Alla ricerca del sottobosco digitale (e open source)

meditazioni fra micelio e algoritmo

di Fabrizio Rinaldi, 1° maggio 2025

Dal bordo del dirupo collettivo nel quale l’umanità sembra stia precipitando, tra inni di guerra e dilaganti populismi, negazionismi, fascismi, sovranismi e tutti gli altri peggiori “-ismi” possibili, guardo oltre per cercare di aggrapparmi a qualcosa – mentre già la terra mi frana sotto i piedi –, di scorgere un qualche segnale di speranza.

Vorrei andare oltre le mitragliate trumpiane di decreti a cui non si riesce a star dietro, oltre l’inettitudine servile meloniana, oltre il riarmo intimidatorio dilagante che somiglia all’adolescenziale gara a chi ce l’ha più lungo, oltre i conflitti che somigliano sempre più a stermini e oltre anche la non nuova, ma sempre più pervasiva, droga che euforizza i giovani (e non solo): i mirabolanti prodigi dell’intelligenza artificiale.

ChatGPT e simili si rincorrono per superarsi a vicenda, masticando dati e sputando sullo schermo testi, immagini, video e stringhe di programmazione per compiacere le nostre sempre più bacate menti nell’ottenere da popò di tecnologia cose come questa

Sì, neppure io ho saputo resistere alla tentazione di vedere i Viandanti Beppe, Paolo, Cristina e Antonio trasformati in anime nello stile di Miyazaki, il creatore di Lupin. Nelle ultime settimane Sam Altman, il guru di ChatGPT, ha dichiarato che i loro elaboratori d’immagini “stanno fondendo” per creare imitazioni di cartoni animati e action figure di pupazzetti che ci somigliano. La tecnologia più avanzata degli ultimi decenni viene utilizzata per nutrire il nostro narcisismo.

Forse allora è meglio cercare altrove le intelligenze, perché quella umana sembra destinata ad esser soppiantata prima del previsto; non dal meteorite o dai cambiamenti climatici, ma dall’imbecillità dilagante che ci circonda.

Se ci liberassimo della nostra presunzione antropocentrica e osservassimo ciò che accade sotto i nostri piedi mentre passeggiamo in un bosco, ci renderemmo conto che lì avviene qualcosa di più sofisticato di quanto può fare un qualsiasi chatbot. Adottando la giusta lentezza, non possiamo fare a meno di notare come la vita sia pervasa di strategie, adattamenti e forme di “sapienza” che sono intrinsecamente più avanzate di quelle umane e digitali.

Tra gli scienziati che sono riusciti a diventare social senza sembrare ridicoli, c’è il botanico Stefano Mancuso. Da anni sostiene una tesi che per molti suona ancora come un’eresia: le piante pensano. O almeno, fanno qualcosa di molto simile, ma in verde, senza sinapsi, senza Google e, soprattutto, senza doversi collegare alla presa elettrica.

Mancuso ci invita a smontare il vecchio cliché secondo cui i vegetali sarebbero passivi, immutati, immobili e destinati a farsi mangiare, calpestare o dimenticare nei vasi. Le piante, ci dice, non subiscono il mondo, ma lo leggono, lo decifrano e lo modificano. Non hanno un cervello, ma sono un sistema di intelligenza distribuita. Un po’ come quella digitale, solo che loro lo fanno da tempi immemori, senza data center e senza sosta, con una complessità appena scalfita dal sapere umano, in una perenne evoluzione ed espansione. Se non è intelligenza questa…

Senza la competenza specifica di Mancuso, ma con una sana curiosità e qualche giga di sarcasmo, provo a giocare con il confronto non fra uomo e macchina (rimando questo esercizio ai romanzi distopici come Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), ma tra l’intelligenza vegetale e quella artificiale. Una partita che, avverto subito, finisce con una vittoria schiacciante del regno vegetale, ma sicuramente ci sono delle affinità. E non sono poche, né di piccola entità.

Sorprende che si parli tanto delle magnificenze del silicio, mentre raramente ci soffermiamo sui prodigi clorofilliani. Anzi no: nel computo dell’idiozia umana, il totale torna.

Una pianta non ha occhi né orecchie nell’accezione comune, eppure è costantemente immersa in un mare di informazioni ambientali: la direzione della luce, la temperatura, l’umidità, le vibrazioni sismiche, la presenza di acqua e di specifiche sostanze chimiche. Ricevendo ed elaborando questi segnali, non solo percepisce gli stimoli, ma li interpreta, modificando la sua crescita, la fioritura o la produzione di sostanze difensive.

Mi viene da pensare che, analogamente, anche un sistema di intelligenza artificiale si nutre dei dati (immagini, suoni, testi) che forniamo come input. Le AI generative, mentre consumano energia pari a quella di intere città, analizzano queste informazioni e prendono decisioni in un processo non dissimile, nella sua finalità adattiva, alla risposta di un vegetale al suo ambiente.

Le piante però vivono, si riproducono, interagiscono, consolidano il terreno e fanno qualcosa di essenziale per la nostra sopravvivenza: producono ossigeno. La macchina può batterci a scacchi, gestire il traffico degli aerei e dei treni, scrivere poesie, ma la betulla è poesia vivente e, nel frattempo, ci regala l’aria che respiriamo senza nemmeno vantarsene.

I vegetali dimostrano una sorprendente capacità di adattarsi all’ambiente in cui si trovano. Per esempio, un albero esposto a un vento costante svilupperà un tronco più robusto, plasmato nella direzione dell’aria; in un terreno povero estenderà invece le sue radici più in profondità per cercare nutrienti. Questa abilità nell’“imparare” dalle sfide ambientali ricorda i modelli di machine learning dell’intelligenza artificiale, che migliorano le loro prestazioni accumulando sempre più dati e attraverso la logica dei feedback. Proprio come le radici si ramificano per scovare acqua, gli algoritmi scovano soluzioni sempre più complesse per ottimizzare i risultati.

Se una pianta non si adatta, scompare; allo stesso modo, se una macchina non fa altrettanto, sommergerà il malcapitato per mesi con pubblicità di creme per il viso come è capitato a me, anche se non le ho mai usate e non ho intenzione di farlo.

Le piante dialogano fra loro senza usare le parole – un’invenzione piuttosto recente e limitata ad una sola specie –, ma rilasciano sostanze che si muovono attraverso l’atmosfera e il sottosuolo per interagire con quelle vicine (e non), magari avvertendole della presenza di un bruco che rosicchia le foglie o dell’avanzare di un incendio.

Sottoterra le radici intrecciano simbiosi con i funghi, dando vita al Wood Wide Web, una rete micorrizica talmente sofisticata che al confronto il digitale Word Wide Web sembra una Fiat Duna dell’87 col motore ingolfato. Altro che connessione 5G: il micelio non solo collega individui diversi (alberi, arbusti, erbe e qualche strambo con la smania di abbracciare tronchi e “sentire la loro energia”), ma smista nutrimenti e segnali in modo capillare, a basso consumo e senza interruzioni. Il tutto senza router, senza elettricità, e – soprattutto – senza abbonamento.

È, quindi, una connessione vibrante, che si adatta ed evolve in un sistema dove il benessere dell’individuo si intreccia con quello della comunità, in un contesto di cooperazione attenta nel dosaggio millesimale delle risorse. Un’ecologia delle relazioni che smonta qualsiasi idea di “sopravvivenza del più forte”.

Mentre le querce si scambiano messaggi criptati attraverso i funghi, noi ci ritroviamo a compulsare prompt da dare in pasto alle intelligenze digitali; queste elaborano soluzioni attingendo dai nostri dati, replicano le nostre manie con una precisione inquietante e producono risultati che riflettono i nostri limiti. Più che un’intelligenza collettiva, sembrano spesso un concentrato delle nostre idiosincrasie.

Il mondo vegetale, a differenza nostra, non si limita a imitare: si adatta e vive davvero. L’idea che le piante possano essere dotate di forme di intelligenza diffusa, consapevolezza ambientale e sofisticati adattamenti comunicativi dovrebbe farci riflettere sulla nostra concezione di benessere reciproco. Dovrebbe, ma non accade; anzi, mentre il bosco ci offre un esempio di mutualismo, noi approviamo leggi che riportano in auge il carbone e le trivelle (vedi le ultime sparate di Trump), convinti che la natura debba essere ottusamente dominata.

In questa farsa, l’unica cosa davvero artificiale sembra essere il nostro rapporto con il mondo naturale: abbiamo perso quella connessione, non quella a banda larga, ma quella biologica, relazionale e intima con ciò che ci circonda, che i nostri avi avevano, nonostante la loro visione limitata all’orto dietro casa. Mentre noi produciamo anidride carbonica e ci lamentiamo delle continue inondazioni, le piante continuano a scambiarsi zuccheri, produrre ossigeno e – a modo loro – ridere di noi, tra un fruscio di foglie e l’altro.

I veri maestri dell’economia circolare sono i vegetali: da milioni di anni, praticano un comunismo discreto ed efficace, basato su scambi mutualistici e alleanze fotochimiche complesse. E tutto questo senza mai aver ricevuto un premio Nobel in economia. Le semplici simbiosi mutualistiche, come le micorrize tra i funghi e le radici delle piante, metterebbero in crisi qualsiasi ideologia neoliberista.

Non c’è competizione, non c’è profitto, nessuna offerta pubblica; solo scambio reciproco e redistribuzione di risorse, supporto e cura sistemica. E tutto avviene senza regolamenti, amministratori delegati strapagati, sindacati e scioperi: un mutualismo che funziona perché nessuno cerca di fregare l’altro. È una sapienza collettiva che sa reagire a stimoli per mantenere un equilibrio di risorse a beneficio di tutti.

La fotosintesi clorofilliana, poi, è una forma di autosufficienza energetica che farebbe impallidire qualsiasi pannello fotovoltaico: energia solare trasformata in zuccheri condivisi all’interno della comunità, senza tasse sul sole e senza copyright sui cloroplasti.

Nel bosco, il capitale non si misura in PIL o followers, ma nella capacità di sostenersi vicendevolmente. Certo, a scapito di altri, ma in un’ottica di evoluzione e non di semplice prevaricazione. È un sistema in cui lo scarto di uno diventa il nutrimento di un altro, non una guerra commerciale a colpi di dazi. Tutto si regge su una rete di assistenza lenta e silenziosa. Nessuno urla, nessuno cerca di primeggiare. Eppure, tutto funziona. Altro che utopia: il comunismo vegetale è una realtà praticata ogni giorno, da milioni di anni, nei boschi, nei prati e nel terreno. E resiste, nonostante la nostra compulsiva tendenza a cementificare, a capitozzare gli alberi lungo le strade e poi lamentarci quando cadono.

La biochimica vegetale è un intricato sistema di segnali complessi, feedback ambientali, algoritmi naturali che elaborano stimoli e rispondono con movimenti, secrezioni, adattamenti. Sotto i nostri piedi c’è un sistema che processa dati, reagisce, si adatta e lo fa meglio di molte aziende che gestiscono i dati che noi regaliamo loro.

Mentre noi stanziamo risorse immense e prosciughiamo quelle naturali affinché degli algoritmi risolvano problemi più o meno complessi, nel verde la rivoluzione finalizzata al problem solving ambientale è in atto da milioni di anni ed è clorofilliana.

Le piante non si lamentano mai quando subiscono dei torti, che siano tagli indiscriminati, schianti, parassiti o animali che le danneggiano. Eppure, non vanno in burnout e, soprattutto, non chiamano l’avvocato. Semplicemente si adattano, cicatrizzano, deviano le risorse altrove e continuano a crescere, finché possono. Sono testarde ed efficaci.

Questa resilienza vegetale non è romantica, ma semplice – e tuttavia intrinsecamente complessa – strategia biologica evoluta, collaudata e ottimizzata nel tempo per non sprecare nemmeno una goccia di linfa. L’albero sa che non tutto può essere salvato, ma molto può essere rigenerato. E lo fa senza conferenze stampa sul nulla.

Curiosamente, proprio questa logica di perseveranza nonostante qualche inciampo sta alla base della progettazione delle attuali intelligenze artificiali: sono pensate per resistere ai guasti, per continuare a processare informazioni anche se un nodo si interrompe o un sensore va in panne. Vanno avanti senza filosofeggiare sul significato della vita (a meno che dei dementi umani non lo chiedano). Ricalcolano, correggono, procedono, proprio come fa un ciliegio quando la galaverna spezza un suo ramo: fa di tutto per farlo fiorire un’ultima volta prima che i tessuti conduttori di linfa si chiudano.

Se la capacità umana di affrontare e superare ostacoli si esaurisce dopo tre messaggi senza risposta, la natura – sia vegetale che digitale – ci mostra che il danno non segna la fine, ma è solo un’interruzione temporanea nella connessione. Come per l’esempio del ciliegio, se un sistema informatico va in crash – a patto che sia progettato bene – ha le risorse per rimettersi in carreggiata e ripartire. Noi umani ci troviamo in mezzo: tra piante e codice: potremmo davvero imparare qualcosa da entrambi. Senza clamore, senza app, senza guru della performance.

Mentre noi alziamo gli occhi al cielo ogni qual volta dobbiamo aggiornare l’antivirus o il sistema operativo (col terrore di perdere qualcosa), il faggio ha bisogno di intere stagioni per decidere se valga la pena sporgersi verso la luce o aspettare che il compagno di bosco lo faccia lui o schiatti.

Questo per dire che la risposta vegetale non è lineare e soprattutto non è schizofrenica: si iscrive in un tempo biologico, ciclico, stagionale, paragonabile a secoli rispetto a quello umano e ad ere rispetto a quello digitale. Tuttavia gli algoritmi complessi (quelli seri, non quelli che ti scrivono il tema su Foscolo in due secondi) che governano le machine learning, consentendo un apprendimento da dati, hanno anch’essi bisogno di un lasso temporale piuttosto lungo, fatto di tentativi, errori e altre azioni correttive affinché possano esprimere delle soluzioni più elaborate e finalizzate alla risoluzione cercata.

Basta guardare i primi video dei robot umanoidi: quei goffi golem elettronici che cadevano come ubriachi ogni volta che provavano a fare un passo, e poi confrontarli con le versioni attuali, in grado di correre, saltare, cucinare e pure interfacciarsi con noi per interpretare la nostra psiche.

Forse allora, prima di aggiornare compulsivamente la nostra tecnologia, dovremmo aggiornarci alla pazienza del creato. O almeno prenderci il tempo di uno sguardo differente, prima di condannare il progresso.

In conclusione, le piante — sì, proprio quelle che ignoriamo fino al giorno in cui ci accorgiamo che le peonie sul terrazzo, dietro il cesto della rumenta, sono morte — se osservate con un minimo di attenzione, rivelano una sorprendente intelligenza distribuita, articolata in molteplici forme. Nessun cloud, eppure elaborano segnali, apprendono dai traumi, comunicano con i vicini (senza bisogno della chat “Vicini inopportuni” su WhatsApp), risolvono problemi e, soprattutto, resistono nonostante noi. Tutti aspetti che, da qualche tempo, anche l’intelligenza artificiale tenta goffamente di imitare.

La prossima volta che un chatbot ci risponde con il consueto “Mi dispiace, non ho capito la domanda”, potremmo provare a fare come le piante: aspettare, osservare, metabolizzare. Non per buonismo biofilo, ma per pura sopravvivenza cognitiva.

Forse il problema è proprio lì: continuiamo a progettare intelligenze che vogliono somigliarci, quando sarebbe molto più sensato prendere ispirazione da un sistema che vive, si adatta e non va in tilt quando perde la connessione. Dovremmo progettare un’intelligenza che ragioni per scambio e non per dominio; che risponda attraverso una rete diffusa di stimoli percettivi, non come un assistente esasperato.

Insomma, se volessimo immaginare la prossima mente artificiale, potremmo cercare ispirazione nel regno vegetale: non fondata sulla logica binaria del sì/no, ma su quella fotosintetica del trasforma e condividi; un sistema che non miri alla profilazione, ma alla simbiosi tra individui. Le sue reti non si limiterebbero ad individuare convergenze mediane da compulsare in facili risposte assolutorie, ma favorirebbero l’intreccio di relazioni tra elementi differenti, capaci di redistribuire la consapevolezza come nutrimento. Sarebbero connessioni che si rafforzano nella cooperazione, che elaborano segnali lenti ma profondi, e che, riconoscono il valore dell’attesa — come si aspetta il cambio di stagione —, offrendo soluzioni davvero adeguate al bisogno.

Non per diventare alberi – anche se a volte non sarebbe male –, ma per smettere di comportarci come piante in vaso dimenticate sul balcone: convinti di sapere tutto, mentre ci secca pure la terra.

Alle domande ansiogene e prestazionali dell’esemplare umano frustrato, questo chatbot vegetale risponderebbe senza fretta, affinché il sapiens provi prima a cercare lui la risposta. A differenza dei colleghi virtuali attuali che mirano a rifilare al malcapitato un corso intensivo di yoga tantrico alla modica cifra di 1000 euro, l’intelligenza vegetale sintetica porrebbe delle domande del tipo: quanto sole hai preso oggi? Oppure: hai intrecciato qualche relazione significativa durante la tua giornata?

Mi auguro infine che questa intelligenza possa avere una caratteristica che quella artificiale ancora ha difficoltà a riprodurre, creare e cogliere: l’ironia. Potrebbe farsi una grassa risata quando capirà che l’essere umano, nel suo sforzo di dominare tutto, si è dimenticato come si vive dentro un sistema, e non al di sopra di esso. In fondo, se dobbiamo essere superati, che almeno sia da un’intelligenza con una giusta dose di sarcasmo e che pensi con le radici e non i piedi.

P.S.: Se un giorno un’intelligenza artificiale risponderà ad un tuo quesito urgente, dicendo: Mi sto orientando verso la luce, torna tra un mese, non infuriarti, è solo l’inizio di qualcosa di realmente pensante a cui ho già dato un nome e un logo e che sto “addestrando” …

Collezione di licheni bottone

Disciplinare dello haiku

di Mario Mantelli, 28 marzo 2025  (terminato di scrivere il 30 ottobre 2012)

Tra pochi giorni correrà il quinto anniversario della scomparsa di Mario Mantelli. Uso “correre” non a caso: questi cinque anni sembrano essere letteralmente volati, e non mi hanno affatto abituato alla sua assenza (così come penso accada per tutti i suoi amici). Immagino che in realtà non ci abitueremo mai: perché Mario rimarrà sempre il convitato arguto e stimolante nei nostri incontri e nei nostri pensieri.
Per continuare a rivivere con lui momenti di puro piacere penso che nulla valga meglio della rilettura dei suoi elzeviri, dei libretti curatissimi che editava in esemplari limitati per la sua personale casa editrice, il Bravo Merlo, delle introduzioni a opere altrui o dei commenti a quei piccoli “eventi di provincia” che sapeva davvero trasfigurare e rendere significativi; nonché naturalmente dei suoi libri di ricordi, che sono in realtà dei sorprendenti trattati di semiologia.
Una buona parte di questi materiali è già presente sul nostro sito. Ci proponiamo di completare al più presto il recupero di quelli restanti (impresa non da poco, perché Mario ha scritto moltissimo e ha disperso un po’ ovunque i suoi interventi). E partiamo alla grande, dall’ormai quasi introvabile Disciplinare dello haiku. Per chi già lo conosce sarà una gradevole rimpatriata: per gli altri sarà occasione del felice incontro con una intelligenza umile e straordinaria.
di Paolo Repetto, 28 marzo 2025

Disciplinare dello haiku

 

 

Haiku: … genere poetico giapponese, ha accanto all’epigramma la forma forse più concisa che esista: 5 – 7 – 5 sillabe: una brevità che può creare un capolavoro come pure un effetto di tela imbrattata. (Cento Haiku scelti e tradotti da Irene Iarocci, Longanesi, Milano 1982)

 

Freschezza dello haiku

Come le stelle
sul cofano, nel freddo,
le orme del gatto
scadenza: 20 marzo

Compiuto il verde
ben presto la mattina
chiacchiera il merlo
scadenza: 20 giugno

S’apre l’estate,
più forte esala in via
l’odor di cena
scadenza: 22 settembre

Ad un balcone
scoloriti colori.
Alzo il bavero
scadenza: 20 dicembre

 

Gentile Signore/a,
mi fa piacere che Lei abbia colto in tutta la sua rilevanza il problema della certificazione dello haiku. Sarebbe urgente al proposito stilare i punti essenziali di un disciplinare che ne regoli la denominazione d’origine controllata e garantita (docg).
Va detto in primo luogo che lo haiku, pur non essendo soggetto a scadenza, deve essere un prodotto contrassegnato dalla freschezza, per cui sarà opportuno che ne venga dichiarata in calce non solo la stagione e il kigo (cioè il riferimento stagionale, che può essere un animale, una pianta o altro), ma direi anche il giorno della sua stesura.

Come per il moscato può aversi il corrispettivo passito lasciando essiccare l’uva in appositi locali o sulla vite anche per lungo tempo fino alle gelate, così saranno ammessi haiku che potremmo definire conservati. Ad esempio, se accanto al caminetto o più prosaicamente al calore del termosifone, mi viene da pensare ad uno haiku sulla cinciallegra che canta nel viale davanti a casa mia o sulla raccolta del grano nella piana di Marengo, dovrò specificare la data e il luogo effettivi della stesura, ma sarebbe opportuno dare un’idea del mese o della stagione rammemorati, usando espressioni del tipo: “composto accanto al caminetto riandando col pensiero a un primo annuncio di primavera” oppure “composto stravaccato in poltrona con i piedi sul termosifone, ricordando un caldo giugno nella Fraschetta”. Il tutto contrassegnato dalle date giuste.
Tale ipotesi non è comunque da ritenersi la prassi consueta. Lo haiku va, come si usa dire, “cotto e mangiato”, o meglio, usando la più appropriata metafora del frutto, “colto e mangiato”. Vedremo in seguito qualche esemplificazione.

Diciamo al momento che il processo di produzione ideale dello haiku ha un andamento di questo tipo.
Per prima cosa rimango colpito da un’emozione improvvisa causata da un evento che segna l’inizio o l’intenso manifestarsi di una stagione oppure sono sorpreso da un’esperienza sensoriale, magari rapida e sfuggente, ma capace di richiamare sensazioni profonde e lontane oppure ancora mi accorgo di qualcosa che si collega inevitabilmente a un senso transeunte del Tutto.
A questo segue il desiderio di catturare con un pugno di parole questo tipo di emozioni (che sono sempre totalizzanti) perché ne rimanga qualcosa. Nello stesso tempo mi rendo conto che un frammento di prosa o una tradizionale poesia già costituirebbero un discorso troppo lungo e finirebbero per annacquare quel sentimento puntiforme che ho provato poco prima.
Mi accorgo, un po’ confusamente, di essere alla ricerca di un corrispettivo oggettivo di quel momento magico. Lo haiku ha qualcosa di questo corrispettivo: è come se fosse un piccolo oggetto, fatto com’è di sole 17 sillabe (un quinario, un settenario, ancora un quinario). Se è steso in bella calligrafia su un pezzetto di carta, finisce per assumere tutte le caratteristiche di un oggetto-ricordo che possa continuare l’evocazione del momento ineffabile che ho provato.
Per oggetto-ricordo intendo un oggetto d’affezione, di dimensioni tali che uno lo possa sempre portare con sé o lo possa tenere come soprammobile, come succede per i souvenirs di viaggio, per i portafortuna e le palline anti-stress, per i taccuini e i libri in sedicesimo, insomma per tutti gli indispensabili oggetti di sopravvivenza psicologica che usiamo portarci dietro. Ognuno di questi oggetti-ricordo ha avuto il suo momento particolare di freschezza, che abbiamo avvertito quando c’è stata la sorpresa della sua scoperta (il ritrovamento, l’acquisto), quando, diciamo così, tale sorpresa investe ancora con la sua aura la funzione di ricordo che avrà l’oggetto: pensiamo alla gioia un po’ euforica che segue il momento in cui abbiamo raccattato da terra una bella pietra che ci è piaciuta, la gioia di aver trovato un tesoro, che è cosa diversa dalla gioia di possedere un tesoro.
Lo haiku, in questo simile al taccuino di schizzi di viaggio, può avere momenti di una freschezza ancora più piena perché ricca di ben tre elementi legati fra loro: l’evento (dell’emozione provata), la produzione (cioè la stesura dello haiku) e poi il ricordo, tre fattori che arricchiranno il presente di quella determinata giornata, lo dilateranno di echi.
Ho trovato un esempio di tutto ciò in un ritaglio di giornale (anche il ritaglio di giornale, se eseguito e conservato con cura, è un oggetto-ricordo). Si tratta di un articolo di Bruno Ventavoli (Tuttolibri, supplemento de La Stampa del 6 febbraio 1993). Viene riportata la seguente testimonianza di Vittorio Maria Brandoni, che tenne il primo corso di haiku in italiano, di cui si dà notizia nell’articolo: “Ero su un pullman a Kyoto e c’era un’anziana signora malferma sulle gambe. Mi sono alzato per cederle il posto anche se sapevo di comportarmi in maniera diversa da un giapponese. La regola impone alle donne di stare in piedi. La signora mi ha ringraziato molto. Ha armeggiato nella borsa, ha estratto un piccolo cartoncino, una penna e ha vergato sopra degli ideogrammi. Prima di scendere me l’ha regalato. Era un Haiku, immediato, spontaneo. Aveva voluto esprimere la sua gratitudine, per sempre, tramite la poesia”.
Dette queste cose sul valore dello haiku nel suo complesso e in particolare sulla sua freschezza, un disciplinare sulla docg (denominazione d’origine controllata e garantita) dovrebbe prendere in considerazione i terreni favorevoli alla sua produzione e così pure i tempi e le stagioni, dovrebbe inoltre fornire una campionatura che illustri i modi di produzione e infine dovrebbe fare qualche cenno, per così dire, al packaging.

Terreni dello haiku

Questa nota è dedicata a chi intende comporre haiku.
Perché lo haiku si sviluppi vigoroso e senza magagne, al suo cultore sarebbero consigliabili, nel tempo libero, alcuni hobbies. Essi richiederebbero due difetti (nel nostro caso pregi) che sono in contraddizione, cioè a dire il Nostro dovrebbe essere contemporaneamente un presbite e un miope della percezione.

 

Terreni della presbiopìa percettiva

DELLA LUNA

Chi ambisce a comporre haiku dovrà essere lunatico alla Baudelaire e perciò dovrà andare a rileggersi con attenzione “I benefici della luna” nei Piccoli poemi in prosa. Dovrà essersi posto il problema dell’uguaglianza o della diversità della luna a seconda dei luoghi e aver optato in cuor suo per la prima: ha visto sorgere la luna sopra il cavalcavia ferroviario della sua città di provincia e ha pensato che immaginare quella luna identica in quello stesso momento a Praga o a New Orleans nobilitasse molto quel cavalcavia e quell’ora magica (non rendendosi conto che l’astronomia propone risultati visivi diversi, ma il Nostro, non dimentichiamolo, ha sempre la testa sulla luna). Ha inoltre la serena e segreta consapevolezza che il primo haiku della sua vita era di Bashō, stava nell’antologia delle medie del fratello maggiore e gli fu letto (perché non andava ancora a scuola) cogliendo famigliarmente lo humour che vi è contenuto:

Nessuna faccia
graziosa nel gruppo
che guarda la luna
(traduzione di Giuseppe Rigacci)

Va fatto notare che mentre per i giapponesi contemplare la luna fa parte quasi di un rito, da noi chi guarda la luna ha sempre qualcosa del licantropo e questo ostacola la pratica di contemplazione dell’astro, molto più diffusa nell’Ottocento (un nome per tutti: Leopardi).

 

DELLE NUVOLE

Il compositore di haiku dovrà esercitarsi, qualora non vi sia portato spontaneamente, ad essere un acchiappanuvole. Deve fare orgogliosamente sua la massima di Chang Ch’ao: “Soltanto coloro che prendono comodamente quello per cui si affaccenda la gente del mondo, possono affaccendarsi per quello che la gente del mondo prende comodamente”. Quindi, animo! Dedicarsi ogni volta che si può a contemplare le nuvole. Vanno bene le nuvole dipinte dai nostri grandi Quattrocentisti o quelle borghesi e misteriose di Magritte, ma la realtà, ammettiamolo, certe volte è insuperabile, quando ti butta su per il cielo quegli enormi cumuli di panna o quei giganteschi cavolfiori! E, appena si sente il bisogno di classificare ciò che abbiamo visto, sarà bene ricorrere, piuttosto che ai trattati scientifici sull’argomento, a Il nuvolario. Principi di nubignosia, di Fosco Maraini, se è possibile nell’edizione Semar (collana “Visioni” n.7), Roma 1995, probabilmente uno degli ultimi libri “ordinari” con fettuccina segnalibro incorporata.
Anche per le nuvole bisognerà porsi il problema: sono uguali dappertutto? Nel senso che esistono nuvole che possono formarsi soltanto in Piemonte o nella Galizia oppure, sotto determinate condizioni, possono formarsi sia in Piemonte che nella Galizia? Personalmente propenderei per quest’ultima ipotesi, ma ci ho ripensato da quando ho letto l’opinione di Saul Steinberg: “C’è anche un’equivalenza fra il paesaggio e il modo in cui si riflette nelle nuvole: una forma di riflesso della natura. In Arizona, nel deserto dei Navajos, dove si ergono gigantesche formazioni di rocce rosse, le nuvole assumono delle forme ugualmente monumentali. Anche i laghi producono le loro specifiche nuvole” (Riflessi e ombre, Adelphi, Milano 2001).

