altri personaggi mi ha indotto ad accettarne e minimizzarne limiti e difetti. Come già premesso, ho scoperto Hedin troppo tardi per farne un modello e sviluppare la voglia di emularlo. Per quanto ho capito dai suoi scritti non era solo ostinato e coraggioso sino all’incoscienza, ma era anche un vanesio ambiziosissimo, dotato di una buona dose di arroganza: tutti tratti caratteriali che in fondo non si contraddicono. Inoltre personifica perfettamente la transizione ad una età caratterizzata dal consumo e dallo spettacolo.

Hedin era un abilissimo venditore di se stesso: basta vedere gli innumerevoli ritratti fotografici che lo rappresentano bardato nelle fogge orientali più diverse, già pronti per diventare dei poster. È riuscito ad accreditare l’immagine di un esploratore solitario in un territorio inesplorato e ostile, quando in realtà era sempre accompagnato da un nugolo di assistenti, e batteva spesso zone che già erano conosciute, anche se non mappate. Ha sapientemente giocato nella sua narrazione sul “sensazionalismo”, combinando la descrizione scientifica della struttura e della fisionomia del paesaggio con le emozioni da questo indotte, lo stupore di fronte a panorami mozzafiato (“uno spettacolo che fa rimanere ammutoliti, così affascinante che quasi ci dimentichiamo di smontare”), la vertigine indotta dalle altitudini (“sembrava che il terreno solido fosse giunto al termine, lo spazio insondabile che si spalancava sotto e davanti a noi”), l’accelerazione cardiaca oltre una certa quota (“il cuore batte come dovesse scoppiare”), il gelo che aggredisce ogni parte del corpo (“prima che io abbia fatto la mia osservazione e guardato l’orologio, la mia mano sinistra è morta”). Racconta gli spazi con modalità quasi cinematografiche (d’altro canto, appena potrà, lo farà direttamente con la macchina da presa) e li rappresenta poi secondo il modello dei diorami scenografici, delle panoramiche a trecento sessanta gradi che erano state rese popolari da Albert Smith mezzo secolo prima con i suoi “spettacoli” alpini.

Era a tutti i titoli un imprenditore, costantemente a caccia di sponsor per le sue imprese, né più né meno come ogni alpinista o qualsiasi altro sportivo professionista odierno. E a tal fine coltivava tanto l’ambizione del “primato”, l’essere il primo ad avere visto certi luoghi (“orgoglioso e felice di sapere che sono il primo uomo bianco a penetrare in questo deserto”), calcato certe montagne, scoperto le tracce di antiche civiltà, quanto la sindrome del possesso: “La parte in cui mi trovo ora era sconosciuta, e ha aspettato la mia venuta per un milione di anni”. Oppure: “Sul passo Sur-La fui pervaso da un indescrivibile senso di soddisfazione. Mi sentivo un potente sovrano nel suo stesso paese”. In questo senso è stato anzi un anticipatore.

Sven o della solitudine 57Ma, detto questo, non posso negare che la lettura delle sue opere sia ancora affascinante, almeno per chi come me si nutrirebbe esclusivamente di diari e resoconti di viaggi. La sua “spettacolarizzazione della natura” non è solo ruffiana, mirata a giocare sull’economia emotiva dell’elevazione per creare scenografie degne delle imprese dell’eroe: deve invece molto alla lezione di Humboldt, che aveva introdotto un secolo prima la combinazione della descrizione razionale e scientifica con le esperienze del sublime, e insistito sulla necessità di guardare dall’alto il paesaggio per cogliere da un unico punto di vista le proporzioni e le strutture della natura. Il mondo per Humboldt è un insieme integrato, mosso da forze interne; la natura è collegata in una catena indissolubile. C’è insomma l’idea che tramite la vista dall’alto lo spazio diventa comprensibile, riconducibile ad un quadro razionale e, naturalmente, dominabile. Quando si aggira per le valli o nei deserti o nelle paludi Hedin confessa spesso di sentirsi come “in un labirinto senza speranza”, disegnato da montagne e attraversato da corsi d’acqua dei quali non si capisce l’origine e non si identifica il corso: ma una volta in alto tutto diventa chiaro, può “cogliere con un solo sguardo un enorme blocco di crosta terrestre”: “l’occhio raggiunge con la massima chiarezza le distanze estreme, solo l’orizzonte erige un confine per il visibile […]. L’intera terra giace ai miei piedi”.

E ancora: l’insistenza sui disagi e sui pericoli affrontati, la rarefazione dell’aria, le temperature atroci, le membra congelate, le tempeste di neve o di sabbia, la sete, la fame, la fatica, l’ostilità dei nativi, servono a marcare la sua distanza dai “geografi da poltrona o da salotto”. Ci tiene a sottolineare sarcasticamente che “raramente le scoperte geografiche vengono fatte a casa”, che lui ha lavorato tramite l’osservazione diretta sul posto, e che questa, oltre a procurare dati scientifici, induce anche una componente emotiva che sottrae la geografia all’aridità. È geografia anche il sudare, soffrire, conquistare, godere un panorama.

Insomma, anche se probabilmente non lo avrei voluto come compagno di avventura – un criterio di valutazione “a pelle” che è sempre stato mio, sin dall’infanzia –, al contrario ad esempio di un Humboldt, che pure era vanesio anche lui, ma molto onesto nell’attribuzione dei meriti e delle responsabilità, o di un Antonio Raimondi, o di un Carlo Vidua, tutto questo non mi impedisce di pensare che la “rimozione” di questo personaggio sia ingiustificata, senz’altro per quanto concerne lo specifico della storia delle esplorazioni, ma anche perché gli vanno riconosciuti altri pregi, a partire da quello della scrittura. Non mi sono mai stancato a leggere i suoi libri – e si tratta in genere di tomi poderosi – soprattutto perché mi sono abituato a riconoscere in essi una sotterranea ironia, che emerge sporadicamente: non quella inglese, voluta e calcolata, ma quella spontanea dettata dalla stranezza di certe situazioni e di certi rapporti. Mi riferisco ad esempio a dialoghi come questo, che si svolge tra Hedin e il suo assistente mentre navigano col battello portatile sul lago Manasarowar:

“Ci aspetta una tempesta”, dissi piano.

“Allah è vicino a noi”, rispose Shukkur Ali altrettanto calmo.

“Rema e arriveremo prima che le onde siano alte.”

“Se giriamo direttamente verso la riva, Allah sarà più vicino”, suggerì Shukkur Ali.

“No invece, non cambieremo rotta, andremo dritti alla nostra meta. “

In quattro battute è riassunta la dinamica di un sodalizio non paritario, e tutto il mondo che sta alle spalle dei due protagonisti: ma anche la calma, di fronte al pericolo imminente, che li unisce.

Sven o della solitudine 58

Solitudine e sensibilità

L’altro aspetto per il quale tutto sommato il personaggio Hedin, se pure non mi appassiona, certamente mi intriga, sta nel senso di solitudine profonda che traspare dalla sua narrazione. La coazione a fare, camminare, misurare, esplorare, non sembra essere volta solo a riempire degli spazi bianchi geografici, ma anche a sopire una sensazione di vuoto interna, proveniente da aree deserte dell’anima e scaricabile solo cancellando quelle delle mappe. In realtà avviene esattamente l’opposto. Ogni volta che si sofferma, e lo fa spesso, a meditare sul senso di ciò che sta facendo, ha un attimo di smarrimento, che soffoca subito evocando sia le vertigini, gli stupori, le eccitazioni legate alla scoperta che le trepidazioni adrenaliniche provocate dagli imprevisti, ma anche le soddisfazioni legate alla fama, ai riconoscimenti: e tuttavia, a dispetto della volontà di offrire di sé un’immagine scolpita nella roccia, incrollabile e padrona costantemente della situazione, quello smarrimento, quel dubbio rimangono nel profondo, pronti a riemergere. Forse questo lato del carattere di Hedin lo scorgo solo io, forse voglio sentire un po’ più umano uno che ha studiato per tutta la vita da superuomo: ma insomma, questa è l’impressione che Hedin mi ha trasmesso.

A convalidarla è anche il rapporto che Hedin ha con gli animali che lo accompagnano nelle sue avventure. Propongo due esempi, tratti sempre da Transhimalaya. “Tre animali erano spariti e uno di loro era il mio piccolo cavallo Ladaki bianco. Aveva lottato fino alla cima del passo, dove mi ero seduto a guardarlo invano, e poi si era sdraiato a morire. Mi aveva servito e portato fedelmente e pazientemente per un anno e mezzo, e fin dall’inizio non era mai mancato dal campeggio, e ora che l’ultimo dei veterani se n’era andato mi sentivo molto solo. Durante tutto il viaggio non aveva mai raggiunto un punto più alto di quello in cui morì; proprio sulla sella del passo le sue ossa sarebbero state sbiancate dalle tempeste invernali e dal sole estivo.

Sven o della solitudine 59Il mio fidato amico, il grande e peloso Takkar, mi guarda con occhi interrogativi. Non ama le ghirlande profumate dell’estate né la zona variegata dei prati. Ricorda la vita libera nelle pianure aperte, gli mancano i combattimenti con i lupi del deserto e sogna la terra delle tempeste di neve eterne. Un giorno lo vedemmo bere a una sorgente che versava la sua acqua lungo il sentiero, e poi sdraiarsi all’ombra fresca della foresta. L’aveva fatto tante volte prima, ma non dovremmo mai vederlo ripeterlo. Si voltò e galoppò verso il solitario Tibet. Si separò con dolore nel cuore dal suo vecchio padrone, lo sapevo … Ricevo ancora di tanto in tanto, tramite il signor Marx, saluti dal vecchio Takkar, che ha difeso così fedelmente la mia tenda quando ho viaggiato sotto mentite spoglie attraverso il suo paese”.

Aggiungo ancora un di paio di brevi considerazioni: una a tema storico, o se vogliamo di costume, e una di carattere personale.

Sven o della solitudine 60

Omosessualità

La prima riguarda l’omosessualità di Hedin. e parte da un’affermazione che ho trovato su un sito polacco: “Hedin era omosessuale, condizione che anche in quella Svezia che oggi è all’avanguardia in fatto di diritti civili, all’epoca non era accettata”. Non era così solo in Svezia: si pensi alle vicissitudini del suo quasi contemporaneo Oscar Wilde, e di moltissimi altri meno famosi. Ma non è il tema dei diritti a interessarmi. Sono invece intrigato dal rapporto tra l’omosessualità e il viaggio, nello specifico quello di esplorazione. Tra le due cose parrebbe esserci una correlazione tutt’altro che casuale. Una gran parte degli esploratori o dei grandi viaggiatori di cui mi sono occupato o che semplicemente conosco è accomunata dalla condizione omosessuale, segnatamente nel diciannovesimo secolo e nella prima metè del ventesimo. Cito solo i primi nomi che mi vengono in mente, da Humboldt e Thesiger a T. H. Lawrence, Robert Byron, Henry Savage Landor, Otto Rahn, Ernst Schäfer, Bruce Chatwin, Norman Douglas, ecc…, ma anche a Freya Stark, a Ella Maillart, a Isabelle Ebherart. In percentuale, direi che siamo oltre la metà: e questo perché l’orientamento sessuale non è una variabile di scarso rilievo nella scelta di questo tipo di esperienze.

Il tema meriterebbe di essere approfondito, perché stranamente non sono a conoscenza di alcuno studio specifico, nemmeno parziale. Ma non è questa la sede. Mi limito invece a proporre la spiegazione più semplice e più immediata che mi sono dato del fenomeno. Questi uomini e queste donne cercavano senz’altro luoghi dove esprimere liberamente la propria sessualità e non essere costretti costantemente a simulare o a rinnegare i propri sentimenti, dove la loro attitudine e i loro atteggiamenti non fossero stigmatizzati o sanzionati: ma in primo luogo penso volessero allontanarsi da casa, e che a muoverli fosse spesso, oltre il desiderio di respirare un’aria meno soffocante, la paura di recare discredito alle famiglie.

Era senz’altro il caso di Humboldt, e credo lo stesso sia stato per Hedin. Per questo, anche in giro per il mondo hanno scelto la discrezione più totale. Del primo ho già ampiamente parlato, e rimando quindi al mio Humboldt controcorrente. Nel caso di Hedin però l’ermetica riservatezza del comportamento sessuale aveva anche una motivazione ulteriore, la difesa dell’enorme popolarità e dell’immagine di una virilità superiore che si era andata costruendo, soprattutto in Germania: nel Terzo Reich l’omosessualità comune era perseguita alla pari dell’ebraicità (con la quale veniva posta in correlazione, sfruttando il fatto che i suoi difensori erano soprattutto personaggi di origine ebraica come Magnus Hirschfield – fondatore durante il periodo di Weimar dell’Istituto per la ricerca sessuale). Questo mentre paradossalmente le elites nazionalsocialiste propugnavano l’Eros intervirile di von Liebenfels, un rapporto omoerotico con finalità iniziatiche e pedagogiche.

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Infine

Da ultima, un’impressione estemporanea. Quando ho letto per la prima volta Hedin, molto tardi, ho avuto l’impressione di averlo già conosciuto in precedenza. E in effetti l’avevo già incontrato sotto altre spoglie in diverse occasioni. Senz’altro nelle avventure di Tintin (il fantastico Tintin in Tibet) e di Gim Toro, nei libri di Salgari e in quelli di Rider Haggard e di Kipling, e più recentemente nei film di Indiana Jones. Era l’eroe archetipico nella sua versione più recente, un impasto di romanticismo e positivismo scientifico, sprezzante del rischio, consacrato ad un ideale superiore di conoscenza e di autoaffermazione, ma con molte concessioni alla nuova cultura popolare del consumo mediato e immediato di emozioni: ma di quella stirpe Hedin era anche l’ultimo discendente. La sua storia è quella di un mondo che ha cessato di esistere, e non solo perché le moderne tecnologie satellitari sono in grado di mappare dettagliatamente ogni angolo del pianeta. Ha cessato di esistere perché di quelle conoscenze, al di là del loro utilizzo a fini militari o economici, non importa più nulla a nessuno.

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Indicazioni bibliografiche

Libri di Sven Hedin

Il lago errante – Cierre, 1994

La strada della seta – Iduna, 2021

Dalla Persia all’India – Treves, 1912

Transhimalaya – MacMillan And Co., 1910

From Pole to Pole – Jazzybee Verlag, 2023

My Life as an Explorer – Greenpoint Books, 2022

Biografie di Sven Hedin

De Martino, Marcello – Nel cuore dell’Asia – Agorà 2023

Libri contenenti passi su Sven Hedin

Clark, Ronald, W. – La conquista del pianeta terra – Mondadori 1964

Handbury-Tenison, R. – I settanta grandi viaggi della storia – Logos, 2008

Dainelli, Giotto – La conquista della terra – UTET, 1954

Hale, Cristopher – La crociata di Himmler – Garzanti, 2006

Herrmann, Paul – Sulle vie dell’ignoto – Martello, 1961

Hopkirk, Peter – Diavoli stranieri sulla via della seta – Adelphi, 2006

Hopkirk, Peter –Il grande gioco – Adelphi, 2006

Newby, Eric – Il grande libro delle esplorazioni – Vallardi, 1976

Novaresio, Paolo – Uomini verso l’ignoto – White Star, 1991

Wright, H. – Rapport, S.– I grandi esploratori – Le Maschere, 1957

Sven o della solitudine 63

[1] La Vega, una baleniera attrezzata a rompighiaccio, sulla quale era imbarcato come ufficiale anche l’acquese Giacomo Bove, impiegò quasi quattordici mesi per raggiungere Yokohama sulla rotta di nord-est partendo da Göteborg, dopo essere rimasta imprigionata nel pack per dieci mesi nello stretto di Bering,

[2] Ferdinand Von Richtofen è un innovatore della scienza geografica, nella quale fa rientrare anche gli aspetti storici, antropologici e culturali di un territorio. Questo rinnovamento è esemplificato soprattutto dal suo voluminoso studio sulla Cina, nell’ambito del quale conia il termine di “via della seta”. È tra l’altro zio del famoso aviatore ed eroe della Prima guerra mondiale Manfred von Richtofen, noto come “Barone rosso”.

[3] Schäfer dirige durante la guerra l’Istituto di Ricerche Centroasiatiche intitolato allo stesso Hedin, che compie esperimenti pseudo-scientifici sugli internati del campo di Auschwitz.

Anni perduti – e da dimenticare

(appunti sparsi sullo stato mio e della nazione)

di Paolo Repetto, 24 dicembre 2022

Nel solco di una tradizione recentissima, inaugurata su questo sito solo dodici mesi orsono con lo scritto sui Buoni propositi, propongo un sintetico resoconto dell’anno che sta mestamente per chiudersi. È un bilancio da economia domestica, nel quale si mescolano le voci più disparate: ma proprio per questo credo corrisponda nella maniera più veritiera a ciò che tutti abbiamo percepito di un anno decisamente infausto.
In questa prima parte ho inserito senza aggiornarle alcune riflessioni maturate nel corso dell’estate: non vanno oltre il livello di una bozza, ma mi sembra rimangano tuttora valide. A breve saranno postate quelle più recenti. Mi propongo di sviluppare meglio in futuro alcuni degli argomenti toccati, ma prima di tutto spero di muovere anche altri ad occuparsene. A quanto pare il mio ottimismo resiste, è a prova di sanità pubblica e di imbecillità private, di crisi energetiche e di smottamenti a destra. Per questo non ho ritegno a fare (e a farmi) ancora gli auguri.

Anni perduti 01

Se esiste una mente universale,
deve necessariamente essere sana?

La Débâcle

Non piove praticamente da nove mesi. Fiumi in secca, laghi che scompaiono, ghiacciai che si sciolgono o si disintegrano a ritmi sempre più accelerati. Mentre i campi e le risaie sono bruciati dall’arsura, le sorgenti e i rubinetti cominciano a tossire. Di quando in quando, con frequenza incalzante, arriva una tromba d’aria a movimentare un po’ il paesaggio. Da qualche giorno poi hanno ripreso a crepitare anche gli incendi. La peggiore siccità dell’ultimo secolo, si dice, ma solo perché non sono possibili raffronti con quelli precedenti. Saranno anche fenomeni in larga parte indipendenti dalle attività umane, come testimonia la ciclicità delle glaciazioni, ma non si può negare che l’umanità ci stia mettendo molto del suo, con comportamenti che moltiplicano gli effetti degli sconquassi naturali.

Anni perduti 02

In compenso sono ricomparsi il covid, che s’inventa sempre nuove varianti, e l’inflazione, invocata fino a ieri come la pioggia, ma subito sfuggita di mano e schizzata a due cifre: e soprattutto la violenza, tanto quella pubblica come quella privata. Qui la natura non c’entra, facciamo tutto da soli.

La violenza internazionale è riesplosa improvvisa persino nel vecchio continente. Anche se si mantiene stabilmente “a bassa intensità”, da febbraio il conflitto tra la Russia e l’Ucraina chiede il suo quotidiano tributo di morti (di quelli russi non si sa), desertifica intere regioni e le spoglia delle loro strutture produttive, impedendo tra l’altro l’esportazione di quel grano dal quale dipende la sopravvivenza di metà della popolazione africana. Di conseguenza questa a breve si sposterà con un esodo ben più che biblico verso le coste europee. Le sanzioni inflitte alla Russia dall’occidente si sono rivelate un boomerang, stanno logorando soprattutto le economie europee e hanno spinto i Russi nelle braccia sempre tese (a prendere) della Cina.

Anni perduti 03

In questo allegro panorama le “democrazie” occidentali sono guidate da governi deboli e da classi politiche decisamente incapaci. La nostra è neppure più guidata: siamo riusciti a mandare a casa anche il meno peggio, e affideremo tra un paio di mesi il nostro destino al “paese reale”.

In situazioni come queste non esiste una terminologia capace di rendere appieno l’entità di quanto sta accadendo. Almeno nella lingua italiana, che in linea con il nostro modo di pensare bada più a lasciare spazio alle sfumature sottili di significato, consentendoci di giocare con interpretazioni ambigue o riduttive. Il francese, invece, dispone quasi sempre della parola giusta, capace di riassumere tutti i sinonimi e di andare oltre. Lo abbiamo già visto in un’altra occasione, con bêtise. Nel caso attuale la parola appropriata e definitiva mi sembra débâcle, che sta per sconfitta, disfatta, batosta, resa umiliante, disastro, sfacelo, fallimento, ecc., e sottintende un ampio margine di responsabilità umana.

Il riassunto che ho fatto è ovviamente tanto generico da sembrare banalmente superfluo: il disagio che tutti quanti stiamo vivendo è evidente, anche se si manifesta nei modi più disparati. Ogni tanto però fa bene anche sintetizzare la situazione in un quadro generale, perché di norma tendiamo a preoccuparci dei singoli problemi uno alla volta: il che è normale e comprensibile, ma finisce poi per distrarci dal guardare in faccia l’aspetto più angosciante e immediato della tragedia, che è proprio lo stato del “paese reale”.

(luglio 2022)

 

Un paese di farlocchi

Giudicato in base all’immagine che ci torna dai media, il paese reale è una jungla (secondo la stampa) o un serraglio di deficienti (secondo la televisione). Sappiamo però che i media non raccontano la verità, e allora proviamo a fidarci dei nostri occhi, del nostro intuito. Ci diciamo che questa è una falsa immagine, che in fondo a guardarci attorno siamo circondati da un sacco di gente normale, di persone che fanno il proprio lavoro, che non uccidono la moglie o i vicini di casa, non frequentano i siti pedofili e non incassano pensioni per finte invalidità.

Ed è anche vero: ma nemmeno questa è un’immagine oggettiva del paese reale. Certo, se evitiamo di frequentare le discoteche o i parchi cittadini, di uscire a fare quattro passi la sera, di andare allo stadio per partite o mega-concerti, di partecipare alle adunate politiche, di farci candidare alle amministrative o semplicemente alla rappresentanza condominiale, allora sì, abbiamo l’impressione che tutto sommato le cose funzionino. Ma se soltanto usciamo di un passo dal perimetro di sicurezza che ci siamo ritagliati, e che si riduce ogni giorno di più, allora il paese reale lo incontriamo davvero.

C’è una quotidianità che non possiamo ignorare, a dispetto dell’ottimismo della volontà cui facciamo sempre meno convintamente ricorso. Parlo delle piccole irritazioni dalle quali siamo continuamente assaliti, dal momento in cui scendiamo a buttare la spazzatura a quello in cui cerchiamo di prendere sonno a dispetto di sagre, di sfide motoristiche notturne o di cani che latrano tutta la notte alla luna, anche quando la luna non c’è. Parlo della sensazione che nulla sia più sotto controllo, che se ci è andata bene oggi già domani potremo imbatterci in un pazzo o in un cinghiale in libertà, o trovarci coinvolti in un crack finanziario di cui nessuno alla fine sarà tenuto responsabile e tutti (o quasi) pagheranno le conseguenze. Non è questione di catastrofismo: è evidente come su questa percezione pesi anche il battage dei media, ma lo è altrettanto il fatto che lo smottamento sociale procede palpabile e accelerato. Questo è il “paese reale”.

Del quale, naturalmente, facciamo parte anche noi. Ne fanno parte i piccolissimi e costanti cedimenti alla non legalità o alla non correttezza cui siamo costretti per sopravvivere (anche perché quali siano la legalità e la correttezza non è mai ben chiaro), che riusciamo a giustificare con sempre meno rimorsi e ai quali ci stiamo velocemente assuefacendo.

Da sociale dunque il problema diventa in prima battuta individuale. Lo smottamento coinvolge anche noi, già per il solo fatto, quando non troviamo una risposta credibile al “cosa posso farci io, concretamente” (di fronte all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, al degrado sociale, culturale, scolastico, linguistico, ecc…) di assistervi inerti. E peggio ancora va quando la risposta la diamo abbracciando posizioni che non tardano a diventare ideologiche, quando chiamiamo a responsabili tutti gli altri, quelli che si ostinano a non capire, dall’alto di una nostra presunta (e presuntuosa) esemplarità.

Anni perduti 04

Qualche giorno fa (per la precisione il 19 giugno) Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico superdecorato e onnipresente in tivù, ha tenuto a Lerma una “Chiacchierata ecologica”, per spiegare al popolo quanto gravi siano i problemi ambientali, quanto siamo in ritardo per risolverli e quali piccoli accorgimenti comportamentali ciascuno di noi può adottare da subito per dare un suo contributo. Tutte cose molto giuste e vere, supportate da fior di dati sull’oggi e di proiezioni sul domani, in una serata talmente afosa da far percepire sulla loro pelle agli astanti la portata dei cambiamenti climatici. Tanto che ad un certo punto qualcuno ha pensato di procurare a un Mercalli grondante sudore un paio di bottigliette di acqua minerale. Lo avesse mai fatto! Le bottigliette (di plastica) sono state sgarbatamente respinte dall’oratore, in coerenza perfetta quanto al merito con ciò che andava predicando sull’inquinamento, ma molto meno, quanto ai modi, con quel che pretendeva di insegnare sui comportamenti. Dubito che la chiacchierata abbia segnato qualche punto a favore della causa ambientalista. Il giorno successivo nessuno probabilmente ricordava qualcosa dell’argomento, ma tutti avevano ben presente la malagrazia dell’illustre ospite. Mi sembra un esempio palese di come ogni integralismo, anche quello applicato a giuste cause, finisca per perdere di vista quello che è il nocciolo di qualsivoglia problema sociale, ovvero la mancanza di buona educazione.

(luglio 2022)

Anni perduti 05a

Un fil di fumo

Avrei svariati motivi per sentirmi a terra. Alcuni sono indubbiamente seri, e richiedono continui e sempre più faticosi colpi di reni per rialzarsi. Altri, non meno seri, sono comuni a tutti, riguardano la situazione politica, e più ancora quella ambientale, ma sembrano ormai sfuggire ad ogni nostra possibilità di controllo e spingono alla rassegnazione. Altri ancora, invece, possono apparire decisamente futili, sono sindromi del tutto personali, ma per accumulo provocano alla lunga un’insostenibile pesantezza.

Io patisco soprattutto questi ultimi, nel senso che ai primi bene o male reagisco, mentre di fronte ai cumuli di cretinate mi sento impotente. Soffro di una sensibilità addirittura morbosa per la stupidaggine, segnatamente nei confronti di quella che viaggia col passaporto “culturale”. Mi arrabbio ad esempio se sento su RaiTre che vogliono consacrare a museo un appartamento abitato da Pasolini per qualche mese, interrompo immediatamente la lettura di un saggio filosofico sull’avventura quando vi trovo scritto che nel 1794 le truppe napoleoniche (?) marciavano sulla superficie ghiacciata del Reno, spengo il televisore se mi propone un dibattito sul sacro cuore di Maradona o un concerto polemico del maestro Muti, diserto le mostre sui cugini o sui vicini di casa degli impressionisti, ma anche quelle sugli impressionisti stessi, e le conferenze degli storici a gettone. Va da sé poi che evito come la peste i film che “devi” vedere, i libri che “devi” leggere, i musicisti che “devi” ascoltare per non sentirti fuori sintonia. Intendiamoci, ciascuno è libero vedere e leggere e ascoltare ciò che gli pare, purché non pretenda poi di dettare più o meno larvatamente un canone.

Un’attitudine di questo tipo crea naturalmente dei problemi. A volte mi sento sotto assedio, soprattutto quando vedo cannibalizzati e banalizzati a merce di consumo interessi, argomenti, personaggi che coltivo da sempre con devozione quasi religiosa. Allora trovo conforto solo nel mio frutteto, e più ancora nella mia biblioteca, che un filtro sessantennale ha reso affidabile, ma che mi spinge inesorabilmente a guardare indietro. È la depressione post-postmoderna. O forse è solo lo scotto da pagare all’invecchiamento galoppante, uno scotto nel mio caso particolarmente pesante perché si somma ad una disposizione congenita. Insomma, è dura.

Non voglio però ricominciare con le geremiadi: al contrario, voglio testimoniare che è possibile, sia pure per qualche attimo, uscire dal rigor mortis della post-modernità e da quello dell’ineluttabile consapevolezza della propria irrilevanza. Che quando sembra nulla valga più la pena di essere visto o ascoltato, tentato o sperato, basta davvero poco a squarciare la bruma grigia che avvolge il mondo.

Anni perduti 05

È accaduto la primavera scorsa. Incontro per una conversazione extracurricolare un paio di classi terminali dell’ultimo liceo che ho diretto, su sollecitazione di un docente col quale si è creata una buona sintonia. Logorroico e semirimbambito quale sono, la tiro in lungo per quasi due ore, ma constato con crescente meraviglia che non uno dei cinquanta ragazzi presenti si alza e si assenta per urgenze: il che, stante la debolezza ritentiva dei nostri giovani, è quasi un miracolo. Non solo: dal momento che amo conversare deambulando, posso realizzare che nessuno si trastulla con lo smartphone, risponde a messaggi o si addormenta con gli occhi aperti (se accadesse, non la tirerei così in lungo). I ragazzi mi seguono con lo sguardo, avanti e indietro, come in una partita a tennis al rallentatore, e non in ossequio ad ordini di scuderia, né per una particolare reverenza dovuta a un dirigente: quando sono entrati in quel Liceo me n’ero già andato da un pezzo, e non mi hanno mai visto, e comunque quella forma di rispetto per i ruoli è venuta meno da un bel pezzo. Forse è l’argomento a intrigarli, perché la conversazione viaggia un po’ fuori degli schemi, ma alla fin fine non si parla né di calcio né di Greta Thunberg, della crisi ambientale o dei problemi adolescenziali: si parla di filosofia, o meglio, delle possibili e conflittuali visioni del mondo che stanno dietro ogni nostra scelta o comportamento. Non devo interrompermi nemmeno per un secondo, malgrado in queste occasioni sia molto esigente rispetto all’atteggiamento dell’uditorio: e magari m’illudo, ma ho l’impressione che quei ragazzi capiscano tutto ciò di cui sto parlando, anche se molte delle cose tirate in ballo non sono loro affatto consuete. Insomma, ne esco stupito, mi prende persino un po’ di nostalgia dei bei tempi dell’insegnamento, cosa che non mi capitava più da quel dì.

Ora, il passaggio logico successivo, quello che ci si aspetta (e arriva inesorabilmente) nei talk show, dovrebbe essere un proclama di assoluta fiducia nei giovani e di speranza che saranno loro a salvare il mondo. Invece no. Non nutro alcuna fiducia speciale nei giovani, non ne ho motivo, ma allo stesso modo in cui non la nutro nei biondi o nei mancini o nelle persone che portano gli occhiali, o in qualsiasi altra categoria morfologica o anagrafica. I giovani oltretutto, purtroppo per loro, saranno tali solo per breve tempo. Non so se salveranno il mondo o lo affosseranno definitivamente, so soltanto che lo abiteranno nei prossimi sessanta o settant’anni e temo che non sarà uno spasso; senz’altro sarà meno facile di quanto lo è stato per noi. Credo però nelle persone educate e responsabili, e quindi intelligenti. Il passaggio successivo è dunque che mi sono stupito di trovarmi di fronte, raccolte in un’unica sala e nello stesso lasso di tempo, tante persone con queste ultime caratteristiche. Non c’ero più abituato.

Ho anche provato ad immaginare la stessa situazione retrodatandola di sessant’anni e spostandomi in mezzo all’uditorio. Che tipo di attenzione avremmo prestato io e i miei compagni? Senz’altro silenziosa, per una coazione tutt’altro che tenera alla disciplina (l’aver lasciato cadere una penna dal banco mi fece sbattere una volta fuori dalla classe, dopo una solenne lavata di capo), e magari anche un’attenzione genuinamente interessata, se il relatore e l’argomento trattato lo avessero meritato: ma non posso dimenticare che io stesso, per tanti aspetti allievo modello, seguivo le spiegazioni dei miei insegnanti con un doppio taccuino, uno per gli appunti e uno per le mie creazioni artistiche, sul quale annotavo però anche il ricorrere di certi intercalari, per determinarne in maniera quasi scientifica la frequenza e arrivare ad anticiparli; oppure sottolineavo l’uso di termini che potevano essere piegati ad un doppio senso (era il massimo della licenziosità che all’epoca potevamo permetterci). Altri si tenevano svegli con distrazioni non molto diverse. Insomma, dietro la facciata, come nei western all’italiana, spesso c’erano solo dei pali di sostegno e dei tiranti.

Per questo, se provo a mettermi nei panni dei miei insegnanti, credo che avrei nutrito forti dubbi di poter trarre qualcosa da quegli adolescenti pieni di brufoli e pateticamente presuntuosi. E invece il qualcosa è venuto fuori: non in termini di “successo”, che non considero un indicatore di rilievo, e del quale non ho mai tenuto un registro, ma senz’altro in termini di qualità umana. Non c’è un mio ex-compagno che non riveda o che non rivedrei con piacere.

La stessa cosa potrebbe senz’altro verificarsi domani per i ragazzi di quelle due classi. Magari a vederli poi in giro, l’uno accanto all’altro ma ciascuno immerso nei suoi social, siamo portati a scrollare il capo e a chiederci cosa ne sarà tra vent’anni, e difficilmente ci diamo risposte positive: ma questo è accaduto dai tempi di Adamo nei confronti di ogni nuova generazione, anche se la nostra attuale perplessità parrebbe più che giustificata dalla accelerazione impressa alle trasformazioni dei costumi e dei rapporti. Forse però dovremmo avere maggiore fiducia nella capacità umana di fare fronte a cambiamenti anche traumatici, in quella che oggi con un termine abusatissimo negli pseudo dibattiti televisivi e quindi sempre più vago viene definita “resilienza” (in questo caso assunta nel suo significato originario). Se in una qualsiasi occasione questi ragazzi hanno dimostrato collettivamente intelligenza e responsabilità, significa che possono essere intelligenti e responsabili. Basta dar loro l’opportunità di esserlo. Che siano poi anche giovani è un valore aggiunto, una condizione né necessaria né sufficiente.

Dove voglio arrivare, con tutto questo giro? Semplicemente al fatto che di norma prestiamo attenzione solo a quello che non va, che non funziona, che ci disturba, mentre ignoriamo piuttosto ciò che proprio perché funziona ci sembra scontato. Ecco, io credo che il gesto veramente rivoluzionario, l’unico ancora possibile, sia quello di non dare nulla per scontato, e meno che mai le manifestazioni di una intelligente normalità. Queste andrebbero al contrario sottolineate, in maniera sobria ed efficace, puntando sull’effetto emulativo che può avere la pura e semplice ripetizione. Non si tratta insomma di riesumare il premio “Livio Tempesta”, quello che si assegnava ai miei tempi ai bimbi buoni che si prendevano cura dei loro compagni sfortunati o dei nonni, o percorrevano il mattino chilometri di sentieri con l’amico disabile a spalla per arrivare a scuola (anche se rispetto a quelli che quotidianamente si distribuiscono per le motivazioni più insensate ci starebbe tutto): il sentir ribadire ogni mattina che un comportamento intelligente paga, in termini di risultati, ma prima ancora di amicizia e di rispetto di sé, potrebbe fornire qualche rassicurazione ai molti che sarebbero portati a tenerlo, ma sono resi dubbiosi sulla propria normalità dall’esemplificazione malefica proposta in maniera martellante dai media.

Sto cercando di dire, anche se temo di non essere stato abbastanza chiaro, che a dispetto di tutto abbiamo ancora la possibilità di fare qualcosa. Come, lo vedremo la prossima puntata (e stavolta la prossima puntata ci sarà davvero).

(agosto 2022)

Anni perduti 06

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Tre manifesti sul futuro dell’umanità

di Paolo Repetto, 3 novembre 2022

Tre manifesti copertina

Sentiamo che il mondo antico sta per finire, ma come sarà quello nuovo? I più grandi intelletti di oggi non sono in grado di prevederlo, esattamente come quelli dell’Antichità non erano in grado di prevedere l’abolizione della schiavitù, la società cristiana, l’invasione dei barbari e tutti i grandi eventi che hanno trasformato il volto terrestre.
(Alexis de Tocqueville)

Due letture recenti mi riportano ad un argomento che ho già trattato in più occasioni (cfr. soprattutto La discesa dal monte analogo). Temo però di averlo fatto piuttosto confusamente, e provo allora ad affrontarlo per l’ennesima volta cercando di essere più chiaro (e di chiarire le idee in primo luogo a me stesso).

Gli scritti che mi hanno offerto lo spunto sono molto diversi. Il primo è un “manifesto” redatto in stile futurista, comparso sulla rivista on line “L’indiscreto” il 14 settembre col titolo “Incivilizzazione”. Anche il secondo si presenta come “Manifesto del grande risveglio”, ma il titolo ufficiale è “Contro il grande reset” e ha la struttura di un vero e proprio pamphlet. Il terzo è un saggio pubblicato a inizio anno da Aldo Schiavone, intitolato “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che ho letto solo pochi giorni fa.

L’idea di un intervento era già nata in realtà dopo la lettura del primo, ma avevo in mente solo una ironica demolizione; l’incontro con Dugin e il libro di Schiavone mi hanno invece convinto a tentare un approfondimento più serio. Spero non riesca soltanto più pesante.

I tre testi viaggiano a livelli assolutamente diseguali, per valore e per profondità nella trattazione, e un raffronto alla pari non avrebbe alcun senso: ma tutti e tre si prestano altrettanto bene al mio scopo, perché consentono di mettere a fuoco poli diversi, addirittura opposti, dell’atteggiamento nei confronti della civilizzazione “occidentale”, della razionalità e, implicitamente, del futuro della nostra specie. Cerco quindi di trattarli come “documenti”, testimonianze significative di come una stessa atmosfera possa essere interpretata con disposizioni antitetiche.

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Incivilization: The Dark Mountain Manifesto è uno scritto relativamente breve pubblicato nel 2009 da Paul Kingsnorth e Dougald Hine, per annunciare l’inaugurazione del The Dark Mountain Project. I due militano nella galassia tanto diffusa quanto confusa degli eco-integralisti d’oltreoceano. Nel testo fanno riferimento costante, come ispiratore e nume tutelare del progetto, al poeta Robinson Jeffers, popolare negli anni ‘20 e ‘30 nella cerchia dei bohemiens e dei letterati che affollavano le coste californiane (era un amico di George Sterling e di Edgar Lee Masters, e per un certo periodo ha frequentato anche D.H. Lawrence), ma quasi sconosciuto al di fuori di quel giro (malgrado una sua foto sia stata pubblicata sulla copertina della rivista Time, cosa piuttosto rara per un poeta, e il suo profilo compaia su un francobollo del servizio postale). Conviene partire direttamente da lui.

Jeffers era un personaggio singolare, capace di costruire con le proprie mani una casa con tanto di torre tutta in pietra (“Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare,/ le mie dita conobbero l’arte/di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti”), quella che compare nella immagine di apertura, e di vivere poi in essa un’esistenza appartata e austera, ma anche attento ad alimentare il mito che attorno a questa casa e a questa esistenza si andava creando. Ha esercitato senza dubbio una grande influenza sugli scrittori ambientalisti della generazione successiva, come Edward Abbey e Gary Snyder, ma anche Bukowski, cui dell’ambiente non importava un fico, lo idolatrava. (“Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”) Negli anni settanta-ottanta è stato poi ripescato dalla cultura new-age, continuando però ad essere un autore di nicchia: e per quello che conosco della sua opera mi pare destinato a rimanere tale. Al momento le uniche sue raccolte poetiche tradotte in italiano sono “La bipenne e altre poesie” (1969) e “Cawdor” (1977: è in realtà un vero e proprio poema “epico”), e non hanno suscitato particolari entusiasmi.