DEL GUARDAR LONTANO

L’autore di haiku dovrà possedere un imprinting delle meraviglie del guardar lontano. E chi non lo ha avuto? Dovrà avere pratica di orizzonti. E chi può sfuggire ad essi? Potrà essere la distesa del mare o una sconfinata pianura e sappiamo che sono ancora più presenti dietro a una siepe o a un monte. Tuttavia avrei una leggera predilezione per colline e montagne lontane, là dove si possa far pratica dell’“azzurro color di lontananza”, come dissero Pascoli e Gozzano e come intendeva dire molto tempo prima Leonardo con la sua prospettiva aerea. Da noi, dalle parti di Alessandria d’Italia, sono gli Appennini a presentarsi più sovente azzurri in lontananza, mentre le Alpi, bianche e rosa al mattino come una sposa novella, solo a sera si presentano in un azzurro cupo, vedovile, che tende al viola. E ancora mi sovvengono i nostri Quattrocentisti, così esperti di lontananze da collocare sulle colline dei loro sogni, laggiù, dietro Madonne e Santi, dei piccoli colossei in miniatura o dolcissime elicoidali torri di Babele, graziose come lumachine, quasi volessero dirci che la lontananza è abitata di utopie e di sogni del passato.

DEL GUARDAR PER ARIA

Il facitore di haiku a volte lo si riconosce dall’abitudine che ha di guardare per aria. Sta allenandosi: spesso conta le sillabe, ma più sovente si tratta di un allenamento all’ispirazione. I poeti, specialmente quelli contemporanei, guardano per aria. Montale ce lo fa capire quando ne I limoni dice: “… nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase”.
Giova molto all’ispirazione guardare per aria: si scoprono sempre cose curiose fra i cornicioni e le grondaie. Sono molto interessanti anche i comignoli. Ne esistono ancora di mattoni oppure ci sono quelli cilindrici in cotto, che paiono piccole case di gnomi che hanno abbandonato il sottobosco, per andare in una loro villeggiatura montana sui tetti. Scomparse quasi ovunque le banderuole, si sono conservate invece molte croci in ferro battuto, aeree, leggere, alla sommità di piccole cappelle campestri o sugli oratori delle confraternite. Anche certe chiese dei nostri paesi e delle nostre frazioni hanno di queste croci, fatte di linee di contorno e a volte raggiate. Per queste chiese le dimensioni sono maggiori e in un nostro sobborgo ne esiste una che si può ammirare da vicino, forse caduta dalla sommità o pericolante e successivamente murata sulla parte inferiore della facciata. Appare grande e questo ci fa stupire, perché tutte le cose che stanno in alto ci appaiono piccole; ha qualcosa dell’angelo ferito e caduto, ci fa capire meglio il mistero del guardare per aria. Questo mistero ha le sue radici più profonde in chi guarda il cielo di notte e si ferma a contemplare astri, stelle cadenti e massimamente la Via Lattea. Chi finirà per comporre haiku ha nella sua memoria la prima volta che gli è apparsa la via lattea su un’aia contadina, fuori da ogni inquinamento luminoso, e associa questa visione-ricordo ad una rappresentazione egizia della volta stellata a forma di ippopotamo o di rapace dalle grandi ali, non sa bene (ma deve trattarsi piuttosto di una sua elaborazione fantastica).

Terreni della miopìa percettiva

DELLE ERBE SPONTANEE

La vocazione di chi costruirà haiku è generalmente indicata dal felice rapporto che ha intessuto da bambino con le erbe spontanee. Da bambini sono delle interlocutrici privilegiate perché si offrono allo sguardo piuttosto vicine. Lo stupore aumenta a trovarsele in luoghi incongrui, come fra le traversine della ferrovia o tra le commessure dei marciapiedi ma, insomma, guardare da bambini con attenzione alle erbacce non può che portare da adulti a due esiti: mettere assieme begli erbari oppure comporre haiku. Le erbe che più si prestano sono a volte quelle più umili e insignificanti, come nel famoso esempio di Bashō:

Allungo gli occhi:
sotto la staccionata fiorisce
la borsacchina
(traduzione di Elena Dal Pra)

Ma ispirano molto anche quelle erbette di forme graziose che spuntano nascoste negli angoli più appartati e umidi:

Strisciante eliso
cui è mancata l’aria
la cimbalaria

Come non parlare poi del senso di sconfinata libertà che danno le ombrelle della carota selvatica; ne parleremo infatti in un apposito paragrafo.

DEGLI ANIMALI AMATI DA ALCUNI INCISORI

Favorisce la riuscita dello haiku l’incontro con quei piccoli animali che, se ci fate caso, sono quelli preferiti da alcuni incisori perché, se li osservate bene, sono un po’ come dei gioielli e quindi sono un modello ideale da ritrarre da parte di quegli artisti idealmente miopi che sono gli autori di acqueforti. Parliamo della Wunderkammer, diffusa in natura, e vivente, delle lumache, lucertole, ranocchie, rospetti, farfalle, persino certi ragni. E poi il merlo, che fa di tutto, con il suo canto, per richiamare all’opera l’autore di haiku.

DEI PROFUMI NELL’ARIA E DEI COLORI NELLA LUCE

Del potere evocativo dei profumi è già stato detto tutto e non vi è nulla da aggiungere. Sottolineeremo ancora una volta la loro capacità di rievocare il passato e di annunciare le stagioni, quindi il loro altissimo valore haikugenetico. Le fioriture e i frutti, da febbraio a ottobre, mandano messaggi odorosi che marcano i mesi, per cui febbraio è il calicanto, giugno è il tiglio, questo per lo meno nella nostra fascia temperata, mentre settembre è l’uva fragola. I colori sono a volte il loro corrispettivo visivo. Fate attenzione a luglio, se per caso è il vostro mese di nascita. Ci vuole quasi una vita per scoprirlo, ma il profumo di luglio è un profumo permeante e denso, un misto di pesca matura, di petunia e un pizzico di bella di notte dopo il tramonto e l’innaffiatura, mentre il colore di questo mese è l’arancione, a metà strada fra quello dell’albicocca tardiva e quello della bignonia.

DEI MODI PER ASCOLTARE IL TEMPO

C’è stata un’esperienza fondamentale per il compositore di haiku, specialmente durante la sua infanzia: i momenti in cui non succedeva assolutamente nulla: pause pomeridiane, pomeriggi oziosi oppure, a tutt’oggi, quei momenti in cui si rimane incantati a fissare l’acqua che scorre, il fuoco che si muove a modo suo, la fila implacabile delle formiche. E poi c’è il vento, la brezza: in questo caso veramente si sperimenta anche il suono, più o meno percepibile, il rumore del tempo, ci si interroga sul suo modo di passare o di ritornare.

 

Stagione e pratica dello haiku

Lo haiku è buono per tutte le stagioni, anzi è nato proprio per celebrare tutte e quattro le stagioni, tant’è vero che deve contenere dentro di sé il kigo che è, abbiamo visto, un riferimento alla stagione trattata. Tuttavia mi si permetta di indicare una predilezione compositiva per quel periodo che va all’incirca da metà aprile a metà giugno, il periodo dell’anno in cui l’aria è più profumata e i verdi sono più freschi e luminosi, che potremmo definire della seconda primavera. La pratica dell’haiku che verrà da adesso in avanti illustrata andrà vista come la preparazione, la celebrazione e la conseguenza di questo periodo, così come si sono configurate per me nell’estate 2012 appena trascorsa, come se si trattasse di un raccolto (agricolo) di quest’anno.

1)

È un periodo dell’anno (questo della seconda primavera) che si preannuncia fin dai freddi tremendi che possono esserci ancora alla fine di febbraio, come è successo quest’anno. Tuttavia incomincia ad esserci qualcosa nell’aria. Sappiamo di stare ancora dentro al mese delle febbri, ma uscendo per andare verso il supermercato scorgiamo dietro la sua mole delle nuvole rosa. Tira vento, ma quel rosa è come se preannunciasse qualcosa. Il vento sembra rafforzare quel qualcosa, soffiando dietro le nuvole verso di noi. Vorrei esprimere il concetto che, nonostante faccia ancora freddo, c’è come l’inizio di un cambiamento, ma non mi ci sta la parola “ancora” dopo le cinque sillabe di “vento di febbre” del primo verso. Non parliamo poi dell’indicazione “dietro le nuvole rosa”, che mi porterebbe via da sola ben otto sillabe. E poi bisogna che ci metta un verbo, per dire quello che mi è successo. Risolvo così:

Vento di febbre
che chiama di lontano
la primavera
(26 febbraio)

Spero che in quel “di lontano” il lettore scorga le nuvole rosa.

2)

Uno sfondo d’Alpe ancora innevato, illuminato dalla luce rosata del mattino mi appare ad aprile avanzato e questa volta non è l’avanguardia della primavera, ma la lenta, lentissima ritirata dell’inverno. Là sui monti c’è ancora la neve mentre qui, nella pianura è tutto un trionfo smaccato di verdi teneri e di fioriture. Il contrasto è ora quello fra la festa di primavera, pagana, boeckliniana, che mi circonda e quell’orlo rosato, così simile a certi sfondi montuosi della pittura zen, lontananza che sperimentavo fin da bambino guardando in direzione del castello di Redabue, dalla spianata rasserenante che fa da sagrato infinito al cimitero di Oviglio.

Qui regna Aprile.
L’orlo dei monti è un soffio
rosa lontano
(21 aprile)

Sono contento di aver trovato la similitudine del soffio per quel modo che ha certa pittura orientale di rendere la lontananza delle montagne. Sono soddisfatto anche per la lieve ambivalenza di quel “rosa lontano”, dove appositamente non ho messo la virgola fra i due termini, dato che l’espressione può essere interpretata come una coppia di aggettivi, ma anche come un aggettivo per così dire unico, denotante una qualità del colore, un “rosa lontano” così come esiste un “rosa antico”, una specie di rosa “color di lontananza”.

3)

Il 4 maggio di quest’anno mi accorgo della piena fioritura delle gaggìe mentre sono ancora splendenti i fiori degli ippocastani. Mi pare un fatto piuttosto insolito. Da come mi pare di ricordare, i due generi di fioritura hanno tempi un po’ diversi. Probabilmente il freddo che c’è stato fino a non molto tempo fa ha fatto ritardare gli ippocastani e poi il caldo che è esploso recentemente ha fatto anticipare le gaggìe. Fatto sta che mi pare un’emozione mai provata; ma come renderla con sole diciassette sillabe? Mi aiuta la forma dei fiori: in fin dei conti sono tutte due forme a grappolo: sia il cono a punta dell’ippocastano (un grappolo per così dire rovesciato), sia la forma più sfrangiata e ricadente della gaggìa. In comune hanno il colore bianco e poi tutta quell’aria euforica di festa al solo vederli! Certo, adesso ci sono! Si tratta di una vendemmia speciale, una vendemmia di grappoli bianchi, una vendemmia di primavera, una vendemmia in bianco!

L’ippocastano
vendemmia in bianco oggi
con la gaggìa
(4 maggio)

4)

Ripercorro, con il preciso scopo di ritrovare delle vecchie emozioni, la strada principale del paese, dove c’erano il negozio di commestibili, la macelleria, la farmacia, la società operaia di mutuo soccorso, il barbiere, l’ufficio postale. In lontananza prosegue più solitaria (da sempre), costeggiando la casa canonica lungo la salita che porta alla chiesa. Questo tratto mi offre la visione beata di una carreggiata metà all’ombra e metà al sole, con uno stacco netto che, chissà perché, mi riporta indietro nel tempo; una visione da ora meridiana.
A un certo punto rimango colpito da un odore di minestrone, anzi di pomodoro che cuoce nel minestrone. Ah, allora c’è ancora un po’ di vita in questi paesi! L’odore di cucina è sempre rassicurante e rende disponibili, disarmati: l’abbandono al passato diventa più intenso.
 Ma come trasferire tutto questo in diciassette sillabe? Devo dire un sacco di cose: che mi trovo in paese, che inseguo con gli occhi quel confine dell’ombra sulla strada, che l’azzurro riempie di sé gli spazi non occupati dalle cose e poi c’è da dire che la parola minestrone, essenziale in questo caso, porta già via da sola quattro sillabe. Sembra proprio impossibile.

Strade in paese
tra l’azzurro e l’odore
di minestrone
(14 maggio)

Ho contravvenuto al divieto che Borges impone per la parola “azzurro”, assieme a “ineffabile” e “mistero” (“Esecuzione di tre parole”, da Inquisizioni, Adelphi, Milano 2001). Ma qui mi è parso nodale e spero che la combinazione strade-azzurro sia come un liofilizzato per il lettore che, aggiungendo l’acqua della sua fantasia, ricrei la bibita fresca del paesaggio che ho visto io: contrasto luce-ombra, ora meridiana, paese dell’infanzia e tante altre cose.
Mi sono dispiaciuto all’inizio di non poter usare “strade di paese” (sarebbe diventato un senario anziché un quinario), ma poi ho trovato l’inevitabile “strade in paese” (quinario) più dotato di sprezzatura (ci sono strade in paese … in quel paese che tu lettore e io sappiamo bene …).

5)

È da ieri che agisce in me la vista dei pappi che danzano e sfuggono sul pavimento di marmo nero di un luogo che fa inevitabilmente pensare a un buio Altrove. Ero passato in paese a vedere se la bufera del giorno prima avesse fatto danni. No, non è successo niente, ma quel gran movimento d’aria ha imprigionato le lanugini del pioppo, che si muovono nello stretto ambiente con una rattenuta frenesia gioiosa come se vi volessero portare a tutti i costi la primavera. Se fai per afferrarle il movimento del braccio le allontana, come se volessero giocare. “Sfuggenti” è dunque la parola chiave, poi bisogna trovare un paragone con le cose che in natura sono più morbide e si disfano in un niente e poi ancora far capire la gioia massima che si prova di fronte a questi fenomeni fatti di cose lievi. Verrebbe:

Pappi sfuggenti
come nuvola o neve:
c’è gioia altrove?
(15 maggio)

Solo adesso, trascrivendo e commentando, mi accorgo che il subconscio ci ha messo lo zampino e riaffiora nella sua crudezza il luogo in cui ho visto i pappi e “c’è gioia altrove?”, da domanda di sfida a trovare altrove la gioia assoluta di quel momento, può diventare l’amaro interrogativo senza risposta terrena: “c’è gioia nell’Altrove?”.

6)

Quante volte il profumo dei tigli ha scatenato in me il desiderio di comporre haiku! Quante volte ne ho parlato! Tante volte che ora basta. Argomento esaurito. Ma rimane un piccolo rovello, una piacevole ossessione: la variante, nel susseguirsi degli anni, della data del primo giorno in cui si sente nell’aria il profumo dei tigli pasticcieri. Che io sappia non c’è stato mai nessuno, meteorologo o botanico, che si sia preso la briga di registrare, di anno in anno, l’esordio della fioritura del tiglio nel luogo dove abita. Eppure è un riferimento per la nostra memoria. Ad esempio, mi ricordo benissimo che nel 1964 la fioritura avvenne intorno al 15 giugno: era la lunga vigilia degli esami di maturità e attraversavo a piedi tutta la città da un capo all’altro, fino agli Orti, per consegnare degli appunti a un compagno di scuola, da cui andavo per ripassare. Ma allora il profumo è rimasto impresso perché collegato a un momento importante dello studio. Con il passare degli anni, invece, ho registrato (ma in maniera distratta e discontinua) la data del primo giorno in cui sentivo il profumo dei tigli e ne ho notato la variabilità, ritornandoci su con il pensiero come se fosse una cosa curiosa e persino importante (poi ho capito che l’importanza sta nel fatto che la fioritura profumata contrassegna lo scoccare di un altro anno e poi che questo evento avrà un numero fatalmente limitato di ritorni e perciò è tanto prezioso).

Un po’ diversa,
data del tiglio in fiore,
ad ogni anno
(6 giugno)

Lo so, sarebbe stato più elegante dire “la data del tiglio in fiore”, avrebbe fatto più “traduzione dal giapponese”, ma sarebbe stato un ottonario anziché un settenario e ho voluto attenermi rigidamente alle regole, con un vocativo in cui mi rivolgo alla data, personificandola con un po’ di retorica barocca.

7)

Nel cortile acciottolato e nelle sue parti dove furono tolti i sassi per fare un po’ d’orto cresce ogni cosa, basta che lo faccia spontaneamente: tutta colpa o merito mio. Incerto se essere seguace di Renzo Tramaglino o del guru francese del giardinaggio Gilles Clément, mi limito a tagliare l’erba e a guidare un po’ la crescita di tutto quello che spunta. Si imparano un sacco di cose sul mondo meraviglioso delle erbacce, che il languido e asettico coltivatore di rose senza profumo e di sempreverdi in similplastica ignora totalmente. È da un paio d’anni che tengo d’occhio l’erba cipollina per due ragioni: l’acuto e sempre imprevedibile odore di cipolla che si sprigiona al taglio con la falce messoria e la bellezza dei frutti, a forma di mora, anch’essi di un colore viola ma come sovrapposto tenuamente al giallo-paglia che, seccando lo stelo, diventerà predominante. Sul frutto a volte rimane la spoglia del fiore, come un’ala d’insetto dotata di uno speroncino.
È un raccolto tutto mio, buono e meritato raccolto di un coltivatore pigro che lascia fare al tempo, alla natura e alla stessa affezione di quelle piante, ogni anno, per quella determinata porzione di terreno. Raccolto-emblema di una solitudine tutta mia in quel cortile abbandonato, solitudine fantasticante su mondi chiari, che rinserrano ancora dentro di sé illusioni di futuri e di scoperte, ancora oggi!
Poi un regalo ulteriore, mentre apro la porta della macchina accucciata nel vicolo fra il portone e il muretto, butto il mazzo del raccolto sui sedili posteriori, con rimbalzo morbido, senza rompere nulla, porto a casa quel tesoro che trionferà nel vaso nordico squadrato e azzurro. Un regalo ulteriore, dicevo: è così che accolgo le prime gocce di pioggia, pioggia che arriva da quei mondi a cui stavo poco prima pensando:

Di altri mondi,
globi di cipollina,
siete i pianeti
(8 giugno)

8)

Nella fortunosa avventura di tenere erbe aromatiche sul balcone, quella che si è comportata meglio è stata la lavanda. All’inizio un ciuffetto di foglie non meglio identificate, da me qualificate con il nome, molto approssimativo, “di rosmarino, ma un po’ più grasse e chiare”. Hanno reagito bene alle innaffiature e si sono accese di steli fioriti dall’inconfondibile colore e profumo. “Accese”, ecco il termine, ma mi occorreva un paragone meno banale di quello con la luce o con il fuoco; lucciola mi è parso il termine giusto, affiorato forse per via del parallelo pianta-insetto, per l’allitterazione lavanda-lucciola, perché l’effetto di lucetta accesa veniva fuori bene alla sera, con la luce crepuscolare che smorzava le tonalità del verde delle foglie. Il primo stelo che si apriva, poi, mi aveva colpito molto e quasi emozionato.

Prima lavanda,
nel monocromo verde,
lucciola viola
(11 giugno)

9)

Sul cambiamento improvviso d’umore si potrebbero scrivere dei volumi. Tralasciamo il passaggio dall’umore sereno al veder tutto nero: lo conosciamo bene. Con un po’ di attenzione scopriamo quali siano i punti sensibili che scatenano questo cambiamento e, per quanto possiamo, cerchiamo di tenere la situazione sotto controllo. Ma il passaggio inverso, dalla depressione alla gioia, rimane un impenetrabile mistero: persino Leopardi, che un po’ si era occupato della felicità, non aveva contemplato la gioia inaspettata (e ingiustificata, o meglio, giustificata dal fatto di essere inaspettata). Qualche volta capita e vale la pena di registrare l’evento. Di malumore, senza ancora esserti ripreso completamente dal trauma del risveglio, apri la porta di casa per la prima uscita …

Scale. Al mattino.
Sùbita gibigianna,
mi cambi il cuore
(12 giugno)

La parola gibigianna, che ha il difetto di rubarmi ben quattro sillabe, ha però il pregio di indicare con precisione il riflesso di luce provocato da un vetro in movimento. La ritrovai a quattordici anni leggendo Il bel paese di Antonio Stoppani (un libro della biblioteca scolastica) e ricordo ancora adesso il piacere che provai nel constatare che un effetto così allegro di luce, tanto da essere utilizzato come gioco, aveva un nome. Vale la pena riportare l’intera nota (la 14 della Serata X, paragrafo 9), così scopriamo che ne aveva molti di nomi. La nota è apposta al termine solino: “Il barbaglio prodotto dal riverberare de’ raggi del sole sull’acqua, sugli specchi, su ogni cosa che lustri molto e si mova. Ha, nel popolo e negli scritti, di molti anni: occhibàgliolo, sguizzasole, illuminello, colombina, indovinello, lucciola, ecc. Peccato che la voce solino lo confonda con quella parte della camicia che cinge il collo. – A Milano gli danno un nome, secondo il solito, molto poetico; lo chiamano la gibigiana”.
Essendo voce dialettale settentrionale trovo giusto italianizzare raddoppiando la enne: gibigianna.

10)

Il 21 giugno, inizio dell’estate, è sempre un momento fatidico, come un compleanno: verrebbe voglia di passare oltre e di pensare ad altro. Può aiutare molto l’esplosione del caldo, per cui l’unico pensiero è un po’ d’aria:

Inizio estate.
Il massimo regalo
un soffio a sera
(21 giugno)

Lo haiku serve anche per ristabilire un contatto: sembra fatto apposta per inviare un sms, è a misura di messaggino e mi meraviglio di non avere ancora letto che la pratica dello haiku sia stata modificata dall’uso del telefonino, ma prima o poi succederà. Se poi, come in questo caso, si sa che la persona che lo riceverà è solita recarsi la sera del solstizio d’estate in un luogo deputato, come faceva Bashō con la baia di Uaca per salutare la partenza della primavera, allora c’è speranza che il messaggio arrivi, magari non subito, ma agisca a distanza di tempo. Lo haiku ha il tempo dalla sua.

Ho raggiunto la Primavera
nei giorni del suo partire
lungo la baia di Uaca.
(traduzione di Giuseppe Rigacci)

11)

Ritorno al paese di primissimo pomeriggio: un appuntamento con due vecchi amici per un lavoro da fare alla casa. Come è costume della gente di una volta sono arrivati in larghissimo anticipo e sono seduti sotto la lea. Fa caldissimo, ma sotto l’ombra folta delle foglie c’è, non dico fresco, ma riparo dal caldo. Butto l’occhio fra i rami là dove sono più radi e vedo le nuvole navigare tranquille, in un mare di cielo azzurro: l’estate, la piena estate, l’estate archetipica come mi si era stampata in mente proprio da quelle parti durante villeggiature lontane. Sdraiato sulla panca sotto la topia o prima ancora a comperare l’uva sotto i pergolati della casa sulla prima collina appena usciti dal paese, avevo visto quello stesso cielo carico di durata e di promesse. L’estate, con questo caldo, è ritornata per qualche attimo ad essere la stagione del futuro (sono nato all’affacciarsi della costellazione del Leone e la Terra mi ha accolto forse cuocendomi un po’: ho trovato il fatto naturale e in parte lo trovo ancora oggi).

Oltre le foglie
cielo e nubi in cottura.
Ristoro d’ombra
(11 luglio)

12)

Non è vero che il passato sia trascorso completamente: esistono ancora copiose lungo i fossi le ombrelle bianche delle carote selvatiche ed esiste ancora il medesimo incantamento che provavo guardandole quando ero bambino. Incantamento durato una vita e sempre con la stessa forte intensità. Ricordo la gioia che provai quando scoprii che quei fiori sono delle carote selvatiche (Daucus carota). Era come se qualcuno fosse venuto a conoscenza di un mio segreto e me ne svelasse le ragioni della meraviglia. Quel qualcuno era Ippolito Pizzetti, che trattava l’argomento sull’Espresso del 6 agosto1978.

Ombrelle bianche
di carote campestri.
La mente vola
(17 luglio)

Due piccole notazioni: se usavo il verso “di carote selvatiche” avrei composto un ottonario. Costretto al settenario mi è venuta in soccorso la parola “campestre”, che prepara meglio il verso seguente, sia per l’allitterazione con “mente” sia per il fatto che i campi sono adatti al volo di un qualcosa: una farfalla, un’allodola, una mente.

Seconda notazione: con “la mente vola” ho voluto indicare quella condizione di uscita dalla realtà che solitamente viene attribuita al sogno o all’assunzione di sostanze inebrianti o stupefacenti, senza pensare invece alla rêverie, cioè alla fantasticheria, al sogno ad occhi aperti, promossa a categoria massima della conoscenza da Gaston Bachelard.
A proposito: quali sono le cose che mi fanno volare la mente? Certi aforismi, le parole e le frasi del mio lessico famigliare, le illustrazioni dei libri per i ragazzi del Novecento, le erbacce, l’urbanistica sentimentale, la geografia letteraria, ogni tipo d’oggetti d’affezione, le tracce del tempo…

13)

Viene un momento, nella seconda metà di luglio, in cui sembra che l’estate sia già finita. Poi vengono delle giornate che smentiscono questa impressione. C’è un luogo che si presta a ravvedimenti di questo tipo. È la pianura dove scorre l’“Orba selvosa” di manzoniana memoria; ora la selva è ridotta al minimo e in compenso lì corre tutta una distesa di stoppie e granoturco, tutta in piano ed ariosa, dopo Portanuova andando verso Retorto. La macchina si lancia sul rettilineo e la campagna corre come in un film. Il cielo, saturo d’azzurro da non poterne più, si accompagna con le nuvole di panna all’orizzonte, mettendo insieme un bel technicolor: non solo l’estate, ma persino la vita sembra non dovere finire più.
Sì, ma se voglio comporre il mio haiku dovrò evitare le tre sillabe di “nuvole” e optare di nuovo per il più economico bisillabo “nubi”, dovrò anche rinunciare al paragone con la panna, anche se è il più verosimile, perché mi pare poco “prezioso” e originale; troverò “biacca”, un bianco usato nella pittura. Lo svolgimento della composizione non poteva che prendere allora questa piega pittorica:

Nube di biacca,
ancor lunga è l’estate
dentro il tuo quadro
(22 luglio)

Ecco che una parola, “biacca”, ha indirizzato il ricordo di un’impressione viva e solare verso un’immagine un po’ imbalsamata, un paesaggio ottocentesco ammirato in un’anticamera in penombra.
Ma, a pensarci bene, esiste un’immagine più gloriosamente estiva di “Tetti al sole” di Raffaello Sernesi? O di altre opere sue o di Odoardo Borrani? Anzi, arrivati a questo punto, sarebbe auspicabile una scuola di haiku dedicata esclusivamente ai quadri dei Macchiaioli.

14)

È pericoloso ma, per chi non cambia città, inevitabile passeggiare da anziani per i medesimi viali percorsi nell’adolescenza:

Nube sul viale
aperta su un futuro
che è già passato
(11 agosto)

È pericoloso per i compositori di haiku lasciarsi incantare sempre dalle nuvole e poi, per economizzare sulle sillabe per dire più cose, parlare di “nubi” anziché “nuvole”: il manierismo è in agguato.
Il tempo è sicuramente il contenuto principe dello haiku; non solo il tempo delle stagioni, ma anche l’attimo fuggente e sfuggente del “qui ed ora”. Però ho notato che, per lo meno a partire da Issa, compare un “terzo tempo” che è quello, praticabile solo dal vecchio, di un sentimento globale della vita come se fosse vista dall’alto o meglio come se si fosse trovato il punto di scorcio giusto per riconoscere la sua vera forma, prima nascosta in un’incomprensibile anamorfosi. Il “terzo tempo” dello haiku è quello della vita vista come totalità di breve durata, là dove infanzia e vecchiaia si toccano o dove essa si scopre nella sua sublime nullità, accomunandoci tutti. Dice Issa:

È di rugiada
è un mondo di rugiada
eppure eppure
(traduzione di Philippe Forest – Gabriella Bosco)

Già l’haiku numero 14 si riconosce in questo “terzo tempo”. Così pure i prossimi tre di cui parleremo (e forse non è un caso, perché la temperie d’agosto ha già in sé qualcosa di autunnale, più favorevole alle rimeditazioni sulla vita).