Al di là delle eccentricità e dei meriti, però, ciò che davvero qui importa di Jeffres è l’appartenenza ad una tradizione “nobile” della cultura statunitense, che vede tra gli antesignani ottocenteschi personaggi come Thoreau, Muir e soprattutto Ralph Waldo Emerson e i “trascendentalisti”, e che predica un rapporto completamente diverso con la natura, empatico anziché antagonistico. Alle spalle di questi proto-ecologisti c’era un sentire religioso profondo, lontano da quell’ipocrita dogmaticità ecclesiale alla quale gli uomini del nuovo mondo avevano voluto sottrarsi: davanti a loro c’era una natura ancora incontaminata, spazi immensi e solitari nei quali il rapporto col trascendente si imponeva immediato e che andavano salvaguardati dalla colonizzazione distruttiva delle attività umane. Sulla spinta di questa tradizione sono nati infatti i primi grandi santuari naturalistici, come Yellowstone o Yosemite.

Jeffers ne ha ereditato entrambi i presupposti di base, ma è poi andato oltre. Ha predicato una sorta di panteismo che mescola la scienza e il culto mistico della bellezza della natura, nella “convinzione che l’umanità sia troppo egocentrica e troppo indifferente alla sorprendente bellezza delle cose”: e ha coniato per il suo atteggiamento la definizione di “inumanesimo”. Lo definiva esplicitamente come “…uno spostamento dell’enfasi e del significato dall’uomo al ‘non uomo’; il rifiuto del solipsismo umano e il riconoscimento della magnificenza transumana…”.

Per dare voce a questo atteggiamento la sua poesia si compiace di immagini brutali, indulge alla descrizione della violenza (stiamo parlando di un secolo fa: oggi gli stomaci dei lettori sono abituati a digerire ben altro), insiste su un atteggiamento misantropico e su un pessimismo esasperato e addirittura auspica un suicidio liberatorio (per la natura) dell’umanità. E a questo si è voluta attribuire la sua limitata fortuna critica e di pubblico.

In realtà credo che la ragione sia un’altra. L’ambizione di Jeffers era di ridare alla poesia un respiro epico, sul modello del “Paradiso perduto” di Milton, e per farlo era necessario usare una franchezza aspra, creare emozioni ma anche accompagnare con la suggestione di immagini forti il pensiero: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come la prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando.” La sua era evidentemente una cifra poetica controcorrente, in un’epoca nella quale i suoi contemporanei (da Eliot a Pound agli ermetici italiani) adottavano un linguaggio elitario e infarcito di difficoltà; e quella poetica Jeffers l’ha perseguita con coerenza e in sprezzante solitudine lungo tutta la sua carriera, infischiandosene delle mode e delle correnti, e anzi, bollando l’uso escludente della parola come puro manierismo.

Jeffers leggeva effettivamente la storia dell’umanità tutta in negativo. Era attratto dalla scienza, ma giudicava devastanti i suoi risvolti pratici, la tecnologia sfuggita al controllo. Disprezzava la politica, ma non esitava a prendere posizioni radicali e impopolari (come quella del pacifismo isolazionista all’epoca della seconda guerra mondiale). Questo modo di sentire non era comunque a suo parere né misantropico né pessimista. Piuttosto consentiva “un ragionevole distacco come regola di condotta, invece di amore, odio e invidia … offre magnificenza all’istinto religioso”.

La verità è che Jeffers non nega la violenza né la esalta: la analizza come un dato di fatto, come la caratteristica fondamentale del vivere. Lo fa da un punto di vista “materialistico”, che contrappone a quello “umanistico”. “L’umanesimo ci insegna meglio perché soffriamo, ma il materialismo ci insegna a soffrire”. Scrive: “L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”. Per “materialismo” intende quindi la coscienza darwiniana della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza.

In sostanza. Per Jeffers il dolore non è stato introdotto in una preesistente serena armonia del cosmo dalla trasgressione umana: quella che è stata introdotta è invece la percezione come dolore di un conflitto che è di per sé intrinseco alla natura. Questa percezione l’uomo non l’accetta, e cerca di liberarsene modificando l’ordine delle cose, abusando quindi dell’ambiente e degradandolo. E non si limita a trasformare la terra, ma la distrugge, condannando la sua stessa specie all’estinzione. In questo senso l’uomo è il peggiore di tutti gli animali, il più dannoso e il più scriteriato. La sua è un’intelligenza malata: attraverso la presunzione razionalistica e le sue ricadute tecnologiche si stacca sempre più dalla natura, e nel contempo però non può non riconoscere la sublime bellezza di quest’ultima, nella quale intravvede l’opera di Dio; ma, ed è questo il paradosso, anziché riconciliarsi con essa è ulteriormente spinto, proprio dalla straziante coscienza di quanto sta perdendo, alla crudeltà e all’autodistruzione. Ciò vale tanto più per i popoli presso i quali il processo di “civilizzazione” è più avanzato, ovvero per la civiltà occidentale, che è avviata ad un palese declino, travolta dall’egoismo, dalle guerre, dalla mercificazione.

E così, solo una volta scomparso l’uomo l’armonia cosmica si ricomporrà, in un’altra forma, ma non ad un livello inferiore. Nel farci capire ed accettare tutto questo la poesia ha un ruolo determinante, e al poeta va tributato un religioso rispetto (che il poeta deve guadagnarsi resistendo alle tentazioni del successo e della fama: “Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta/ Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi/ Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare/ La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici./ Ma degli amici no”.

La coerenza di Jeffers non è forse stata così totale come le sue stesse parole chiederebbero, altrimenti non saremmo qui a parlarne: il mio problema con lui non è però questo, non ho il diritto di essere così integralista. Il problema sta nel fatto che la sua poesia, pure così chiara e diretta, lascia comunque spazio sia a interpretazioni forzate (il Bukowski di cui sopra) sia ad una degustazione puramente “estetica”, per amanti dei sapori forti. Chiama insomma ad essere testimoni passivi del naufragio, o addirittura a compiacersi della violenza delle onde. E non sono del tutto sicuro che nel profondo Jeffers la pensasse davvero così: probabilmente delle onde aveva anche paura.

Una curiosità: Jeffers è quasi omonimo di un altro letterato ambientalista, appartenente però alla tradizione inglese, Richard Jefferies, grande camminatore, naturalista ed esploratore delle campagne britanniche, nonché autore di un romanzo post-apocalittico, “Dove un tempo era Londra” (1885. cfr. il mio Pensare con i piedi). Quest’ultimo immagina che dopo una improvvisa catastrofe, della quale non viene precisata la natura, il paesaggio inglese venga riconquistato dalle foreste, che si mangiano tanto la campagna quanto le strade e le città, e Londra sia ridotta ad una palude venefica. Non so se Jeffrers l’abbia mai letto, non mi risulta che lo abbia citato, ma credo che questa prospettiva gli sarebbe piaciuta.

Tre manifesti 03

Mi sono soffermato a lungo su Jeffers perché gli estensori del manifesto del Dark Mountain Project non si sono sforzati molto: hanno ripreso pari pari la sua visione, aggiornandola alle attuali emergenze ambientali, economiche e politiche. In effetti avevano solo l’imbarazzo della scelta. Cerco comunque di riassumere il loro testo attraverso i passi più significativi.

Il Manifesto parte appunto dalla presa d’atto delle radicali trasformazioni in corso:

Tutt’intorno a noi avvengono cambiamenti che suggeriscono come il no stro modo di vivere stia già passando alla storia. Stiamo cadendo. Viviamo in un’epoca nella quale i limiti cui siamo abituati stanno scomparendo, e le nostre fondamenta ci vengono strappate da sotto i piedi. Dopo un quarto di secolo di noncuranza, durante il quale siamo stati spinti a credere che la bolla non sarebbe mai esplosa, i valori mai crollati, ecco la fine della storia … La Hybris ha ora la sua Nemesi. […] Una storia a noi familiare si sta concludendo. È la storia dell’impero che crolla dall’interno. È la storia di un popolo che ha creduto, per molto tempo, che le proprie azioni non avrebbero avuto conseguenze. È la storia di come quel popolo dovrà fare i conti con la fine del proprio mito. È la nostra storia.

Mentre scriviamo queste righe, nessuno può dire con certezza quando finirà lo sfaldarsi del tessuto finanziario e commerciale della nostra economia. Nel frattempo, fuori dalle metropoli, lo sfruttamento industriale incontrollato sgretola le basi materiali della vita di moltissime parti del mondo, e grava sul sistema ecologico che la sostiene.”

Vengono poi messi in discussione i plinti di fondazione della civiltà:

“La civiltà umana è una costruzione particolarmente fragile. È costruita su poco più che una semplice convinzione: la certezza che i propri valori siano quelli giusti; la fede nel suo sistema di leggi e ordine; la fede nella sua valuta; ma al di sopra di tutto, probabilmente, la fede nel suo futuro.”

Queste convinzioni sono state riassunte e rielaborate, soprattutto nel mondo occidentale, in una narrazione mitologica che ha come protagonista il progresso. La storia di questa mitologizzazione passa attraverso successive declinazioni dell’utopia razional-capitalistica:

“Sulle radici della cristianità occidentale, l’Illuminismo all’apice del suo ottimismo ha innestato una visione del paradiso terrestre, cui le gesta umane, guidate da calcolo razionale, potranno condurci. Grazie a questa guida, ogni generazione vivrà una vita migliore di quella che l’ha preceduta. La storia diventa un ascensore, e l’unica via possibile è verso l’alto. All’ultimo piano c’è la perfezione umana: è fondamentale che questa rimanga fuori portata quel tanto che basta al fine di sostenere l’illusione del moto.”

La storia recente, invece, ha dato un duro colpo a questo meccanismo.

“Il progresso ha, in molti modi, fallito nel suo tentativo di produrre benessere. Le generazioni di oggi sono evidentemente meno soddisfatte, e di conseguenza meno ottimistiche, di quelle che le hanno precedute. Lavorano di più, con meno garanzie, e hanno meno possibilità di lasciarsi alle spalle il contesto sociale nelle quali sono nate. Hanno paura del crimine, del collasso della società, dello sviluppo incontrollato e della catastrofe climatica. Non credono che il futuro sarà migliore del passato.”

E allora? Allora “è tempo di cercare nuovi percorsi e nuove storie, che ci conducano attraverso la fine del mondo per come lo conosciamo, fuori da esso. Pensiamo che mettendo in discussione le fondamenta della civilizzazione, il mito della centralità umana, il nostro immaginario isolamento, possiamo trovare i principi di questi percorsi.

Questo è il Dark Mountain Project. Inizia qui.”

Tre manifesti 04

Uno si aspetterebbe a questo punto lo spiegone che illustra le virtù della nuova società darkiana e indica le vie per instaurarla. Ma rimane deluso. La caduta di tono è repentina e ridimensiona drasticamente le aspettative.

“Dove finirà? Nessuno lo sa. Dove condurrà? Non ne siamo certi. La sua prima incarnazione, avviata assieme a questo manifesto, è un sito web, che indica la strada per i campi. Conterrà riflessioni, scarabocchi, schizzi, idee; lavorerà sull’Incivilizzazione, e inviterà, chiunque verrà, ad unirsi alla discussione.

Gli estensori del manifesto sembrano aver esaurito le forze e le idee nell’anamnesi: per la terapia tagliano corto e si affidano agli otto principi fondamentali dell’“incivilizzazione”.

  • Viviamo in un tempo di disfacimento sociale, economico ed ecologico. Attorno a noi si affollano le avvisaglie che il nostro intero modo di vivere sta già passando alla storia. Affronteremo con franchezza questa verità e impareremo a conviverci.
  • Rifiutiamo la fede nell’idea che le crisi convergenti dei nostri tempi possano essere ridotte a un insieme di ‘problemi’ bisognosi di ‘soluzioni’ tecnologiche o politiche.
  • Crediamo che le radici di queste crisi si trovino nelle storie che ci siamo raccontati. Intendiamo mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà: il mito del progresso, il mito della centralità umana e il mito della nostra separazione dalla ‘natura’. Tali miti sono ancor più pericolosi poiché abbiamo dimenticato che lo sono.
  • Vogliamo riaffermare il ruolo della narrazione come qualcosa di più di un mero intrattenimento. È attraverso le storie che intessiamo la realtà.
  • Gli umani non sono il senso e lo scopo del pianeta. La nostra arte avrà inizio con il tentativo di porsi al di fuori della bolla umana. Con prudente attenzione rientreremo in contatto col mondo non umano.
  • Vogliamo celebrare la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo. La nostra letteratura è stata troppo a lungo sotto il controllo di coloro che abitano le cittadelle cosmopolite.
  • Non ci perderemo nell’elaborazione di teorie o ideologie. Le nostre parole saranno elementari. Noi scriviamo con lo sporco sotto le unghie.
  • La fine del mondo per come lo conosciamo non è la fine di tutto il mondo. Insieme troveremo la speranza oltre la speranza, i percorsi che conducono al mondo sconosciuto davanti a noi.

Vediamo allora di ricapitolare. Né Jeffers né tantomeno gli autori del manifesto della Montagna Nera dicono qualcosa di realmente nuovo. Rientrano come già dicevo nella tradizione apocalittica di matrice biblica, che in America, dai Padri pellegrini in poi, ha trovato espressione in una miriade di sette millenariste. La novità sta semmai nel fatto che non contemplano una via di fuga, un eskatòn, ma predicano il ritorno e la resa incondizionata alle leggi di natura. Il legame più diretto, segnatamente per Jeffers, è con i trascendentalisti: come questi ultimi ritiene che l’unica via praticabile dall’uomo per riconciliarsi con se stesso sia quella estetica: nel confronto estetico con la Natura, dinanzi alla sua Bellezza, l’uomo ritrova la propria dimensione spirituale (“Un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti” scriveva Walt Whitman): ma, a differenza che per i trascendentalisti, l’infinita varietà della natura e delle sue forme lo rende anche consapevole della propria irrilevanza e della transitorietà della specie umana. Non lo lascia estatico, ma sgomento e arrabbiato.

Su questa tradizione s’innestano via via, a partire dalla fine dell’Ottocento, da un lato il buddismo importato d’oltreoceano (Pacifico) e rivisitato all’americana (ovvero accentuandone l’individualismo e spettacolarizzandone la ritualità), dall’altro gli echi del pensiero filosofico post-nietzschiano che giungono dall’Europa (il poema Cawdor di Jeffers è pubblicato dieci anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler e arriva un anno dopo Essere e tempo di Heidegger). Il tutto dà origine a un singolare e contradditorio miscuglio di religiosità biblica e di sentire panteistico, di misticismo e di nichilismo, di umiltà professata e di presunzione di sé praticata.

Il fatto è che gli americani non hanno alle spalle una storia “profonda”, e tantomeno una mitologia originaria di fondazione. Hanno dovuto reinventarsene una, adattando alla nuova situazione la narrazione biblica, per giustificare il possesso di terre espropriate ad altri (il mito della frontiera) e trovare conferma ad una concezione assolutamente individualistica della libertà. Per questo sono i maggiori mitopoieti dell’età moderna e si esprimono con un linguaggio enfatico che trova supporto nelle nuove modalità espressive, a partire dal cinema (dove un incidente stradale non può vedere coinvolti e distrutti meno di dieci veicoli e una sparatoria non può durare meno di un quarto d’ora). Enfatizzano alla stessa maniera infantile i sentimenti, le tragedie, la malvagità, il coraggio, e ogni aspetto della quotidianità.

Per lo specifico del nostro discorso è esemplare il caso della Tor House, la dimora in pietra di Jeffers, divenuta meta di pellegrinaggio per i suoi ammiratori. In fondo Jeffers ha fatto solo ciò che milioni di pionieri avevano fatto prima di lui, senza peraltro vedere in ogni blocco angolare la mano di Dio. La vita sobria e appartata (sino ad un certo punto) che vi conduceva rimandava a sua volta all’esperienza naturistica di Thoreau, alla capanna che quest’ultimo aveva costruita con le proprie mani nei boschi di Concord e nella quale aveva dimorato per due anni, due mesi e due giorni. Quella capanna è diventata, attraverso le pagine di Walden, l’icona della scelta di una vita rude e solitaria, quando nella realtà non distava più di un miglio dal villaggio (Thoreau avrebbe potuto benissimo andarci a piedi ogni mattina per bere un caffè alla locanda). Entrambe queste esperienze sono state trasmesse dai protagonisti già circonfuse di un’aura ascetica e sapienziale, e come tali sono state poi consacrate dai lettori–spettatori.

Ci insisto perché so di cosa parlo. Anch’io ho costruito un capanno con le mie sole mani (senz’altro più ampio della dimora di Thoreau), e ho tirato su lì attorno decine di metri di muri a secco e posato rustiche pavimentazioni, ma non ho sentito in alcuna delle pietre che sistemavo la presenza di Dio (al più ho visto qualche volta la Madonna, quando mi scivolavano su un piede o al termine di giornate particolarmente faticose). Né ho ritenuto di celebrare poeticamente o filosoficamente la cosa: ho scritto una paginetta sulle origini del capanno solo perché legate ad un aneddoto che mi sembrava divertente. E soprattutto, la bellezza della natura circostante che mi fermavo ad ammirare nelle pause-sigaretta non mi ha mai indotto recriminazioni o violenza: mi ispirava anzi allora e continua oggi ad ispirarmi la determinazione a contaminarla il meno possibile. Sentivo di farne parte comunque, anche quando lavoravo sotto la pioggia o nelle giornate più roventi o afose.

Si sarà capito che ho scarsa simpatia per tutto ciò che puzza di cornici messe alle finestre per dire che sono quadri (in questo caso l’immagine si attaglia perfettamente). Per avere davvero un senso e una credibilità certe situazioni o vicende dovrebbero essere vissute come normali, non è il caso di scomodare l’epos. E lo stesso vale per le idee: non è certo l’incarto nuovo a renderle originali, ha semmai un valore riconoscerne i percorsi pregressi. Il tema dell’equivoco di fondo nel nostro rapporto con la natura era già centrale in Leopardi, sfrondato di ogni verniciatura mistica e pretesa epica; quello della necessità di reintegrarsi in essa stava alla base, oltre che del trascendentalismo americano, dei movimenti proto-ecologici fioriti anche in Europa, principalmente in Germania, agli inizi del Novecento (ma ben prima ancora era presente in Rousseau); le perplessità nei confronti della tecnica, e soprattutto dell’uso che l’uomo tende a farne, erano manifestate da quasi tutti gli scrittori di fantascienza venuti dopo Verne, da Robida a W.H. Hudson a Wells; le prospettive di degenerazione della democrazia erano state già lucidamente indicate da Tocqueville, le colpe del colonialismo e le ipocrisie della cultura occidentale denunciate da Conrad.

Insomma, tutte queste cose Jeffers non le ha spinte solo alle estreme conseguenze, ma le ha condotte in un vicolo cieco, travisando tra l’altro il succo del pensiero dei suoi ispiratori. Thoreau scriveva infatti: “Si dice che la civilizzazione è un reale progresso nella condizione dell’uomo – e io sono convinto che lo sia, anche se solo i saggi migliorano i loro vantaggi”). Jeffers non ne era evidentemente altrettanto convinto, avrebbe piuttosto condiviso con Cioran e con i professionisti del pessimismo l’idea che l’uomo è un intruso, un tragico errore dell’evoluzione, al quale la natura porrà rimedio. Vien da dire, come alla moglie del vescovo Wilberforce a proposito della nostra “discendenza” dalle scimmie: magari è proprio così, ma almeno non facciamolo sapere troppo in giro.

Gli odierni estimatori di Jeffers si fermano un po’ prima. Cercano la speranza oltre la speranza, vale a dire oltre quel poco o nulla cui oggi la scienza e la tecnologia ci consentono di guardare nella ricerca di una improbabile salvezza. E non riescono a trovare di meglio che “mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà e restituire l’agire artistico a una pratica ‘incivilizzata’”. Nel fare ciò arrivano quantomeno in ritardo, da almeno un secolo la demolizione dei miti della modernità è diventata lo sport intellettuale più praticato. Se poi gli strumenti di demolizione sono la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo (e cioè?) e praticate con lo sporco sotto le unghie da novelli costruttori di nuraghi, allora le generazioni di oggi hanno tutte le ragioni di non credere che il futuro sarà meglio del passato.

Tre manifesti 05

A questo punto può sembrare non valesse la pena prendere così sul serio il manifesto del progetto della Montagna Nera (e magari anche la poesia di Robinson Jeffers). Non è così. Il documento sarà pure patetico, non fosse altro per la sproporzione tra lo scenario apocalittico che dipinge e la miseria delle soluzioni che propone, ma fotografa perfettamente un atteggiamento molto diffuso nei confronti di un tema come quello della sopravvivenza della civiltà occidentale e, in seconda battuta, della specie umana (intendo quello più diffuso tra chi il problema se lo pone, perché in realtà la maggioranza dà l’impressione di non porselo affatto).

Al fondo di questa disposizione negativa sta una vocazione generalizzata al “risentimento”. Anche se nello specifico degli ambientalisti radicali alla Jeffers potrebbe sembrare il contrario, il loro è né più né meno l’atteggiamento di chi si ritiene perennemente in credito nei confronti della vita e del resto dell’umanità. Avremmo la possibilità di vivere in armonia con la natura, dicono, semplicemente accettandone tutte le leggi, anche quelle che ripugnano alla nostra ipocrita morale “civilizzata”: ma qualcuno o qualcosa ce la sta negando. Come in ogni situazione di crisi occorre identificare i responsabili (i capri espiatori di cui parla René Girard), e responsabili sono naturalmente sempre “gli altri”. Una volta poi individuato quel qualcuno o qualcosa su cui scaricare ogni colpa, ci si può sentire sdegnosamente innocenti. Si è compiuto il proprio dovere di Cassandre, Troia può ora tranquillamente bruciare. Nel nostro caso i capri espiatori sono, secondo una crescente scala di “consapevolezza” dettata dalle singole condizioni culturali ed esistenziali, le multinazionali, i “poteri forti”, il capitalismo, ma soprattutto la civilizzazione occidentale nel suo complesso; e l’imputazione è quella di aver sacrificato al proprio dominio l’armonia del cosmo e la libertà degli umani. Il perno di questa operazione di conquista essendo identificato nella razionalità, la soluzione è quella di liberarsi dai vincoli di quest’ultima. La vittima vera del “sacrificio rituale” che dovrebbe ristabilire gli equilibri, ripristinare l’armonia del cosmo violata, è dunque la ragione.

Non sono stato sconvolto dalla lettura del Manifesto, si tratta di cose trite e ritrite; ma ho avuto la conferma che questo modello di pensiero, a diversi livelli di articolazione, è ormai dominante nella maggioranza. Le tesi che gli estensori del documento banalizzano, e cioè che la civilizzazione, intesa nella sua accezione occidentale, sta portando il mondo allo sfascio, che il progresso scientifico e lo sviluppo tecnologico sono gli strumenti per imporre questo dominio e che le istituzioni democratiche sono la foglia di fico dietro la quale questo dominio si nasconde, sono le stesse sostenute con argomentazioni più complesse e raffinate da una élite culturale agguerrita, che opera al di qua e al di là dell’Atlantico e trova i suoi teorici più accreditati in pensatori come Foucault, Agamben, Negri, Severino, ecc. L’influenza di questa élite sul sentimento delle grandi masse non è naturalmente diretta, arriva attraverso la mediazione semplificatoria e spesso distorcente operata dai suoi epigoni telegenici alla Fusaro o alla Massimo Fini, da comici o da giornalisti in fregola di presenzialismo, da moderni Masanielli in cerca di una qualsiasi tribuna e da politici scafati pronti a saltare su ogni cavallo di passaggio: ma comunque arriva, si innesta su quel risentimento populista confuso e diffuso cui accennavo sopra e a giustificare il quale si parla genericamente di un “disagio” (che esiste davvero, ma è appunto soprattutto mentale, legato alla paura di fronte ad una complessità che appare incomprensibile).

In cosa si traduce questo risentimento? Lo vediamo quotidianamente, lo sentiamo tutt’attorno a noi: nella rabbia indiscriminata verso tutti, nel rifiuto di ogni responsabilizzazione, nel negazionismo pervicace, nella crescita del massimalismo che si accompagna alla volubilità nelle scelte politiche, nella rincorsa costante ai diritti e nella negligenza sui doveri, nell’irrisione delle competenze e nell’esaltazione dell’ignoranza “democratizzante”, nella sfiducia nei confronti della scienza e nella credulità superstiziosa, ecc… E poi ci sono altri sintomi che andrebbero colti, meno clamorosi ma non meno inquietanti.

Un banale esempio può valere per tutti. Negli ultimi mesi avrò visto cinquanta servizi sulle innumerevoli specie animali in estinzione, dal leopardo delle nevi alle foche monache e ai pesci del lago nel deserto, ma non uno sulle guerre che si stanno combattendo ad esempio nel sud-Sudan (oltre 80.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati), o nello Yemen. Direi che l’antropocentrismo contro il quale tuonava Jeffers è ampiamente superato, anche se ha lasciato il posto ad una consapevolezza pelosa, che tende piuttosto a escludere l’uomo dalla natura anziché includerlo. L’animalismo ha preso pieghe grottesche (lo psicologo per cani e gatti) e ha spinto fino all’assurdo quella negazione delle differenze che nell’interpretazione corretta era stata uno dei cardini della modernità.

Ma non è tutto. Ultimamente il dibattito sulle intelligenze non umane si è allargato a considerare, oltre quelle animali, anche quelle delle piante. A presto una carta dei diritti vegetali, e i decespugliatori saranno messi fuorilegge.

In compenso l’elenco delle specie a rischio prossimo di estinzione si allunga: ci siamo dentro anche noi. E non per eventi naturali, ma per suicidio da decerebrazione. Finisce cha il presagio di Jeffers si avvera.

Tre manifesti 06

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Tre manifesti 07a

Se la lettura del manifesto Dark Mountain mi ha solo un po’ infastidito, quella di “Contro il Grande Reset. Manifesto del grande risveglio” di Alexander Dugin mi ha lasciato perplesso e preoccupato. Perplesso perché si tratta di un documento decisamente rozzo, o che almeno appare tale in una traduzione che deve essere stata affidata ad un dispositivo digitale o ad un ubriaco, senza più essere rivista nelle bozze. Voglio credere che lo standard delle opere di Dugin sia diverso, altrimenti c’è da chiedersi cosa ci hanno trovato gli “intellettuali” italiani e francesi che da anni lo frequentano (va bene, uno è il solito Fusaro, ma anche Alain de Benoit è un suo assiduo). Probabilmente l’operazione di lancio è stata montata in tutta fretta, per sfruttare l’onda della visibilità offerta a Dugin dall’attentato nel quale è rimasta uccisa la figlia, ma già il testo originale era indubbiamente sbozzato con l’accetta. In copertina è anche annunciata una introduzione di Stefano Borgonovo, che evidentemente è poi saltata, per l’urgenza di mettere on line il documento o per qualche ripensamento del vicedirettore de “La verità” (ho dei dubbi: uno che scrive su “La verità” difficilmente si fa degli scrupoli); o forse più semplicemente perché c’era poco da spiegare.

Ed è proprio questo che mi preoccupa, perché le idee di Dugin, ancorché deliranti, sono terribilmente chiare (nel senso, naturalmente, che persino Borgonovo può intenderle), e l’argomentazione segue una logica elementare di contrapposizione tra cultura occidentale e “idea russa” (o, come vedremo, “eurasiatica”), nell’ottica di un dissolvimento della prima e di un trionfo della seconda. Che tanti occidentali, con una schiera di intellettuali in testa, trovino così affascinante questa idea mi porta a pensare che davvero il deragliamento sia già in corso.

Comunque, procediamo con ordine. Dugin adotta per la sua narrazione un percorso inverso a quello degli estensori del manifesto darkiano. Parte dalla situazione attuale, fa un salto indietro per andare alle origini di quello che definisce un “progetto di globalizzazione e disumanizzazione” e seguirne il percorso nel tempo e analizza infine gli strumenti per contrastarlo (tra i quali non è affatto prevista la poesia). Dal momento che lo fa molto sinteticamente, lascio il più possibile a lui la parola.

L’esordio è da grande complotto. Prende le mosse dal “Great Reset”, un piano che intendeva sfruttare le restrizioni in tempo di Covid per digitalizzare i processi produttivi e le attività sociali, sottoscritto a Davos dal principe di Galles, l’attuale Carlo III d’Inghilterra (il libello è stato scritto prima della scomparsa di Elisabetta, durante l’ultima emergenza pandemica, e non è stato aggiornato), nel quale si delineavano le strategie per avviare un futuro sostenibile.

Tre manifesti 07Nell’interpretazione di Dugin queste strategie sono intese in realtà solo a puntellare l’ordine esistente. “L’idea principale del Great Reset è la continuazione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti”. Gli obiettivi di fondo del diabolico disegno possono essere riassunti in:

  • Controllo della coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della “cultura dell’annullamento” — l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
  • Transizione a un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture industriali (punti 2 e 5);
  • Ingresso dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

Adesso sappiamo (più o meno) cos’è il Great Reset. Ma come si è arrivati a programmarlo? E chi c’è dietro? Lapalissiano: “Leader mondiali e capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri”. Il povero Carlo è quindi solo un prestanome, anche se in verità la famiglia reale inglese è chiamata volentieri in causa dagli smascheratori di complotti mondiali. Paga ancora il fio del colonialismo ottocentesco e dell’imperialismo del secolo scorso.

La prima mossa dell’offensiva globalista scatenata “dopo una serie di fallimenti” (l’11 settembre, l’elezione di Trump, il pasticcio afgano, ecc…) è stata la vittoria di Biden, che “ha strappato la vittoria a Trump utilizzando le nuove tecnologie, attraverso la ‘cattura dell’immaginazione’, l’introduzione della censura su Internet e la manipolazione del voto per corrispondenza.” Ma come abbiamo visto il globalismo aveva già approfittato dell’occasione offerta dalla pandemia. Infatti: “L’epidemia di Covid-19 è una scusa. Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale”.

Nello scacchiere geopolitico il piano si muove attraverso “una combinazione di ‘promozione della democrazia’ e ‘strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta scala’”. A tal fine “i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica) si coniugano con l’affermarsi di una politica militare aggressiva”.

La parte più intrigante del “Manifesto” arriva però adesso:

Per capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il ‘nuovo’ corso di Washington per il Great Reset, bisogna guardare l’intera storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.

Le radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi: alcuni riconoscevano l’esistenza del comune (specie, genere, universalia), mentre altri credevano solo in certe cose concrete — individuali, e interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione convenzionali puramente esterni, che rappresentano ‘suono vuoto’. Coloro che erano convinti dell’esistenza del generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di Aristotele. Vennero chiamati ‘realisti’, cioè coloro che riconoscevano la ‘realtà di universalia’. Il rappresentante più in vista dei ‘realisti’ era Tommaso d’Aquino e, in generale, era la tradizione dei monaci domenicani. I fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati ‘nominalisti’, dal latino nomen . La pretesa — ‘le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” ‘— risale proprio a uno dei massimi difensori del ‘nominalismo’, il filosofo inglese William Occam.”

Il progetto ha avuto dunque una quasi millenaria gestazione. Non è figlio della “modernità”, ma piuttosto della “occidentalità”. È nato già con lo “scisma d’Oriente” che nel 1054 ha lacerato la vecchia cristianità (e peraltro anche prima della nascita della Russia).

Sono interessanti le ascendenze che Dugin identifica. La modernità è per lui figlia del francescanesimo, un ordine religioso e un atteggiamento spirituale sempre prossimo alla devianza ereticale – e viene poi presa in carico e affermata dalle sette protestanti. È una lettura genealogica molto rozza, perché non distingue tra luteranesimo, puritanesimo e anabattismo, e non considera il fatto che gli anti-globalisti americani, quelli che più oltre identifica come i “resistenti trumpisti”, sono per lo più animati proprio dalla una fedeltà allo spirito originario del protestantesimo (pietisti, moravi, quaccheri, soprattutto anabattisti e mennoniti-amish, ecc) e arrivano da gruppi religiosi ultra-conservatori. Attribuisce inoltre alla chiesa ortodossa orientale, quella che fa capo al metropolita di Mosca, il merito di aver opposto la maggior resistenza al “nominalismo”. E in questo ha invece pienamente ragione.

Dugin si lancia poi in una cavalcata storica che copre quasi un millennio e chiarisce tutti i nodi fondamentali. “Il ‘nominalismo’ ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite.

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica del New Age (sic: immagino intenda dell’Era moderna) — nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

[…] La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione. L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor più dall’ortodossia), è stata sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Ciò ha creato un gran numero di sette protestanti controverse.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come ‘identità collettiva’ (qualcosa di ‘comune’), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti. La gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da indefiniti ‘cittadini’, secondo il significato originario della parola ‘borghese’. La borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea. Ma il borghese era esattamente il miglior ‘individuo’, cittadino senza clan, tribù, professione, ma con proprietà privata.

Fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero Romano d’Occidente, quale altra espressione di ‘identità collettiva’. Al suo posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una specie di ‘individuo politico’.

[…] La filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al liberalismo.

Il senso della storia e del progresso era ormai di ‘liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva’ fino al limite logico.

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Per tutto questo periodo il processo di globalizzazione ha proceduto lineare, ovviamente nei limiti consentiti dalle resistenze opposte dal vecchio mondo. La rivoluzione scientifica e quella industriale ne sono stati la mente e il braccio, e anche i grandi sconvolgimenti politici e sociali, le rivoluzioni inglese, americana e francese, rientravano nel disegno, anzi, ne hanno accelerato l’esecuzione. Le cose si sono invece complicate a partire dal secolo scorso.

[…] Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale. Questa strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore del comunismo), furono vinte [? Nell’originale sarà ‘vinsero’] le rivoluzioni proletarie.

Parallelamente ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze nazionaliste estreme. Hanno agito in nome della “nazione” o di una “razza”, sempre contrastando l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato, come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente. Ma erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Lo capirono chiaramente i teorici del liberalismo (Hayek e il suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di ‘nemici della società aperta’, e iniziarono con loro una guerra mortale “.

Da questa guerra nel corso del Novecento sia il comunismo che i fascismi sono usciti sconfitti. Per questo: “Negli anni ‘90, i teorici liberali iniziarono a parlare della ‘fine della storia’. Questa è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più avanzata: la fase del globalismo. L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori occidentali avevano vinto su scala globale.”

[…] “A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Innanzitutto il genere. Dopotutto, il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile. Quindi il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile. Gli oppositori esterni hanno ostacolato la politica di genere: quei paesi che avevano ancora i resti della società tradizionale, i valori della famiglia, Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista.

Con il successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso divenne ovvio che ai liberali restava un ultimo passo da fare: abolire gli esseri umani.

Dopotutto, l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere superato, abolito, distrutto. Questo è ciò che richiede il principio del nominalismo: una ‘persona’ è solo un nome, privo di qualsiasi significato, una classificazione arbitraria e quindi sempre discutibile. C’è solo l’individuo — umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Pertanto, l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato secoli verso il loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica. L’umano opzionale segue logicamente il genere opzionale.

[…] “Questa agenda è già prefigurata dal postumanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando ogni giorno più realistica. Futurologi e fautori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo futuro quando l’intelligenza artificiale diventerà paragonabile nei parametri di base agli esseri umani. Questo momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro dieci o vent’anni.”

Questa la trama. Lo schizzo storico che Dugin abbozza non è poi, per quanto sbrigativo, del tutto peregrino. Voglio dire che le cose sono andate grosso modo così, anche se poi Dugin legge l’accaduto con occhiali deformanti. E non è nemmeno particolarmente originale. Pesca un po’ dovunque nel pensiero occidentale, da Max Weber a Hegel fino a Heidegger e ai postmoderni più radicali, e cuoce il pescato nella pentola della tradizione slavofila. In sostanza, partendo dai danni reali che la civilizzazione occidentale ha prodotto, in parte come effetti collaterali indesiderati, in parte come distorsioni intrinseche alle scelte fatte – danni che stiamo scontando pesantemente, e che la cultura occidentale più consapevole ha comunque sempre denunciato – arriva a metterne in discussione tutto l’impianto. Che è più o meno quanto faceva Jeffers e quanto predicano i militanti della Montagna Nera, con la differenza però che Dugin prospetta una cura molto peggiore della malattia.

La cura è il “Grande Risveglio”. Che procede per gradi, con velocità diverse nelle diverse parti del mondo, ma già è visibile.

Riassumendo il quadro completo della situazione attuale Dugin ammette: “In effetti le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei ‘diritti umani’, le norme della ‘società civile’, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in particolare la tecnologia digitale — sono stati in qualche modo affermati in tutta l’umanità”.

Ma la storia non è affatto finita. La madre di tutte le battaglie deve essere ancora combattuta.

Il Great Reset ‘non è niente di meno che l’inizio dell’‘ultima battaglia’. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, appaiono a se stessi come ‘guerrieri della luce’, portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica, alle masse.

Tutti coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, ‘forze delle tenebre’. Così inizia a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso. I nemici della ‘società aperta’ ora sono comparsi all’interno della stessa civiltà occidentale.

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Sono immagini che, ribaltando un po’ (ma non troppo) i ruoli delle forze in gioco, evocano Il signore degli anelli e Guerre stellari, e ho l’impressione che soprattutto al primo siano debitrici (Tolkien è in fondo un alfiere della conservazione, anche se le ‘forze del male’ per lui venivano da Oriente). In realtà comunque i nemici della ‘società aperta’ non sono comparsi all’improvviso. Erano già presenti da un pezzo, ma si muovevano a ranghi sconnessi, senza avere un’idea ben precisa della natura vera dell’avversario, delle strategie da perseguire e degli obiettivi cui mirare. “Erano quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli statinazione e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata ‘populismo’ (o ‘populismo di destra’), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi ‘valori’ e ‘punti di riferimento’ nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo senso.

Certo, i campioni di questa resistenza non brillavano per la ricchezza del loro bagaglio culturale o per la finezza delle loro proposte, ma avevano il pregio di coinvolgere attivamente quelle masse popolari che il globalismo stava cloroformizzando:

“Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla nemmeno vicino al ‘prosciugare la palude’ e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante ciò, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance e Big Tech inseparabili da loro.”

In realtà: “Trump non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

[…] La forza trainante della mobilitazione di massa dei ‘Trumpists’ è diventata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.”

Per Dugin il fattore davvero importante e decisivo per il passaggio da una strategia di resistenza ad una di attacco è rappresentato proprio dall’emersione nel cuore nell’Occidente di un “nemico interiore”, dal quale “la storia degli ultimi secoli con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali è messa in discussione”.