15)

Non avrei mai immaginato, prima di comporre questo haiku, che ci potesse essere una correlazione tra il portale di un garage e il grande pittore tedesco del rinascimento Albrecht Dürer, contemporaneo di Leonardo.
Scendo la rampa che porta al garage e, per una sorta di riflesso condizionato, mi viene da guardare verso l’alto e vedo che, da una bordura dello spazio pubblico trascurata, spuntano molto decorativamente delle spighe un po’ piumose: sembrano pronte per essere dipinte e il più adatto a farlo sarebbe stato, a quanto ho visto e ricordo, proprio Dürer. Solo che poi, documentandomi, mi rendo conto che si tratta del pabbio comune (Viridis setaria), che mi viene dato come originario dell’America. Quindi è difficile che Dürer l’abbia dipinto o disegnato. Ma che importa: ciò che conta è l’amore per le erbe spontanee, che ci commuovono!

Quel ciuffo d’erba:
ha consolato Dürer,
parla a me ora
(18 agosto)

16)

Lucerta ferma
sul consunto portone:
chi è più antico?
(19 agosto)

Varrà la pena di notare come in questo caso ci sono tre tempi espliciti: l’attimo del “fermo immagine” della lucertola, i milioni di anni che evoca l’animale, dinosauro in miniatura, e il tempo più che centenario del portone avito; poi, implicitamente, ci sono tutti i decenni che si sente addosso l’autore. Il termine “lucerta”, che il Devoto-Oli dà come arcaico, poetico e dialettale, mi ha fatto risparmiare una sillaba e mi ha fatto rientrare nel quinario. Stavo già pensando di sostituirlo con “ramarro”, ma sarebbe stato più improbabile e meno realista, sebbene più prezioso.

17)

Suon di campane,
mattino d’agosto.
Pasque lontane!
(6 settembre)

Esempio insolito di haiku “antedatato” (avevamo parlato all’inizio di haiku postdatato, che è quello del ricordo). Qui, invece di parlare di un’emozione provata tempo prima e ricordata a settembre (quindi postdatata), si parla di un’emozione che si prova a settembre ma, viste queste estati protratte (da grande cambiamento climatico in atto), è forse più propria di un agosto declinante e quindi si attribuisce ancora all’agosto appena trascorso. Da notare però che il mattino è già fresco. È abbastanza importante, tant’è vero che avevo impostato il settenario così: “fresco mattin d’agosto”. Ma, passi per “suon”; non si può poco dopo dire “mattin” per risparmiare una sillaba e non si può dire “mattin” in assoluto: è ottocentesco, anzi è parodia dell’Ottocento.

In questo testo sono riassunti i tre tempi dello haiku:
il qui e ora: il suono delle campane;
la stagione: il primo fresco d’agosto richiama la lontananza temporale della Pasqua, che sta agli antipodi dell’agosto, ma in un clima che le si avvicina;
il “terzo tempo”, quello esistenziale complessivo: le Pasque lontane sono quelle dell’adolescenza, in cui molto più forte era il sentimento di questa festa. E forse, ai fini della riuscita dello haiku (finora non ne abbiamo mai parlato), la rima aiuta (campane-lontane).

18)

Alla base di questo haiku c’è una visione, o meglio c’è il tentativo di rendere una visione: un esile alberello d’albicocco piantato questa primavera, che ha svolto il suo ciclo completo di albero da frutta e ora le sue poche foglie prendono un colore aranciato incredibilmente bello. Nello stesso posto, prima di lui, un vecchio albicocco contorto è seccato qualche anno fa e poi è stato abbattuto, ma mi ricordo che anche morente affrontava l’inverno con la sua scorza brunita e forte, con un vello di muschio simile ad una pelle d’orso, una specie di cappotto vegetale. Questo qui invece ha il tronco dello spessore di una canna e chissà se ce la farà a passare l’inverno. Da questo avrete capito che l’albicocco per me è una pianta totemica: è bizzarro, anarchico, a volte generoso di frutti, se non potato gareggia col tempo in altezza con la casa. Tende ad avere i caratteri di un animale, per cui l’albicocco novello (mi raccomando: varietà Reale d’Imola!), quando l’ho preso dal vivaista, mi è parso più un bracchetto o un puledrino piuttosto che un alberello. C’è da dire che la visione autunnale che ne ho avuta data a venerdì 26 ottobre, ancora con un bel sole, ma l’haiku m’è venuto in mente domenica 28, con la prima consistente ondata di vento freddo e con il cielo precocemente abbuiato dal maltempo e dal ritorno dell’ora solare. Naturalmente nell’haiku non ci sono tutte queste cose, ma se fosse minimamente riuscito dovrebbe farle oscuramente sentire. L’haiku è un’essenza-assenza (tante sono le cose che non riescono a stare nelle diciassette sillabe!). Comunque per me il presente haiku ha un valore perché chiude questa “Stagione e pratica dell’haiku”, questa lunghissima estate.

Ai primi freddi
le foglie d’albicocco
sognano i frutti
(28 ottobre)

Lo haiku come oggetto e packaging dello haiku

Consiglierei di scrivere lo haiku con inchiostro nero, con un pennino tagliato in modo che la punta sia larga un po’ meno di 2 mm. Personalmente ho adottato da una vita una pseudo-calligrafia che mi permette di scrivere il normale corsivo che abbiamo imparato tutti alle elementari (ora non più?), ritrovandomi ugualmente l’effetto di una piacevole alternanza di tratti fini e grossi, senza stare a “costruirli” come succede nella calligrafia vera e propria. Il segreto sta in un certo uso delle grazie. Queste semplici grazie “fanno calligrafia” al punto che riescono a nobilitare persino una scrittura a biro, che è il massimo del segno uniforme. Mi ispirai al Berling Italic di un catalogo Letraset. Ma se volete applicarvi un po’ alla calligrafia dedicatevi a quella “rotonda”, facile da tracciare, caro retaggio della scuola italiana dei nostri padri e dei nostri nonni, indispensabile per fare una “e” accettabile anche per la mia pseudo-calligrafia, che altrimenti produrrebbe “e” goffe e scomposte.

Oppure: come non detto. Usate la scrittura che vi viene ma non scrivete, vi prego, sulla carta pesante per fotocopiatrici e stampanti da 80 grammi al metro quadrato, quella che vi ritrovate dappertutto in risme: è indigesta. Usate l’extra strong (da 60 grammi), che una volta era la più diffusa per via delle macchine da scrivere ed ora si trova in block notes. Comunque con un po’ di buona volontà potete trovare persino nei supermercati carta da 55 grammi (sempre in block notes). Ne guadagnerete in leggerezza. Ricordatevi che se la prima qualità dello haiku è la freschezza, la seconda è la leggerezza.

Sarà molto elegante uno haiku scritto su un foglio quadrato, che ricaverete facilmente dal formato A4, che è quello in cui si presentano i fogli che abbiamo indicato (210 x 297 millimetri). Parliamo quindi di un quadrato di 21 centimetri di lato.

Arrivati a questo punto possiamo decidere che ne sarà dell’oggetto-haiku. Vogliamo farne un biglietto da consegnare? La soluzione più essenziale è quella di piegare il quadrato di partenza più volte a metà, in modo da formare un totale di 16 quadratini di 5,25 cm di lato. Si scriverà lo haiku nella campitura quadrata centrale di 10,50 cm. Si chiuderà il biglietto piegando all’interno strisce di cornice larghe 5,25 girando tutt’attorno e ottenendo un biglietto quadrato di 10,50 che racchiude lo haiku e su cui si può scrivere il nome del destinatario (l’intascatura dell’ultimo quarto del biglietto che si è venuto formando, troppo difficile da spiegare a parole, dà un tocco di eleganza in più ma non è strettamente indispensabile).

Nel caso in cui si scrivesse lo haiku sul foglietto quadrato di 21 cm di lato senza farne un biglietto ripiegato ci sarà bisogno, perché non voli via, di un ferma-haiku. Al proposito avrei in mente un’“invenzione” di design naturale italiano che, anziché egoisticamente brevettare, propongo gratuitamente a tutti i miei lettori. Ma c’è un “ma”: devono avere un bel po’ di tempo dalla loro, tempo e pazienza. Mi spiego: il ferma-haiku che propongo consiste in una triade di sassolini di dimensioni comprese fra i tre e i cinque centimetri circa, uno verde, uno bianco e uno rosso (tonalità naturali). Poggiati su un angolo del foglietto dove c’è scritto l’haiku formeranno una nota di colore arieggiante la bandiera italiana, a sottolineare la docp dell’haiku italiano. Va da sé che la provenienza dei sassolini deve essere rigorosamente da torrente o fiume nazionale, con opportuna licenza regionale e seguendo le procedure del caso secondo l’apposita legge e relativa delibera d’attuazione (alla voce relativa si dovrà specificare: per solo uso di ferma-haiku). A meno che non vi capiti come è capitato a me, ma allora la ricerca può durare anche anni, perché dobbiamo affezionarci ai sassolini.

 

Il mio ferma-haiku

(I colori dei sassolini sono nell’ordine di ritrovamento)

Rosso

Non è tanto un sassolino: è già un ciottolo a tutti gli effetti, sebbene sia da annoverarsi fra i più piccoli. Ha la forma di una sfera molto schiacciata, una specie di Terra piatta, come l’immaginavano gli antichi o meglio, visto anche il colore (un bruno rossastro con riflessi di un carnicino chiaro) un pianeta Marte in miniatura con i suoi canali e i suoi anfratti. È con me da una trentina d’anni, si tiene bene in pugno, mi è sempre servito da fermacarte, l’ho verniciato; poi, trovando molto meglio l’opacità naturale, l’ho sverniciato. L’avevo trovato scavando superficialmente nel terreno dove sorgeva la stalla della casa di campagna, che aveva il pavimento in terra battuta. Come mai fosse finito lì era un mistero, ma era bello di colore e di forma, proveniva dalle profondità della casa degli avi e tanto bastava perché diventasse un fermacarte-gioiello di famiglia, tutto mio perché il tesoro l’avevo trovato io e nessuno poteva contendermelo.

Verde

Questo veramente può chiamarsi sassolino o meglio, dato che il sassolino è quello che può entrare nella scarpa, lo chiameremo sassetto: fate conto un 5 x 3 cm x 1,5 di spessore. Sembra riprodurre il disegno della pelle del serpente (quindi potrebbe essere un ofiolite), ma è ancora più raffinato: su un fondo verde cupo, quasi nero, c’è un motivo filamentoso grigio-verde chiaro che richiama dei rami di pioppo ricchi di foglie, ricreando un’immagine simile a certe illustrazioni liberty. Lo scoprii per caso tre o quattro anni fa, davanti a un ingresso di una casa del quartiere Pista, accostato al cordolo delimitante il riquadro di terra attorno ad un albero del viale. Avevano fatto da poco lavori lì attorno e c’erano diverse tracce di pietrisco. Faceva parte di quelle tracce. Gioia, piccolo sobbalzo al cuore, come se avessi scoperto un oggetto prezioso. In effetti la bellezza è veramente singolare, ma al momento ho altri pensieri o forse voglio capitalizzare l’aspettativa verso quella gioia. Lo nascondo sotto l’erba ricadente dal cordolo: “Tanto,…a chi vuoi che interessi un sasso”. Ripasso l’indomani. Non c’è più. Panico. “Che cretino, potevo raccoglierlo ieri! Quella tua maledetta abitudine di rinviare una gioia, chissà, per il desiderio di farla durare più a lungo o, come fa il giocatore, per la soddisfazione che dà il rischio di perderla. E così sei rimasto fregato!”. Cerco meglio tutt’attorno, ma con la convinzione segreta di cercare l’impossibile. Poi, forse calmate le esigenze dell’inconscio che non vuole quella gioia, ritrovo il sassetto che stava proprio al suo posto. Ero io che avevo sbagliato a ricordare. Grande soddisfazione dopo averlo raccolto. Nel tragitto verso casa lo lavo alla fontanella: luccicante, è veramente un gioiello e in quel momento era arricchito dalla seguente morale: “Per trovare una cosa davvero meravigliosa bisogna almeno una volta credere di averla perduta”.

Bianco

Mi ha subito ricordato, fin dal primo momento del ritrovamento, un piccolo teschio (un 3 x 4 x 2,5 cm), ma con il vantaggio che l’astrazione ha cancellata ogni traccia di macabro. Ha comunque la forma di una testa primitiva, massiccia, con una bocca rinserrata e increspata come di chi è arrabbiato o sta compiendo uno sforzo e ha un unico occhio da ciclope. L’ho trovato meno di un anno fa proprio vicino alla soglia della casa di campagna, avanzo del pietrisco portato per i lavori della casa di fronte. Colpito dalla compiutezza della sua forma, ho subito pensato: “Ecco la terza pietra che manca alla mia collezione”.

Ma questo è solo un esempio. Ciascuno parta alla ricerca della propria significativa terna di sassetti per il proprio ferma-haiku, cosciente di realizzare un vero, naturale prodotto di design popolare made in Italy.

Per motivare ulteriormente chi si accinga a partire verso questa impresa propongo la lettura dei seguenti due brani: il primo paragrafo, intitolato “Una giornata di pioggia”, della Serata XVI de Il bel paese di Antonio Stoppani e il paragrafo “Il Sé: simboli della totalità” del saggio Il processo di individuazione di Marie-Louise von Franz, contenuto ne L’uomo e i suoi simboli di Carl Gustav Jung.

Nel primo brano il manzoniano Stoppani fa l’elogio per così dire opposto a quello del cielo di Lombardia, cioè parla della bellezza ineguagliabile dei selciati di Milano sotto la pioggia: “Se si vuol vedere qualche cosa di bello non c’è che tenere il capo basso e guardare il selciato. Il selciato?… Sì, il selciato di Milano … così bello, così vario, così bizzarro, che, a cercarlo, non se ne troverebbe un altro simile in tutto il mondo. E pensare che egli è tutto un musaico di pietre pellegrine …”. Nel secondo brano la junghiana von Franz ci spiega perché le pietre ci attraggono tanto: perché sono simboli del Sé, cioè, per dirla in breve, della parte più intima e ideale di noi stessi. Proprio come gli haiku.

 

Errare per necessità

di Fabrizio Rinaldi, 14 agosto 2023

Anni fa lessi la raccolta di racconti di Jürg Federspiel intitolata L’uomo che portava felicità, in cui erano tratteggiati dei personaggi incapaci di andare oltre i propri limiti, di comunicare il proprio vissuto. Immediatamente mi immedesimai nell’ussaro che, dopo la sconfitta subita ad Austerliz del 1805 contro i francesi, vagava nelle campagne innevate, alla ricerca del paese dove ritrovare ciò per cui aveva combattuto e perso.

Sono passati decenni, ma ancora oggi quella figura ieratica e solitaria che cavalcava sul lago ghiacciato, nella nebbia e incurante dei popolani che dalla costa lo avvertivano del pericolo di sprofondare, mi sta a pennello. Sarà tardo-romantica, sarà interpretabile in vari modi, ma mi ci riconosco ancora oggi.

Errare per necessità 02 L'uomo che portava felicità

Il mio non è snobismo nei confronti di una società che è diversa da come la vorrei: rivendico però almeno il diritto di non schierarmi da una parte o dall’altra, perché intravedo più torti che ragioni in tutte le posizioni che mi sono proposte. E invece, in sostanza, è questo ciò che viene richiesto: parteggiare sotto un vessillo, quale che sia; guardarmi dal manifestare un sacrosanto disinteresse; meno che mai dal coltivare un pensiero differente. Questo nessuno me lo chiede. Sembra che a pensare, anche a nome mio, siano deputati altri. Tutto ciò non mi appartiene. Tutto qui.

È pur vero che ho delle preclusioni a pelle, per cui di fronte a particolari situazioni i pori della cute si chiudono a qualsiasi dialogo: ammetto di non riuscire a comprendere idee e azioni di personaggi come Berlusconi (pace all’anima sua, ma non ai suoi imitatori, Renzi compreso), Salvini, Meloni, ecc …, con tutte le loro corti di politicanti, imprenditori, banchieri e faccendieri. Se anche dicessero e facessero cose condivisibili (tranquilli, non capita), rappresentano comunque l’antitesi del mio modo di pensare e vivere.

Ma anche con gli altri, l’empatia è decisamente bassa. Sembra che il loro gioco preferito sia quello di farsi le scarpe a vicenda e di attendere gli scivoloni altrui. Una guerra di logoramento che consuma soprattutto chi la conduce.

Errare per necessità 03

La schiacciante vittoria di Napoleone durante la battaglia di Austerliz confermò il predominio della Francia sulle potenze europee e la fine del secolare Sacro Romano Impero, con tutto ciò che rappresentava. Di qui lo smarrimento del mio ussaro, ma anche la sua volontà di ritrovare un senso, una causa in cui credere.

Oggi non c’è un Napoleone capace di mettere a soqquadro la società come si è evoluta nei secoli: chiunque vada al potere, tutto procede immutato (ovvero viaggia verso il disastro), mentre dilaga un individualismo incosciente e miope, per cui ogni singolo non riesce a vedere al di là di quelle che sono le sue immediate (e tutt’altro che naturali) esigenze.

Come lo scontro avvenuto ad Austerliz divenne volano per enormi cambiamenti politici e sociali, gli avvenimenti degli ultimi anni (dall’11 settembre alla guerra in Ucraina, dalle crisi economiche a quelle climatiche e – non ultima – quella sanitaria conseguente al Covid), avrebbero dovuto imporre drastici cambi di rotta, persuaderci a mettere in discussione i modelli sociali e i sistemi di relazione, a cercare di capire come potremmo sopravvivere senza annientarci. Invece rimaniamo scientemente immersi in un mare di futilità, fingiamo di non renderci conto della situazione in cui ci siamo cacciati, o l’accettiamo rassegnati, evitando di affrontare quella che non è più una remota eventualità, ma una minaccia imminente: la sostanziale estinzione del genere umano.

Mi si potrebbe obiettare che non è vero, che, se le classi politiche di tutto il mondo sono cieche e sorde, esistono però movimenti (come quello di “Ultima Generazione”) nati proprio da questa consapevolezza, che cercano di focalizzare l’attenzione su questo tema. Ma io mi riferisco a prese di posizione serie, fondate su una riflessione storica e sociale approfondita, non finalizzate solo alla visibilità mediatica: di proposte concrete che tengano conto, ad esempio, che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è già impegnata quotidianamente nella lotta per sopravvivere e quindi ha priorità diverse dalle nostre. Richiamare l’attenzione va bene, è necessario (anche se sulle modalità ci sarebbe da discutere), ma una volta che la si è ottenuta occorre avere qualcosa da proporre. Altrimenti tutto si risolve di volta in volta in girotondi, sardine più o meno in scatola o venerdì futuristi, che fanno dire “che bravi questi nostri ragazzi” e offrono momenti di folklore a una tivù onnivora e di eccitazione effimera ai media digitali, ma non progrediscono nella ricerca di soluzioni perseguibili.

Errare per necessità 05

In fondo la dopamina assunta attraverso l’uso compulsivo dei social, ci fa credere che ciò che affermiamo siano verità indiscutibili e condivise da molti. Nulla è più sbagliato perché le certezze non sono mai incontrovertibili, specie in un mondo in cui il ghiaccio sociale che calpestiamo si sgretola non solo per la “febbre” del pianeta, ma per i diritti sociali, i principi morali e gli sviluppi economici, tutti diventati precocemente avariati.

Pure la convinzione di una eterogeneità di pensiero è una chimera che si infrange contro la repentina mobilità d’opinione, senza particolari afflizioni o ripensamenti, rimpianti o rimorsi. È il gioco delle parti che impone un compulsivo cambio di casacca. Affermare convintamente oggi una cosa e domani l’opposto senza colpo ferire, è l’attestazione più potente della società destracentrica che viviamo (ma purtroppo non solo da quella parte lì). In fondo abbiamo appurato che Ruby Rubacuori è la nipote di Mubarak!

Errare per necessità 04

Ciò che vedo è che, mentre ad ogni scroscio di pioggia vengono giù le montagne e se non piove vanno a fuoco i boschi, non c’è alcuno sforzo di responsabilizzazione individuale: continuiamo a chiedere a parlamentari e a “managers” (impegnati a difendere i loro stipendi e profitti) di farsi carico del futuro nostro e del pianeta, ma in realtà badando a non sconvolgere le abitudini al consumo. Non mi pare che qualcuno sia in realtà disposto a rinunciare autonomamente a qualcosa.

Questo non significa che io abbia in mente delle soluzioni e sia in grado di metterle in pratica, almeno a livello individuale: ma so che non le ha nessuno, e soprattutto che nessuno sembra aver davvero intenzione di cercarle.

Rifiuto quindi di schierarmi sotto qualsiasi bandiera, per difendere la mia possibilità di “errare” convintamente, nel duplice senso di muovermi alla ricerca – magari sbagliando – e di confondermi, riprovando pure. Questa, a breve, lungo e lunghissimo termine resta la mia scelta per tollerare l’effluvio di inadeguatezza e incertezza che mi impregnano il cappello e il pennacchio rosso d’ordinanza.

Non voglio attendere l’arrivo della Waterloo per qualcuno. Anche perché ciò si ripete ormai ogni giorno e ne usciamo tutti egualmente sconfitti. Meglio allora rimanere ben ancorato alle briglie del cavallo e procedere senza sosta e ripensamenti, con passo spedito, affinché il ghiaccio sotto i piedi non si frantumi.

Alla via così, cercando “un paese. Un paese come il mio. Ho tutto il tempo al mondo, per trovarlo. Tutto il tempo al mondo”.

Magari non proprio tutto, ma un po’ ancora sì.

Collezione di licheni bottone

Haiku sull’Appennino: un diario

di Marco Grassano, 27 giugno 2023

Haiku sull’Appennino copertinaUna postfazione anticipata – di Paolo Repetto

Giugno giapponese in Val Curone

Giugno 2013

Bozzetti di luglio e agosto 2013

Haiku 2014

Haiku 2015

Altri haiku

Una postfazione anticipata

Mi sono chiesto se avesse senso presentare un’opera che si illustra già benissimo da sola. In genere, soprattutto se si tratta di raccolte poetiche, patisco le presentazioni. Se non arrivo da solo a capire quello che l’autore voleva dirmi, a condividerne sensazioni e riflessioni ed emozioni, ricreandole poi a mia misura, delle due l’una: o non ha saputo parlarmi lui, o non sono in grado di ascoltare io. In entrambi i casi il piacere della lettura va a farsi benedire.
Ma questo libretto non è una raccolta di poesie. O meglio: lo è, anche, ma è soprattutto qualcos’altro. Il che giustifica almeno una postfazione: non un’esegesi critica, ma una postilla con la quale dare conto dei criteri che ne hanno determinato e guidato la pubblicazione.
Il libretto nasce in primo luogo da una comune amicizia, quella con Mario Mantelli. È la migliore risposta possibile ad una delle tantissime sollecitazioni che il “musagete” ha lasciato in eredità, mostrandoci come ciascuno possa percorrere del proprio passo la via dell’haiku rimanendo comunque fedele all’ortodossia formale. Come cioè la disciplina non mortifichi affatto la creatività, ma anzi la stuzzichi, e la fortifichi. Nasce quindi come un “esercizio” poetico, ma prende subito un’altra strada, trova un’espressione tutta sua, originale. Diventa esplicitamente un “diario poetico” (implicitamente, tutte le raccolte poetiche sono diari), nel quale le poesie hanno la duplice funzione di rappresentare “fotograficamente”, quasi come istantanee, la realtà naturale, traducendo la parola in immagine, e nel contempo di fermare il sentimento che l’immagine ha suscitato, riconducendolo da questa alla parola.
Mentre lo leggevo ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad un album di foto dei primi anni Cinquanta, quelle di dimensioni ridotte, quadrate, in bianco e nero e con il bordo bianco dentellato. Le foto sono accompagnate da didascalie semplicissime: il tempo, il luogo, l’occasione dello scatto. Proprio per la loro essenzialità e discrezione le didascalie diventano parte integrante dell’immagine. Sono il bordo dentellato.
Per cercare di restituire questo effetto ho adottato soluzioni grafiche a dir poco rudimentali, le uniche d’altronde di cui disponevo: voglio credere però che trasmettano almeno un poco della genuinità e della immediatezza dei contenuti. Voglio crederlo perché queste piccolissime magie mi affascinano e mi commuovono, ravvivano la speranza che ci sia ancora qualcuno in grado di condividerle.
Il libretto che avete in mano è un umile frutto di quella speranza.

di Paolo Repetto, 19 giugno 2023

Haiku sull’Appennino 07

Giugno giapponese in Val Curone

Trasferito per l’estate, a partire da venerdì 14 giugno 2013, in Val Curone, dove gli stimoli naturali agiscono sui sensi con maggiore intensità, ho cominciato ad avvertire il bisogno di tradurre in qualche modo queste sensazioni, tentando di trasporre in italiano il metro dell’haiku giapponese (tre versi: 5, 7 e 5 sillabe), secondo quanto suggerisce il “geo poeta” Kenneth White: “Ho trovato che la forma più propria a questo genere di contesto è l’haiku, basato su un gioco delicatissimo fra il fenomeno presente e il tutto che ci circonda; ecco perché ho proposto, anni fa, quella che ho definito la passeggiata-haiku, consacrata all’ecologia delle mente, alla filosofia naturale e alla conservazione durevole del mondo”. Ma mi ha anche invogliato l’intrigante “Disciplinare dell’haiku”, dell’amico Mario Mantelli, e mi hanno confortato, a mo’ di esempio, i diari lirici di Matsuo Bashō.
Ecco cosa ne è venuto fuori…

Haiku sull’Appennino 06 mod

Giugno 2013

Il mattino di domenica 16 giugno 2013 non c’erano nuvole, e il pendio che scende verso Bregni e Restegassi, per poi risalire verso il Giarolo, istoriato di boschi naturaliformi e di campi coltivati, sfavillava di tanti verdi diversi:

Splende la valle
in curve e ampi riquadri
di vario verde.

Il pomeriggio, vedendo l’effetto delle nubi in movimento e della loro ombra proiettata sulla montagna, che sembrava, così maculata, la pelle di una salamandra, però ovviamente verde, mi è venuta questa immagine:

Sembra il Giarolo
una verde salamandra
d’ombra e di sole.

Alla sera, uno stormo di corvi ha cominciato a strepitare, volando in cerchio sopra i calanchi che dominano la vicina frazione di Fontanelle, e subito dopo l’oscurità ha cominciato a farsi densa. Ecco:

Strida di corvi:
in tondo sulla rupe
chiamano il buio.

La sera prima, sabato 15 giugno 2013, il cielo al tramonto era pieno di nubi spostate dal vento, che stormiva nel bosco sopra casa con un suono di risacca.

Tramonto mosso.
Il vento su nel bosco
imita il mare.

Poco dopo, il sole da casa nostra non si vedeva più, ma la sua luce spennellava di morbido viola la montagna.

Sera di giugno.
La luce sul Giarolo:
velluto viola.

Mercoledì 19 giugno 2013, al pomeriggio, siamo andati in piscina a San Sebastiano. Dopo aver giocato in acqua con mia figlia, mi sono sdraiato sull’asciugamano e sono stato colto da una dolce sonnolenza, favorita, anziché disturbata, dai rumori dell’acqua e dalle voci dei bagnanti.

Stesi in piscina.
Sciacquii e continue voci
danno sopore.

(sopore: Saffo, nel frammento n° 2, “Invito al tempio”, dice “koma” – da cui anche il nostro termine medico “coma” – intendendo, appunto, un piacevole assopimento, meno profondo rispetto al sonno, “hypnos”).

Saliti alla nostra casetta, mentre aspettavo di cenare ho osservato, lungo il crinale – la “Costa” – che separa la vallata del Curone-Museglia da quella del Borbera (e affluenti), arrivando fin contro il Giarolo, un ampio campo di grano già biondo, in mezzo ai verdi variegati di tutto il resto del paesaggio.

Sopra la Costa
tra i verdi si distende
grano maturo.