Torna anche a sottolineare ripetutamente l’esistenza di un fronte esterno che si sta compattando, e che va dalla Russia di Putin alla Cina (Pechino ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà), al mondo islamico (nel quale tanto l’Iran sciita quanto la Turchia e il Pakistan sunniti hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione), all’Africa (sia quella mediterranea che quella subsahariana), e che comincia a coinvolgere anche l’India e il Sudamerica: ma ciò che davvero lo conforta nella sua visione è la nascita di un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.

Questo dualismo si fa strada anche nell’ambito intellettuale: “Sul piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accettato le paradossali conclusioni della postmodernità e del realismo speculativo”.

Ma bada a non insistere troppo su questo piano: “Il Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le masse, le persone in quanto tali. E il risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica. È una reazione spontanea delle masse, poco competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più spazio per le persone in futuro.

D’altro canto, quando deve citare qualche “autorevole” intellettuale schierato contro il Great Reset sembra in difficoltà. Si limita a dire che “Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Lo stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde”. Oppure cita Pat Buchanan, Richard Weaver e Russell Kirk, degli illustri carneade, o Alex Jones, che ha il solo merito di aver coniato lo slogan del “grande Risveglio”.

In realtà il materiale non gli mancherebbe, potrebbe pescare persino in Italia, ma preferisce insistere sul carattere spontaneista, genuino e popolare (o populista, termine che usa in una accezione positiva) del movimento: “La tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della protesta. Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza della sua fine imminente”.

Arriva ad ammettere che “Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non è affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi storica approfondita. Come abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti Trumpist e i partecipanti a QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel. La cospirazione è una malattia infantile dell’antiglobalizzazione. Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale. Nasce così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione liberale”.

Consapevole o meno (certo è difficile parlare di consapevolezza in presenza di QAnon), il Risveglio è comunque tangibile. E anzi, è favorito proprio dal sostrato povero ma genuino di cui si nutre:

Liberati da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno. Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali di portare a termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.”

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L’ultima parte del libello è dedicata alle prospettive di tradurre questa resistenza in vittoria.

“Il Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è nemmeno iniziato. Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, è di grande (forse cruciale) importanza.

Se c’è chi proclama il Grande Risveglio, per quanto ingenue possano sembrare le loro formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta maturando un nocciolo di resistenza, che cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Great Reset e i suoi seguaci. Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità. È l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e sulla direzione del futuro.

Ma andando poi sul concreto, Dugin deve ammettere che: “Naturalmente, il Grande Risveglio è completamente impreparato. Negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo. Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e comunisti sono state recentemente rilevate dai liberali e riorientate dal condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari”. Questo si chiama vederci chiaro.

Allo stesso modo “La destra, d’altra parte, è confinata nei suoi stati-nazione e nelle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione disperata.

Quindi c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica. Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse nei tempi moderni nello stesso Occidente.

Qualcosa di totalmente inedito, insomma. E tanto per cominciare questo qualcosa ha da scavalcare le logiche di contrapposizione bi- o tri-polari:

Per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità. Questa non è solo la salvezza dell’‘Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.”

In questa prospettiva l’esito dell’inevitabile confronto finale si rivela molto meno incerto. Una rapida carrellata su quelli che potrebbero diventare i poli del Grande Risveglio ribalta i rapporti di forza.

Si parte naturalmente dagli Stati Uniti, che sono già oggi essenzialmente “in uno stato di guerra civile. Sebbene lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori – 70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano preso la dittatura liberale come un dato di fatto. Sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di diventare illegali, ma un’opposizione di 70.000.000 di persone è seria”.

Pertanto: “Non importa come ci sentiamo nei confronti degli Stati Uniti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio. Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro compito comune”.

Si passa quindi all’Europa. “L’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due parti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, distruttori della cultura europea e becchini della classe media. Allo stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, a volte contraddittorie e frammentarie.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici: il definitivo superamento del confine tra Sinistra e Destra (cioè il rifiuto obbligato dell’‘antifascismo’ artificioso di alcuni e di ‘anticomunismo’ inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo integrale – in un modello ideologico indipendente”.

Per quanto concerne la Cina, “ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società. Ma non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva. L’individualismo cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale. La civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura su tutta l’individualità.”

Un grande serbatoio dal quale attingere odio antiglobalista è l’Islam. “Durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso assume questa missione. In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla globalizzazione liberale.” D’altro canto: “Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme.”

Infine: “Il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia (nessuno ne dubitava). Nonostante la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti dell’Occidente.

L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il passato ne era solo una preparazione. E in questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al liberalismo, la peste del ventunesimo secolo.

La Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo. L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico. Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale fissata nel nostro destino storico.”

Questa è la nostra missione: essere il katechon, ‘colui che trattiene’, impedendo l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali. Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano, africano… e europeo.

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Che dire? Il testo si commenta da solo (anche la foto sopra). Mi scuso se le continue e lunghe citazioni lo hanno reso di faticosa lettura, ma mi sembrava inutile parafrasare le argomentazioni di Dugin, dal momento che sono esposte già in maniera sintetica e tutto sommato abbastanza chiara. Mi limito pertanto ad aggiungere un’indicazione e un paio di osservazioni.

L’indicazione è per “L’idea russa”, di Bengt Jangfeldt, breviario indispensabile per chi volesse approfondire la storia profonda che sta dietro questo manifesto, a partire dal panslavismo ottocentesco. È un libro snello quasi quanto quello di Dugin, ma di ben altro “spessore”.

La prima osservazione riguarda l’uso o il non uso di determinati termini. In tutto il testo la voce Eurasia compare una sola volta. Eppure riassume l’idea di fondo di Dugin, per il quale la Russia è una realtà culturale e territoriale totalmente autonoma e sostanzialmente compatta, pur se insistente su due continenti diversi (i continenti sono una convenzione geografica). Forse non voleva forzare troppo la mano su questo concetto, che suppone un legame forte, sia culturale che storico-politico, con l’Oriente, e quindi una propensione espansionistica ed egemonica in quella direzione: cosa che non può suonare gradita né alla Cina né all’Islam, gli altri due grandi poli del Risveglio. Tra l’altro, in questo unico riferimento Dugin cita lo storico e antropologo Lev Nikolaevič Gumilëv (figlio di Anna Achmantova), che in realtà non attribuiva affatto al termine Eurasia un significato politico ma lo considerava solo un paradigma storiografico. Piuttosto, il riferimento a Gumilëv è significativo se si considera il concetto da questi coniato di ethnos, inteso come “un collettivo che si differenzia dagli altri per un proprio stereotipo comportamentale e contrappone sé stesso a tutti gli altri collettivi”. Definizione che si presta molto bene a spiegare l’idea che Dugin ha del popolo russo.

Un altro termine che nel testo non compare mai è razionalismo, pure aleggiando costantemente, sotto le specie del suo derivato applicativo razionalizzazione, dietro i progetti dei liberali globalizzanti. Credo che anche questa cosa abbia un senso: Dugin non vuole lasciare in appannaggio agli avversari il monopolio della ragione, e anzi tende a sottolineare la loro perversa devianza da quello che ne sarebbe un uso onesto e corretto: ma non può nemmeno farne la bandiera di un movimento che, per sua stessa ammissione, è nato ed è tuttora mosso da pulsioni irrazionali.

Allo stesso modo, non mette sotto accusa direttamente la scienza, se non per denunciarne l’uso criminale volto ad azzerare le coscienze e a sostituire l’uomo con un suo clone digitale. I richiami costanti all’impero e alla tradizione ortodossa non ne fanno un nostalgico reazionario, così come le strizzate d’occhio al trumpismo e a QAnon non ne fanno un complottista grossolano e ignorante: sono esche per la pesca a strascico, i primi ad uso interno, le seconde lanciate in acque internazionali: allo stesso modo in cui i riferimenti a Tommaso d’Aquino, ultimamente tornato di moda e non solo tra i teologi, lo sono negli ambienti culturali più all’avanguardia.

E ancora. Il termine “democrazia” compare nel testo sempre legato a “liberale”, in una accezione che l’aggettivo rende negativa, perché sta come “rappresentativa”. In luogo della rappresentanza democratica Dugin propone invece quella “comunitaria”: “L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Dugin ha in mente (altrove lo cita espressamente), il mir, l’assemblea di villaggio che nella Russia zarista gestiva tutti gli obblighi comunitari nei confronti dello stato, dalle esazioni fiscali al reclutamento per l’esercito. La rievoca a sostegno dell’immagine di un’identità russa che sino alla vigilia della prima guerra mondiale aveva resistito alle sirene della modernizzazione e dell’individualismo. L’idea che ha della democrazia non si scosta molto da quanto scritto da Massimo Fini – un intellettuale antisistema, come lui stesso si definisce – qualche settimana fa su “Il fatto quotidiano” (credo che i servizi russi di controinformazione abbiano sottoscritto l’abbonamento – e forse più di uno – al quotidiano di Travaglio):

Non credo alla democrazia rappresentativa (cfr. Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). Credo solo alla democrazia diretta, quella immaginata del ginevrino Rousseau. La democrazia esisteva quando non sapeva di essere democrazia. Nell’ancien régime l’assemblea del villaggio, formata da tutti i capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio.” Che è una ricostruzione di quanto avveniva nell’ancien régime piuttosto fantasiosa.

Quella di Fini è solo una delle tante voci – non certo tra le più autorevoli, ma che trova comunque un suo non trascurabile uditorio tra gli indignati a vita e una cassa di risonanza negli organi della “controinformazione” antiglobalista, pentastellata o meno – che propugnano come nuovo (o antico) modello di socialità il comunitarismo. La nebulosa comunitaria offre il migliore spaccato del mare ideologico interno all’Occidente nel quale Dugin può pescare. Di comune c’è in realtà solo la concezione di massima per la quale l’individuo esiste in virtù delle sue appartenenze culturali, etniche, religiose o sociali, ovvero della sua possibilità di creare comunità. Questa concezione può poi essere declinata in varie maniere, che vanno dall’integralismo cattolico all’anti-illuminismo della Nouvelle Droite fino alla ibridazione col marxismo, più rozza in Costanzo Preve e più articolata in Andrè Gorz: e ha forti implicazioni, oltre che sul piano del rapporto individuale con le istituzioni (il concetto di cittadinanza attiva e di partecipazione politica è molto simile a quello della pòlis greca), su quello etico (ad esempio, rifiuta l’aborto).

A questo si riferisce evidentemente Dugin quando parla di una quinta colonna antiglobalista che sgretola dall’interno la “civiltà” occidentale.

La seconda osservazione concerne ancora il tema degli “apparentamenti”. Mentre leggevo il manifesto di Dugin provavo una sensazione di déjà vu, e mi è tornato in mente qualcosa di molto simile in cui mi ero imbattuto diversi anni fa. Ho verificato poi che si tratta della prolusione ad una Conferenza Internazionale sulla Depressione (svoltasi nel 2004). L’autore era il cardinale Javier Lozano Barragán, che al termine di una carrellata ancor più sintetica di quella di Dugin sulla storia del pensiero occidentale arrivava a riassumere così la situazione attuale:

Non vi è unità ma solo frammentazione. La società si trasforma in gruppi di simboli, associazioni, movimenti. La solidità del partito politico, ‘della comunità, della nazione, sono così sostituiti.

L’uomo radicale professa un individualismo totale, possessivo e anarchico; si manifesta in una serie di negazioni: è antifamiliare, antimilitarista, anticlericale, antipartito, antistatale. Alla sua spontaneità attribuisce un valore assoluto, con le conseguenze socio-politiche della liberazione sessuale, dell’omosessualità, del femminismo, dell’aborto, del divorzio, della lotta contro i manicomi, contro le carceri, contro i concordati, per l’abolizione dell’insegnamento religioso, ecc. È l’uomo dell’anticultura radicale.”

Le diverse valutazioni che il cardinale dava del peso da attribuirsi alle vicende storiche o alle successive correnti di pensiero non inficiano la sostanziale omogeneità dello schema di lettura adottato. Ad Occam ad esempio Barragán faceva appena cenno, ma per contrapporlo “ai grandi pensatori che culminano nella Scolastica”, in primis a proprio a Tommaso d’Aquino. Un modo elegante per liquidare il nominalismo, senza per questo tacerne l’influsso negativo. Lo stesso dicasi per gli esiti della riforma protestante. Certo, il documento non prendeva in considerazione il ruolo di ‘resistenza’ del cristianesimo ortodosso, che tanta importanza ha per Dugin, e lo attribuiva invece in toto alla Chiesa cattolica: ma insisteva comunque sull’effetto di disgregazione indotto dalla modernità, e in termini non molto diversi da quelli usati dall’ideologo russo.

Non credo che negli ultimi vent’anni la posizione del mondo cattolico militante sia cambiata molto, se non nel senso di essere diventata ancor più critica nei confronti della “globalizzazione capitalistica”. Questo spiega e “giustifica” le convergenze sul piano della politica internazionale con l’universo ex-sovietico, la comprensione per i regimi che si reggono sull’integralismo religioso, le posizioni filo-putiniane professate recentemente, a fronte dell’invasione dell’Ucraina, non solo dall’ala arroccata su postazioni preconciliari, ma anche da molti esponenti della base (condivise ad esempio dal nuovo presidente della Camera, assieme all’apprezzamento per la “coerenza” patriottica e antiliberale del metropolita di Mosca).

È ciò cui si riferisce Dugin quando afferma che nella battaglia contro il globalismo, per far decollare il Grande Risveglio, tutti i mezzi e tutti gli alleati vanno bene: non è importante partire da una piattaforma di idee comuni, ma identificare il nemico comune. A uniformare le idee e a stabilire i confini si provvederà dopo, e ciascuno degli insorgenti lo farà a casa propria e a modo suo (sempre che i confinanti glielo permettano). Come abbiamo visto sopra, quindi, si parli di “grande risveglio” (che è peraltro l’etichetta usata anche dai gruppi avventisti d’oltreatlantico), di rinascita spirituale collettiva, di Jihad o di sindrome complottista, il banco del quale Dugin aspira ad essere il pesce-pilota è ricchissimo, vi nuotano nella stessa direzione le specie ittiche più diverse, dai pescecani ai tonni. Ma soprattutto è decisamente sguarnito e scarsamente motivato quello dei suoi difensori, o almeno di quelli che pur riconoscendo la strumentale malafede dell’ideologia di Dugin non possono fare a meno di condividerne almeno in parte la lettura storica. Costoro si trovano a combattere su due fronti, stando nel bel mezzo dello scontro, senza vedere alcuna realistica via d’uscita. Non occorre essere apocalittici per capire che si annunciano tempi duri.

Tre manifesti 12

***

I due “manifesti” precedenti (ma a questo punto possiamo dire tre, comprendendo anche quello del cardinal Barragán) ci prospettavano diversi scenari possibili del crollo dell’occidente: il primo per implosione interna, il secondo per un attacco dall’esterno, il terzo per trasgressione delle leggi divine.

Aldo Schiavone non è così pessimista. Ne “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che non è un manifesto ma ha la densità e le ambizioni di un vero saggio, vede le stesse cose che vedeva Jeffers e che vedono oggi gli “incivilizzati”, parte da constatazioni che sono proprie anche di Dugin, ma lo fa da un angolo prospettico e con una disposizione d’animo completamente diversi. Non potrò seguirlo passo dopo passo come in pratica ho fatto nei due casi precedenti, ma cercherò di ordinarne le tesi in una sequenza ordinata. Andrà persa la ricchezza delle argomentazioni, ma m’importa arrivare al nocciolo.

Già dalla prima pagina si capisce che Schiavone non è un catastrofista; non dice che il mondo va a ramengo, ma che è sempre più complicato viverci.

Viviamo in un mondo che non è mai stato così complesso e anche così caotico – di una complessità̀ che produce (tra molte altre cose) disordine – con due principali componenti che concorrono, sia pure non da sole, a determinare questi caratteri.

La prima è un prodotto delle nuove possibilità della tecnica, che mettendo in contatto realtà finora non comunicanti e anzi drasticamente separate – nello spazio e nel pensiero – ha moltiplicato reti di interazioni sempre più intricate e difficili da decifrare, creando un contesto che è estremamente arduo comprendere e padroneggiare.

La seconda è costituita dalla convivenza intorno a noi – quasi dovunque in Occidente, come esito del salto tecnologico – di due insiemi culturali e sociali del tutto disomogenei, ma intrecciati l’uno nell’altro, ciascuno dei quali condiziona e coinvolge in modo opposto: uno che sta sparendo – in maniera spesso dolorosa e a volte perfino cruenta – mentre l’altro sta appena cominciando a formarsi, e non ha ancora un volto ben definito, anche se già se ne avvertono la presenza e l’impatto.”

Il che significa che gli occidentali non sono sgomenti e passivamente rassegnati come vorrebbero tanto Dugin che Jeffers (sia la natura o siano altre culture a metterli sotto attacco), ma sono senz’altro sconcertati.

Prima di spiegarci il perché di questo sconcerto, Schiavone chiarisce cosa intende per Occidente: “Occidente si dice in molti modi, per lo più contrapposti. È una parte del mondo o la matrice di valori universali? Lo spazio in espansione della democrazia o quello del suo declino? La terra del tramonto o l’alba di un nuovo inizio?

Per Schiavone c’è intanto un Occidente geopolitico (il global North), che è definito in linea di massima dal maggiore sviluppo industriale, e di conseguenza dalla maggiore ricchezza individuale, sia pure distribuita inegualmente. Questi parametri sono al momento attuale invalidati dalla crescita rapidissima di altre potenze economiche, fino a ieri relegate nel global south, quello che una volta si chiamava terzo mondo: l’accezione “economica” va quindi perdendo rilevanza, perché corrisponde sempre meno alla reale situazione.

Il termine assume poi un secondo significato, che designa invece una categoria universale dell’incivilimento umano, una forma di civiltà. Questo Occidente – dice Schiavone – è “un insieme di cultura, acquisizioni tecnologiche, economia, rapporti sociali, modelli e valori politici e giuridici, stili di vita, sviluppatosi originariamente in Europa, poi trapiantato in America e diffuso nel mondo fino a presentarsi ormai come tendenzialmente delocalizzato”. Ed è a questo secondo significato che l’autore farà costante riferimento.

Ad una percezione superficiale, quella che tiene conto soprattutto dei parametri economici, vince l’impressione che al rapido scombussolamento in corso degli assetti economici corrisponda una crisi ben più profonda, quasi un crollo, della intera “civiltà” occidentale. Non è cosa nuova: già nella prima metà del Novecento, quando ancora l’Occidente dominava in pratica tutto il resto del globo, si moltiplicavano le voci di un suo imminente rovinoso collasso (Spengler per tutti, ma anche Freud o i francofortesi, o economisti come Schumpeter e sociologi come Revel, o distopisti come Orwell e Bradbury). “[…] Possiamo dire sin d’ora che in tutte le predizioni di declino o addirittura di rovina dell’Occidente c’è un tratto comune, al di là degli eventuali elementi di verità che in qualche caso possono contenere.” Il tratto comune sarebbe appunto l’aumento, divenuto esponenziale, della complessità.

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E tuttavia, a dispetto di eventi catastrofici (crisi economiche, conflitti mondiali, ecc.) il crollo non c’era stato, o non era stato comunque così rovinoso. Anzi, verso la fine del secolo, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, che per quasi l’intero secolo aveva rappresentato il principale competitor, il modello liberal-capitalistico era parso uscire definitivamente vincitore, così da far ricomparire un cauto ottimismo (espresso ad esempio da Fukuyama ne “La fine della storia”)

Le cose sono rapidamente cambiate dopo l’ingresso nel nuovo millennio: prima con l’11 settembre 2001, con la guerra in Afghanistan e la fine della “pace americana” nel mondo; poi con il dissesto finanziario ed economico esploso nel 2008; quindi con l’epidemia del Covid-19 e infine con la guerra nel cuore dell’Europa, il tema è tornato in voga. Sono cadute in pratica le certezze sul proprio ruolo-guida che l’Occidente aveva maturato nel corso degli ultimi cinquecento anni. Si sono dissolte sotto la spinta dei “risvegli” altrui, ma soprattutto per una esasperazione del sentimento autocritico che da sempre ha controbilanciato la presunzione di superiorità (persino un apologeta della civilizzazione occidentale come Arnold Toynbee ammetteva che “Nell’incontro fra il mondo e l’Occidente, in corso da ormai quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo, non l’Occidente. Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall’Occidente”).