Dopo cena, quando l’oscurità si stava già diffondendo, mi sono messo a rincalzare, legare e innaffiare le lavande che ho piantato a inizio maggio. I grilli cantavano, e la loro flebile vibrazione era portata da un venticello leggero (“debole sistro al vento d’una persa cicala”, scriveva Montale), mentre in cielo la luna traluceva da una nuvola che le stava passando davanti. Mi sono sentito anch’io un po’ (ma solo un po’…) monaco giapponese al lavoro nel giardino del convento. Allora ho provato ad usare il metro tanka, scoperto nella raccolta di antiche liriche “La centuria poetica” – compilazione attribuita a Teika Fujiwara (in pratica, aggiungendo a un haiku due versi di sette sillabe).

Grilli alla brezza.
L’alone della luna
dietro una nube.
Nel buio che si addensa
curo le mie lavande.

Mattino di venerdì 21 giugno 2013. L’arrivo del giorno si intuisce dagli uccelli, che cominciano via via a intrecciare le loro note, e una melodia si sovrappone all’altra.

Canti di uccelli:
intrecci sovrapposti,
fanno il mattino.

Sempre mattino del 21 giugno. Il vento, abbastanza energico, fa correre alte nuvole nel cielo pulito; sui pendii, dondolano alla sua spinta le ginestre, che solo adesso (con oltre un mese di ritardo: è curioso come la Natura faccia convivere fianco a fianco piante che fioriscono sulla base del rapporto luce/buio, come i biancospini, con altre che si attivano a seconda della temperatura media, come le ginestre…) iniziano la piena fioritura. Viene in mente l’Anacreonte tradotto da Quasimodo: “Vibra il cupo fogliame / del lauro e del verde pallido ulivo”.

Il vento spinge
i cirri nell’azzurro
e fa oscillare
sulle ripe il recente
giallo delle ginestre.

Alla sera del 21, il sole tramontante esaltava il verde variegato delle pendici del Giarolo, mentre la luna, quasi piena, sorgeva da dietro la punta della montagna:

In pizzo al monte
la luna del solstizio
è quasi piena.
L’ultimo sole obliquo
fa sfavillare il verde.

Sabato 22 giugno 2013 è stato tutto abbastanza ventoso. Alla sera, ondate d’aria scuotevano gli alberi, li facevano dondolare. La luna si è alzata argentea dal Giarolo, appena a destra della punta, in un tondo quasi perfetto. Poco dopo, i corvi hanno preso a girare ad ampio raggio nel cielo, ripetendo monotonamente, come una preghiera, il loro aspro verso:

Tra soffi d’aria
la luna, ostia d’argento,
si alza dal monte.
La litania dei corvi
risuona tutt’attorno.

Domenica 23 giugno 2013, siamo andati a pranzare a Lunassi. Il cielo, nettato dal vento, era di un intenso blu, costellato di grandi nubi marmoree; la luce, così intensa, rincuorava.

Pranzo a Lunassi.
Il cielo, a smalto e nubi,
rischiara il cuore.

Dopo cena, il vento era freddo. Non solo sopra il Giarolo, ma anche sulla Costa e verso Dernice, ammassi di nubi sbrindellate (bluastre per lo più, molte grigie e anche qualcuna rosea) si muovevano al soffio.

Nubi a brandelli,
livide, grigie e rosa,
vanno nel vento.

Lunedì 24 giugno 2013, al mattino presto. Nella notte è piovuto, con lampi e tuoni. Ne residuano nuvole sparse, tutte scure. Ma contro di esse si staglia, sopra l’orlo delle colline a est – sopra Restegassi, dal nostro angolo di visione – un grosso batuffolo candido.

Un bianco sbuffo
di nubi sul crinale;
livide le altre.

Giovedì 27 giugno 2013, pomeriggio avanzato. La lavanda comincia a sventagliare i suoi cespi violetti, attirando i primi imenotteri, soprattutto bombi. Sulle lavande che fiancheggiano il muraglione, un insetto con antenne che ricordano, nella divaricazione, le corna di una lumaca, e con un rostro lungo e sottile, vola spostandosi piano, succhiando, senza posarsi, come un colibrì, da un fiore e dall’altro – e poi schizza via fulmineo (ricompare dopo cena, sulle lavande grosse del praticello). Si tratta, come ha osservato anche Darwin nel suo Viaggio di un naturalista attorno al mondo, di una farfalla sfinge (Macroglossum stellatarum).

Cuscino viola,
profuma la lavanda.
Ronzio di bombi.
Tra i fiori lungo il muro,
un colibrì d’insetto.

Verso sera, inizia a lampeggiare, a tuonare, a piovere nel vento. Il paesaggio verso il Giarolo si vela della nebbia sottile che appare, di solito, durante i piovaschi dell’estate avanzata.

Il temporale
appanna valle e clivi
come ad agosto.

Ma mi raccontano che ieri sera, col buio, hanno preso finalmente a pullulare, tra gli alberelli e i cespugli del pendio sopra casa, le lucciole.

Lucciole in volo
tra i rami della ripa:
un firmamento.

Dopo cena, verso le 21, per pochi minuti il sole si apre uno squarcio fra le nuvole a ovest, e proietta una fascia di luce rossastra a metà Giarolo.

Squarcio di nubi.
Fulgore porporino
a mezza costa.

Al mattino di venerdì 28 giugno 2013, fa piuttosto freddo: 11 gradi, rispetto ai 22 della scorsa settimana, alla stessa ora. Ancora nubi, irregolari, con squarci luminosi tra una e l’altra. Il sole, passando da una di queste aperture, batte sui campi appena sopra Restegassi, e li fa brillare.

Tra nubi scure
il sole chiazza i campi
di lucentezza.

Arrivato sotto Monleale, ho visto il paese immerso in due piccole nuvole che, come una caligine autunnale leggermente scura, ne ombravano e opacizzavano le forme.

Spegne i colori
Monleale, in nuvolette
simili a nebbia.

Nel pomeriggio, sopra al Giarolo si vedono nuvole marmorizzate in bianco e grigio, come dipinte ad acquerello, e accanto, o dietro, altri vapori esili, striati, simili a un gesso cancellato male sulla lavagna.

Cielo sfumato:
marezzi di acquerello,
sbaffi di gesso.

Sabato 29 giugno 2013, dopo pranzo, il cielo è velato, e il sole riesce a malapena a far trapelare il suo sfolgorio dalle nuvole. A più riprese cadono gocce, in un accenno di pioggia.

Opale ardente
nel cielo opaco, il sole.
Gocciola piano.

Vado al Guardamonte per l’inaugurazione della Casetta didattica. Dalla cima scendo agli scavi archeologici. Il bosco e il fitto sottobosco sono più bui per effetto della nuvolaglia. Salgo sulla rupe. Il paesaggio si dispiega ampio come ai tempi dei primi abitanti, e restituisce le stesse antiche emozioni.

Il bosco è scuro
sotto il cielo velato.
Ma dalla rupe
ritrovi lo stupore

dei primi insediamenti.

All’inizio della cengia che sottolinea la cima della rupe, alcuni gonfi e alti cespugli di ginestra colpiscono coi loro petali squillanti e con l’intenso aroma emanato.

Alta ginestra
a globi apre la cengia:
giallo e profumo.

Domenica 30 giugno 2013, finalmente, si svegliano tutti gli insetti dell’estate. Nel pieno giorno, le cicale, sulle piante in basso e nel bosco sopra casa, friniscono forte, e non lasciano più udire i versi degli altri animali.

Frinendo in alto,
coprono le cicale
ogni altro verso.

Subito dopo cena, mentre il Giarolo si scorge nitidissimo in ogni dettaglio, col sole che lo illumina da ovest, si odono le cavallette.

Netto diorama,
di sera, il monte; ortotteri
zillano intorno.

E ancora più tardi, mentre innaffio le lavande della staccionata, e il Giarolo è ormai rosso nell’ultimo sole, si sentono anche i grilli. Subito dopo, il monte rimane livido, mentre, prima di illividirsi anch’essa, una cresta di nubi, che pare la cima del Monte Rosa, spunta velocemente, per pochi minuti, a sinistra della montagna, all’inizio del suo triangolo.

Il sole cala.
Il monte ora si arrossa.
Cantano i grilli.
Fugace marmo rosa
si affaccia verso Varzi.

Haiku sull’Appennino 03 mod

Bozzetti di luglio e agosto 2013

Incapace di elaborare alcunché stando ad Alessandria, ritrovo spirito di osservazione e voglia di descrivere appena ritorno in Valle. Continuo, così, coi miei esercizi pseudo-giapponesi.

Sera di venerdì 5 luglio 2013, dopo cena. Il Giarolo si erge in un crepuscolo di vago bianco sporco tinto di rosa antico. I campi di frumento, o di altre graminacee, sono ormai tutti gialli, e un po’ giallognoli iniziano a essere anche gli appezzamenti rinselvatichiti. Si sentono vibrare le ali delle cavallette, dei grilli e di qualche sparso imenottero ancora in volo. Come sottofondo sonoro, l’avifauna continua a intrecciare i suoi richiami complessi.

Contorna il monte
crepuscolo rosaceo.
Il giallo cresce
nei campi. Insetti vibrano.
Sferruzzano gli uccelli.

Solo con l’oscurità, poi, si vedono le lucciole: non solo nel bosco sopra casa, ma anche nell’erba del sentiero che sale verso l’ovile del Bruno.

Col buio pulsa,
mobile, uno stellato
tra l’erba e i rami.

Il pomeriggio di sabato 6 luglio 2013, il cielo era di un azzurro più pallido, quasi velato di una sottile caligine. Su di esso, grandi blocchi di nuvole, come zatteroni, si muovevano, con colori dal bianco al grigio scuro.

Nel cielo smorto
vanno le nubi a chiatte
di bianco e grigio.

Mentre andavamo a Lunassi, verso le 19.30, passando da Magroforte inferiore, Magroforte superiore, Costa dei Ferrai e Serra, si osservava un pennacchio di nube bianca, circondato e in parte coperto da altre nubi scure. Suggestivo era l’accostamento tra i pendii illuminati dal sole, coi loro colori, e il tono bluastro delle nubi nel cielo.

Smagliante effetto
tra nube bianca, nembi
e ripe al sole.

Arrivato in paese, ho seguito Via Marchesi Malaspina, una stretta stradina asfaltata che costeggia, da sotto, le case e sovrasta il dirupo che scende al Curone. Lì, verso il torrente, accanto a un capanno avvolto di rampicanti e col tetto di fibrocemento, ho notato una palmetta come quella della piscina di San Sebastiano.

Piccola palma
dalle foglie a stiletto
sotto Lunassi.

Il mattino di domenica 7 luglio 2013, le cicale attaccano a cantare assai presto, già verso le 7.30, quasi il sole desse inizio al loro verso raggiungendo coi suoi raggi i rifugi tra le foglie.

Via alle cicale,
appena il sole tocca
i loro nidi.

Le lavande, adesso, oltre che di imenotteri, sono piene di farfalle (bianche, marrone chiaro, marrone scuro, qualcuna anche nera) che svolazzano attorno. Soffia, per qualche secondo, una brezza che fa staccare e planare al suolo, in un nugolo, le foglie gialle delle robinie.

A un soffio d’aria,
foglie – farfalle gialle –
volano al suolo.

Alberi e cespugli oscillano all’unisono, in una specie di danza diretta dal vento.

Vento coreografo,
fa dondolare a ritmo
alberi e arbusti.

Appena dopo pranzo, nel cielo c’erano nuvole che poi si sono pigramente disfatte, sfilacciandosi, a ovest.

Tenui acquerelli
di nubi, in indolente
sfarsi verso ovest.

Mentre scendeva il buio e io innaffiavo le lavande, sul Giarolo indugiavano nubi pastellate, tra le quali il cielo appariva di un azzurro fosco, da pietra dura (verso Est, invece, le nuvolette erano scure contro un cielo ancora ardente).

Blu di zaffiro
tra le nubi, al crepuscolo,
borda il Giarolo.

Alla mattina di lunedì 8 luglio 2013, quando mi sono alzato, appena dopo le sei, si sentiva un sonoro ronzio sulla pianta di tiglio dei vicini, che intensamente profumava. Sulle lavande, gli insetti erano ancora pochi.

Mattino presto.
Sul tiglio gli imenotteri
ronzano forte.

La sera di mercoledì 10 luglio 2013, sul versante sinistro del Giarolo, un accenno di temporale che si è poi risolto in nulla.

Si affosca il monte.
Qua e là spacchi di folgore.
Rotola il tuono

Mattino di domenica 14 luglio 2013, ore 9.00. Stavolta l’haiku basta da solo.

Sopra il paesaggio
un lieve appannamento.
Il cielo è smorto.

Stesso giorno, ore 11.40.

Nasconde il capo
il Giarolo fra nubi
di tenue grigio.

— o —

Per un po’ di giorni sono stato impegnato in altre scritture. Ma ho ripreso le annotazioni a fine mese. Al mattino di mercoledì 31 luglio 2013, verso le 7, scendendo a valle, il borgo di Restegassi appare ancora in ombra, perché il sole rimane basso dietro il crinale.

Le case bianche
di Restegassi attendono
il primo sole.

E, i giorni di martedì 30 e mercoledì 31 2013, una mietitrebbia rossa stava lavorando nel grande campo accanto a Vigana, tra la frazione e il sentiero per Dernice, a sinistra sopra la sorgente: come per le ginestre, con un mese di ritardo rispetto alla tabella di marcia normale (il grano è generalmente pronto verso il giorno dei SS. Pietro e Paolo).

Accanto al borgo
soltanto a fine luglio
mietono il grano.

Domenica 10 agosto 2013, verso le sette del mattino, ma poi anche durante buona parte della mattinata (col velo che tendeva a dilatarsi e a farsi più impalpabile), un lago di filamenti nebbiosi intrecciati ricopriva tutta la conca di Restegassi e si prolungava, sempre più lieve, passando sopra Bregni, fino a destra della frazione, quasi a rimarcare l’intera mole del Giarolo. Il cielo era purissimo.

Su Restegassi
fitta garza di nebbia
sfuma oltre Bregni;
con un cielo purissimo,
sottolinea il Giarolo.

A notte, dopo la pizzata coi vicini, ci siamo sdraiati a terra sugli asciugamani da spiaggia, di fianco alla stalla che ci schermava i lampioni, per guardare il cielo di San Lorenzo. Ho visto due piccole, rapidissime meteore scivolare fra gli astri: chissà se esaudiranno i desideri affidati loro…

Due tenui e effimere
scie uniscono le stelle
recando auspici.

Domenica 17 agosto 2013, nel pomeriggio, dopo essere salito (sabato 16) sull’Ebro, ho fatto una passeggiata fino alla Rivarossa e, tornando, sul Barilaro. Nelle parti boscate del sentiero, anche lungo il tratto che aggira il monte e scende all’inizio della sterrata per Costa Merlassino, diversi tronchi di castagni, deformati e contorti dalla veneranda età, parevano enormi feticci pellerossa.

Castagni totem
ai lati del sentiero,
carichi d’anni.

Martedì 19 agosto 2013, verso le 6.15, ad Est (guardando dalla stradina della Piana, sopra il tetto di casa), un livido ammasso sfilacciato di nubi bioccose, quasi a pecorelle, era tinto di rosso, nelle superfici esposte ai suoi raggi, dal sole nascente.

Sole che sorge:
su scure nubi a biocchi
spennella il rosso.

La sera di domenica 24 agosto 2014, è scoppiato un violento temporale. Nubi scurissime sul tratto di cielo sopra il cimitero. Lampi vicini e tuoni fragorosi.

Fosforo crepa
il livido dei nembi
sul cimitero.

Dopo i temporali serali di domenica 24 e lunedì 25 agosto 2013, martedì 26, verso le 6.15, pareva autunno. Le luci di Vigana tralucevano dalla nebbia (o dalla nube), offuscate come in pianura a novembre. E tutto, attorno, era filtrato dalla caligine. Quando sono partito, verso le 7, la compattezza della bruma si era aperta e il sole giocava con le velature sparse, sopra e sotto casa, dando a questi appannamenti colori diversi, dal giallo zolfo vagamente marroncino al livido. Svoltata la prima curva a sinistra dopo la frazione, mi sono trovato immerso in una soluzione di anice, che è durata fin dopo Fontanelle, dove il sole ha acceso tutto l’ambiente di una luce opalescente e dorata, in cui le particelle d’acqua sospese facevano da catarifrangente, da moltiplicatore.

Primo mattino:
velo di bruma. Quindi
il sole squarcia,
variopinge i vapori,
irradia opalescenza.

Il mattino di venerdì 29 agosto 2013 è l’ultimo nel quale sono partito da Vigana per venire in ufficio. Quando mi sono alzato, il sole non aveva ancora varcato il crinale ad Est, verso Varzi, ma vi erano, sparse in tutto il cielo, nubi allungate e sfilacciate, assai lievi, che riflettevano la sua luce: in verità più rossa che rosea, anche se Omero ha ripetuto, sia nell’Odissea che nell’Iliade, il verso formulare “Quando, mattiniera, apparve Aurora dalle dita di rosa (rododàktylos Eos)”. Ma nell’Iliade aveva anche detto “Aurora dal peplo di croco (krokòpeplos Eos)”, facendo pensare piuttosto al colore tra giallo e rosso-bruno dello zafferano e di alcuni preparati chimici, come il cinabro (o solfuro mercurico: HgS). Saffo, nel suo raffinato dialetto isolano, si limita a definirla “lucente Aurora (faìnolis Auos)”.

Strisce leggere
di nubi in tutto il cielo,
rosse d’aurora.

Per concludere il mese e il soggiorno in Valle, domenica 31 agosto 2013 ho voluto camminare sui monti attorno a Bruggi, che non avevo ancora percorso.

Dal paese sono salito, un po’ a casaccio, verso Est, tra pinete e faggete. Una capanna di tronchi e di assi grossolanamente squadrate ricordava quella di Thoreau a Walden Pond, per dimensioni e struttura (dentro, una tavola lunga con panche, una stufetta in ghisa, un ripiano – addossato alla parete – sul quale ci si può anche sdraiare).

Ho salito faticosamente ripidi pendii, anche dove non trovavo tracce umane cui affidarmi, fino al Monte Rotondo (1568 metri). Ho seguito in saliscendi (sotto gli alberi del crinale, ove il sentiero corre pianello, pozze di fango) la Via del Sale. Ho quindi abbordato il Chiappo (1700 metri), la cui cima appariva nascosta in una nube livida. Ho mangiato qualcosa ai piedi della statua di San Giuseppe, poi ho proseguito fino al Prenardo (1654 metri) e alla Bocca di Crenna, da dove sono ridisceso a Bruggi per la lunga e tortuosa carrozzabile inghiaiata alla quale si unisce la pista del Rifugio Orsi.

Duro sgambare
sui monti attorno a Bruggi,
lungo salite
di pini e faggi, fino
al Chiappo nella nube.

Nella pineta
un capanno di tronchi
ricorda Walden.

Haiku sull’Appennino 04 mod

Haiku 2014

Lunedì 6 gennaio 2014 sono andato a Vigana per fare qualche lavoretto e concedermi alcune ore di solitudine e silenzio (senza neppure il telefonino) all’aria pulita di lassù. Ho spostato una piantina di lavanda, penalizzata dall’ombra dei ciuffi più grandi, per sostituire una di quelle messe a dimora la primavera scorsa, che, dopo aver fatto i suoi fiori, è inspiegabilmente seccata. Ne è seccata anche un’altra, vicino a lei; tutte le altre hanno invece attecchito. Ho carezzato un po’ di lavande e di rosmarini. Il profumo che i cespi emanano toccandoli è benefico. E credo che il beneficio della carezza lo avverta anche la pianta. Il tatto come veicolo di positività… Mentre percorrevo il viottolo che dalla provinciale sale ripido a casa nostra, ho visto la corolla di una pratolina (Bellis perennis) biancheggiare sul verde dell’erba.

Epifania:
una margheritina
sull’erta erbosa.

Domenica 9 febbraio 2014 ho approfittato del sole del pomeriggio per una gita a Vigana. In tutta la Valle l’acqua colmava i fossi e a volte traversava a rivoletti la provinciale. Salendo da San Sebastiano, poco prima della casa del pittore Bagnasco, a Fontanelle, uno smottamento di terra invadeva il lato sinistro della carreggiata. Anche a Vigana, a una decina di metri dal cartello che precede la curva a gomito, il terreno era franato verso valle, e un pezzo di asfalto aveva ceduto. Il cielo era di un azzurro nitido. Soffiavano sbuffi d’aria, abbastanza freddi. L’acqua ruscellava tra l’erba in pendio, a fianco della strada, e gorgogliava nel tombino sotto il grande cespuglio di more. Filava rapida lungo la cunetta. Il Giarolo, nelle radure delle pendici e sui prati di vetta, appariva luminoso di chiazze innevate.

Cielo pulito.
Nei chiari del Giarolo
cenci di neve.
Rivoli d’acqua e d’aria.
Smotta il terreno intriso.

Domenica 23 febbraio 2014 sono andato a Vigana per sostituire la compostiera. I cespugli di lavanda si mostravano proni, così li ho legati alla staccionata per tenerli su. Ho pulito dalle erbacce le lavandine della staccionata nuova. Ho riposizionato ai lati della porta le piccole tuie in vaso. Nei punti dove il sole batteva con più insistenza, si vedevano le corolle delle viole, disposte come se qualcuno avesse spruzzato macchiette del loro colore. Tra l’erba del prato, già di un bel verde luminoso, erano fiorite le margheritine. Il Giarolo si mostrava appannato dalla foschia, ma il cielo era azzurro e il sole caldo. La neve indugiava ormai solo sui prati attorno alla vetta.

Monte appannato.
Sui prati del crinale
neve residua.
Spruzzi di viole al sole.
Pratoline nell’erba.

Domenica 2 marzo 2014 sono voluto andare a Vigana con l’intenzione di mettere mano a qualche lavoretto, come falciare i prati o pulire la fila di lavande e rosmarini ai piedi del muro. Ma ho trovato una sorpresa… L’intero paesaggio, compresa la rupe dietro casa, sembrava un presepe: la neve velava, o chiazzava, o impolverava di bianco tutte le superfici non protette dagli alberi, o sulle quali gli alberi crescevano più radi. Il cielo era coperto di nuvole irregolari, bruscamente sfumate. Nelle nubi era celata anche la punta del Giarolo, le cui pendici venivano colpite, di quando in quando, da prolungati sprazzi di sole che le accendevano di una nitida tridimensionalità. Attorno, una stereofonia di acque stillanti. Mi sono seduto guardando il monte, e ho scritto:

Giarolo acefalo.
La neve segna ovunque
le aree scoperte.
Il cielo è marezzato.
Gocciola tutt’attorno.

Sabato 8 marzo 2014. Finito di pranzare, e tra un lavoro di giardinaggio e l’altro, posso sedere al sole a torso nudo, leggendo pagine di Walden. Alzo gli occhi al Giarolo: la neve indugia abbacinante sui prati di vetta e in tutte le sfumate radure del versante nord. Più tardi, i raggi sghimbesci del tramonto stendono sulla cima e sulle pendici una solenne velatura violacea.

Neve nei chiari
sul lato nord del monte;
il sole avvampa
quando è alto, ma al tramonto
lo tinge di vinaccia.

Venerdì 14 marzo 2014. I mandorli (uno a Fontanelle e i due sopra la nostra aia) sono le sole piante fiorite che ho visto in Valle. Il Giarolo è velato dalla foschia, di giorno e di notte. La luna, piena e alta, illumina l’intero paesaggio. Quando parto per l’agriturismo, un tasso (Meles meles) sta acquattato sulla stradina verso la Piana, col furbo musetto a strisce e gli occhietti vispi. Appena mi avvicino, si arrampica agilmente su per la ripa dei fichi d’India. Lungo la provinciale, il cartello di Vigana è ormai franato anch’esso, sprofondando verso il campo del Bruno.

Mandorli in fiore.
Giarolo nei vapori.
La luna è piena.
Un tasso sul sentiero.
Smottato anche il cartello.

Sabato 15 marzo 2014. Mentre scendo a San Sebastiano per la spesa, noto che la Natura è ancora ferma, in generale, e infatti le roverelle conservano sui rami le foglie secche. Già al mattino presto, l’aria era mossa da sbuffi di brezza, anche abbastanza vivaci. Il sole è velato da nuvole discontinue, e l’intero paesaggio è appannato, con una leggera caligine che incombe su di esso.

Le roverelle
mantengono il fogliame.
Brezza animata.
Screziature di nubi.
Lieve foschia su tutto.

Sabato 29 marzo 2014, la Valle è piena di germogli, sugli alberi e nei prati. I pescheti sono tutti rosa, come nella pantomima del secondo episodio del film “Sogni”, di Akira Kurosawa. I cespugli selvatici paiono esplosi in nuvolette di petali bianchi. A casa, sento il ronzio dei primi imenotteri, sulla legna del fienile e sui fiori dei rosmarini, e, tutt’attorno, gli strumenti musicali di tanti uccelli diversi.

Teneri verdi.
La danza giapponese
dei peschi in fiore.
Sbuffi bianchi i cespugli.
Ronzii. Flauti di uccelli.

Domenica 30 marzo 2014. Dopo aver terminato i lavori in giardino, sistemando le lavande (che stanno poco a poco riprendendo vita), e dopo aver frugalmente pranzato, mi sdraio sotto un sole velato di nubi caliginose, con una brezza appena percettibile, di fronte a un paesaggio reso sbiadito dalla foschia. Seguendo le ondate del dormiveglia, mi giungono alla coscienza i richiami primaverili, fittamente intrecciati, degli uccelli, e il sibilo lievissimo dell’aria fra i rami.

Leggera brezza.
La lavanda si sveglia.
Paesaggio smorto.
Sonnecchio al sole opaco
e ascolto la Natura.

Domenica 6 aprile 2014, arrivando a Lunassi un po’ prima dell’una, osservo il cielo interamente velato da una foschia leggera e irregolare. Qualche rara nuvoletta in giro. Sulla parte sommitale del monte che si affaccia a sudest del paesino, la neve continua a ricoprire gli spazi aperti, ed è luminosa di sole.

In tutto il cielo
caligine screziata.
Poche le nubi.
La neve ancora brilla
a sudest, sul crinale.

Alle 15 esco dal Circolo. Il cielo mi pare più pulito, ma le nuvole stanno aumentando, verso sudest (a partire dalle 17.30, a Vigana, sentirò qualche sporadico rombo di tuono provenire in direzione del Giarolo). Si odono cantare gli uccelli, e la voce liquida del Curone che sale dallo strapiombo a sud. Le piante stanno buttando il fogliame novello e sono in piena fioritura.

Nubi in arrivo.
L’azzurro è un po’ più terso.
Canti di uccelli.
Lo scroscio del torrente.
Attorno, verde e fiori.

Per andare a Vigana, valico a Serra e attraverso Costa dei Ferrai e Magroforte. Scendendo verso Montacuto, vedo la falda del Giarolo, che dichina alle poche case, disseminata di chiazze variopinte, verdi (in varie gradazioni), bianche, fulve, marroni, grigie, come schizzate dal pennello di uno scaltrito paesaggista.

Scavalco a Serra.
Spruzzi multicolori
su Montacuto.

Sabato 12 aprile 2014 vado su a Vigana per piantare un Caco-mela e per fare un po’ di manutenzione al giardino. La valle è ormai in preda ai mille verdi della primavera. Terminata la fioritura rosea dei peschi, sono adesso i meli a impennacchiarsi di bianco. Il Giarolo si mostra torbido, incorniciato da un ammasso nuvoloso.

Sommerge tutto
un profluvio di verdi.
Meli fioriti.
Sul Giarolo impigliate
nubi grigie e foschia.

Quando esco dall’agriturismo, la luna proietta sulla caligine che la vela un ampio cerchio luminoso, dall’orlo quasi iridato. Il vertice del Giarolo sfuma nell’invisibilità. Arrivato a casa, avverto il soffio gradevole di un venticello leggero, che però non riesce a liberare il cielo notturno dai suoi tediosi fumi.

Luna alonata.
La punta del Giarolo
non si distingue.
Soffia dolce la brezza
senza pulire il cielo.

La mattina di domenica 13 aprile 2014 il cielo è coperto. Prima che io scenda a San Sebastiano per qualche acquisto, iniziano a cadere goccioline impalpabili. La montagna rimane bluastra di foschia. Gradualmente, le nubi si fanno dense e scure, e la coprono del tutto.

Fine pioviggine
da un cielo grigio chiaro.
Giarolo fosco.
Poi il nuvolo si addensa
e copre la montagna.

Nel primo pomeriggio il tempo si schiarisce. Il Giarolo non si sgombra ugualmente.

Trapela il sole.
Si alleggerisce il cielo.
Cresce la luce.
L’azzurro si fa spazio,
ma il monte resta opaco.

Il sole riemerso ha però l’effetto di far sbocciare di colpo un intero zodiaco di stelle di Betlemme (Ornithogalum umbellatum) in vari punti della salita erbosa tra la Provinciale e il lato sud di casa nostra. Ieri ne avevo vista una sola, sul bordo del prato delle lavande.