Per Schiavone il risultato è che si sta diffondendo “una sorta di sindrome occidentale […]; uno stato d’animo che ha dato origine a una vera e propria cultura della paura e della crisi […]; tensioni che, in alcuni ambienti e circostanze soprattutto europei, hanno assunto caratteri propriamente anticapitalistici e antiamericani […]; orientamenti riconducibili a una specie di fondamentalismo antitecnologico, che fanno coincidere la tecnica con l’Occidente […]; un illanguidirsi delle appartenenze e delle identificazioni nazionali; la maggiore permeabilità sociale e personale tra i generi […]; la minor presa dei legami familiari; la trasformazione dell’etica del lavoro […]; le nuove forme di solitudine […]; l’appannarsi e il relativizzarsi del sentimento religioso, e in specie della comune identità cristiana – paragonata al fervore dell’Islam […]”.

Sono elencati in pratica tutti quei sintomi che abbiamo visto comparire nei tre precedenti manifesti, segnatamente in quello di Dugin, ma che là erano letti “positivamente” come segnali di risveglio, o quanto meno di una presa di coscienza. Schiavone li interpreta invece come frutto di “una lettura (apologetica e nostalgica) del passato, trasformata in previsione e in giudizio (fortemente negativi) sul futuro”.

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Questa lettura “emotiva” è alimentata dalla deplorevole tendenza a trascurare gli studi storici a favore dei “cultural studies”, che alla ricerca di una sia pur imperfetta “oggettività” sostituiscono le interpretazioni delle vicende. La storia come la conosciamo e come veniva insegnata sino a ieri è accusata di essere una ricostruzione “occidentale”: ad essa viene opposta la “memoria storica”, che non è una disciplina, nel senso che non prevede il confronto sulla base di regole e criteri il più possibile oggettivi e condivisi. Ora, se i risultati del dibattito storico non danno la verità assoluta, ma almeno una verità sempre in fieri, le ricostruzioni operate sulla base della memoria ci rimandano ad esperienze singole o collettive che quasi mai sono state vissute e percepite allo stesso modo dagli altri protagonisti (e meno che mai dagli antagonisti). Si dice che la storia è scritta dai vincitori, ed è vero: ma è altresì vero che poi la correggono o la riscrivono gli storici, e che il compito di costoro è di arrivare, attraverso il confronto, ad una ricostruzione che regga il vaglio degli strumenti critici. In questo senso, con tutte le cautele del caso, si può affermare che la storia è una disciplina scientifica.

È la storia che ci può aiutare a capire, – scrive Schiavone – che può rendere possibile questo radicale ma indispensabile cambio di prospettiva, aperto sul futuro. Non soltanto la storia, probabilmente: ma lei di sicuro. Ed è innanzitutto un difetto di adeguata storicizzazione a impedirci di mettere nella giusta luce quel che si vede dal nostro oggi, e a farci confondere l’alba con il tramonto, l’incompiutezza con il declino. Quasi avessimo smarrito la capacità di connettere gli eventi secondo strutture di senso che solo se colte attraverso la loro storicità possiamo sperare di rappresentare nella loro completezza, e quindi di conoscere veramente. Come se la ragione delle cose che stanno accadendo avesse sovrastato la razionalità del pensiero che dovrebbe comprenderle: una condizione che se durasse a lungo, allora sì, che potremmo dire di essere perduti.

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A dire il vero, quella che emerge dal libro è una concezione non particolarmente scientista: sembra anzi riprendere la filosofia della storia hegeliana, in quanto Schiavone cerca nel futuro le chiavi per l’interpretazione del passato, anziché viaggiare in senso opposto (e va aggiunto che anche Hegel vedeva nell’Occidente – quello che era tale alla sua epoca, quello europeo – il principale motore della storia universale, o addirittura l’unico.)

Per l’autore “la storia correttamente letta ci insegna che l’umano ha un futuro. Questo è indubbio. Come è altrettanto indubbio che l’umano, non essendo vincolato a un’essenza in forza di una legge di necessità, sta cambiando e continuerà a farlo, a oltrepassarsi, in una dimensione post-umana che lo ha accompagnato non da oggi ma da sempre, in una lotta infinita con i propri limiti”.

Dopo quanto accaduto negli ultimi decenni l’Occidente sembra però avere persa la sua capacità di guardare avanti: “L’Occidente immagina il futuro o come un prolungamento indefinito del presente o come un luogo abitato da ansia e paura. Un luogo di incertezza e di peggioramento della propria condizione sociale ed economica. Un luogo di perdita di vita complessiva della propria dignità. Arroccati nella nostalgia di un passato ormai esaurito, perdiamo la direzione complessiva del processo in corso, il suo senso d’insieme.”

Questo accade proprio nel momento in cui si annuncia una trasformazione epocale. “E così non vediamo il salto di civiltà che abbiamo di fronte. Non sappiamo sintonizzarci alla svolta che viviamo. Orientarsi in questo intrico, venire a capo delle sue sconnessioni, è tutt’altro che facile. Come se fossimo finiti in una zona morta della nostra capacità di vedere.”

La svolta di cui Schiavone parla sta nel fatto che “oggi la storia evolutiva sta smettendo di essere un presupposto immodificabile e sta per diventare un risultato delle nostre scelte. Questo perché nel giro dei prossimi decenni, non dei prossimi secoli, avremo una capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla.”

È questa l’idea portante che attraversa tutto il libro. Quella del passaggio della nostra specie da una storia “naturale” – controllata soltanto dai meccanismi dell’evoluzione, quindi affidata alla biologia – alla storia “culturale”. Non è certamente un’idea nuova, ma qui viene spinta sino alle estreme conseguenze. D’altro canto, era un tema già presente diversi anni fa nel saggio più famoso di Schiavone, “Storia e destino”, e sta alla base anche di tutti i suoi studi successivi sulla natura del diritto. È “[…] il superamento della separazione tra storia della vita e storia dell’intelligenza. Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato dalla nostra cultura. Questo ricongiungimento, il passaggio dal controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente non è lontano […]”.

La storia “culturale” nasce con la comparsa della tecnica, anzi, è la storia di come la tecnica abbia modificato i rapporti dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, con la natura e con i suoi simili, ma soprattutto con se stesso e con il proprio destino. Perché la tecnica compare in funzione e a supporto di una progettualità, mirata ad un aumento del benessere e della sicurezza dei singoli e della specie: ovvero, compare associata all’idea di “progresso”.

L’idea di progresso – ci spiega Schiavone – esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Dentro un’idea positiva del futuro come progetto, come speranza, come proiezione in avanti delle nostre vite ecco che appare l’idea di progresso.”

Non va dunque liquidata come un rottame illuministico: “Oggi più che mai, noi come specie umana, abbiamo bisogno di recuperare una parola come progresso. Ne abbiamo bisogno perché quella parola ci consente di riappropriarci del futuro.”

Quel “noi”, prima ancora che all’intera specie umana, si riferisce agli occidentali. E qui sta la specificità della posizione di Schiavone. La fiducia nel progresso va recuperata innanzitutto da chi ne è stato sino ad oggi il principale interprete. Alla faccia della “cancel culture” dilagante, Schiavone rivendica all’Occidente un primato (anche se scrive: “non si tratta di rivendicare primati. E tanto meno di fissare gerarchie antropologiche, ma di riconoscere percorsi storici disuguali”). Perché “solo l’Occidente ha prodotto l’autonomia della scienza e la rivoluzione industriale”.

E aggiunge: “l’Occidente è definito dal proprio eccezionalismo perché è il continente delle idee e della libertà”.

La civiltà “eccezionale” che l’Occidente ha espresso è frutto della superiore capacità performativa della sua tecnica. Torna dunque l’annosa questione: la tecnica, proprio per lo stretto legame che immediatamente stringe con il capitale, ma anche a prescindere da questo, per l’atteggiamento performativo che induce nei confronti della natura, è di per sé “disumanizzante”? le derive sociali, ambientali, politiche e psicologiche di cui oggi è chiamata responsabile, le sono intrinseche? Schiavone non ha dubbi. Intanto, usa i termini capitale e capitalismo spogliati di ogni valenza ideologica, positiva o negativa: il capitale è il fondamento economico che permette alla tecnica di svilupparsi, traendo dalla tecnica stessa le risorse da reinvestire. Ritiene poi che le derive non siano un problema attinente la tecnica. Quest’ultima è solo un mezzo che apre all’uomo infinite possibilità di scelta e varianti di sviluppo. Produce risorse, e quindi anche strumenti di dominio o di distruzione, che dovrebbero però poi essere controllati e guidati dalla politica, dall’etica, dal diritto.

Il problema vero sta per lui nel fatto che quanto la tecnica ha più o meno direttamente indotto, dalla filosofia alla politica, al diritto, ai valori cardine della libertà e dell’uguaglianza che si esprimono nella democrazia, non tiene il passo con la tecnica stessa (e con l’economia che le è connessa). Non lo tiene perché è oggettivamente difficile marciare in pari con uno sviluppo tecnologico ed economico così prodigioso come quello odierno, ma anche perché da tempo l’eccezionalismo occidentale è messo in discussione, come abbiamo visto nei manifesti precedenti, dal suo stesso interno: il modello di crescita che ha informato questo sviluppo ha contraddetto troppo spesso i valori di cui si faceva portatore, principalmente quello dell’uguaglianza, suscitando le reazioni più disparate (estremismo, populismo, rivendicazioni identitarie, cancel culture, ecc..). Ma ciò che soprattutto pesa, secondo Schiavone, è “il declino di un intero sistema di saperi”, quello che stava invece alle spalle della tecnica e del capitale nell’Ottocento. Manca la capacità di “leggere” in un quadro d’insieme tutti gli aspetti dello sviluppo tecnologico, e quindi di governarne e orientarne le ricadute economiche e sociali.

Comunque, a dispetto delle sue contraddizioni, “l’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità – e l’ha fatto non solo per se stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto. In effetti però, se guardiamo bene come solo ora ci è consentito di fare, ci accorgiamo che quella che abbiamo finora sperimentato non è stata la modernità nel suo pieno realizzarsi – come si è a lungo creduto – ma solo una specie di suo straordinario per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare: una specie di protomodernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo Novecento e con il culmine politico dell’impero americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi di quell’oceano.”

Se la smettessimo per un attimo di autoflagellarci, scrive ancora Schiavone, dovremmo ammettere che dopo l’impatto con la civiltà occidentale “masse di donne e di uomini sono uscite per la prima volta dalla naturalità di un’esistenza spesa solo per sopravvivere, e hanno alzato lo sguardo oltre l’acqua per dissetarsi e il cibo per sfamarsi. In una manciata di anni, parti intere del pianeta – in Asia, specialmente, soprattutto nei grandi contesti urbani – hanno acquistato una visibilità mai posseduta; e chi ci vive è riuscito ad appropriarsi, per quanto poteva, del proprio destino. Enormi blocchi di umano sono per così dire usciti dalla natura ed entrati nella storia: in diversi modi, e per diverse vie. Hanno incontrato pezzi di modernità e si sono dati un tessuto identitario secondo l’unico modello disponibile: quello che l’Occidente ancora una volta vincitore – molto al di là di quanto egli stesso, anche per sfuggire alle proprie responsabilità, non riesca e non voglia riconoscere – ha saputo loro proporre”.

A questo punto secondo Schiavone si aprono per il futuro dell’umanità scenari ancora inesplorati, e il tono della trattazione diventa quasi visionario – anche se l’autore cerca di tenere i piedi sempre poggiati sulla concretezza. “Si riesce a capire il significato del presente solo così, cercando di guardare quel che ci aspetta per decifrarne il senso. Il mondo intero sta entrando nella versione globale della modernità”. La nostra epoca è testimone di un evento senza precedenti: la nascita della prima civiltà planetaria della storia. Una civiltà che vedrà fusi in un sistema unico il capitalismo e la tecnica, perché il capitalismo è esso stesso una potenzialità tecnica, è una macchina economica: e una volta che l’azione di questa macchina sarà diffusa a livello sovranazionale verrà liberata tutta la sua forza emancipativa. La crescita esponenziale della potenza prodotta dalla tecnica darà presto all’uomo, quasi totalmente affrancato dalla dipendenza dalla natura, la possibilità di decidere del proprio destino biologico.

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Questa radiosa (?) prospettiva è però al momento tutt’altro che scontata. La strada è ancora molto lunga. “È al centro di una lotta in parte non anc0ra decisa che dobbiamo prendere coscienza di trovarci. Ed è questa la sfida che aspetta l’Occidente. Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo: questo in qualche modo lo ha già fatto. Ma completarne la fisionomia secondo la razionalità che è capace di esprimere, e dargli un’anima e un destino – come solo lui si è dimostrato in grado di poter fare.

Sappiamo bene che sono in questione aspetti della nostra identità ai quali abbiamo legato parti importanti delle vite appena trascorse […] a cominciare da una certa idea di nazione, di classe, di lavoro, di famiglia, di genere – e saranno da trasformare radicalmente, se non da dismettere. […] Ma è proprio una caratteristica dell’Occidente quella di vivere rivoluzionando continuamente se stesso.

Prima di arrivare a questo stadio tuttavia l’Occidente dovrà superare una serie di contraddizioni. “La prima è quella tra l’unificazione tecnocapitalistica del mondo e la sua frammentazione politica. Va quindi impedito il consolidarsi di una “alleanza asiana”, che veda la Russia, la Cina, il Pakistan, l’India e parte dei paesi mediorientali consolidare un blocco in funzione anti-occidentale e anti-democratica.” Per Schiavone questo rischio è concreto e presente (non so se abbia letto Dugin, ma ha scritto il saggio già avendo presente quanto accade in Ucraina); al tempo stesso però non crede possa nascere un sistema egemonico alternativo centrato sull’Asia (Cina o India) e/o sulla Russia, perché a suo parere nessuna di queste potenze è in grado di esportare su scala globale una visione del mondo e un modello culturale e sociale universalmente appetibili (sono d’accordo), e possiede capacità di innovazione tecnologica analoghe a quelle dell’Occidente (non sono d’accordo). D’altro canto “anche la Russia post-sovietica è diventata qualcosa di diverso, sulla cui carne i processi di mondializzazione stanno incidendo in modo lento ma irreversibile. Da una società neocapitalistica, per quanto ancora fragile, è assai complicato uscire, una volta che il meccanismo si è avviato”. E in Cina “il progetto perseguito dai gruppi dirigenti di modernizzare in senso occidentale la società apre a prospettive che vanno seguite con attenzione: anche lì si creeranno contrasti difficili da gestire”.

Al di là però delle arretratezze e dei problemi dei competitori, l’Occidente ha già in sé secondo Schiavone gli anticorpi per scongiurare la formazione di una alleanza asiana, o eurasica, o islamica o di qualsiasi altro tipo: e questi non sono rappresentati da un superiore armamento nucleare, ma dalla capacità di costruire “una geopolitica intesa non solo come confronto tra le potenze, ma come costruzione di canali di collaborazione e di connessione dei popoli oltre gli stati, puntando sulla valorizzazione delle reti tecnologiche e capitalistiche globali”. Ciò implica naturalmente che l’Occidente sia capace di accogliere una molteplicità di prospettive, di adattarsi per costruire sintesi unitarie più avanzate.

Ma la geopolitica nuova che l’autore auspica, e che teoricamente avrebbe anche un senso, si concilia poi con il modello di organizzazione economica proprio del capitalismo? Ebbene: “Occorre accettare realisticamente questo dato: che l’organizzazione capitalistica è solo un esito storico provvisorio, che non ha dentro di sé nulla di naturale, e come tale va accolta e discussa”. Vale a dire che nessun modello è proprio del capitalismo, ma è storicamente determinato. “La forma del mercato e delle merci non è iscritta in modo naturale in quella della nostra specie e della sua storia: ne è semplicemente un prodotto di successo” (di “meritato successo”, si affretta ad aggiungere Schiavone).

Allo stato attuale delle cose, comunque, l’organizzazione capitalistica sembra muovere in una direzione ben diversa da quella auspicata, e crea una nuova contraddizione, “quella tra carattere intrinsecamente privato e sempre più concentrato delle attuali strutture capitalistiche dal punto di vista dei poteri, delle decisioni e dell’inaudita accumulazione di profitti: e di contro il carattere sempre più ‘pubblico’ delle ricadute sociali di quei dispositivi di produzione e di mercato”. Le ragioni economiche della produzione, le ragioni del mercato, stanno insomma progressivamente “autonomizzandosi”, scindendosi da quelle sociali: nello stesso tempo pesano in misura sempre maggiore sulle scelte politiche degli stati e su quelle comportamentali degli individui. “Per questo l’Occidente ha bisogno di esercitare quella capacità di autoanalisi che ha ben imparato a mettere in campo: per la critica della sua economia, che è cosa ben diversa e più seria dell’inutile e autodistruttivo rinnegamento del proprio passato: per correggere fin dove possibile il meccanismo alla base di questo contrasto.

L’esercizio di una corretta autoanalisi ci dice che “una volta che il lavoro ad alta intensità tecnologica ha preso il posto del vecchio lavoro di fabbrica, una volta abolito cioè il carattere sociale della produzione, e l’antagonismo strutturale che esso produceva […] la contraddizione si è trasferita dal dentro al fuori dell’ingranaggio capitalistico.”. E che anche rispetto a questa nuova contraddizione l’Occidente disporrebbe di un antidoto, che è la democrazia, se solo fosse capace di pensare quest’ultima come una costruzione (e astrazione) storica, quindi in costante evoluzione, e di conseguenza adattabile a rapporti inediti con il capitale e con il mercato. “In realtà, è l’intero rapporto fra forma capitalistica dell’economia e forma democratica della politica quale si è venuto delineando nel corso del Novecento che va ripensato a fondo, insieme al rapporto tra gestione della democrazia e uso delle più recenti tecnologie. Sapendo che nuove connessioni e compatibilità sono non solo storicamente possibili, ma appaiono funzionalmente indispensabili, e vanno a tutti i costi mantenute e sviluppate, sia pure con caratteri tutti da ricostruire.

Quando si tratta di arrivare al dunque, però, sul modello di democrazia compatibile con l’età digitale Schiavone rimane molto vago (ed è anche comprensibile che lo faccia: è uno storico, non uno scrittore di fantascienza). Si limita a parlare di un dispositivo democratico che consenta ai cittadini un esercizio della sovranità più ravvicinato, “come oggi è tecnicamente possibile”. Liquida l’improponibile mito di una democrazia diretta esercitata per via telematica, della quale già conosciamo i disastrosi esiti sperimentali, ma è anche certo che per il futuro l’esercizio della sovranità non potrà più essere affidato al modello rappresentativo, o almeno alla sua versione attuale, che non corrisponde più al sentire comune. Parla di costruire di una cittadinanza globalmente condivisa, come accade ad esempio nei movimenti per la tutela ambientale o per quella dei diritti legati alla differenza di genere, che combini in modo nuovo iniziativa dal basso e presenza nelle istituzioni e garantisca una interazione equilibrata tra potenza tecno-economica e potere politico. Un obiettivo encomiabile, ma evidentemente ben poco realistico.