All’improvviso
le stelle di Betlemme
sulla salita.

— o —

Nelle vacanze di Pasqua (17-21 aprile 2014) ho annotato alcune immagini, che non hanno bisogno di particolare commento.

Giovedì 17 aprile 2014, dalle 20, ora a cui sono arrivato, alle 22, quando sono andato a dormire)

Giarolo viola.
La sera oscura avanza
nel cielo puro.
Sfolgorano le stelle
e un’aria preme fresca.

Venerdi 18 aprile 2014, ore 10.45, di ritorno da San Sebastiano)

Fruscio di vento.
Il canto del cuculo.
Abbaia un cane.
Liquidi cinguettii.
Ronzii sui rosmarini.

Verso le ore 17.00, durante una passeggiata nel bosco sulla rupe

Vento molesto.
I trilli degli uccelli
quasi zittiti.
Il sole filtra appena
e nega il suo tepore.

Sabato 19 aprile 2014, verso le 10.00, scendendo a San Sebastiano; è poi piovuto tutto il giorno

Pioggia insistente.
La nuvola ci avvolge.
Ma a Restegassi
si scende sotto l’orlo
e la visuale è nitida.

Domenica 20 aprile 2014, Pasqua, verso le 10.00, sul prato dell’aia

Riapparso è il sole.
Sui fili d’erba, iridi.
Azzurro a cirri.
Pennacchi sul Giarolo.
Vociano uccelli e insetti.

Stesso giorno: dopo aver pranzato fuori, al calore del sole, il tempo è tornato cattivo

È fredda, l’aria.
Nubi livido-grigie
e luce avara.
Sui prati della vetta
la neve è ricomparsa.

Stesso giorno, dalle 18.00 alle 21.00

Fa quasi freddo.
Giarolo incappucciato,
nubi bioccose
e cupe intorno, gocce…
ma solo a notte piove.

Lunedi 21 aprile 2014, Lunedì dell’Angelo, ore 8.30 – 9.00, guardando verso Bregni e la base del Giarolo)

Cielo biancastro.
Vapore scorre a biocchi
sui boschi acclivi.
Giarolo cancellato.
È umido, ma non sgronda.

Stesso giorno, ore 15.30, passeggiando lungo la stradina asfaltata della Costa, sopra Vigoponzo, guardando attorno cime più o meno alte, tutte nascoste dai lembi inferiori della nuvolaglia

Un’aria lieve
movimenta le nubi
di grigio e bianco.
Le vette, dalla Costa,
svaniscono offuscate.

Stesso giorno, ore 16.00, proseguendo fino a Caviggino, ma anche più tardi attorno a Bregni

Dalla stradina
si odono i primi grilli
in mezzo ai prati.

Giovedì 24 aprile 2014, arrivando a Vigana alle 19.45, ma anche più tardi, col buio

Anche qui a casa
scampanellano i grilli
nell’imbrunire.

Venerdì 25 aprile 2014, verso le 14.00, coricandomi sul cemento verso sud, infastidito dai moscerini

Sole velato.
Pigolii multiformi.
Moschini addosso.

Stesso giorno e posizione, tra le 15.45 e le 17.15

Tuoni ad oriente;
nubi livide e gonfie
lì e sul Giarolo.
Vanno a coprire il sole
e piove: non per molto.

Stesso giorno, lasciando San Sebastiano, alle 18.45

Le chiome d’albero
sono nuvole verdi
sulla collina.

Giovedì 1° maggio 2014, ore 15.30. Da Brignano in qua, il cielo è a nuvole mosse. Al sole si accompagnano, a tratti, piccoli scrosci, o una leggera pioviggine. Una volta a Vigana, sento tuonare da ammassi livido-bluastri sia a est che a ovest, mentre il soffio d’aria è quasi impercettibile, e tiepido. Mi viene in mente il proverbio dialettale che mia nonna mi ripeteva da piccolo, e che mi lasciava perplesso, spingendomi ad immaginare (all’epoca, prendevo alla lettera tutto quel che mi veniva detto) il sarto del paese inspiegabilmente innervosito dalla meteorologia: “Quanch’ el piöva cu gh’è u su, l’è e’ rabia di sartù”.

Piove e c’è il sole:
“É la rabbia dei sarti”
diceva nonna.
L’acquerugiola è lieve,
la brezza blanda e mite.

Stesso giorno, alle ore 19.00, dopo aver pulito le lavande dalle erbacce

Qualche ginestra
abbozza i primi gialli
lungo la rupe.

Stesso giorno, ore 22.30, tornando dall’agriturismo

Non c’è la luna.
Le stelle nette tremano,
ma è buio pesto.
Sulla strada, una lepre
prima di Fontanelle.

Venerdì 2 maggio 2014, ore 7.50

La nebbia ammanta
di spire le pendici
e cela il monte.
Il cielo è un grigio mosso.
Crepe di chiaro a sud.

Stesso giorno, ore 9.06-10.00

La nebbia lievita,
ricoprendo i crinali.
Umido e grigio
intridono le ossa.
Solo alle dieci piove.

Nel tardo pomeriggio, ore 18.00

Per tutto il giorno
pioggia costante e fine.
Biocchi di nebbia
nascondono le chine
e la cima del monte.

Sabato 3 maggio 2014, ore 10.30 – 11.00

Il sole scalda
ma il monte è inturbantato.
Cirri e altre nubi
chiaroscurano il cielo,
turchese dove appare.

Stesso giorno, ore 14.00

Un po’ di vento
spazza le nubi e asciuga
l’erba e il terreno.

Dopo cena, alle 20.30, vado a fare una passeggiata con Ester, seguendo lo stradone fino a dopo la curva a gomito verso Dernice, e poi, scendendo attraverso il sentiero, tra le case della frazione. Notiamo che un aereo lascia una scia livida, del colore delle nubi, e sentiamo tuonare verso nord-ovest, verso Tortona: dove, infatti, in quel momento fa temporale.

Sopra il Giarolo
cartine al tornasole
di nubi: rosa,
e livide d’intorno.
La luna è al primo spicchio.

Domenica 4 maggio 2014, durante quasi tutta la giornata. Il cielo e l’aria erano pulitissimi, le nubi michelangiolesche. L’intero, curvo paesaggio, che saliva da Bregni al monte e ai crinali, appariva bulinato a rilievo dall’effetto tridimensionale dei chiaroscuri di sole e ombra.

Cristallo azzurro.
Gonfi marmi di nubi
sopra il Giarolo.
Il verde, in sole ed ombra,
dà volume ai versanti.

Domenica 11 maggio 2014, a Vigana per qualche piccola faccenda domestica. Trovo le ginestre, sulla riva che sale a destra, dopo Fontanelle, già coi primi fiori; lo stesso avviene per quelle disseminate lungo tutto il versante sud della rupe, dietro casa nostra (ore 12.00).

Ginestre schiuse:
passata Fontanelle;
qui, per la ripa.

Stesso giorno, ore 14.30 – cade persino qualche piccola goccia

Il vento romba
e agita i rami; grigie
nubi diffuse.

Poco più tardi, ore 14.50, il vento sposta qua e là le nuvole, comprese quelle sul Giarolo: che però, pur piegandosi, rimangono ancorate alla montagna

Sul monte ondeggia
un berretto di nubi
che non si sfila.

Ma la situazione evolve rapidamente, non appena il vento muta direzione – ecco, alle ore 15.40

Girando, il vento
sta ripulendo il cielo,
anche sul monte.

Ore 15.55, guardando in su dall’angolo di casa verso il muraglione

Sopra la rupe,
il cielo è blu profondo,
tra un ramo e l’altro.

Ore 17.40, il Giarolo dà quasi l’impressione di essersi ingrandito nel sole: che, a quest’ora, lo investe dritto, senza chiaroscuri

In puro verde
ipertrofico il monte
al tardo sole.

Sabato 17 maggio 2014, arrivando in Alta Valle, verso le 16.45;

Giarolo torbido
e ombrato dalle nubi.
Sul resto, il sole.

Appena finito di lavorare in giardino, verso le 19.30:

Il sole spalma
sul monte, un po’ appannato,
i tardi raggi.

Una piccola passeggiata, dopo cena, ore 21.00:

Mareggio scuro
del vento fra le piante.
Nuvole grigie
incoronano il monte.
Si odono grilli e uccelli.

Domenica 18 maggio 2014 mi sveglio presto. Esco verso le 5.00 a dare un’occhiata.

Nel cielo puro
luna calante e Venere.
Albori ad est.
Col vento che persiste
il monte si è snebbiato.

Passato appena un quarto d’ora, alle 5.15:

Subito dopo
il pianeta sparisce.
Cinguettii intorno.

Faccio ancora un po’ di lavori, rifinendo l’erba e pulendo lavande e rosmarini; ore 10.40:

Fiocchi di nubi
incandescenti al sole
sopra il Giarolo.

Sempre lavorando, ore 11.00, le ginestre mi fanno venire in mente i versi di Leopardi

Il primo, dolce
profumo di ginestra
consola, al vento.

Mi siedo finalmente al sole, a leggere Lavorare stanca, di Pavese. Alzo gli occhi ripetutamente e osservo la stessa cosa: ore 11.45, ore 12.55… Poi ancora, più volte, nel pomeriggio…

Solo una scia
d’aeroplano, fugace,
graffia l’azzurro.

Domenica 25 maggio 2014, dopo aver votato, salgo a Vigana. Mentre mi preparo il pranzo, verso le 13.00, odo miagolii prolungati e sonori. Nell’aia, la mamma delle nostre gatte e la loro sorella rimasta lassù, quasi uguali all’aspetto, litigano furiosamente, il pelo ritto, le code enormi.

Zuffa tra gatti,
purtroppo madre e figlia.
C’è un lieve vento.
Le nubi si coagulano,
cancellano l’azzurro.

Ore 14.30:

Appena il vento
cheta, il sole traluce
e, un poco, scalda.

Ore 16.30, mentre accudisco parte delle lavande

Tra i cespi in fila,
lavandine fiorite
di viola intenso.

Ore 18.00: dal retro della casa si ode il cucco emettere, in rapida successione, il suo limpido canto bitonale, seguito come da un ansimare di tosse

Note convulse
del cuculo, invisibile
sopra la ripa.

Domenica 1 giugno 2014, verso le 12.40, arrivando a Lunassi dopo essere passato da Vigana:

Le nubi tracciano
acquerelli di grigio
sopra i crinali.

Lunedì 2 giugno 2014, ore 8.30:

Boccioli gonfi
su tutte le lavande;
ginestre fulgide
di giallo; ai bordi, accese
colonie di papaveri.

Ore 11.00:

Si appanna il monte
sotto un velo di cirri.
Il sole è opaco.
Una brezza si leva,
fa vibrare le foglie.

Ore 11.15:

A poco a poco
i cirri si fan nubi
bianco-grigiastre.

Ore 11.35:

Nuvole calano
e coprono il Giarolo
di nebbia grigia.

Ore 13.00:

Svanisce il monte
in livida foschia.
L’aria è più lieve.
Il cielo è ormai coperto

ma non si odono tuoni.

Ore 14.30:

Il sole si apre
un varco e tutti i verdi
sono esaltati.

Ore 15.30:

Quando è coperto
il sole, la campagna
ha un filtro giallo.

Ore 15.50. Mentre vado, per la Piana, a portare la spazzatura, all’altezza del roveto che avvolge il susino, dove tutti gli anni colgo le more, mi imbatto nella carogna di una Mustela nivalis in avanzata decomposizione; restano intatti i denti aguzzi e la coda a lunghi peli marroni. Qualcuno deve averle sparato, perché è difficile sia morta per altre cause, su questo viottolo:

Passando a piedi,
una donnola morta
sulla stradina.

Domenica 15 giugno 2014, il tempo lacrimoso non mi dissuade dal salire ugualmente, per un po’ d’aria e di pace. Poco dopo l’arrivo, alle ore 15.00:

Con questa pioggia,
il verde si è ripreso
quasi dovunque.
Il monte ha una corona
di nuvole a brandelli.

Ore 15.25. Osservando le aree a prato, vicine e (col binocolo) lontane, noto che, dove l’erba è alta, declina a un ricco color paglia.

Le graminacee
alzano spighe d’oro,
ormai mature.

Ore 15.30. Uno scampanio dondolante sale da Bruggi o da Restegassi, annunciando una funzione.

Su dal pendio
si sentono campane
ondare a festa.

Ore 15.45. Affacciato al parapetto delle lavande, ascolto sonori richiami di volatili provenire dal folto degli alberi da frutto sotto la strada, e un verso gutturale cadere dal cielo. Dietro di me, un imenottero nero e dorato svolazza sulle infiorescenze azzurro-rossastre di un cespo di erba viperina (Echium vulgare).

Tra i rami fitti
gorgheggiano gli uccelli.
Un corvo gracchia
volando alto. Sui fiori
dell’Echium ronza un bombo.

Alle 16.45, il tempo si incupisce sulla montagna, per poi alleggerirsi di nuovo mezz’ora più tardi. Una lievissima corrente d’aria, che arriva da ovest, porta con sé tracce minime di profumi.

Livide nubi
sovrastano il Giarolo.
Nell’aria, un vago
sentore di lavande,
ginestre, erba bagnata.

—- o —-

Martedì 15 luglio 2014. Riprendo cautamente a scrivere qualcosa dopo settimane di silenzio, di sconfortante, penosa sfiducia nelle parole, nella loro capacità di rompere il nostro isolamento, di comunicare il nostro dolore. Una sfiducia taoista: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, i nomi che si possono nominare non sono nomi eterni. […] Per questo il saggio si pone al servizio del non agire e pratica l’insegnamento senza parole. […] Quando la fiducia è insufficiente, la fiducia viene a mancare” affermava Lao Tsu. Per la voce in parte ritrovata devo ringraziare le potenti suggestioni naturalistiche del biologo americano David George Haskell, in La foresta nascosta, Einaudi, 2014. Basta accontentarsi del poco che le parole possono fare, e non pretendere da esse cose impossibili. Ad impossibilia, nemo tenetur stabiliva, saggiamente, il Diritto romano: nel Codice giustinianeo e forse già da prima, agli esordi dell’Urbe. Anche Haskell, del resto (che a pag. 4 cita un detto del “filosofo taoista cinese” Chuang Tzu e a pag. 105, direttamente, una riflessione di Lao Tsu), pur usandole con notevole abilità, è abbastanza scettico verso le parole: “Mettiamo a tacere la nostra incapacità di capire nel solito modo: soffocandola con le parole” (pag. 101).

Ho annotato questo alle 13.30, seduto nel prato a sud:

Per tutto il giorno,
lavande piene d’api:
al peso, oscillano.
Bianche, tigrate o d’ocra
– ma lievi! – le farfalle.

Un po’ più tardi, verso le 15, camminando tra il prato sud e la staccionata che ho posizionato lo scorso anno:

Ecco, riappare
l’insetto colibrì
che liba in volo.
Sulle lavande nuove
farfalle marron scuro.

(E pazienza se viene in mente il “brutto tinello marron” di Paolo Conte…).

Domenica 3 agosto 2014. Avrebbe dovuto essere la giornata della festa annuale sul Giarolo, ma una pioggia temporalesca, con lampi e tuoni, bagna l’intera zona fino alle dieci del mattino passate. Solo alle 10.30, quindi, mi metto in movimento. Vado in macchina a Borgo Adorno, e imbocco una ripida mulattiera che parte di fianco al Castello. Ore 11.30:

Da Borgo Adorno
mi inerpico alle Stalle.
Nei boschi fitti
il sentiero è di un fango
che fa pesanti i piedi.

Appena dopo le Stalle il viottolo si ricollega alla stradina che monta da Giarolo, anche questa intrisa maggiormente di pioggia nei punti ombrati dagli alberi. Ma, anziché essere appiccicoso e attaccarsi alle scarpe, il suolo è qui un limo viscidissimo. Ore 12.00:

Si sale, a tratti,
su mota scivolosa:
fatica e rischio.

Ore 12.45:

In cima al monte
un’aria fredda. Stracci
di nubi bianche
si stendono a nascondere
la valle, verso casa.

Per evitare il pericolo di rovinosi capitomboli dovuti al fango, decido di scendere passando dal rifugio dei Piani di San Lorenzo, visto che quel sentiero, secondo quanto mi dice un’escursionista appena salita, è asciutto. Composita (conifere di almeno tre varietà, frutto di piantumazioni mirate; faggi, roveri, sottobosco…) e bella la vegetazione ai lati del percorso.

Ore 14.00:

Scendendo, per i
Piani di San Lorenzo,
pini a sinistra,
a destra latifoglie.
Il sentiero è pietroso.

Martedì 5 agosto 2014, prima delle 20.00, vado a Lunassi per la presentazione del libro Le erbacce nel piatto, dell’amico e collega Carlo Fortunato.

Luna a Lunassi,
crescente sul crinale
ancora al sole.

Venerdì 8 agosto 2014. Accompagno Ester e la sua amica fino alle cascine abbandonate della Crosa, in un viluppo di erbe spinose che hanno invaso l’antica stradina, nel tratto finale non più utilizzata da nessuno. Gli edifici sono in rovina, ma il primo, arrivando, doveva essere una bella costruzione, perché, pur essendo in pietra, presenta una riga di mattoni decorati, a sottolineare la cimasa. Divalla, con una parte del corpo, verso l’ampio incavo del fossato (la “crosa” propriamente detta). Annoto accanto a esso, verso le 17.00:

Giù nella Crosa,
tra rovi e piante irsute,
rami di fico.

Domenica 10 agosto 2014. La notte di San Lorenzo coincide con la luna piena, di dimensioni insolite, in quanto, per ragioni di rivoluzione, più vicina alla terra. Appena sorta, lungo il cateto sinistro del Giarolo, è di una tonda luminosità dorato-rossastra, poi, progressivamente, si imbianca. Difficilmente si riuscirà a vedere qualcosa. Ore 20.50:

La superluna
a sinistra del monte:
ostia di luce.

Ore 21.30:

Sfregano a ritmo
le cavallette e i grilli
i loro archetti.

Ore 22.00:

Saffo ha ragione:
quando la luna è piena
non vedi stelle.
Solo qualcuna, fioca,
affiora nell’argento

Lunedì 11 agosto 2014, poco dopo essermi alzato, facendo gli esercizi mattutini. Ore 6.20:

La luna, scesa
sull’acquedotto, affonda
dietro il crinale.

Domenica 31 agosto 2014, verso le 9.45, poco prima di partire per il ritorno in città, scrivo quanto avevo osservato il giorno prima, a proposito delle lavande lungo il muraglione (tutte, eccezionalmente, riammantatesi di viola, seppure con petali meno fitti) e del vecchio rosmarino: che, come le due santoregge (Satureja hortensis, chiamata anche erba pepe, per il sapore), piantate tra esso e la porta della stalla, appena fuori dall’ombra del fico, è costellato di corolle – azzurre-indaco, il contorto arbusto legnoso; bianche, i piccoli cespi scarmigliati.

In piede al muro,
il rifiorire insolito
delle lavande.
Sbocciati, accanto al fico,
rosmarino e erbe pepe.

Domenica 14 settembre 2014 salgo a tagliare le lavande. Arrivo verso le 11.40, dopo aver fatto un po’ di spesa.

Verde diffuso
fino a San Sebastiano;
da Fontanelle
sulle foglie compaiono
le tinte dell’autunno.

Così il cielo mentre lavoro:

Nubi che passano;
Giarolo incoronato;
azzurro intenso.

Domenica 5 ottobre 2014. Vado a Vigana per prendere un po’ d’aria – e di quiete. Il viale di San Sebastiano comincia a tingersi della stagione. Ore 11.10:

Robinie e tigli
si dorano pian piano
lungo la strada.

Salendo, appena passata la frazione Poldini e il suo torrente, grandi fiori giallo sole ai due lati, ore 11.15:

Topinambours
illuminano i fossi
dopo l’Arzuola.

Prima e dopo Fontanelle, attorno alla Provinciale (ore 11.20):

L’autunno spruzza
di gialli, rossi e viola
tutte le rive.

Quando scendo dalla macchina – ma poi anche per l’intero pomeriggio – il monte è coperto di caligine, più o meno scura e densa, secondo il momento (annotazione ore 15.00):

Giarolo fosco,
nascosto dalla nube
fino alla Costa.

Mentre pulisco le lavande dalle erbacce, noto che in cima alle spighe che non avevo tagliato è ricomparso qualche isolato fiorellino pentagonale (ore 15.15):

Sulle lavande
sporadiche corolle:
stelline viola.

Domenica 9 novembre 2014, nel pomeriggio: una rapida visita per verificare che lassù tutto sia a posto. Salendo lungo la valle, si vedono gli alberi di pesco con tutte le foglie virate a un luminoso rosso-marrone. Altri alberi, come le robinie, portano ancora un certo numero di foglie, verdine in vario grado di pallore. Altri ancora hanno foglie in diverse sfumature di giallo, o, come i tigli, sono già senza foglie:

Aria appannata.
Pescheti rugginosi
come lamiere.
Il resto: verdi, gialli,
o rami denudati.

Davanti a casa:

I vellutini
allargano corolle
di giallo e rosso.

Dalle nuove lavande:

Giù verso il fico
ha l’erba viperina
steli fioriti.

In fondo alla staccionata:

La yucca innalza
cerose campanelle
riunite a spiga.
Le esplora un freddoloso

insetto nero e d’oro.

Trapela il sole
dalla coltre di nubi,
ma non riscalda.
Avvolto nel grigiore,
è invisibile il monte.

Camminando lungo la stradina della Piana, fino a casa del Renzo:

Azzurra luce
dei fiori di cicoria
vicino al forno.

Venerdì 12 dicembre 2014, verso le 18.00, andiamo alla festa del centenario di Guido Delucchi, all’agriturismo Cà dell’Aglio, sul bordo di un’altura che domina Momperone e l’intera vallata. Usciamo appena dopo le 20.00 e, nel buio, vediamo lo spettacolo che di dispiega sotto di noi.

Da Cà dell’Aglio
le luci nella valle:
un firmamento.

Haiku sull’Appennino 06 mod

Haiku 2015

Venerdì 2 gennaio 2015 salgo a dare un’occhiata alla nostra casetta. Annoto, verso le 14.30:

Patina bianca
su suolo, e tetti in ombra.
Ma alla Casuzza
il sole ha già un tepore
che annuncia primavera.

Ore 15.00:

Il monte è a curve,
morbide d’ombra e sole.
Traluce il bianco
sulle aree più scoperte
delle falde inferiori.

Ore 15.35:

Attorno a casa
calendule arancione,
Bellis, tarassachi.
Alcuni rosmarini
osano un po’ di azzurro.

Ore 15.50:

Fruscio di vento
tra i rami della rupe:
ora fa freddo.

Domenica 4 gennaio 2015, verso le 15.00, dopo un po’ che sono arrivato alla Casuzza:

Luce argentata
e cielo trasparente.
Scomparso il bianco.

Vado a fare una passeggiata lungo il sentiero sopra la rupe. Ore 16.00:

Vento nel bosco.
A ondate, l’aria fredda
cresce con l’ombra.

Più tardi, un’oretta dopo la scomparsa del sole (lungo il tratto finale della Costa, verso l’acquedotto), mentre sono davanti a casa. Ore 17.20:

Si alza la luna
dal tetto dei vicini,
nitida e tonda.
Richiami in volo annunciano
che la giornata ha fine.

Dopo cena vado a fare due passi (seguendo la provinciale e tornando poi lungo la stradina) fino a Vigana, osservando le decorazioni natalizie: in un paio di case giù a Bregni, dai Semino, da Renzo, da Silvio e lungo i contorni del Castello. Ore 20.45:

Le luminarie
nelle case abitate
e sul Castello.

Lunedì 5 gennaio 2015, dopo aver fatto colazione e riordinato in casa, mi siedo fuori a leggere. Il cielo è intensamente azzurro, ma alcune nubi sfilacciate, sopra il Giarolo, velano il sole, e la temperatura è ancora bassa. Ore 9.25:

Canti di uccelli
nel freddo del mattino,
lontani e limpidi.

Dopo pranzo, mi siedo ancora davanti a casa, a leggere. Ore 13.50:

Gracida un corvo.
Punge a soffi la brezza,
ma il sole è caldo.

L’arco del sole è breve e basso, in questa stagione. Ore 16.00:

Sorto un po’ a destra
della vetta, tramonta
su Vigoponzo.

Sabato 7 marzo 2015 salgo per qualche lavoretto: ripulire dalle foglie morte il prato anteriore e concimarlo; tagliare – in attesa di piantumarne una nuova – una lavanda delle prime che avevo messo a dimora (lungo la staccionata del muro), seccatasi già in autunno; spostare in basso, per l’imminente raccolta, gli ingombranti accumulati. Arrivo alla Casuzza verso le 11, dopo il viaggio in una natura soleggiata ma dormiente e la sosta a San Sebastiano per un po’ di provviste. Il Giarolo e le montagne che si intravedono ai suoi lati brillano di neve, in tutta la loro parte superiore.

Vette abbaglianti
nei chiari e sotto gli alberi
ancora nudi.

Verso le 11.30, mentre porto via lo strame con la carriola:

Bellis nel prato
e uno spruzzo di viole
scendendo al campo.

Passato mezzogiorno:

Cielo smaltato.
Il sole brilla puro,
ma l’aria è fredda.

Domenica 22 marzo 2015, profittando della propizia pioggerella primaverile, salgo a piantumare le due lavande che ho comprato ieri, in sostituzione di quelle morte. Passato Monleale e poi, appena dopo il Robivecchi, a destra:

Gemmati i peschi.
Sul ciglio della strada
viole a manciate.

Arrivando alla Casuzza, verso le 10.30:

Spruzzi di viole,
mandorli nevicati
e pratoline.

A mezzogiorno:

Monte coperto,
ma cielo luminoso.
Campane a festa
e gocciolio di pioggia.
Un cane abbaia in basso.

Ore 12.23:

Raglia un uccello
in cielo, sulla stalla,
e uno squittisce.

Ore 12.25:

Si scopre il monte
con qualche chiazza bianca,
diffuminata.

Ore 12.35:

Accanto al muro
costellazioni azzurre
di rosmarini.
Sui rosmarini
un bombo già banchetta,
malgrado il tempo.

Ore 13.10:

Passata l’una,
il monte è ritagliato
da nubi a brani.

Ore 16.40:

Nel pomeriggio
si è rinascosto il monte.
Grigia pioviggine.
Di sotto, è la vallata
verde luce sommersa.

Sabato 28 marzo 2015. Vado a fare un po’ di giardinaggio. Verso le 10.40, salendo:

Nel fondovalle:
primo rosa sui peschi,
meli ancor fermi.

Ore 11.00, arrivando:

Neve residua
sui pascoli di vetta.
Non una nube.

Quel che vorrei registrare alle ore 17.30 lo aveva già scritto Virgilio, alla fine della prima Ecloga:
Et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
Posso però cercare di tradurlo in un tanka:

“Lontano, i tetti
dei casolari fumano;
più lunghe scendono
dagli alti monti le ombre”:
così scrisse Virgilio.

Non solo nelle case lontane (a Bregni), ma anche in quelle vicine (Daniela, la Carla) comincia a uscire fumo dai camini.

Domenica 29 marzo 2015. Passeggiando verso Cà Vigino, ore 14.30 (ora legale, appena adottata)

La Val Borbera
spinge un brivido d’aria
lungo la Costa.

Ore 15.00:

Per tutto il tempo
il sole è opalescente
dietro le nubi.

Venerdì 3 aprile 2015 saliamo per la Pasqua. Arriviamo alla Casuzza verso le 11. Nel cielo, sole e nuvole sparse, sfilacciate.

Coi nuovi verdi
si sveglia la lavanda,
pian piano. Azzurri
varî dei rosmarini
in piena fioritura.

Nel pomeriggio, ripercorro il sentiero di Sant’Agostino, trovando, stavolta, il viottolo (ripido, erboso, sconnesso) di raccordo con la viuzza che arriva al Museglia, all’altezza della passerella che doveva essere già allora valico sul torrente, attraverso cui raggiungere il borgo di San Sebastiano – e la chiesa.

Scendendo a Sanse,
ai lati del sentiero,
primule e viole
sbocciate a ciuffi sulla
coltre di foglie secche.

Sabato 4 aprile 2015 esco di casa alle 13.30 e, malgrado la pioggia caduta nella serata di ieri e ancora stamattina, vado a percorrere l’altro ramo del sentiero (che si diparte verso sinistra, a poche centinaia di metri dalla chiesetta iniziale), fino al prato che incombe, da presso, sulla compatta frazione Vallescura di Brignano.

Si aprono gemme
in punta ad ogni ramo
dei boschi spogli.
Nubi di biancospini
rischiarano i roveti.

Lunedì 6 aprile 2015, con un bel cielo azzurro attraversato da rapide nubi, riesco finalmente a dirigermi alla Rivarossa. La provinciale per Montebore è franata, all’altezza del muraglione di sostegno, e il tratto venuto meno lo si percorre varcando un passaggio angusto e sconnesso scavato nel versante della collina. Anche la stradina inghiaiata che porta a Costa Merlassino è segnata dalle frane: parzialmente poco dopo l’inizio; totalmente poco prima del bivio per la Rivarossa, dove il fondo stradale è stato spinto via da un’ondata di bosco che vi si è riversata sopra, sconvolgendo ogni cosa e rendendo assai difficoltoso anche il passaggio a piedi. La ripida carraia che sale a destra, segnalata da una bella freccia blu (“Ripa rossa”), non ha invece subito danni. Ne ricavo un doppio haiku, annotato alle 15.07:

Strade e stradine
sbarrate dalle frane
a monte e a valle.
Da Costa fino
al Monte Barrilaro
percorso intatto.

Alle 16.10, poco prima dei ruderi di Rivarossa, guardo in su, a sinistra, lungo un tratto di sentiero leggermente infossato, e mi tornano alla mente i cactus dipinti da Ennio Morlotti a San Biagio della Cima, stagliati in verde, giallo e nero contro un azzurro carico:

A Rivarossa,
su un cielo morlottiano
arbusti incisi.

Torno indietro e salgo il Barrilaro. Bevo un sorso d’acqua, leggo qualche verso dagli “Ossi di seppia” di Montale, che porto nello zaino (“L’albero verdecupo / si stria di giallo tenero e s’ingromma. / Vibra nell’aria una pietà per l’avide / radici, per le tumide cortecce. / Son vostre queste piante / scarse che si rinnovano / all’alito d’Aprile, umide e liete…”). Poi mi metto a osservare l’imponente veduta che spazia ai miei piedi. Sono le 17.05:

Dal Barrilaro
si domina una trama
di creste, valli
e strade bulinate
fra boschi, rocce, campi.

Domenica 12 aprile 2015. Salendo, dopo Monleale, verso le 9.30:

Distesi in schiere,
spumeggiano di petali
meli e susini.

Alla Casuzza, ore 14.30:

Nebbie bioccose
velano il cielo e il monte
di lunghe garze.
Ogni minima vita
che vedo, mi commuove.

Ore 14.40:

Eco di cani
risale la vallata
a onde rifratte.

Ore 15.00:

Cespi fioriti
di rosmarino, a picco
sul muraglione.

Ore 16.30:

Su rive e fossi,
le “Stelle di Betlemme”,
bianche fra l’erba.
Sbocciate anche le croci
dei “Dollari d’argento”.

Sabato 25 aprile 2015, salgo per alcuni lavori di giardinaggio, ore 11.00:

Le viti fogliano.
Sui filari di meli
ancora i fiori.

Ore 12.00:

Verdi molteplici
spruzzano le pendici
in ciuffi tondi.
Astri di fiori gialli
avvampano nell’erba.

Ore 20.30, scendendo all’agriturismo Cà Bella:

Su Restegassi,
per metà illuminato,
il campanile.

Domenica 26 aprile 2015, ore 6:30:

Tutto il paesaggio
è perso nella nube
che ci ravvolge.

Ore 7.55:

Poi, gradualmente,
la foschia si dilegua,
scopre la vista.

Ore 8.23:

Nel fondovalle
si è raccolto il vapore,
vi indugia inerte.

Ore 8.29:

Ma si riespande
fino a inghiottire il mondo,
come all’inizio.

Ore 9.00

Di nuovo, piano,
riprende a ritirarsi,
svela le cose.

Ore 15.45:

Qualche ginestra,
sul Campo dei Morroni,
ha i primi fiori.

Saliamo, la sera di giovedì 30 aprile 2015, per trascorrere in Valle alcuni giorni, profittando della festività del Primo Maggio. Sono un po’ stanco e avvilito, in questo periodo, e non ho voglia di cimentarmi con inutili parole. Ma qualche momento riesce a superare la fascia grigia, a far giungere lo stesso a destinazione i suoi colori e i suoi suoni.

Venerdì 1° maggio 2015, giornata piena di nubi e di vento molto forte, che costringe a rimanere in casa. Ore 19.00:

Aghi di pioggia
mi spruzza in faccia il vento
scuotendo gli alberi.

Sabato 2 maggio 2015, ore 18.00. Bella giornata di sole. Appena la luminosità si attenua (ma si comportano così anche quando la diminuzione di luce è dovuta al velo di nuvole; allo stesso modo, si chiudono le corolle delle Stelle di Betlemme), i grilli attaccano il loro tremulo frinire.

Nel campo, i grilli
cominciano a scrollare
la sonagliera.

Domenica 3 maggio 2015, mentre faccio i miei lavori di giardinaggio e porto nel campo la ramaglia tagliata, sono circondato dalle complesse, elaborate melodie cristalline di tantissimi uccelli:

Tutto all’intorno
lo spessore intrecciato
di mille canti.

Nel pomeriggio, subito dopo pranzo, faccio una lunga camminata (dalle 12.45 alle 16 passate). Sulla Costa, vado fino oltre Cà Vigino, visitando la chiesetta di Sant’Espedito, aperta. Poi, per una stradina fiancheggiata da roverelle, scendo a Cascina Carrano (e qui trovo aperta la cappelletta di Santa Teresa del Bambin Gesù). Poi, lungo la provinciale, risalgo a Zebedassi e a Vigoponzo, e da qui scavallo di nuovo a Vigana. Parto, per tornare in città, alle 17.15.

Sono una festa
le ginestre fiorite,
seppure poche.

Scendendo, alle 17.20, nei pressi dell’agriturismo, osservo una lama di luce obliqua puntare e trafiggere, con umido effetto iperrealista, una parte del paesaggio – un po’ come nella più famosa poesia di Quasimodo.

Sulla Cà Bella
il sole fra le nubi:
raggio nel bosco.

Sabato 9 maggio 2015. Nel pomeriggio salgo a falciare l’erba attorno a casa. Ore 15.00:

La fioritura
delle robinie, immensa,
vela la Valle.

Ore 15.45:

Che giallo intenso
e che profumo fino
han le ginestre!

Notte fra il 9 e il 10 maggio:

Brillano, fredde,
miriadi di stelle,
nitide e dure.
La luna, già sbreccata,
si leva ad alta notte.

Nel “fine settimana lungo” (e/o “ponte”) del 2 giugno mi occupo del giardino e, soprattutto, sgombero la cantina, in vista della successiva ristrutturazione. Lavoraccio impegnativo e faticoso, che mi lascia comunque l’agio di annotare qualche immagine. Domenica 31 maggio 2015, ore 21.30:

Le prime lucciole
indugiano al riparo
dall’aria fredda.

Lunedì 1 giugno 2015, ore 21.10:

La luna è piena.
Profumo di ginestre.
Gemono i grilli.

Martedì 2 giugno 2015, ore 7.45:

Al sole obliquo
del mattino, il paesaggio
ha più spessore.

Sabato 6 giugno 2015, il clima in città è torrido. Solo verso sera riesco ad affrontare il viaggio. Salgo a innaffiare un po’ di vasi e a cenare (ottimamente, e con in più una bella vista sui colli circostanti, verdi e luminosi, un nostalgico sottofondo musicale dei primi anni Ottanta, e un fresco che rincuora) all’agriturismo Cascina Battignana, di San Sebastiano Curone. Stasera mi sento un po’ Montalbano che mangia da Enzo. Ore 19.40, mentre salgo:

Ha già un colore
di paglia, il grano duro,
oltre San Giorgio.

Domenica 7 giugno 2015, all’alba:

La prima luce
apre liquidi suoni
in mille becchi.

Ore 10.30, dopo aver proseguito il lavoro di sgombero della cantina, mi appoggio alla staccionata che dà sul Campo dei Morroni:

Fiori en pendant
dell’erba viperina e
delle lavande.

Lunedì 15 giugno 2015. Da ci ieri siamo di nuovo trasferiti per l’estate. Il tempo è variabile. Ore 13.30:

Stille di pioggia:
più fredde, per il sole
caldo ed il vento.

Ore 18.00:

More di gelso:
preludio dolce e bianco
ai frutti estivi.

Sabato 20 giugno 2015, nel pomeriggio, mi siedo fuori a leggere il bel libro di Patrick Leigh Fermor (terza e conclusiva parte dell’itinerario europeo a piedi, durato tutto il 1934) La strada interrotta, appena uscito in italiano. La fruizione degli spazi aperti della natura, dei boschi e dei sentieri di montagna, che inebria l’autore di gioia fisica, coincide, così, col mio vissuto. Ore 16.20:

Vibrano a ritmo,
tutt’attorno, gli archetti
delle cicale

Domenica 21 giugno 2015, tornando da una squisita “cena del solstizio” (come non pensare a Valéry? “L’anima esposta alle torce del solstizio, / ti sostengo, o mirabile giustizia / della luce, dalle armi spietate!”) presso l’agriturismo “Cascina Battignana”. Ore 22.30:

Esile luna
crescente. A lampi alterni
vagano lucciole.

Per un po’, non ho più voglia di scrivere. Dal 5 al 10 luglio 2015 torno finalmente in Provenza, ma anche lì, sul momento, nulla mi sorge. Vi scatto, però, diverse foto, e cammino molto.

Sabato 25 luglio 2015, al mattino presto, piove abbastanza forte.

Con l’acquazzone,
riprende fiato, intorno,
l’erba patita.

Non avevo dunque più voglia di scrivere. Però domenica 16 agosto 2015, quando percorro il sentiero della Rivarossa, mi incuriosisce il dosso verde del Gavasa, che non ho mai visitato, e decido di affrontare la deviazione. Ore 16.10:

Salendo il monte,
ovattato silenzio
sotto i castagni.

Ore 16.25:

Ma fra le querce
di vetta, qualche grillo
geme, sommesso.

Mando un messaggino coi due testi al “musagete” Mario, che ne rimane soddisfatto…

Haiku sull’Appennino 05 mod

Altri haiku

Domenica 19 aprile 2015, nel pomeriggio, arrivo alla Cascina Cerola, nella frazione Franchini di Altavilla Monferrato, per visitare la mostra fotografica “L’eterno messaggio della natura”, una trentina di intensi scatti artistici commentati, ognuno, da parole di scrittori. Imbocco poi un viottolo di terra, che conduce ad una vigna e da qui, attraverso un albereto, si inoltra fra i colli, in mezzo alla “natura” che le immagini esposte evocavano. Ore 15.35:

In fondo al campo, un
carretto abbandonato,
quasi disfatto.

Ore 15.50:

Mormora l’acqua
nel fosso che costeggia
redola e bosco.

Ore 16.00, raccolgo da terra, a diversi metri di distanza l’una dall’altra, tre uova di fagiano, svuotate da qualche predatore:

Sulla stradina,
i gusci grigio-beige
di uova rotte.

Ore 16.22:

Casali incombono
sui fianchi, un po’ scoscesi,
della valletta.

Ore 16.40:

Il basso colle
è una nube, screziata,
di foglie nuove.
Il filare di abeti
al piede è fuori luogo.

Ore. 17.10, tornando verso la cascina, odo latrati festosi, vociare di persone (“Diana!”), sonagli vibranti (prima, un grosso bovino, sdraiato nell’erba, aveva emesso un muggito sonoro e prolungato), e intravvedo, tra gli alberi, un cagnone dal pelo biancastro scorrazzare attorno ad una piccola mandria. Poco dopo, sono due i maremmani, identici, che vengono rapidamente verso di me, scodinzolando, e mi poggiano la testa contro le gambe, chiedendo coccole:

Stanno allenando
due cani da pastore,
con delle mucche.

Ore 17.30, lungo l’ultimo tratto di percorso, quando già si sente assai distinta la musica del trio che si esibisce nell’aia:

Due giovani asini
mi osservano in silenzio,
grigi e pezzati.
“Qué será será” suonano
fisa, chitarra e piffero.

Domenica 24 maggio 2015, nel primo pomeriggio, accompagno mia figlia a Quargnento, per un saggio di ginnastica artistica in occasione della festa del paese, che ricorda i 385 anni trascorsi dalla peste superata. Esco dal concentrico e mi siedo in un prato stabile di steli già maturi, vicino alle ultime case del borgo, a leggere Desert solitaire di Edward Abbey, magnifico racconto di una stagione passata in solitudine, come ranger, a sorvegliare ed osservare la natura selvaggia dello Utah. Annoto verso le ore 15.15:

Nell’aria asciutta
schiocchi di graminacee
scagliano semi.

Ariette 16.0: Spiace tanto

di Maurizio Castellaro, 12 giugno 2023

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Al passo del Curlo di Arenzano stavo fisso con gli occhi al cielo per godermi il passaggio dei bianconi, un lungo e lento volo dal Mali all’Europa, passando per Gibilterra, sfruttando le calde correnti ascensionali per ridurre la fatica. Ma forse, nell’occulta regia che regola l’universo, sono i bianconi che ci guardano indifferenti mentre passano sopra di noi, come fanno da milioni di anni, e da quell’altezza Genova per loro è solo una macchia grigia di cemento che sconcia la linea della costa.

Da alcune estati mi estasiavo a spiare i pesci multicolori che vivono a Bogliasco, pascolando le alghe proprio in mezzo ai piedi dei bagnanti ignari, in quell’impalpabile mondo di mezzo fatto di acqualuceariaspuma, che chiamiamo scogliera. Quest’inverno hanno coperto tutto con materiale di risulta per creare tanta bella spiaggia e smuovere l’economia, e io non ho ancora avuto il coraggio di immergermi per contemplare quel sepolcro imbiancato. Erano pesciolini grossi come mignoli e io mi chiedo se da qualche parte, in qualche libro segreto, la loro morte assurda sia stata registrata, e se ci sarà qualcuno che ascolterà le loro mute istanze di giustizia. Cioè, me lo potrei chiedere, se non stessi rileggendo proprio adesso Il dialogo della Natura e di un Islandese dell’immenso Giacomino.

Sto guardando su Rai 5 un film a più mani sul problema ambientale. Come al solito si oscilla tra la colpevolizzazione moraleggiante e la disperazione nichilistica, e come al solito mi vien voglia di cambiar canale.

Spiace tanto, ma a questo giro mi manca l’Arietta.

Sinistre immagini

di Fabrizio Rinaldi, 15 gennaio 2023

Vagando da un canale all’altro, l’altro giorno mi è apparso Cuperlo su Rete4. Era intervistato non so da chi, perché non frequento quel canale, ma soprattutto non so cosa dicesse (anche se non fatico a immaginarlo), perché la mia attenzione era concentrata su come si presentava ai telespettatori con l’intento di racimolare consensi uno dei candidati più autorevoli alla segreteria del PD. Dietro di lui non c’era l’ormai classica libreria coi libri, i ninnoli e i quadri che strizzano l’occhio allo spettatore, ma faldoni e fascicoli grigi e marrone con scritte a mano (chissà se era a casa sua o in qualche archivio segreto di Andreotti). Indossava una camicia bianca sotto un maglioncino beige pallido pallido e una giacca grigia, pendant con i faldoni sullo sfondo. Ora, va bene esser sobri e pacati, e volersi distinguere da chi indossava il giubbotto in pelle alla Fonzie (Renzi), ma non è il caso di personificare la tristezza più assoluta!

Senato: registrazioni al completo, mancano solo i 26 subentrantiCuperlo avrà detto pure delle cose sensate, ma mi rimane l’immagine di un uomo insipido, sbiadito, senza prospettive per un futuro diverso da quello attuale, senza proposte che vadano oltre la misera quotidianità del decidere se togliere o lasciare le accise sul carburante (che comunque è una scelta che al momento non gli compete). Umanamente potrei anche condividere ciò che pensa, ma mediaticamente è un disastro.

Sinistre immagini 03 BersaniUn’altra immagine della sinistra che mi viene alla mente è quella di Bersani al bar (forse quello di Happy days), dove, invece di confrontarsi con altri su cosa sia esser di sinistra, ha come unico interlocutore un calice di birra. È la perfetta raffigurazione di una dignitosa ritirata umana, che è tale anche politicamente, ma fa comunque tristezza.

È pur vero che c’è chi specula impietosamente, come un avvoltoio sugli animali morenti, nello scovare foto che esprimano al meglio le difficoltà e le debolezze del malcapitato personaggio pubblico, di turno: ma un politico avveduto dovrebbe porre molta più attenzione a come si propone rispetto a ciò che dice. Altrimenti è bene che resti nel privato e non ambisca ad occuparsi della cosa pubblica. Purtroppo è così che va il mondo attuale. “E tu non puoi farci niente! Niente!” (L’ultima minaccia di Richard Brooks). È passato il tempo in cui Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta e Berlinguer si fermava a parlare agli operai di un cantiere col trench alla tenente Colombo.

Sinistre immagini 04 Moro    Sinistre immagini 05 Berlinguer

Eppure negli ultimi decenni ci sono state delle immagini iconiche che hanno alluso a un diverso futuro: Prodi in bicicletta, ad esempio, e D’Alema in barca. Lo so, vien da chiedersi come siamo messi, però almeno un tentativo di offrire una “visione” c’era. Il primo, interpretato anche da Guzzanti come il “semaforo fermo e immobile”, sotto l’aspetto sornione sapeva esser risoluto e avere un’idea, giusta o sbagliata che fosse (vedi la rocambolesca entrata dell’Italia nell’area euro). Il secondo era – ed è tuttora, anche se ufficialmente si è ritirato dalle scene, – il “baffo” più odiato dagli italiani, accusato di incoerenza per il fatto di possedere una barca (e non solo quella) nonostante si professasse comunista: ma almeno, anche se più in apparenza che nella realtà, quel baffo pareva essere alternativo all’infoiato, colluso, mediatico e trapiantato Berlusconi.

Sinistre immagini 06 Prodi

Se la sinistra tradizionale vuole avere una qualche futuro e non sparire (è sotto il 15% ed è in discesa, di contro all’oltre 30% di Fratelli d’Italia) deve individuare poche ma chiare idee che la identifichino, diciamo pure dei segni o dei “sogni”, sui quali costruire prospettive differenti da quelle offerte dalla Meloni, ma pure da Draghi, Conte o Renzi.

Ed è necessario che lo faccia immediatamente, per poterne trarre un minimo di indicazioni di principio. Quelle che non verranno certo da un congresso presieduto da fantasmi litigiosi, i quali quasi sicuramente convalideranno un’insipienza congenita. Coloro che si riconoscono (o no) nel PD di oggi (come pure in quello di ieri) vorrebbero vedersi proporre, alle prossime elezioni, un’idea per la quale valga la pena andare a votare per quel partito. Saranno anche solo sogni, illusioni, ma si vive pure di quelli.

Sinistre immagini 07 PD

C’è innanzitutto bisogno di chiarirsi su ciò che s’intende oggi per sinistra progressista, su quali obiettivi si possano concretamente perseguire, e di escogitare anche una comunicazione mediatica che sostenga quelle affermazioni. È essenziale tradurre i concetti in immagini, in simboli forti e riconoscibili affinché ci sia una reciprocità fra la parola e la sua raffigurazione. È inutile ostinarsi a credere che la genuinità delle idee sia sufficiente per ottenere consensi. Non piacerà ai talebani della sinistra dura e pura, ma le cose stanno così: serve saper comunicare efficacemente e chiaramente. E spesso non basta neppure quello.

Chi si ostina a pensarsi di sinistra si nutre di sogni che possano narrare una società più equa; di “barbari” che arricchiscano la nostra cultura ferma da decenni; di scelte economiche a lungo termine concretamente praticabili, nella consapevolezza che quelle attuali vanno sempre e comunque a discapito dell’ambiente, e spingono l’umanità verso il suicidio; di recuperare una solidarietà e un interesse comune che offrono l’unica vera via d’uscita. Sono i sogni a mantenere in vita la speranza.

E per cominciare, occorre fare pulizia nel proprio cortile, liberarsi di tutte quelle ipocrisie relative al genere, alla razza, alla pseudo-correttezza politica, che portano a far su alla rinfusa figure come Soumahoro, pur di sventolare una bandierina “progressista”. A riempire il Parlamento o gli uffici di Bruxelles di canaglie o di incompetenti ci pensano già tutti gli altri: almeno in questo la sinistra dovrebbe distinguersi.

Ciò non mi toglie la convinzione che ci siano ancora persone che perseguono delle idee per avere un mondo ben differente da quello attuale, senza però perdere la lucidità di inseguire delle chimere. Basta cercarle e avere il coraggio di offrire loro spazio e dignità, smettendola di tarpare le ali a chi ha ancora l’“intenzione del volo”, per dirla alla Gaber.

Sinistre immagini 08 candidati segreteria

Quel che vale per la politica vale pure per la cultura. E qui vengo al mio disaccordo sull’opinione espressa da Vittorio Righini nel pezzo I libri che non mi sono piaciuti, in cui critica il modo pacatamente ruffiano che ha Cognetti di scrivere i suoi libri.

Sinistre immagini 09 CognettiHo letto quelli precedenti a Le otto montagne e mi sembravano buoni. Un po’ “semplici” e immediati, ma ciò è una colpa? Non saranno capolavori, ma è vero che Cognetti è diventato un riferimento per coloro che si riconoscono in un certo modo di concepire il rapporto con la natura. Io mi sento perfettamente in linea con lui (ricordo un suo pezzo contro l’ennesima pista da sci), e non penso che questo sia cavalcare una moda e sfruttarla a fini utilitaristici. Semmai è un modo per veicolare messaggi un po’ differenti da quelli che vanno per la maggiore. I suoi testi non saranno il massimo di originalità e di profondità, ma, visti i tempi, che vengano pure queste mode i cui riferimenti sono London, Levi, Rigoni Stern, ecc…

Non dobbiamo star sempre lì a cercare il pelo nell’uovo… E che cazzo! Almeno quest’anno al cinema c’è stata la possibilità di vedere Le otto montagne, anziché i soliti cinepanettoni di Boldi, Checco e simili.

In fondo, nella mediocrità culturale attuale, Cognetti spicca per delle iniziative finalizzate a promuovere modi più rispettosi di stare in montagna e ha provato a fare qualcosa di diverso, impiegando i soldi vinti con lo Strega per sistemare un rifugio ad uso di amici e montanari.

Facce come la sua e quella dell’amico illustratore Nicola Magrin rappresentano un’ottima alternativa a quelle dei vari Calenda, Conte e compagnia bella. Dicono che, nonostante tutto, il sogno non “si è rattrappito”.

Sinistre immagini 10 Cognetti e Magrin

Collezione di licheni bottone

Natura e letteratura per cammini di viandanza

Copertina per incontri tematici2di Fabrizio Rinaldi, 10 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Natura e letteratura”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno, oltre alla frequentazione di Paolo, individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina, magari con approcci differenti e in tempi non troppo lontani.

C’era chi si riconosceva nella tendenza di Hemingway a raccontare la lotta con gli elementi e quindi le resistenze, le sconfitte o le pochezze umane. Chi si ritrovava nelle parole di Chatwin, per il quale le descrizioni dello spazio naturale (anche cantato, come per l’Australia) erano l’espediente per indagare la propensione umana all’inquietudine, l’irrequietezza che assale quando si è costretti a sostare in un posto per troppo tempo e a soffocare l’istinto di cercare ciò che sta oltre il conosciuto (magari – come nel suo caso – dormendo a scrocco da amici accondiscendenti). Oppure chi amava i racconti di Conrad e Melville, nei quali le superfici acquee su cui si svolgevano le cacce all’uomo o alla balena permettevano di immergersi nelle linee d’ombra dell’anima. C’era anche chi si immedesimava nel vivere appartato (ma non troppo) di Thoreau, che aveva fatto scuola (wilderness) con la sua propensione a ricaricare i neuroni vivendo nel bosco, eludendo la crescente frenesia della modernità e la compulsione a fagocitare tutto ciò che ci sta attorno, senza badare alle reali necessità.

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I miei occhi sono nuovi.
Tutto quello che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

Personalmente a queste vette della letteratura mondiale accosto due autori italiani. Nelle antologie scolastiche Camillo Sbarbaro è inserito tra i poeti del Novecento con una smilza paginetta e con una poesia dedicata al padre, legata ancora a quella metrica classica che appariva superata rispetto al suo contemporaneo Ungaretti. Traduttore dei classici greci, Sbarbaro ha saputo conciliare una vita estremamente ritirata con le intense amicizie che lo legavano a intellettuali come Montale, Campana e Pound; ma soprattutto inviava e riceveva dagli Stati Uniti dei pacchi contenenti croste secche apparentemente insignificanti, con indecifrabili nomi in latino, tanto che venne indagato dalla polizia fascista per atti ostili al regime. Dietro la sua pacatezza nello stare al mondo celava un’immensa conoscenza del mondo dei licheni. Autodidatta, ne divenne uno dei più importati esperti, tanto che la sua collezione è suddivisa oggi tra il museo di Storia Naturale di Genova e altre collezioni sparse nel mondo. Uno così non poteva non entrare nel novero degli ispiratori del nostro pensiero, per la sua propensione verso le cose insignificanti che gli capitavano e che vedeva. Oltretutto, era stato anche un gran camminatore lungo i sentieri liguri, sempre alla ricerca delle sue amate e naturali esistenze in sordina.

  • Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.
  • Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita.
  • Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi.

159 Mario Rigoni Stern

Il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari o scritto libri, ma quando sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa. Sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita.

L’altro mio autore di riferimento è Mario Rigoni Stern. È conosciuto soprattutto per Il sergente nella neve, in cui ha descritto il “capolavoro” della sua vita, l’aver riportato in patria tutti i suoi commilitoni durante la ritirata dalla Russia. Ma al di là di questo ci è affine soprattutto per la denuncia dei dissesti ambientali (quando ancora non era una moda), per le attente descrizioni di ciò che avviene nel bosco, e soprattutto per la corrispondenza fra ciò che scriveva e ciò che faceva: una coerenza esemplare, che quasi metteva soggezione perché presente in ogni suo gesto, a partire da come accatastava la legna o coltivava l’orto.

  • inserto dolomitiCome vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: “Oggi che cosa ci aspetta?”. Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, fatto dall’uomo che non si prefigge solo il guadagno, ma anche un arricchimento, un lavoro manuale, un lavoro intellettuale che sia, un lavoro ben fatto è quello che appaga l’uomo. Io coltivo l’orto, e qualche volta, quando vedo le aiuole ben tirate con il letame ben sotto, con la terra ben spianata, provo soddisfazione uguale a quella che ho quando ho finito un buon racconto. E allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade, è bella; un lavoro manuale quando non è ripetitivo è sempre un lavoro che va bene, perché è anche creativo: un bravo falegname, un bravo artigiano, un bravo scalpellino, un bravo contadino. E oggi dico sempre quando mi incontro con i ragazzi: voi magari aspirate ad avere un impiego in banca, ma ricordatevi che fare il contadino per bene è più intellettuale che non fare il cassiere di banca, perché un contadino deve sapere di genetica, di meteorologia, di chimica, di astronomia persino. Tutti questi lavori che noi consideriamo magari con un certo disprezzo, sono lavori invece intellettuali.

  • Per diventare amici, prima bisogna annusarsi, come i cani poi, se non ci si è morsi, può nascere l’amicizia.

Con Primo Levi e Nuto Revelli sognava di andare per boschi e montagne, in silenzio. Ecco, credo che non si potrebbe desiderare nulla di meglio che questa visione di sobria eternità: vagare con le persone care facendo esperienze. Era il suo “pensiero anarchico”.

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È questo che – istintivamente e senza una dichiarazione esplicita – ispira l’immagine dei due viandanti nella locandina della mostra sentieri in utopia. L’uno indica all’altro ciò che attrae la sua attenzione: in questo caso una luce conduce fuori dalla nebbia, ma da sempre i Viandanti hanno segnalato ai sodali degli “stupa”, quelle letture che sapevano essere di comune interesse. Non è un semplice consigliare libri, ma il desiderio di condividere un percorso da fare assieme, uno accanto all’altro. Per questo la maggior parte delle pubblicazioni dei Viandanti è accompagnata da una bibliografia, e nella rivista “ufficiale”, sguardistorti, la rubrica finale Punti di vista segnala anche i luoghi per i quali vale la pena mettersi in viaggio.