Tre manifesti 17

Nell’ultima parte del saggio l’azzardo sul futuro della nostra specie è spinto ancora oltre. L’autore fonda le sue anticipazioni sul presupposto che una situazione compiutamente globalizzata farà riemergere l’“invarianza del comune umano”. Ripropone cioè in termini nuovi l’annosa questione dell’esistenza o meno di una “natura umana” (tornando sul tema col quale aveva aperto il saggio, e che percorre un po’ tutti i suoi scritti). È indubbio per lui che di “natura umana” si può parlare, e che anzi da essa non si può prescindere, tenendo comunque fermo che “su una base genetica sempre eguale a se stessa in ogni esemplare si intreccia il gioco di una illimitata combinazione di caratteri morfologici e intellettivi”. Questo sostrato biologico però non è affatto immodificabile. “Osservata dalla giusta distanza, qualunque strutturazione naturale è anch’essa storia, nient’altro che storia.

Come tutto ciò che ha a che fare con la natura, anch’esso è soggetto alle leggi dell’evoluzione. Con una novità, consistente nel fatto che “la rivoluzione attuale, dove prima c’era una enorme difformità di contesti, sta sovrapponendo all’identità della base genetica una identità globale di stimoli e di sfondi mentali e sociali”. In altre parole: la tecnica sta uniformando il volto economico del pianeta e la morfologia del suo territorio, ma sta omologando anche i comportamenti di massa dei suoi abitanti, includendoli tutti nello stesso circuito di consumi, tanto materiali quanto culturali: persino le idee sono già confezionate come merci. Questa omologazione da un lato apre alla speranza, perché per certi versi rende obsolete le guerre (l’uniformità di pensiero dovrebbe azzerare i contrasti ideologici, così come la razionalizzazione dei mercati dovrebbe attenuare quelli economici) e inutili anche i regimi autocratici; dall’altro spaventa, perché costringe il mondo nella rete di una ragione tecno-economica che in realtà non coincide con la razionalità complessiva della specie, e cancella diversità, peculiarità, ecc Ora, la sfida è quella di preservare queste differenze senza rinunciare al percorso dell’unificazione. E per differenze si intendono, oltre a quelle tra le civiltà, anche quelle con le altre forme di vita animali.

Schiavone preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, e legge la trasformazione all’interno di un più ampio divenire storico. Di fronte ai grandi mutamenti indotti dalla prima modernità il pensiero europeo aveva elaborato un’immagine dell’uomo come “individuo”, e questa immagine è rimasta dominante per tutta la stagione della grande industrializzazione (a dispetto anche di dottrine alternative che cercavano di opporle il modello del collettivo). La mondializzazione economica fa invece emergere il fondo comune della specie, creando attraverso un sistema universale di bisogni, quello che regge la rete globale dei mercati, una “prossimità globale”. Diventa possibile considerare l’umano, in tutte le sue complessità e differenze, come il manifestarsi di un’unica e totale soggettività impersonale. “La soggettività della specie che finalmente approda all’orizzonte della storia.” Hegel avrebbe detto che è lo Spirito che si manifesta.

La condivisione dei bisogni rende davvero possibile iniziare un discorso sull’eguaglianza, mentre l’individualismo, esaltando le differenze, le specificità, metteva in secondo piano ciò che accomuna ogni essere umano ai suoi simili. Ora invece “la tecno-economia globale esige, per venir regolata, di poter essere confrontata con una soggettività altrettanto globale, che si ponga sullo stesso piano. Per costruire un modello di soggettività e di eguaglianza che senza rinunciare ad un imprescindibile impianto formale sappia però anche guardare in tutte le profondità del diseguale che la nuova economia oggi ci propone”.

Ma alla fine, scendendo dal piano superiore della “soggettività globale” 0 “soggettività di specie” a quello terreno del “soggetto individuo”, che futuro gli riserva Schiavone? Intanto si tratterà di un individuo non più definito dalla sua attività lavorativa. “Col passaggio dalla forma industriale alla forma tecnofinanziaria del capitale, il lavoro (che era stato sin dai primordi della modernità la culla della figura dell’individuo e del paradigma di eguaglianza moderno) muta radicalmente, tanto che si può parlare di una ‘fine dell’età del lavoro’”. Con questo “non si vuol certo dire che abbia smesso di esistere il lavoro come attività propria della specie umana. Si vuole indicare soltanto che è finita una maniera storica di lavorare, che è stata costitutiva della nostra modernità e del nostro modo di pensare […]. E si vuole anche alludere, con quella formula, al fatto – di non minore importanza – che i nuovi lavori che stanno sostituendo in Occidente quello ormai al tramonto, non possono né potranno mai avere, per ragioni strutturali, indipendenti da ogni scelta politica, giuridica o etica, la stessa funzione della figura che sta scomparendo”.

Nella vita dei nostri discendenti, se le cose andranno come Schiavone pensa siano destinate ad andare, il lavoro sarà una cosa completamente diversa (lo è già adesso, con la cosiddetta “flessibilità”: ma a ben considerare è stato tale anche per un lunghissimo periodo in passato), e rivestirà un ruolo marginale. La liberazione, “l’emancipazione” degli umani non avverrà più attraverso esso, ma arriverà da una globale condivisione di strumenti conoscitivi e operativi che consentiranno alla specie il controllo non solo sull’ambiente e sulla tecnica, ma anche sulla propria natura. Avendo tra le mani il nostro destino biologico, saremo padroni delle nostre condizioni materiali di esistenza: saremo quello che vorremo essere.

Sommario: niente fine della storia o epoca del tramonto. Schiavone è anzi convinto che la vera storia cominci ora, e che a scriverla sarà ancora una volta l’Occidente, o meglio l’impronta della sua “civilizzazione” impressa su tutto il globo. Non si nasconde che la “mondializzazione” del modello occidentale ha messo in moto un percorso problematico, irto di rischi, che può anche condurre alla catastrofe, e nemmeno ignora le resistenze e i ripiegamenti che continueranno ad opporsi a questo processo. Quindi non lo considera ineluttabile, ma lo vede come l’unica vera possibilità di sopravvivenza dell’umano. Non solo, ma una sopravvivenza ricca di straordinarie potenzialità: la vicenda di un umano ormai quasi del tutto affrancato dalla dipendenza dalla natura, e sul punto di diventare completamente padrone del proprio destino.

Tre manifesti 18

E ora provo a tirare un po’ le fila. Intanto, non vorrei aver dato l’idea che nell’ultima parte del saggio Schiavone sia partito per la tangente. Non è così. È vero piuttosto che ho faticato molto io a costringere in poche pagine una ricchezza di argomentazioni che corre come un fiume in piena e che l’autore ha condensato in una serie di passaggi logici incalzanti. E dubito assai di esserci riuscito, anche solo parzialmente. Rimane tuttavia il fatto che dovendo passare dall’analisi del presente alla parte propositiva aperta sul futuro Schiavone cambia le tonalità del discorso: e come chiunque combatta una battaglia culturale (perché questo è, al di là della diversa profondità, un pamphlet, speculare a quello Dugin) le ha alzate di parecchio, senza peraltro mai trascurare di sottolineare come ciò che va prospettando rappresenti non una profezia ma una “possibilità.”

Che è già un ottimo distinguo. Una possibilità non è un’utopia. Non cancella il tempo o la condizione presente per rifare tutto daccapo, ma intravvede nel presente qualcosa che va interpretato nell’ottica di una futura trasformazione. In questo senso il saggio di Schiavone offre notevoli stimoli, se non a fare, perché sembra che tutto accadrà (o potrebbe accadere) dietro la spinta di forze superiori, almeno a capire, ad essere consapevoli di quali direzioni potrà prendere l’umanità dopo di noi, o magari (come sottolinea a più riprese l’autore) sta già prendendo sotto i nostri occhi. E mi offre anche l’occasione di riconfrontarmi per l’ennesima volta con le mie convinzioni.

Ora, non ho la presunzione di aver capito proprio tutto quel che Schiavone stipa in queste centottanta pagine, o di essere riuscito a seguire l’autore in certi passaggi che imponevano vere acrobazie mentali. Ma il senso generale del discorso credo di averlo afferrato, e in fondo condivido buona parte della sua impostazione e delle interpretazioni che offre del presente. Eppure non sono affatto persuaso che lo scenario futuro che ci prospetta sia coerentemente fondato. Per più di una ragione.

La prima concerne la possibilità di riconquistare il controllo sulla tecnica e di riorientare quest’ultima a finalità etiche. Ho l’impressione che sia già tardi, o meglio ancora, che sarà l’etica a riaggiornarsi sulla scia degli sviluppi tecnologici. In effetti, dobbiamo prendere atto che la tecnologia ha ormai di gran lunga sopravanzato la scienza e l’etica. Prendiamo il caso ad esempio delle scienze biologiche e della ingegneria bio-medica. Quest’ultima è in grado di produrre risultati che a livello scientifico non hanno alcun interesse o giustificazione, come le ibridazioni genetiche interspecifiche. Realizzare un uomo-scimmia non fa avanzare di un millimetro la conoscenza scientifica, mentre può avere terrificanti ricadute spettacolari o implicazioni economiche. È una cosa abietta, eppure decine di laboratori vi stanno lavorando: è tecnologia da apprendisti stregoni, fine a se stessa, intesa a mostrare sin dove può arrivare il suo potere, all’interno di una sfida continua nella quale non c’è più regola che tenga.

Un motivo ulteriore di perplessità concerne l’altra auspicata “domesticazione”, quella del capitale finanziario. Pur assumendo per scontato che il capitale sia indispensabile per reggere lo sviluppo della tecnica, e quindi che dal supporto offerto alla tecnica possa legittimamente attendersi un ritorno, mi sembra che Schiavone non dia il giusto rilievo al fatto che come la tecnica anche la finanza si è autonomizzata, ha preso una strada totalmente autoreferenziale nella quale il gioco speculativo prevale su quello produttivo. Il capitale tecno-finanziario è sempre più teso a creare ricchezza, e sempre meno a creare innovazione. O meglio, crea innovazione solo in prospettiva del ritorno, e di fatto brucia tutte le altre possibilità. Non si capisce cosa possa intervenire a disciplinarlo, a dissuaderlo dalla corsa all’accumulo. Sino ad oggi le nuove connessioni e le compatibilità etiche cui Schiavone accenna (quando scrive ad esempio che tra non molti decenni mangiare carne ci parrà un obbrobrio), e che gli paiono esemplificative della via da seguire, si sono risolte nella creazione di formidabili business che ruotano attorno alle etichette di “biologico” e di “ecosostenibile”, buone per far accettare costi maggiorati, ma che nella sostanza non mettono affatto in discussione la coazione al consumo (e anzi, in qualche modo la assolvono).

Di fronte a una situazione del genere è lodevole lo sforzo di Schiavone di richiamare in campo valori e saperi che stiamo perdendo, ma la cosa cozza contro la convinzione che lui stesso a più riprese esprime, e cioè che la trasformazione interesserà necessariamente anche l’ambito etico. Quando scrive: “Vedo che stiamo usando gli strumenti della tecnica non in eccesso, ma per difetto. Li stiamo usando al di sotto delle loro potenzialità” fa un’affermazione in parte vera, ma pericolosa. La “capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla”, che prevede per i prossimi decenni, non per i prossimi secoli, non appare certamente oggi finalizzata a una liberazione. Mi ripeto, ma credo che questo sia il punto più debole dell’argomentazione di Schiavone. Anche rimanendo entro i confini di ipotesi meno fantascientifiche di quella che ho prospettato sopra, gli interrogativi già oggi suscitati dallo sviluppo delle biotecnologie e dalle applicazioni (e implicazioni) dell’intelligenza artificiale sono tutt’altro che gratuiti. Toccano nel profondo il senso stesso dell’appartenenza all’umano, cambiano radicalmente i parametri di definizione della specie, fanno intravvedere non una trasformazione ma una vera e propria mutazione, che andrebbe ad interessare non solo la morfologia ma tutto il sostrato biologico, e di conseguenza gli stessi fattori di comunità nei quali Schiavone ripone la sua fiducia. Altro che “invarianza del comune umano”. L’uomo, da “antiquato” che era, rischia di diventare superfluo.

Un conto è parlare dell’uso di protesi o strumentazioni che migliorano le nostre condizioni di esistenza, di resistenza o di produttività, o suppliscono a carenze naturali o accidentali (dalla pietra scheggiata ai robot della catena di montaggio, dagli abiti alla farmacopea, dagli occhiali al bypass o agli arti artificiali), e che modificano senz’altro il nostro rapporto con l’ambiente e con il nostro prossimo, ma non vanno a toccare i ritmi e i percorsi evolutivi del nostro patrimonio genetico (o lo fanno in tempi lunghissimi, che consentono di ovviare ad eventuali effetti collaterali indesiderati): un altro conto è la presunzione di “decidere noi il nostro destino”, di programmarci totalmente in proprio l’esistenza, di accedere alla condizione post-naturale, senza in realtà nessuna idea di dove vorremmo o potremmo andare a parare. A meno di intendere che a decidere sarà la “soggettività globale della specie” (e temo che Schiavone intenda proprio questo), prospettiva che nella sua indeterminatezza fa accapponare la pelle. Pur facendo le debite tare, somiglia troppo al suo esatto contrario, a quello che Dugin, mostrando senz’altro lungimiranza, definisce “lo scambio dell’identità collettiva umana con l’identità collettiva postumana: la creazione di strumenti tecnici che diventano passo dopo passo i maestri, e smettono di essere strumenti”.

Tre manifesti 19

Mi spiego meglio. Questo discorso chiama automaticamente in causa il tema della libertà, che a sua volta si tira appresso quello dell’eguaglianza, e naturalmente quello della democrazia, che dovrebbe garantire sia la prima che la seconda. Senza volerla fare troppo lunga, sul concetto di libertà concordo pienamente con Isaiah Berlin, per il quale una persona è libera innanzitutto quando non è impedita di fare ciò che desidera fare da un atto o da un’omissione di un altro essere umano (la definisce “libertà negativa”). Per Berlin esiste però anche un’accezione più estesa del concetto, quella di “libertà positiva”, che implica che l’individuo non solo non subisca coercizioni da parte di altri, ma sia totalmente “autonomo” (alla lettera, “capace di governare se stesso”). Vale a dire che l’impedimento ad agire non gli deve venire neppure da ostacoli interni, come possono essere l’ignoranza, i desideri o le emozioni. Il che in teoria è molto vero, ma presuppone distinguere tra un soggetto autentico, interamente razionale e capace di dominare le passioni, e un Io empirico, condizionato dalle pulsioni naturali. Per la concezione positiva essere liberi significa accedere alla prima condizione, ovvero agire “moralmente”: ma, e qui nasce il problema, chi stabilisce cosa sia “moralmente” giusto? Perché se la normativa morale è dettata da altri, si è liberi in realtà solo di obbedirle.

Ora, Schiavone dice più o meno che quando la tecnica ricondotta alla sua originaria funzione ci avrà liberato dai condizionamenti, dagli impedimenti, dalle malformazioni che la natura ci riserva, e anche dalle inique differenze sociali ed economiche, ciascuno di noi potrà esprimere al meglio se stesso: ma la stessa tecnica gli fornirà anche la consapevolezza che in una società del genere la vera realizzazione individuale non può che coincidere con il benessere collettivo e con la sopravvivenza dell’intera specie. Quindi non saranno “altri” a dettare le norme morali, ma queste scaturiranno da una volontà collettiva concorde e razionalmente illuminata.

L’impressione che ho ricavato io dalla lettura è che qui non si parli più di un aggiornamento dell’etica, ma di una sua completa rifondazione. E se a decidere di ciò che è bene e ciò che è male fosse davvero la “soggettività della specie”, credo che nemmeno si potrebbe più parlare di etica, perché ci troveremmo in una condizione molto simile a quella degli insetti sociali. Con la differenza, certo, che quella condizione sarebbe ciascuno di noi a sceglierla, una volta messo in grado di decidere davvero del proprio destino e di capire cosa è meglio per lui, mentre gli insetti sociali rispondono ad una determinazione biologica: ma questo è comunque in contraddizione con quella difesa della diversità che l’autore rivendica costantemente, e presume anche una identificazione tra il bene individuale e l’utile collettivo che suona molto sospetta. Non sarei poi nemmeno così sicuro che tutti gli umani, anche messi di fronte ad una (discutibile) evidenza del “bene”, sceglierebbero di conseguenza.

Berlin invece la mette così: senz’altro la “libertà positiva” indica un livello di libertà superiore, ma la pretesa che esista una sola concezione universalmente valida del bene, e che quindi tutte le questioni etiche abbiano, almeno in linea di principio, una sola risposta corretta, sta purtroppo alla base delle tentazioni totalitarie. Tutti i grandi Utopisti (quelli con la maiuscola, che hanno immaginato – e qualche volta cercato di attuare – grandi disegni sociali) partono dal presupposto che una volta conosciuto il vero sistema morale potranno essere appianati tutti i conflitti e diverrà possibile creare una società perfetta, trovare un accordo universale su un unico modello di vita. Il paragrafo che riporto da “Due concetti di libertà” (1957) sembra scritto apposta per mettere in guardia contro gli entusiasmi un po’ facili di Schiavone:

Una credenza è più di ogni altra responsabile delle stragi di esseri umani sull’altare dei grandi ideali storici: giustizia o progresso o felicità delle generazioni future o la sacra missione o l’emancipazione di una nazione, di una razza o di una classe, o persino la libertà stessa, che esige il sacrificio degli individui perché sia libera la società. Si tratta della credenza che da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza, o nel cuore semplice di un uomo integralmente buono vi sia una soluzione finale”.

Per questo al “monismo morale” Berlin oppone il “pluralismo dei valori”, concetto sul quale peraltro, in una accezione più sfumata, insiste molto anche Schiavone. Entrambi sono coscienti che far coesistere valori diversi è tutt’altro che facile, ma prendono poi strade diverse quando si tratta di trovare una conciliazione. Il primo ritiene che questi valori siano delle creazioni storiche dell’umanità e non dei dati di natura, anche se alcuni – la libertà individuale in primis – attraversano tutte le culture. E che pur essendo in linea di massima i valori morali tutti validi, non sempre le diverse idee relative al bene e al giusto sono commensurabili. Il secondo crede invece che a una conciliazione si possa pervenire, proprio attraverso la grande trasformazione della quale stiamo scorgendo gli inizi. Parte cioè dalla posizione di Berlin, ma finisce poi bene o male in quella degli utopisti. Insomma, il discrimine sta nel fatto che Berlin accetta l’idea che la ‘natura umana’ sia costitutivamente imperfetta, e che a ciò si possa sia pure solo parzialmente ovviare mediando tra libertà positiva e libertà negativa, mentre Schiavone ritiene che l’imperfezione sia solo una condizione temporanea, destinata ad essere cancellata.

Tre manifesti 20

Il caso più clamoroso di incommensurabilità dei beni è per Berlin quello tra libertà e uguaglianza. “Libertà e uguaglianza – scrive – sono tra gli scopi primari degli uomini, ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli”. D’altro canto – come dice ancora – “nel loro entusiasmo per creare le condizioni economiche e sociali affinché la libertà sia un valore autentico, gli uomini tendono a dimenticare la libertà stessa; e se ci si ricorda di essa è facile che si spinga da parte per far posto a quegli altri valori che hanno assorbito i rivoluzionari o i riformatori”.

Quindi, anche valori di per sé imprescindibili possono non andare pacificamente assieme: bisogna prendere atto che l’uguaglianza e la giustizia sociale entrano in conflitto con la libertà individuale, così come l’ordine e la sicurezza confliggono con la tolleranza o la giustizia con la misericordia: perseguono fini diversi, che devono essere bilanciati con prudenza e moderazione.