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Questa carrellata di “maestri” non può concludersi  senza citarne uno di fantasia, il Ken Parker creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Lui viveva il west che stava ormai scomparendo, cacciando per sopravvivere e rifiutando un progresso di cui intravvedeva le incongruenze. È lui che ci ha accompagnato durante le escursioni e nelle letture, grazie al fatto che i suoi album sono zeppi di allusioni ai classici della letteratura di viaggio. E poi, era l’unico protagonista del west che pensava prima di premere il grilletto e che la sera, davanti al fuoco, leggeva un libro.

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Questi, naturalmente assieme a molti altri, sono stati gli intermediari fra storie personali spesso molto distanti. Senza di loro probabilmente non sarebbe stato intrapreso alcun percorso comune. La loro conoscenza è stata il nostro mezzo per “individuare ciò che non è inferno e dargli spazio”, come direbbe Calvino. E per dare vita a una forma genuina di amicizia.

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Faccio una parentesi di commento sulla mostra. L’altro giorno mi sono concesso il privilegio di guardarmela senza che ci fosse nessuno. A dire il vero la possibilità mi è stata data spesso, perché non l’abbiamo promossa nei canali mediatici, non abbiamo fatto comunicati stampa, non abbiamo invitato le rappresentanze pubbliche, ma abbiamo volutamente diffuso l’evento semplicemente con il passaparola tra amici, conoscenti e simpatizzanti del nostro viatico. Risultato? Non l’hanno vista in molti.

È snobismo, questo? Non credo. È semplicemente coerenza con l’intento di raggiungere solo chi è realmente interessato a visioni del mondo magari divergenti, ma accomunate dalla consapevolezza che viviamo in una realtà complessa. E che quindi il pensiero, per coglierla, non può essere semplicistico e sbrigativo: nessuna delle nostre pubblicazioni si potrebbe liquidare con un twitter.

Ebbene, esaminando la mostra mi sono stupito di quanto materiale sia stato prodotto in tutti questi anni. Lo sapevo già, naturalmente, perché ne ho curato la grafica, ma nel vedere esposte tutte assieme le copertine di 79 Quaderni, 31 Album, 30 numeri fra Sottotiro review e sguardistorti, per un totale di oltre 7200 pagine, senza contare un bel po’ di articoli sparsi e i 14 testi della Biblioteca, mi ha impressionato l’incredibile varietà dei temi trattati.

Quella mole di riflessioni e l’idea del tempo che sta alle loro spalle mi ha confermato che i Viandanti hanno occupato una parte importante della nostra vita: di quella di Paolo senz’altro, visto che ha scritto o curato molti di questi testi, ma non solo della sua. Negli anni hanno contribuito in molti, attivamente o come semplici fruitori: e questo ha fatto sì che le nostre pubblicazioni continuino ad essere gratuite e siano stampabili liberamente. Per apprezzarle necessita solo una sufficiente dose di curiosità per ciò che non appare sotto i riflettori dei consueti media.

Si potrà notare che nessuno degli scrittori di cui ho parlato prima è originario dei nostri luoghi: non si tratta di un intenzionale rifiuto del campanilismo. Non ho citato Fenoglio e Pavese, che sono comunque nostri riferimenti imprescindibili, solo perché non volevo farla troppo lunga, e perché in qualche modo li do per scontati, in quanto hanno raccontato colline e storie simili alle nostre. Che è quello che anche i Viandanti hanno cercato di fare, narrando un territorio che viene spesso dimenticato.

Concludo con le parole delle mie figlie che alla domanda su cosa stessimo combinando Paolo ed io nell’altra stanza, risposero: “Stanno facendo la mostra. Si divertono così”. In effetti “divertire” significa volgere altrove, deviare. Ecco, questo facciamo: non marciamo lungo percorsi obbligati, muovendoci in branco verso mete che altri hanno fissato, ma camminiamo di lato, ai margini, pronti a deviare sui sentieri che ci danno maggiore soddisfazione. Quelli anche dell’amicizia, che sono la realizzazione della nostra utopia.

1-Le-colline-sacreCollezione di licheni bottone

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Tempo da lupi

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 8 dicembre 2022

Da uno studio durato venticinque anni sui comportamenti dei lupi di Yellowstone (se ne parla in un articolo pubblicato su Le scienze di dicembre) viene fuori un dato particolarmente interessante (e inquietante). Sembra che negli esemplari infettati dal Toxoplasma gondii, un parassita microscopico che predilige incistarsi nel cervello, scatti una maggiore produzione di dopamina e di testosterone: in altri termini, che diminuiscano le inibizioni, il senso del pericolo, e che aumenti l’inclinazione a comportamenti rischiosi e aggressivi. La cosa non vale naturalmente solo per i lupi, ma per tutti gli animali a sangue caldo, quindi ad esempio anche per i topi o per gli scimpanzé, nonché per i nostri animali domestici, segnatamente per i cani (i gatti, in realtà, come tutti gli altri felini, sono ospiti naturali del parassita, quelli in cui avviene la sua riproduzione sessuata: e non sappiamo quanto il loro comportamento ne venga influenzato). Per il momento tuttavia non sono ancora segnalati effetti alla Stephen King.

A volerli cogliere, però, questi effetti potremmo già avvertirli nella più domestica delle specie, quella umana. Il Toxoplasma infatti risulta essere stabilmente presente in un umano su sei, ed aver contattato un umano su due. In genere la coabitazione non causa danni particolari, tranne quando in pazienti già immunocompromessi evolve in Taxoplasmosi e produce encefaliti che possono essere mortali, o quando il protista parassitario infetta un feto durante la gravidanza provocando l’aborto. Ma questi sono effetti già da tempo conosciuti e per fortuna relativamente rari. È invece molto più recente la correlazione individuata tra l’infezione toxoplasmatica e i comportamenti sociali (o, se vogliamo, asociali), nel senso che questi comportamenti hanno poi una ricaduta sulla coesione e sulla stabilità del gruppo e sulla sua gerarchizzazione.

Cerchiamo di spiegarci meglio. Quando parliamo genericamente di animali, gli effetti dell’incistamento del toxoplasma nel cervello sono un aumento del coraggio e dell’aggressività e una diminuzione della paura nei confronti dei predatori. Questo induce a comportamenti più imprudenti, che il più delle volte sono letali, ma che in molti casi offrono maggiori possibilità di scalare le gerarchie del gruppo e di avere più chanches riproduttive. Nel caso dei lupi, ad esempio, un esemplare affetto da toxoplasmosi, e pertanto più aggressivo, ha probabilità cinquanta volte superiori a quelle dei suoi compagni di diventare in capobranco, o di crearsi un branco proprio (lo studio dal quale siamo partiti evidenziava appunto questo).

Nel caso degli umani la correlazione non è stata ancora scientificamente comprovata, ma anche ad uno sguardo superficiale le analogie con i comportamenti degli altri mammiferi sono clamorosamente palesi. Con una differenza, consistente nel fatto che negli altri animali questa correlazione è condizionata e mitigata poi dai fattori ambientali (la presenza ad esempio di molti predatori sfoltisce il numero degli incoscienti, la loro assenza lo moltiplica) mentre tra gli umani è connessa a fattori storici, che creano senz’altro mutamenti ambientali, ma agiscono anche per altre vie, non naturali ma culturali (costumi, credenze, tradizioni, ecc…, cui oggi si aggiungono la mediatizzazione dei rapporti sociali, la medicalizzazione, ecc…).

Ora, la lettura di questo articolo ci ha indotti ad alcune riflessioni che vorremmo sinteticamente proporvi.

  • Intanto, avevamo già cominciato a dubitare da un pezzo che l’emersione a livello del gruppo sia correlata ad una qualche affezione mentale, vista la classe politica che ci governa, e non solo a livello italiano. Ma anche negli altri ambiti non sembra andare molto meglio.
  • Questo perché, come dice l’articolo, in mancanza di predatori o di altri rischi il comportamento aggressivo o incosciente (quello che normalmente definiamo idiota) può costituire un vantaggio nei meccanismi che generano gerarchie. Tradotto in umanese, se non ci sono norme che puniscono i comportamenti asociali, scorretti o semplicemente idioti, oppure le norme esistono ma il sistema non è in grado di imporne il rispetto (o non lo vuole), il gioco politico diventa sleale, e vince chi si comporta più slealmente. Sarebbe interessante un controllo sulla diffusione del parassita nei cervelli dei politici o nelle classi dominanti anche in altri settori, dall’economia all’informazione: potrebbe fornire molte spiegazioni.
  • È sempre stato così? In parte, forse, si. Ma se guardiamo indietro non possiamo ignorare che un tempo il comportamento irregolare, asociale, che pure si risolveva di norma nell’esclusione dal gruppo, quando non direttamente nell’eliminazione, finiva almeno in qualche caso per avvantaggiare personaggi di un certo calibro, esploratori, condottieri, scienziati e, certo, anche grandi malfattori, ma nelle debite proporzioni. Oggi il fatto stesso che la qualifica di “eroe”, un tempo appannaggio di chi andava in positivo oltre la norma del comportamento umano, sia attribuita ai protagonisti degli stadi o dello spettacolo, e che a primeggiare siano non i più coraggiosi ma i più spudorati, coloro che non temono per la propria reputazione, la dice lunga sullo snaturamento del concetto.
  • Al di là della condotta delle classi “dominanti” (cui possiamo associare anche quella dei “buffoni di corte”), che sono tali appunto anche, se non soprattutto, per l’effetto toxoplasmatico, quel che inquieta maggiormente è il modello di comportamento “a rischio” (per sé ma principalmente per gli altri) che si va diffondendo a livello di massa. Le statistiche parlano per il nostro paese di una diminuzione della violenza, ma sappiamo come funzionano. Ad esempio, sembra essere diminuito il numero degli omicidi, ma nessuno spiega che un tempo per l’ottanta per cento questi rientravano nelle attività delinquenziali mafiose, erano a carico della criminalità organizzata, a modo loro avevano un senso e uno scopo: mentre oggi la percentuale si è invertita, perché i delinquenti professionali usano altri mezzi, più soft e meno primitivi, per regolare i loro conti o per controllare il territorio, mentre ad esplodere è la violenza privata ed insensata: femminicidi quotidiani, teppismo aggressivo fine a se stesso, reazioni esasperate ad uno sguardo o a una parola di troppo. Nella nuova casistica criminale colpisce soprattutto l’insensatezza, ed è questo probabilmente che enfatizza la percezione della pericolosità.

Come si spiega questa esplosione? Di spiegazioni sociologiche e psicologiche ne sono state date tante, una più complessa dell’altra, mentre quella più semplice ci pare essere stata trascurata. Proviamo dunque a formularla noi.

  • Fermo restando che il tasso di infetti dal toxoplasma sia rimasto uguale nel tempo, almeno negli ultimi cento anni, i danni che il parassita produce sono aumentati in maniera esponenziale. Perché nel frattempo è cambiato l’ambiente nel quale si incista, e per ambiente intendo evidentemente il cervello. I motivi per cui ciò accade sono svariati:
  • Intanto, c’è stata una progressiva e generalizzata caduta delle difese immunitarie mentali, messe sotto attacco dalla colonizzazione mediatica. L’effetto delle dosi massicce di violenza verbale e visiva inoculate per via televisiva, informatica o cinematografica è quello di una sempre maggiore confusione e sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale. E violenza non è solo la brutalità, ma lo sono anche la stupidità, l’arroganza, l’inciviltà nei comportamenti che questi mezzi contrabbandano.
  • Nell’ultimissimo periodo il crollo è stato accelerato da una serie di circostanze destabilizzanti; la pandemia, col suo corollario di vaccini e no-vaccini e bare ammucchiate sui camion e lockdown; l’emergenza ambientale, che si porta dietro oltre le siccità e i fenomeni meteorologici estremi anche la sensazione di una fine imminente per l’umanità; la crisi politica, con la guerra che è ricomparsa in Europa dopo ottant’anni; la crisi economica, che si direbbe aver imboccato una strada di non ritorno. Par di vedere i neuroni che di fronte ad una serie ininterrotta di scariche adrenaliniche ad alta intensità si arrendono totalmente scoraggiati.
  • Questo, naturalmente, là dove i neuroni ancora ci sono. Non so se ci sia stata una diminuzione della capacità cerebrale (sembra di si), ma per certo negli ultimi centomila anni il volume utile della nostra scatola cranica non è aumentato. Sono invece aumentati gli acceleratori (o gli inibitori) artificiali del movimento neuronale: si consumano certamente più coca o erba o stimolanti o “equilibratori” di vario tipo che pomodori o zucchine, e questi additivi fanno strage di una popolazione neuronale già assottigliata per i motivi di cui sopra.
  • Ecco allora che in un ambiente così degradato, in qualche caso quasi deserto, dal quale sono spariti tutti i cartelli indicatori e i segnali di divieto, il Toxoplasma ha piena libertà d’azione. Può schiavizzare i pochi neuroni che vagano disorientati e imprimere loro velocità e direzioni assurde. In questo modo i comportamenti incauti o irresponsabili o prevaricatori si moltiplicano: e se nel primo caso (esemplificato dal ricorrere periodico di mode demenziali, quali quelle del salto dal balcone o del pisolino sulle rotaie o in mezzo alle autostrade) la strategia del parassita è perdente, perché colpisce solo il suo veicolo, negli altri ha un effetto moltiplicatore, anche in assenza di una trasmissibilità genetica: il comportamento toxoplasmatico, infatti, produce una reazione mimetica anche in individui non infetti, segnatamente in quelli nei quali è già presente una forte disposizione all’irresponsabilità.

Tempo da lupi 02

Come si è potuto verificare con lo studio sui lupi, il Toxoplasma non solo influenza le gerarchie del gruppo ma ne favorisce anche la dispersione, arrivando in questo modo a condizionare gli equilibri e le dinamiche di interi ecosistemi. Lo stesso accade rispetto alle interazioni sociali umane, e tanto rispetto all’ambiente naturale che a quello culturale. Il problema è che mentre nel caso dei lupi la diffusione dell’infezione sembra incontrare un tetto naturale (i lupi di Yellowstone si infettano mangiando le carcasse dei puma, che sono gli ospiti naturali del parassita, e la diminuzione di questi ultimi, causata anche dalla concorrenza predatoria su uno stesso territorio proprio con i lupi, fa diminuire le possibilità di infezione), nel caso degli umani la tendenza all’aggressività e alla irragionevolezza, Toxoplasmosi o no, non sembra trovare ostacoli o limiti. Questo perché sono saltati i meccanismi sociali di controllo del comportamento individuale, quello della “reputazione”, che funzionava informalmente all’interno del piccolo gruppo, ma anche quelli formalizzati in normative e leggi. Non sono allo sbando solo i neuroni dei singoli infetti, lo siamo tutti quanti.

Adesso però occorre fare sì che i risultati dello studio non vengano diffusi troppo (un rischio che col nostro sito non si corre). Ci sono genitori che per assicurare alla loro progenie uno spirito fortemente competitivo farebbero dormire i gatti nella culla coi neonati. Ma soprattutto sarebbe una pacchia per gli avvocati difensori: avrebbero a disposizione l’attenuante ideale per la miriade di sciagurati, tra uxoricidi, parricidi, teppisti da discoteca e altra varia disumanità, che sta intasando i nostri tribunali.

C’è in definitiva qualche speranza di contenere gli effetti del Toxoplasma triumphans? Ben poche, a quanto è dato vedere: e affidate più alla fantascienza che al buon senso. In America sono stati ritrovati i resti del Panmthera atrox, un felino di due quintali, estintosi dodicimila anni fa, nella cui dieta i lupi erano un piatto forte. Con le nuove tecniche bioingenieristiche dal suo DNA si potrebbe farne rivivere qualche esemplare, come in Jurassik Park, e castigare gli eccessi lupeschi di audacia.

A noi umani sarebbe però sufficiente ritrovare e riesumare i resti di Hammurabi, molto più recenti. O anche, più semplicemente, qualche articolo del suo codice. Ce ne sono un paio che per scoraggiare la propensione al comportamento antisociale risulterebbero molto efficaci.

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Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

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Tre manifesti sul futuro dell’umanità

di Paolo Repetto, 3 novembre 2022

Tre manifesti copertina

Sentiamo che il mondo antico sta per finire, ma come sarà quello nuovo? I più grandi intelletti di oggi non sono in grado di prevederlo, esattamente come quelli dell’Antichità non erano in grado di prevedere l’abolizione della schiavitù, la società cristiana, l’invasione dei barbari e tutti i grandi eventi che hanno trasformato il volto terrestre.
(Alexis de Tocqueville)

Due letture recenti mi riportano ad un argomento che ho già trattato in più occasioni (cfr. soprattutto La discesa dal monte analogo). Temo però di averlo fatto piuttosto confusamente, e provo allora ad affrontarlo per l’ennesima volta cercando di essere più chiaro (e di chiarire le idee in primo luogo a me stesso).

Gli scritti che mi hanno offerto lo spunto sono molto diversi. Il primo è un “manifesto” redatto in stile futurista, comparso sulla rivista on line “L’indiscreto” il 14 settembre col titolo “Incivilizzazione”. Anche il secondo si presenta come “Manifesto del grande risveglio”, ma il titolo ufficiale è “Contro il grande reset” e ha la struttura di un vero e proprio pamphlet. Il terzo è un saggio pubblicato a inizio anno da Aldo Schiavone, intitolato “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che ho letto solo pochi giorni fa.

L’idea di un intervento era già nata in realtà dopo la lettura del primo, ma avevo in mente solo una ironica demolizione; l’incontro con Dugin e il libro di Schiavone mi hanno invece convinto a tentare un approfondimento più serio. Spero non riesca soltanto più pesante.

I tre testi viaggiano a livelli assolutamente diseguali, per valore e per profondità nella trattazione, e un raffronto alla pari non avrebbe alcun senso: ma tutti e tre si prestano altrettanto bene al mio scopo, perché consentono di mettere a fuoco poli diversi, addirittura opposti, dell’atteggiamento nei confronti della civilizzazione “occidentale”, della razionalità e, implicitamente, del futuro della nostra specie. Cerco quindi di trattarli come “documenti”, testimonianze significative di come una stessa atmosfera possa essere interpretata con disposizioni antitetiche.

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Incivilization: The Dark Mountain Manifesto è uno scritto relativamente breve pubblicato nel 2009 da Paul Kingsnorth e Dougald Hine, per annunciare l’inaugurazione del The Dark Mountain Project. I due militano nella galassia tanto diffusa quanto confusa degli eco-integralisti d’oltreoceano. Nel testo fanno riferimento costante, come ispiratore e nume tutelare del progetto, al poeta Robinson Jeffers, popolare negli anni ‘20 e ‘30 nella cerchia dei bohemiens e dei letterati che affollavano le coste californiane (era un amico di George Sterling e di Edgar Lee Masters, e per un certo periodo ha frequentato anche D.H. Lawrence), ma quasi sconosciuto al di fuori di quel giro (malgrado una sua foto sia stata pubblicata sulla copertina della rivista Time, cosa piuttosto rara per un poeta, e il suo profilo compaia su un francobollo del servizio postale). Conviene partire direttamente da lui.

Jeffers era un personaggio singolare, capace di costruire con le proprie mani una casa con tanto di torre tutta in pietra (“Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare,/ le mie dita conobbero l’arte/di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti”), quella che compare nella immagine di apertura, e di vivere poi in essa un’esistenza appartata e austera, ma anche attento ad alimentare il mito che attorno a questa casa e a questa esistenza si andava creando. Ha esercitato senza dubbio una grande influenza sugli scrittori ambientalisti della generazione successiva, come Edward Abbey e Gary Snyder, ma anche Bukowski, cui dell’ambiente non importava un fico, lo idolatrava. (“Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”) Negli anni settanta-ottanta è stato poi ripescato dalla cultura new-age, continuando però ad essere un autore di nicchia: e per quello che conosco della sua opera mi pare destinato a rimanere tale. Al momento le uniche sue raccolte poetiche tradotte in italiano sono “La bipenne e altre poesie” (1969) e “Cawdor” (1977: è in realtà un vero e proprio poema “epico”), e non hanno suscitato particolari entusiasmi.

Al di là delle eccentricità e dei meriti, però, ciò che davvero qui importa di Jeffres è l’appartenenza ad una tradizione “nobile” della cultura statunitense, che vede tra gli antesignani ottocenteschi personaggi come Thoreau, Muir e soprattutto Ralph Waldo Emerson e i “trascendentalisti”, e che predica un rapporto completamente diverso con la natura, empatico anziché antagonistico. Alle spalle di questi proto-ecologisti c’era un sentire religioso profondo, lontano da quell’ipocrita dogmaticità ecclesiale alla quale gli uomini del nuovo mondo avevano voluto sottrarsi: davanti a loro c’era una natura ancora incontaminata, spazi immensi e solitari nei quali il rapporto col trascendente si imponeva immediato e che andavano salvaguardati dalla colonizzazione distruttiva delle attività umane. Sulla spinta di questa tradizione sono nati infatti i primi grandi santuari naturalistici, come Yellowstone o Yosemite.

Jeffers ne ha ereditato entrambi i presupposti di base, ma è poi andato oltre. Ha predicato una sorta di panteismo che mescola la scienza e il culto mistico della bellezza della natura, nella “convinzione che l’umanità sia troppo egocentrica e troppo indifferente alla sorprendente bellezza delle cose”: e ha coniato per il suo atteggiamento la definizione di “inumanesimo”. Lo definiva esplicitamente come “…uno spostamento dell’enfasi e del significato dall’uomo al ‘non uomo’; il rifiuto del solipsismo umano e il riconoscimento della magnificenza transumana…”.

Per dare voce a questo atteggiamento la sua poesia si compiace di immagini brutali, indulge alla descrizione della violenza (stiamo parlando di un secolo fa: oggi gli stomaci dei lettori sono abituati a digerire ben altro), insiste su un atteggiamento misantropico e su un pessimismo esasperato e addirittura auspica un suicidio liberatorio (per la natura) dell’umanità. E a questo si è voluta attribuire la sua limitata fortuna critica e di pubblico.

In realtà credo che la ragione sia un’altra. L’ambizione di Jeffers era di ridare alla poesia un respiro epico, sul modello del “Paradiso perduto” di Milton, e per farlo era necessario usare una franchezza aspra, creare emozioni ma anche accompagnare con la suggestione di immagini forti il pensiero: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come la prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando.” La sua era evidentemente una cifra poetica controcorrente, in un’epoca nella quale i suoi contemporanei (da Eliot a Pound agli ermetici italiani) adottavano un linguaggio elitario e infarcito di difficoltà; e quella poetica Jeffers l’ha perseguita con coerenza e in sprezzante solitudine lungo tutta la sua carriera, infischiandosene delle mode e delle correnti, e anzi, bollando l’uso escludente della parola come puro manierismo.

Jeffers leggeva effettivamente la storia dell’umanità tutta in negativo. Era attratto dalla scienza, ma giudicava devastanti i suoi risvolti pratici, la tecnologia sfuggita al controllo. Disprezzava la politica, ma non esitava a prendere posizioni radicali e impopolari (come quella del pacifismo isolazionista all’epoca della seconda guerra mondiale). Questo modo di sentire non era comunque a suo parere né misantropico né pessimista. Piuttosto consentiva “un ragionevole distacco come regola di condotta, invece di amore, odio e invidia … offre magnificenza all’istinto religioso”.

La verità è che Jeffers non nega la violenza né la esalta: la analizza come un dato di fatto, come la caratteristica fondamentale del vivere. Lo fa da un punto di vista “materialistico”, che contrappone a quello “umanistico”. “L’umanesimo ci insegna meglio perché soffriamo, ma il materialismo ci insegna a soffrire”. Scrive: “L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”. Per “materialismo” intende quindi la coscienza darwiniana della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza.

In sostanza. Per Jeffers il dolore non è stato introdotto in una preesistente serena armonia del cosmo dalla trasgressione umana: quella che è stata introdotta è invece la percezione come dolore di un conflitto che è di per sé intrinseco alla natura. Questa percezione l’uomo non l’accetta, e cerca di liberarsene modificando l’ordine delle cose, abusando quindi dell’ambiente e degradandolo. E non si limita a trasformare la terra, ma la distrugge, condannando la sua stessa specie all’estinzione. In questo senso l’uomo è il peggiore di tutti gli animali, il più dannoso e il più scriteriato. La sua è un’intelligenza malata: attraverso la presunzione razionalistica e le sue ricadute tecnologiche si stacca sempre più dalla natura, e nel contempo però non può non riconoscere la sublime bellezza di quest’ultima, nella quale intravvede l’opera di Dio; ma, ed è questo il paradosso, anziché riconciliarsi con essa è ulteriormente spinto, proprio dalla straziante coscienza di quanto sta perdendo, alla crudeltà e all’autodistruzione. Ciò vale tanto più per i popoli presso i quali il processo di “civilizzazione” è più avanzato, ovvero per la civiltà occidentale, che è avviata ad un palese declino, travolta dall’egoismo, dalle guerre, dalla mercificazione.

E così, solo una volta scomparso l’uomo l’armonia cosmica si ricomporrà, in un’altra forma, ma non ad un livello inferiore. Nel farci capire ed accettare tutto questo la poesia ha un ruolo determinante, e al poeta va tributato un religioso rispetto (che il poeta deve guadagnarsi resistendo alle tentazioni del successo e della fama: “Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta/ Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi/ Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare/ La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici./ Ma degli amici no”.

La coerenza di Jeffers non è forse stata così totale come le sue stesse parole chiederebbero, altrimenti non saremmo qui a parlarne: il mio problema con lui non è però questo, non ho il diritto di essere così integralista. Il problema sta nel fatto che la sua poesia, pure così chiara e diretta, lascia comunque spazio sia a interpretazioni forzate (il Bukowski di cui sopra) sia ad una degustazione puramente “estetica”, per amanti dei sapori forti. Chiama insomma ad essere testimoni passivi del naufragio, o addirittura a compiacersi della violenza delle onde. E non sono del tutto sicuro che nel profondo Jeffers la pensasse davvero così: probabilmente delle onde aveva anche paura.

Una curiosità: Jeffers è quasi omonimo di un altro letterato ambientalista, appartenente però alla tradizione inglese, Richard Jefferies, grande camminatore, naturalista ed esploratore delle campagne britanniche, nonché autore di un romanzo post-apocalittico, “Dove un tempo era Londra” (1885. cfr. il mio Pensare con i piedi). Quest’ultimo immagina che dopo una improvvisa catastrofe, della quale non viene precisata la natura, il paesaggio inglese venga riconquistato dalle foreste, che si mangiano tanto la campagna quanto le strade e le città, e Londra sia ridotta ad una palude venefica. Non so se Jeffrers l’abbia mai letto, non mi risulta che lo abbia citato, ma credo che questa prospettiva gli sarebbe piaciuta.

Tre manifesti 03

Mi sono soffermato a lungo su Jeffers perché gli estensori del manifesto del Dark Mountain Project non si sono sforzati molto: hanno ripreso pari pari la sua visione, aggiornandola alle attuali emergenze ambientali, economiche e politiche. In effetti avevano solo l’imbarazzo della scelta. Cerco comunque di riassumere il loro testo attraverso i passi più significativi.

Il Manifesto parte appunto dalla presa d’atto delle radicali trasformazioni in corso:

Tutt’intorno a noi avvengono cambiamenti che suggeriscono come il no stro modo di vivere stia già passando alla storia. Stiamo cadendo. Viviamo in un’epoca nella quale i limiti cui siamo abituati stanno scomparendo, e le nostre fondamenta ci vengono strappate da sotto i piedi. Dopo un quarto di secolo di noncuranza, durante il quale siamo stati spinti a credere che la bolla non sarebbe mai esplosa, i valori mai crollati, ecco la fine della storia … La Hybris ha ora la sua Nemesi. […] Una storia a noi familiare si sta concludendo. È la storia dell’impero che crolla dall’interno. È la storia di un popolo che ha creduto, per molto tempo, che le proprie azioni non avrebbero avuto conseguenze. È la storia di come quel popolo dovrà fare i conti con la fine del proprio mito. È la nostra storia.

Mentre scriviamo queste righe, nessuno può dire con certezza quando finirà lo sfaldarsi del tessuto finanziario e commerciale della nostra economia. Nel frattempo, fuori dalle metropoli, lo sfruttamento industriale incontrollato sgretola le basi materiali della vita di moltissime parti del mondo, e grava sul sistema ecologico che la sostiene.”

Vengono poi messi in discussione i plinti di fondazione della civiltà:

“La civiltà umana è una costruzione particolarmente fragile. È costruita su poco più che una semplice convinzione: la certezza che i propri valori siano quelli giusti; la fede nel suo sistema di leggi e ordine; la fede nella sua valuta; ma al di sopra di tutto, probabilmente, la fede nel suo futuro.”