Per Schiavone invece la vera libertà non esiste se non in presenza dell’uguaglianza (ma lo pensava già Condorcet). Egli fonda come abbiamo visto la sua concezione sull’esistenza (e sulla riscoperta) dell’universale umano – per cui occorre ridefinire l’idea di uguaglianza sulla base del carattere impersonale del soggetto intra-individuale che caratterizzerà la società del futuro. In un saggio precedente, intitolato proprio “Eguaglianza”, scrive che bisogna “cominciare a pensare a un nuovo patto di uguaglianza, per salvare il futuro della democrazia; […]. Un patto che sappia farsi programma politico […], e parta non dalla parità degli individui, ma dall’illimitata eguale divisibilità della cose […], da condividersi equamente fra tutti i viventi. Un patto stretto, non nel nome di una classe, o di un qualunque soggetto che per indicare sé stesso debba escludere altri dalla definizione […], ma del comune umano come soggetto e come valore includente e globale”.

Nella sostanza, la formula di mediazione potrebbe essere questa: per come è fatto oggi l’uomo, se una società vuole essere giusta deve promulgare delle leggi che impongano questa giustizia, negando di fatto la libertà. Se invece vuole essere libera deve eliminare qualunque restrizione alla libertà; cosa che, sempre considerando la natura attuale dell’uomo, porta inevitabilmente a storture e ingiustizie. Non sappiamo se e come evolverà questa natura domani, e nel caso, se ai termini libertà ed eguaglianza potremo attribuire gli stessi significati e lo stesso valore che diamo loro oggi.

È chiaro che tra le due concezioni mi riconosco molto di più in quella di Berlin. Quanto a “soluzioni finali” ne abbiamo già viste sin troppe, ed erano tutt’altro che ispirate al trionfo della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della democrazia. So bene che Schiavone ha in mente altro, che si limita a dire che possono crearsi “occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo”. E che “si renderebbe possibile così la formazione, intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali”. Ma tutto questo rimane per forza di cose talmente vago da prestarsi a qualsiasi interpretazione: e anche lasciando perdere quelle che ne sono state date nel passato dai totalitarismi genocidi, è già sufficiente a farmi diffidare ciò che sento predicare dai vari Baricco e Maffesoli e dai postmoderni di complemento, che profetizzano l’avvento di una nuova “barbarie” a spazzare via le rovine della “modernità criminale”.

Nutro come Berlin una fiducia molto limitata nella essenza positiva della natura umana, e ritengo più importante per la nostra specie difendere gli ultimi ridotti di una civiltà sotto assedio piuttosto che attendere inerte l’arrivo dei nostri, di una tecnologia che venga a spalancare pianure di libertà. Sono convinto altresì che l’eguaglianza e la democrazia non si realizzano quando tutti vogliono le stesse cose, nemmeno se a suggerirle è la soggettività di specie, ma quando tutti per ottenere ciò che vogliono seguono le stesse regole. Naturalmente quando quelle regole le hanno dettate e accettate gli stessi che sono tenuti a rispettarle.

Penso infine anche che l’uguaglianza abbia a che fare solo con i diritti e con l’inviolabilità dell’esistenza di ogni essere umano: il “fondo umano comune” non ci rende uguali nelle caratteristiche corporee e nemmeno in quelle mentali. Come scrive Edoardo Boncinelli “come singoli siamo animali … il collettivo umano, e con esso l’individuo che gli appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà. Di questa nostra ultima particolarità andiamo giustamente fieri, ma non è conveniente né proficuo ignorare i vincoli e le condizioni che ci limitano come singoli”. Che ci limitano, ma che alla fin fine ci rendono anche liberi, perché se la “soggettività globale della specie”, come la chiama Schiavone, o “l’identità collettiva postumana”, come la definisce Dugin, cancellassero la conflittualità tra i fini diversissimi che gli uomini perseguono, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Non solo. La continuità culturale è quella che ha partorito il diritto, ma se si fonda l’uguaglianza dei diritti sul presupposto che siamo tutti uguali, non solo si proclama una falsità evidente, ma si creano le basi per rimettere in discussione l’uguaglianza dei cittadini ogni volta che si scoprisse tra loro qualche differenza biologica.

Basta. Mi accorgo che sto viaggiando verso la stesura di un quarto manifesto, e a questo punto non mi sembra proprio il caso (il che non significa che non abbia già in mente un’altra puntata). Anche perché ho perso completamente di vista il tema di partenza, quello del destino dell’Occidente. O forse ci ho solo girato attorno.

E allora taglio corto e lo riaggancio in extremis. I tre manifesti raccontano rispettivamente un funerale, un’agonia e un battesimo. La protagonista è sempre la stessa, la civiltà occidentale, ma ripresa da angolazioni ideologiche molto diverse, per cui i film che ci arrivano sono naturalmente discordanti. Io ho cercato bene o male di metterli a confronto. Chiunque può fare la stessa cosa, i testi sono disponibili, il primo solo in rete, gli altri anche nel formato cartaceo.

Aggiungo solo un’ultima considerazione. Parlando del compito che spetta all’Occidente (“Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo […] ma completarne la fisionomia”) Schiavone è drastico: “Innanzi a un simile impegno non c’è nostalgia del passato che tenga; non c’è rimpianto per come eravamo che possa reggere […]”. Va bene, magari come sterile rimpianto per come eravamo o per come stavano le cose non terrà; ma questo significa ancora una volta pensare che nella storia agisca un’astuzia della ragione, una necessità che a posteriori giustifica – o condona – le nostre scelte, e condanna tutte le potenzialità che quelle scelte hanno escluso, riducendole a spazzatura abbandonata ai margini della strada. Ora, è chiaro che indietro non si può tornare, ma si può almeno guardare, purché si guardi nella direzione giusta, e non ad un passato immaginario come quello costruito da Jeffers e da tutti i nostalgici dell’Eden. Magari per rendersi conto a quale bivio si era intrapresa la direzione sbagliata; o, perché no, per frugare in quella spazzatura e verificare che non sia stato buttato qualcosa che ancora può risultare utile e vitale. Ed è lecito anche provare rammarico per le scelte non fatte, pur quando c’è consapevolezza che magari non avrebbero poi cambiato granché le cose.

Quanto a me, confesso di essere un nostalgico militante. Come un tempo i maschi ebrei ringraziavano ogni mattina Dio di non averli fatti nascere donne (non so se lo facciano ancora), io ringrazio quotidianamente il cielo di avermi fatto nascere qui, in questo luogo e in questo tempo. E mi spiace vedere il primo trasformarsi e il secondo trascorrere, vorrei poter fermare l’una cosa e l’altra, e nel mio piccolo faccio tutto il possibile per almeno rallentarle. Non parteciperò ai funerali dell’Occidente e diserterò il battesimo del mondo nuovo. E non mi sento ancora affatto spazzatura.Tre manifesti 21

Indicazioni bibliografiche

Le citazioni che compaiono in questo testo sono tratte da:

KINGSNORTH Paul, HINE Dougald, Uncivilisation. The Dark Mountain Manifesto, Oxford 2009

JEFFERS, Robinson, La bipene e altre poesie, Guanda, 1969

JEFFERS, Robinson, Cawdor, Einaudi 1977

DUGIN, Aleksandr, Contro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio, AGA 2022

DUGIN, Aleksandr, Una civiltà planetaria, Il Mulino 2022

SCHIAVONE, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi 2019

DE TOCQUEVILLE, Alexis, La democrazia in America, Rizzoli 1999

BERLIN, Isaiah, Il legno storto dell’umanità, Adelphi 1994

BERLIN, Isaiah, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli 1989


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L’ignavia delle democrazie

considerazioni sull’attualità

di Carlo Prosperi, 28 febbraio 2022

Inutile girarci intorno: la politica è ancora (e da sempre) quella delineata da Machiavelli e regolata dalla forza o, meglio, dalla combinazione di forza e astuzia, di “lione” e di “golpe”. E il motto latino Si vis pacem, para bellum è più che mai di attualità. Dimenticato troppo presto da un’Europa imbelle ed, etimologicamente parlando, imbecille, illusa di poter fare a meno della forza per difendersi o fin troppo fiduciosa nella forza (l’ombrello) del “padrone” americano, paciosa e pacifista per ignavia, per calcolo o per paura. Chi non ricorda: “Meglio rossi che morti”? Eppure, la nostra mitizzata Resistenza ha richiesto il ricorso alle armi e il rischio della vita. Ci siamo illusi che bastassero le parole (del diritto, della diplomazia, della religione), il mantra del “volemosi bene” ad ogni costo e lo sviluppo dei traffici per imbrigliare le pulsioni della volontà di potenza, per stornare o per sedare gli appetiti dei popoli più agguerriti. La persuasione dei retori, la melassa verbale dei chierici, l’arte imbonitrice dei mercanti. E insieme l’evocazione dell’apocalisse dietro l’angolo, a mo’ di deterrente.

Bisognerebbe ricordare la ben nota risposta di Freud alla lettera di Einstein che sollecitava da lui un consiglio su come agire sulla mente umana per indirizzarla al rifiuto della guerra. Nella storia – secondo il padre della psicanalisi – i conflitti d’interesse tra gli uomini si sono generalmente risolti mediante la violenza, per eliminare o asservire il nemico, assecondando un’inclinazione pulsionale. Ebbene, due sono i tipi di pulsione: uno, Eros, tende alla conservazione; l’altro, Thanatos, tende all’aggressione e alla distruzione. Per quanto essi siano antitetici, anche il primo presuppone una qualche dose di aggressività, in quanto pure la pulsione amorosa mira ad appropriarsi dell’oggetto desiderato. Nondimeno, per infrenare in qualche modo la propensione alla guerra, non resta che incentivare quei legami tra gli uomini che creano amore e solidarietà; né questo basta a garantire la pace, giacché la comunità, fin dall’inizio, comprende elementi di forza disuguale: uomini e donne, genitori e figli, classi sociali diverse, diversi temperamenti. E ciò fa sì che non manchino mai motivi e momenti di competizione. La conflittualità convive così con l’amore. Non sempre armonicamente, non sempre pacificamente. Freud conclude pertanto che non c’è speranza di potere eliminare le inclinazioni aggressive degli uomini. Ed aggiunge che anche i bolscevichi speravano di sopprimere l’aggressività garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza tra tutti i membri della loro comunità, ma intanto avevano provveduto ad armarsi con il massimo scrupolo. E sappiamo che cosa ne è seguito.

L'ignavia delle democrazie 02

Ci siamo crogiolati nel benessere materiale, mentre altrove “i grandi Barbari bianchi” si preparavano ad affrontare “lunghe battaglie cruente”. Lo diceva Verlaine, più di un secolo fa; prima di lui Tacito, nella Germania, aveva inutilmente ammonito i Romani sul pericolo che incombeva su di loro. Noi ci siamo affidati alla diplomazia, abbiamo confidato nei “profeti disarmati”, ed ora ecco che i nodi vengono al pettine. Senza la forza non si difendono né i diritti né gli interessi. I trattati vengono stracciati, il lupo rimbrotta l’agnello di volerlo azzannare: un déjà vu impressionante. La storia stessa viene artatamente piegata dal prepotente a sostegno delle proprie ambizioni. Modeste all’inizio, almeno all’apparenza, ma si sa: l’appetito vien mangiando. L’orso ha prima ingoiato la Crimea, ora s’appresta a fagocitare il Donbass, domani punterà su Odessa … Già ha detto che per lui l’Ucraina è un’espressione geografica. La storia, come vediamo, si ripete. E l’Occidente parla di sanzioni, che dicono devastanti. Ma per chi? E poi la memoria è corta: le sanzioni non hanno fermato nemmeno l’Italietta di Mussolini, anzi, per certi versi, hanno contribuito a compattare la nazione attorno al Duce, a consolidarne il consenso. Peraltro, gli effetti più incresciosi delle sanzioni ricadono in genere sui più poveri …

La situazione attuale, mutatismutandis, ricorda molto quella del settembre 1938, sfociata nel disastroso accordo di Monaco. Contro Chamberlain, che lo sottoscrisse, inveì allora Churchill, bollandolo con le impietose parole: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore ed avranno la guerra”. Per quanto terribile – mi viene da chiosare –, la guerra è meglio che arrendersi, sperando nella pace, a chi la guerra vuole a tutti i costi e la farà, senza chiederci il permesso per quanto pacifisti ci dimostriamo. Non ho mai provato grande simpatia per Churchill, che giudico cinico, ma è fuor di dubbio che aveva ragione: “il pacifista è quello che nutre il coccodrillo sperando che lo mangi per ultimo”. È ben vero che grandi sono le colpe dell’Occidente e, in particolare, degli USA, che, dopo aver illuso Tbilisi, ora ha fatto lo stesso lasciando balenare agli occhi degli ucraini un’impossibile adesione alla Nato. Biden ha già fatto rimpiangere Trump, ed è tutto dire. Frustrato della pessima e ignominiosa figura fatta in Afghanistan, ha cercato di rivalersi facendo la voce grossa contro la Russia, agitando davanti all’orso il drappo rosso della Nato, fomentando contro di esso il risentimento del popolo ucraino, aizzandolo a distanza, usandolo come cavia, in una versione aggiornata dell’”Armiamoci e partite!” di casa nostra. Un vero apprendista stregone. E sono convinto che a incoraggiare e a convincere Putin a invadere l’Ucraina sia stato proprio la disastrosa ritirata dall’Afghanistan, che ha dimostrato al mondo come gli Stati Uniti non si siano ancora ripresi dal trauma del Vietnam.

L'ignavia delle democrazie 03

Putin, maestro di provocazioni, ma di pasta ben diversa dal Giovannin Bongee di portiana memoria, di provocazioni non aveva bisogno per attaccare, ma se n’è servito per coonestare una decisione già presa e volta a restaurare, su nuove basi, l’impero sovietico. Non è un caso che le truppe russe stanzino tuttora in Bielorussia, donde aveva promesso di ritirarle in breve; non è un caso che siano intervenute nel Kazakistan, dove ovviamente sono state invocate dall’ineffabile Nazarbayev; ed ora entrano, sollecitate a pacificarlo, nel Donbass. Il solito copione, mille volte già sperimentato. Tutto per portare la pace. Oggi la guerra si chiama pace: quante volte l’abbiamo già sperimentato: in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Afghanistan, in Iraq, in Serbia, in Kosovo e altrove! In fondo, anche il monaco medievale agiva così: quando non aveva pesci a disposizione per i giorni di magro, ricorreva ad analogo espediente, prendeva cioè un pezzo di carne e, tracciando su di esso un segno di croce, diceva: Ego te baptizo piscem.

Ma non è finita qui: questo, anzi, è solo l’inizio. La storia – dicevo – si ripete: al patto Ribbentrop-Molotov corrisponde quello tra Putin e Xi Jinping. E si può scommettere che, mentre la Russia sbranerà l’Ucraina, la Cina azzarderà un allungo su Taiwan. Si ripeteranno insomma i drammi della Polonia e della Finlandia. Come se tutto fosse già scritto. Parliamo tanto del caso, ma dietro il caso s’intuisce una logica – quella degli eventi – che ogni volta ci sorprende. Ma ciò dipende dal fatto che “la storia non è magistra di niente che ci riguardi”. O dal fatto che noi non vogliamo vedere, per non fare i conti con la realtà, con la sua granitica durezza.

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Qualcuno pensa davvero che la nostra democrazia sia davvero riformabile dall’interno? Quando la libertà diventa licenza, gli uzzoli diritti, l’irresponsabilità verso la comunità e il bene comune la norma, il relativismo nichilista la stella polare, dove si può andare se non alla deriva? La democrazia per funzionare dev’essere sana e forte: deve farsi rispettare. E questo da noi non avviene più. E troppi non sono più disposti ai sacrifici che la sua difesa comporta. Come se, vivendo nel migliore dei mondi possibili, non ci fosse più da preoccuparsi di alcunché. La democrazia – diceva qualcuno – è un plebiscito quotidiano, ma per molti oggi è una sinecura. Oggi le democrazie faticano (per usare un eufemismo) a immaginare una dimensione militare. I despoti, a differenza delle democrazie, sono disposti e non hanno remore a pagare in vite umane. Chi non era disposto ieri a morire per Danzica, non lo è oggi per Kiev, non lo sarà domani per Taiwan. Le dittature sanno che nessuno si azzarderà a contrastarle, se non a parole. Già in Siria, a parole, per Obama la linea rossa da non superare era l’uso delle armi chimiche. Assad, però, non esitò a superarla, e Obama non intervenne. L’Occidente, oggi, si limita ad ammirare la resistenza eroica del popolo ucraino, la incoraggia, ne auspica il prolungarsi, ma, a ben pensarci, sa che non riuscirà a frustrare i piani dell’aggressore. Tanto vale, allora, che finisca presto, prima che il bagno di sangue si espanda.

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Ad ogni piè sospinto inneggiamo all’Europa, ma dov’è l’Europa, la sua unità d’intenti, la sua lungimiranza? Dov’è la progettualità realistica, il respiro in grande, l’azione comune? Dove imperano gli egoismi, dove la gelosia prevale, non può esservi solidarietà. E là dove si rinunci alla sovranità, il cittadino non è motivato ad agire. La sovranità non si può delegare, non può diventare un processo burocratico o essere affidata ad una casta di tecnici o, peggio ancora, ad una élite di poteri forti. Manca un idem sentire, anche perché i valori storico-culturali che potrebbero fare da collante si sono diluiti nella fluidità delle società moderne, dove ognuno la pensa a suo modo e a suo modo agisce, senza saldi punti di riferimento, senza principi regolativi, senza coerenza e senza coscienza.

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Se la consideriamo con distacco, la realtà ci dice che i regimi da noi democratici esecrati, autocratici o dispotici che siano, a volte funzionano. Anche meglio della democrazia. Prendiamo ad esempio quel monstrum che è la Cina, dove il comunismo si è realizzato come capitalismo di Stato. Intanto, però, è riuscito a sfamare un miliardo e mezzo di persone e a consolidare un impero, eminentemente economico, evitando l’anomia, il caos e la disintegrazione con il classico binomio del bastone e della carota, all’occorrenza pure con il pugno di ferro; altrimenti non vi sarebbe riuscita. Noi che siamo affezionati alla democrazia, non ci avvediamo che essa – come ha ben spiegato Nick Land – è tirannia della maggioranza, e purtroppo, vista la composizione di ogni maggioranza, tirannia dei peggiori. La democrazia è legata all’espansione infinita dello Stato e non può che finire male. Spogliata da ogni retorica, è solo un sistema per depredare (nei casi migliori a turno) le minoranze del momento attraverso la redistribuzione delle tasse. Aspettarsi dalle volubili democrazie un modello di sviluppo sensato è insensato. Nella democrazia, conta il presente: bisogna depredare il possibile perché al prossimo turno il governo potrebbe toccare ad altri. Questo fenomeno predatorio riguarda la politica ma anche i gruppi sociali rappresentati dai partiti vincitori. Dice Land: “Mentre il virus democratico distrugge la società, le abitudini scrupolosamente accumulate e gli atteggiamenti di lungimirante e cauto sviluppo umano e industriale vengono sostituiti da un consumismo sterile e orgiastico, dall’incontinenza finanziaria e da un circo politico in stile reality show”.

Non so se la Russia ambisca ricalcare le orme della Cina, se ne sia in grado. Guardando alla storia, si direbbe di no. Ma intanto sembra che Putin, tappa dopo tappa, stia impeccabilmente realizzando il suo progetto di restaurazione imperiale. Qualcuno (e chi se non Trump?) lo ha addirittura definito un genio, e del grande dispiegamento di carri armati russi presentati come una forza di pace ha parlato con l’ammirazione dimostrata dal Segretario fiorentino per le gesta omicide del Valentino. O, per restare più vicino a noi, con la basita stupefazione che indusse Karlheinz Stockhausen a definire l’attentato alle Twin Towers come “la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo”.

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