Queste convinzioni sono state riassunte e rielaborate, soprattutto nel mondo occidentale, in una narrazione mitologica che ha come protagonista il progresso. La storia di questa mitologizzazione passa attraverso successive declinazioni dell’utopia razional-capitalistica:

“Sulle radici della cristianità occidentale, l’Illuminismo all’apice del suo ottimismo ha innestato una visione del paradiso terrestre, cui le gesta umane, guidate da calcolo razionale, potranno condurci. Grazie a questa guida, ogni generazione vivrà una vita migliore di quella che l’ha preceduta. La storia diventa un ascensore, e l’unica via possibile è verso l’alto. All’ultimo piano c’è la perfezione umana: è fondamentale che questa rimanga fuori portata quel tanto che basta al fine di sostenere l’illusione del moto.”

La storia recente, invece, ha dato un duro colpo a questo meccanismo.

“Il progresso ha, in molti modi, fallito nel suo tentativo di produrre benessere. Le generazioni di oggi sono evidentemente meno soddisfatte, e di conseguenza meno ottimistiche, di quelle che le hanno precedute. Lavorano di più, con meno garanzie, e hanno meno possibilità di lasciarsi alle spalle il contesto sociale nelle quali sono nate. Hanno paura del crimine, del collasso della società, dello sviluppo incontrollato e della catastrofe climatica. Non credono che il futuro sarà migliore del passato.”

E allora? Allora “è tempo di cercare nuovi percorsi e nuove storie, che ci conducano attraverso la fine del mondo per come lo conosciamo, fuori da esso. Pensiamo che mettendo in discussione le fondamenta della civilizzazione, il mito della centralità umana, il nostro immaginario isolamento, possiamo trovare i principi di questi percorsi.

Questo è il Dark Mountain Project. Inizia qui.”

Tre manifesti 04

Uno si aspetterebbe a questo punto lo spiegone che illustra le virtù della nuova società darkiana e indica le vie per instaurarla. Ma rimane deluso. La caduta di tono è repentina e ridimensiona drasticamente le aspettative.

“Dove finirà? Nessuno lo sa. Dove condurrà? Non ne siamo certi. La sua prima incarnazione, avviata assieme a questo manifesto, è un sito web, che indica la strada per i campi. Conterrà riflessioni, scarabocchi, schizzi, idee; lavorerà sull’Incivilizzazione, e inviterà, chiunque verrà, ad unirsi alla discussione.

Gli estensori del manifesto sembrano aver esaurito le forze e le idee nell’anamnesi: per la terapia tagliano corto e si affidano agli otto principi fondamentali dell’“incivilizzazione”.

  • Viviamo in un tempo di disfacimento sociale, economico ed ecologico. Attorno a noi si affollano le avvisaglie che il nostro intero modo di vivere sta già passando alla storia. Affronteremo con franchezza questa verità e impareremo a conviverci.
  • Rifiutiamo la fede nell’idea che le crisi convergenti dei nostri tempi possano essere ridotte a un insieme di ‘problemi’ bisognosi di ‘soluzioni’ tecnologiche o politiche.
  • Crediamo che le radici di queste crisi si trovino nelle storie che ci siamo raccontati. Intendiamo mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà: il mito del progresso, il mito della centralità umana e il mito della nostra separazione dalla ‘natura’. Tali miti sono ancor più pericolosi poiché abbiamo dimenticato che lo sono.
  • Vogliamo riaffermare il ruolo della narrazione come qualcosa di più di un mero intrattenimento. È attraverso le storie che intessiamo la realtà.
  • Gli umani non sono il senso e lo scopo del pianeta. La nostra arte avrà inizio con il tentativo di porsi al di fuori della bolla umana. Con prudente attenzione rientreremo in contatto col mondo non umano.
  • Vogliamo celebrare la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo. La nostra letteratura è stata troppo a lungo sotto il controllo di coloro che abitano le cittadelle cosmopolite.
  • Non ci perderemo nell’elaborazione di teorie o ideologie. Le nostre parole saranno elementari. Noi scriviamo con lo sporco sotto le unghie.
  • La fine del mondo per come lo conosciamo non è la fine di tutto il mondo. Insieme troveremo la speranza oltre la speranza, i percorsi che conducono al mondo sconosciuto davanti a noi.

Vediamo allora di ricapitolare. Né Jeffers né tantomeno gli autori del manifesto della Montagna Nera dicono qualcosa di realmente nuovo. Rientrano come già dicevo nella tradizione apocalittica di matrice biblica, che in America, dai Padri pellegrini in poi, ha trovato espressione in una miriade di sette millenariste. La novità sta semmai nel fatto che non contemplano una via di fuga, un eskatòn, ma predicano il ritorno e la resa incondizionata alle leggi di natura. Il legame più diretto, segnatamente per Jeffers, è con i trascendentalisti: come questi ultimi ritiene che l’unica via praticabile dall’uomo per riconciliarsi con se stesso sia quella estetica: nel confronto estetico con la Natura, dinanzi alla sua Bellezza, l’uomo ritrova la propria dimensione spirituale (“Un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti” scriveva Walt Whitman): ma, a differenza che per i trascendentalisti, l’infinita varietà della natura e delle sue forme lo rende anche consapevole della propria irrilevanza e della transitorietà della specie umana. Non lo lascia estatico, ma sgomento e arrabbiato.

Su questa tradizione s’innestano via via, a partire dalla fine dell’Ottocento, da un lato il buddismo importato d’oltreoceano (Pacifico) e rivisitato all’americana (ovvero accentuandone l’individualismo e spettacolarizzandone la ritualità), dall’altro gli echi del pensiero filosofico post-nietzschiano che giungono dall’Europa (il poema Cawdor di Jeffers è pubblicato dieci anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler e arriva un anno dopo Essere e tempo di Heidegger). Il tutto dà origine a un singolare e contradditorio miscuglio di religiosità biblica e di sentire panteistico, di misticismo e di nichilismo, di umiltà professata e di presunzione di sé praticata.

Il fatto è che gli americani non hanno alle spalle una storia “profonda”, e tantomeno una mitologia originaria di fondazione. Hanno dovuto reinventarsene una, adattando alla nuova situazione la narrazione biblica, per giustificare il possesso di terre espropriate ad altri (il mito della frontiera) e trovare conferma ad una concezione assolutamente individualistica della libertà. Per questo sono i maggiori mitopoieti dell’età moderna e si esprimono con un linguaggio enfatico che trova supporto nelle nuove modalità espressive, a partire dal cinema (dove un incidente stradale non può vedere coinvolti e distrutti meno di dieci veicoli e una sparatoria non può durare meno di un quarto d’ora). Enfatizzano alla stessa maniera infantile i sentimenti, le tragedie, la malvagità, il coraggio, e ogni aspetto della quotidianità.

Per lo specifico del nostro discorso è esemplare il caso della Tor House, la dimora in pietra di Jeffers, divenuta meta di pellegrinaggio per i suoi ammiratori. In fondo Jeffers ha fatto solo ciò che milioni di pionieri avevano fatto prima di lui, senza peraltro vedere in ogni blocco angolare la mano di Dio. La vita sobria e appartata (sino ad un certo punto) che vi conduceva rimandava a sua volta all’esperienza naturistica di Thoreau, alla capanna che quest’ultimo aveva costruita con le proprie mani nei boschi di Concord e nella quale aveva dimorato per due anni, due mesi e due giorni. Quella capanna è diventata, attraverso le pagine di Walden, l’icona della scelta di una vita rude e solitaria, quando nella realtà non distava più di un miglio dal villaggio (Thoreau avrebbe potuto benissimo andarci a piedi ogni mattina per bere un caffè alla locanda). Entrambe queste esperienze sono state trasmesse dai protagonisti già circonfuse di un’aura ascetica e sapienziale, e come tali sono state poi consacrate dai lettori–spettatori.

Ci insisto perché so di cosa parlo. Anch’io ho costruito un capanno con le mie sole mani (senz’altro più ampio della dimora di Thoreau), e ho tirato su lì attorno decine di metri di muri a secco e posato rustiche pavimentazioni, ma non ho sentito in alcuna delle pietre che sistemavo la presenza di Dio (al più ho visto qualche volta la Madonna, quando mi scivolavano su un piede o al termine di giornate particolarmente faticose). Né ho ritenuto di celebrare poeticamente o filosoficamente la cosa: ho scritto una paginetta sulle origini del capanno solo perché legate ad un aneddoto che mi sembrava divertente. E soprattutto, la bellezza della natura circostante che mi fermavo ad ammirare nelle pause-sigaretta non mi ha mai indotto recriminazioni o violenza: mi ispirava anzi allora e continua oggi ad ispirarmi la determinazione a contaminarla il meno possibile. Sentivo di farne parte comunque, anche quando lavoravo sotto la pioggia o nelle giornate più roventi o afose.

Si sarà capito che ho scarsa simpatia per tutto ciò che puzza di cornici messe alle finestre per dire che sono quadri (in questo caso l’immagine si attaglia perfettamente). Per avere davvero un senso e una credibilità certe situazioni o vicende dovrebbero essere vissute come normali, non è il caso di scomodare l’epos. E lo stesso vale per le idee: non è certo l’incarto nuovo a renderle originali, ha semmai un valore riconoscerne i percorsi pregressi. Il tema dell’equivoco di fondo nel nostro rapporto con la natura era già centrale in Leopardi, sfrondato di ogni verniciatura mistica e pretesa epica; quello della necessità di reintegrarsi in essa stava alla base, oltre che del trascendentalismo americano, dei movimenti proto-ecologici fioriti anche in Europa, principalmente in Germania, agli inizi del Novecento (ma ben prima ancora era presente in Rousseau); le perplessità nei confronti della tecnica, e soprattutto dell’uso che l’uomo tende a farne, erano manifestate da quasi tutti gli scrittori di fantascienza venuti dopo Verne, da Robida a W.H. Hudson a Wells; le prospettive di degenerazione della democrazia erano state già lucidamente indicate da Tocqueville, le colpe del colonialismo e le ipocrisie della cultura occidentale denunciate da Conrad.

Insomma, tutte queste cose Jeffers non le ha spinte solo alle estreme conseguenze, ma le ha condotte in un vicolo cieco, travisando tra l’altro il succo del pensiero dei suoi ispiratori. Thoreau scriveva infatti: “Si dice che la civilizzazione è un reale progresso nella condizione dell’uomo – e io sono convinto che lo sia, anche se solo i saggi migliorano i loro vantaggi”). Jeffers non ne era evidentemente altrettanto convinto, avrebbe piuttosto condiviso con Cioran e con i professionisti del pessimismo l’idea che l’uomo è un intruso, un tragico errore dell’evoluzione, al quale la natura porrà rimedio. Vien da dire, come alla moglie del vescovo Wilberforce a proposito della nostra “discendenza” dalle scimmie: magari è proprio così, ma almeno non facciamolo sapere troppo in giro.

Gli odierni estimatori di Jeffers si fermano un po’ prima. Cercano la speranza oltre la speranza, vale a dire oltre quel poco o nulla cui oggi la scienza e la tecnologia ci consentono di guardare nella ricerca di una improbabile salvezza. E non riescono a trovare di meglio che “mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà e restituire l’agire artistico a una pratica ‘incivilizzata’”. Nel fare ciò arrivano quantomeno in ritardo, da almeno un secolo la demolizione dei miti della modernità è diventata lo sport intellettuale più praticato. Se poi gli strumenti di demolizione sono la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo (e cioè?) e praticate con lo sporco sotto le unghie da novelli costruttori di nuraghi, allora le generazioni di oggi hanno tutte le ragioni di non credere che il futuro sarà meglio del passato.

Tre manifesti 05

A questo punto può sembrare non valesse la pena prendere così sul serio il manifesto del progetto della Montagna Nera (e magari anche la poesia di Robinson Jeffers). Non è così. Il documento sarà pure patetico, non fosse altro per la sproporzione tra lo scenario apocalittico che dipinge e la miseria delle soluzioni che propone, ma fotografa perfettamente un atteggiamento molto diffuso nei confronti di un tema come quello della sopravvivenza della civiltà occidentale e, in seconda battuta, della specie umana (intendo quello più diffuso tra chi il problema se lo pone, perché in realtà la maggioranza dà l’impressione di non porselo affatto).

Al fondo di questa disposizione negativa sta una vocazione generalizzata al “risentimento”. Anche se nello specifico degli ambientalisti radicali alla Jeffers potrebbe sembrare il contrario, il loro è né più né meno l’atteggiamento di chi si ritiene perennemente in credito nei confronti della vita e del resto dell’umanità. Avremmo la possibilità di vivere in armonia con la natura, dicono, semplicemente accettandone tutte le leggi, anche quelle che ripugnano alla nostra ipocrita morale “civilizzata”: ma qualcuno o qualcosa ce la sta negando. Come in ogni situazione di crisi occorre identificare i responsabili (i capri espiatori di cui parla René Girard), e responsabili sono naturalmente sempre “gli altri”. Una volta poi individuato quel qualcuno o qualcosa su cui scaricare ogni colpa, ci si può sentire sdegnosamente innocenti. Si è compiuto il proprio dovere di Cassandre, Troia può ora tranquillamente bruciare. Nel nostro caso i capri espiatori sono, secondo una crescente scala di “consapevolezza” dettata dalle singole condizioni culturali ed esistenziali, le multinazionali, i “poteri forti”, il capitalismo, ma soprattutto la civilizzazione occidentale nel suo complesso; e l’imputazione è quella di aver sacrificato al proprio dominio l’armonia del cosmo e la libertà degli umani. Il perno di questa operazione di conquista essendo identificato nella razionalità, la soluzione è quella di liberarsi dai vincoli di quest’ultima. La vittima vera del “sacrificio rituale” che dovrebbe ristabilire gli equilibri, ripristinare l’armonia del cosmo violata, è dunque la ragione.

Non sono stato sconvolto dalla lettura del Manifesto, si tratta di cose trite e ritrite; ma ho avuto la conferma che questo modello di pensiero, a diversi livelli di articolazione, è ormai dominante nella maggioranza. Le tesi che gli estensori del documento banalizzano, e cioè che la civilizzazione, intesa nella sua accezione occidentale, sta portando il mondo allo sfascio, che il progresso scientifico e lo sviluppo tecnologico sono gli strumenti per imporre questo dominio e che le istituzioni democratiche sono la foglia di fico dietro la quale questo dominio si nasconde, sono le stesse sostenute con argomentazioni più complesse e raffinate da una élite culturale agguerrita, che opera al di qua e al di là dell’Atlantico e trova i suoi teorici più accreditati in pensatori come Foucault, Agamben, Negri, Severino, ecc. L’influenza di questa élite sul sentimento delle grandi masse non è naturalmente diretta, arriva attraverso la mediazione semplificatoria e spesso distorcente operata dai suoi epigoni telegenici alla Fusaro o alla Massimo Fini, da comici o da giornalisti in fregola di presenzialismo, da moderni Masanielli in cerca di una qualsiasi tribuna e da politici scafati pronti a saltare su ogni cavallo di passaggio: ma comunque arriva, si innesta su quel risentimento populista confuso e diffuso cui accennavo sopra e a giustificare il quale si parla genericamente di un “disagio” (che esiste davvero, ma è appunto soprattutto mentale, legato alla paura di fronte ad una complessità che appare incomprensibile).

In cosa si traduce questo risentimento? Lo vediamo quotidianamente, lo sentiamo tutt’attorno a noi: nella rabbia indiscriminata verso tutti, nel rifiuto di ogni responsabilizzazione, nel negazionismo pervicace, nella crescita del massimalismo che si accompagna alla volubilità nelle scelte politiche, nella rincorsa costante ai diritti e nella negligenza sui doveri, nell’irrisione delle competenze e nell’esaltazione dell’ignoranza “democratizzante”, nella sfiducia nei confronti della scienza e nella credulità superstiziosa, ecc… E poi ci sono altri sintomi che andrebbero colti, meno clamorosi ma non meno inquietanti.

Un banale esempio può valere per tutti. Negli ultimi mesi avrò visto cinquanta servizi sulle innumerevoli specie animali in estinzione, dal leopardo delle nevi alle foche monache e ai pesci del lago nel deserto, ma non uno sulle guerre che si stanno combattendo ad esempio nel sud-Sudan (oltre 80.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati), o nello Yemen. Direi che l’antropocentrismo contro il quale tuonava Jeffers è ampiamente superato, anche se ha lasciato il posto ad una consapevolezza pelosa, che tende piuttosto a escludere l’uomo dalla natura anziché includerlo. L’animalismo ha preso pieghe grottesche (lo psicologo per cani e gatti) e ha spinto fino all’assurdo quella negazione delle differenze che nell’interpretazione corretta era stata uno dei cardini della modernità.

Ma non è tutto. Ultimamente il dibattito sulle intelligenze non umane si è allargato a considerare, oltre quelle animali, anche quelle delle piante. A presto una carta dei diritti vegetali, e i decespugliatori saranno messi fuorilegge.

In compenso l’elenco delle specie a rischio prossimo di estinzione si allunga: ci siamo dentro anche noi. E non per eventi naturali, ma per suicidio da decerebrazione. Finisce cha il presagio di Jeffers si avvera.

Tre manifesti 06

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Tre manifesti 07a

Se la lettura del manifesto Dark Mountain mi ha solo un po’ infastidito, quella di “Contro il Grande Reset. Manifesto del grande risveglio” di Alexander Dugin mi ha lasciato perplesso e preoccupato. Perplesso perché si tratta di un documento decisamente rozzo, o che almeno appare tale in una traduzione che deve essere stata affidata ad un dispositivo digitale o ad un ubriaco, senza più essere rivista nelle bozze. Voglio credere che lo standard delle opere di Dugin sia diverso, altrimenti c’è da chiedersi cosa ci hanno trovato gli “intellettuali” italiani e francesi che da anni lo frequentano (va bene, uno è il solito Fusaro, ma anche Alain de Benoit è un suo assiduo). Probabilmente l’operazione di lancio è stata montata in tutta fretta, per sfruttare l’onda della visibilità offerta a Dugin dall’attentato nel quale è rimasta uccisa la figlia, ma già il testo originale era indubbiamente sbozzato con l’accetta. In copertina è anche annunciata una introduzione di Stefano Borgonovo, che evidentemente è poi saltata, per l’urgenza di mettere on line il documento o per qualche ripensamento del vicedirettore de “La verità” (ho dei dubbi: uno che scrive su “La verità” difficilmente si fa degli scrupoli); o forse più semplicemente perché c’era poco da spiegare.

Ed è proprio questo che mi preoccupa, perché le idee di Dugin, ancorché deliranti, sono terribilmente chiare (nel senso, naturalmente, che persino Borgonovo può intenderle), e l’argomentazione segue una logica elementare di contrapposizione tra cultura occidentale e “idea russa” (o, come vedremo, “eurasiatica”), nell’ottica di un dissolvimento della prima e di un trionfo della seconda. Che tanti occidentali, con una schiera di intellettuali in testa, trovino così affascinante questa idea mi porta a pensare che davvero il deragliamento sia già in corso.

Comunque, procediamo con ordine. Dugin adotta per la sua narrazione un percorso inverso a quello degli estensori del manifesto darkiano. Parte dalla situazione attuale, fa un salto indietro per andare alle origini di quello che definisce un “progetto di globalizzazione e disumanizzazione” e seguirne il percorso nel tempo e analizza infine gli strumenti per contrastarlo (tra i quali non è affatto prevista la poesia). Dal momento che lo fa molto sinteticamente, lascio il più possibile a lui la parola.

L’esordio è da grande complotto. Prende le mosse dal “Great Reset”, un piano che intendeva sfruttare le restrizioni in tempo di Covid per digitalizzare i processi produttivi e le attività sociali, sottoscritto a Davos dal principe di Galles, l’attuale Carlo III d’Inghilterra (il libello è stato scritto prima della scomparsa di Elisabetta, durante l’ultima emergenza pandemica, e non è stato aggiornato), nel quale si delineavano le strategie per avviare un futuro sostenibile.

Tre manifesti 07Nell’interpretazione di Dugin queste strategie sono intese in realtà solo a puntellare l’ordine esistente. “L’idea principale del Great Reset è la continuazione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti”. Gli obiettivi di fondo del diabolico disegno possono essere riassunti in:

  • Controllo della coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della “cultura dell’annullamento” — l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
  • Transizione a un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture industriali (punti 2 e 5);
  • Ingresso dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

Adesso sappiamo (più o meno) cos’è il Great Reset. Ma come si è arrivati a programmarlo? E chi c’è dietro? Lapalissiano: “Leader mondiali e capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri”. Il povero Carlo è quindi solo un prestanome, anche se in verità la famiglia reale inglese è chiamata volentieri in causa dagli smascheratori di complotti mondiali. Paga ancora il fio del colonialismo ottocentesco e dell’imperialismo del secolo scorso.

La prima mossa dell’offensiva globalista scatenata “dopo una serie di fallimenti” (l’11 settembre, l’elezione di Trump, il pasticcio afgano, ecc…) è stata la vittoria di Biden, che “ha strappato la vittoria a Trump utilizzando le nuove tecnologie, attraverso la ‘cattura dell’immaginazione’, l’introduzione della censura su Internet e la manipolazione del voto per corrispondenza.” Ma come abbiamo visto il globalismo aveva già approfittato dell’occasione offerta dalla pandemia. Infatti: “L’epidemia di Covid-19 è una scusa. Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale”.

Nello scacchiere geopolitico il piano si muove attraverso “una combinazione di ‘promozione della democrazia’ e ‘strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta scala’”. A tal fine “i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica) si coniugano con l’affermarsi di una politica militare aggressiva”.

La parte più intrigante del “Manifesto” arriva però adesso:

Per capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il ‘nuovo’ corso di Washington per il Great Reset, bisogna guardare l’intera storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.

Le radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi: alcuni riconoscevano l’esistenza del comune (specie, genere, universalia), mentre altri credevano solo in certe cose concrete — individuali, e interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione convenzionali puramente esterni, che rappresentano ‘suono vuoto’. Coloro che erano convinti dell’esistenza del generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di Aristotele. Vennero chiamati ‘realisti’, cioè coloro che riconoscevano la ‘realtà di universalia’. Il rappresentante più in vista dei ‘realisti’ era Tommaso d’Aquino e, in generale, era la tradizione dei monaci domenicani. I fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati ‘nominalisti’, dal latino nomen . La pretesa — ‘le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” ‘— risale proprio a uno dei massimi difensori del ‘nominalismo’, il filosofo inglese William Occam.”

Il progetto ha avuto dunque una quasi millenaria gestazione. Non è figlio della “modernità”, ma piuttosto della “occidentalità”. È nato già con lo “scisma d’Oriente” che nel 1054 ha lacerato la vecchia cristianità (e peraltro anche prima della nascita della Russia).

Sono interessanti le ascendenze che Dugin identifica. La modernità è per lui figlia del francescanesimo, un ordine religioso e un atteggiamento spirituale sempre prossimo alla devianza ereticale – e viene poi presa in carico e affermata dalle sette protestanti. È una lettura genealogica molto rozza, perché non distingue tra luteranesimo, puritanesimo e anabattismo, e non considera il fatto che gli anti-globalisti americani, quelli che più oltre identifica come i “resistenti trumpisti”, sono per lo più animati proprio dalla una fedeltà allo spirito originario del protestantesimo (pietisti, moravi, quaccheri, soprattutto anabattisti e mennoniti-amish, ecc) e arrivano da gruppi religiosi ultra-conservatori. Attribuisce inoltre alla chiesa ortodossa orientale, quella che fa capo al metropolita di Mosca, il merito di aver opposto la maggior resistenza al “nominalismo”. E in questo ha invece pienamente ragione.

Dugin si lancia poi in una cavalcata storica che copre quasi un millennio e chiarisce tutti i nodi fondamentali. “Il ‘nominalismo’ ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite.

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica del New Age (sic: immagino intenda dell’Era moderna) — nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

[…] La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione. L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor più dall’ortodossia), è stata sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Ciò ha creato un gran numero di sette protestanti controverse.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come ‘identità collettiva’ (qualcosa di ‘comune’), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti. La gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da indefiniti ‘cittadini’, secondo il significato originario della parola ‘borghese’. La borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea. Ma il borghese era esattamente il miglior ‘individuo’, cittadino senza clan, tribù, professione, ma con proprietà privata.

Fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero Romano d’Occidente, quale altra espressione di ‘identità collettiva’. Al suo posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una specie di ‘individuo politico’.

[…] La filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al liberalismo.

Il senso della storia e del progresso era ormai di ‘liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva’ fino al limite logico.

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Per tutto questo periodo il processo di globalizzazione ha proceduto lineare, ovviamente nei limiti consentiti dalle resistenze opposte dal vecchio mondo. La rivoluzione scientifica e quella industriale ne sono stati la mente e il braccio, e anche i grandi sconvolgimenti politici e sociali, le rivoluzioni inglese, americana e francese, rientravano nel disegno, anzi, ne hanno accelerato l’esecuzione. Le cose si sono invece complicate a partire dal secolo scorso.

[…] Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale. Questa strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore del comunismo), furono vinte [? Nell’originale sarà ‘vinsero’] le rivoluzioni proletarie.

Parallelamente ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze nazionaliste estreme. Hanno agito in nome della “nazione” o di una “razza”, sempre contrastando l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato, come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente. Ma erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Lo capirono chiaramente i teorici del liberalismo (Hayek e il suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di ‘nemici della società aperta’, e iniziarono con loro una guerra mortale “.

Da questa guerra nel corso del Novecento sia il comunismo che i fascismi sono usciti sconfitti. Per questo: “Negli anni ‘90, i teorici liberali iniziarono a parlare della ‘fine della storia’. Questa è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più avanzata: la fase del globalismo. L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori occidentali avevano vinto su scala globale.”

[…] “A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Innanzitutto il genere. Dopotutto, il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile. Quindi il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile. Gli oppositori esterni hanno ostacolato la politica di genere: quei paesi che avevano ancora i resti della società tradizionale, i valori della famiglia, Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista.

Con il successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso divenne ovvio che ai liberali restava un ultimo passo da fare: abolire gli esseri umani.

Dopotutto, l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere superato, abolito, distrutto. Questo è ciò che richiede il principio del nominalismo: una ‘persona’ è solo un nome, privo di qualsiasi significato, una classificazione arbitraria e quindi sempre discutibile. C’è solo l’individuo — umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Pertanto, l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato secoli verso il loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica. L’umano opzionale segue logicamente il genere opzionale.

[…] “Questa agenda è già prefigurata dal postumanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando ogni giorno più realistica. Futurologi e fautori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo futuro quando l’intelligenza artificiale diventerà paragonabile nei parametri di base agli esseri umani. Questo momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro dieci o vent’anni.”

Questa la trama. Lo schizzo storico che Dugin abbozza non è poi, per quanto sbrigativo, del tutto peregrino. Voglio dire che le cose sono andate grosso modo così, anche se poi Dugin legge l’accaduto con occhiali deformanti. E non è nemmeno particolarmente originale. Pesca un po’ dovunque nel pensiero occidentale, da Max Weber a Hegel fino a Heidegger e ai postmoderni più radicali, e cuoce il pescato nella pentola della tradizione slavofila. In sostanza, partendo dai danni reali che la civilizzazione occidentale ha prodotto, in parte come effetti collaterali indesiderati, in parte come distorsioni intrinseche alle scelte fatte – danni che stiamo scontando pesantemente, e che la cultura occidentale più consapevole ha comunque sempre denunciato – arriva a metterne in discussione tutto l’impianto. Che è più o meno quanto faceva Jeffers e quanto predicano i militanti della Montagna Nera, con la differenza però che Dugin prospetta una cura molto peggiore della malattia.

La cura è il “Grande Risveglio”. Che procede per gradi, con velocità diverse nelle diverse parti del mondo, ma già è visibile.

Riassumendo il quadro completo della situazione attuale Dugin ammette: “In effetti le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei ‘diritti umani’, le norme della ‘società civile’, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in particolare la tecnologia digitale — sono stati in qualche modo affermati in tutta l’umanità”.

Ma la storia non è affatto finita. La madre di tutte le battaglie deve essere ancora combattuta.

Il Great Reset ‘non è niente di meno che l’inizio dell’‘ultima battaglia’. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, appaiono a se stessi come ‘guerrieri della luce’, portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica, alle masse.

Tutti coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, ‘forze delle tenebre’. Così inizia a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso. I nemici della ‘società aperta’ ora sono comparsi all’interno della stessa civiltà occidentale.

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Sono immagini che, ribaltando un po’ (ma non troppo) i ruoli delle forze in gioco, evocano Il signore degli anelli e Guerre stellari, e ho l’impressione che soprattutto al primo siano debitrici (Tolkien è in fondo un alfiere della conservazione, anche se le ‘forze del male’ per lui venivano da Oriente). In realtà comunque i nemici della ‘società aperta’ non sono comparsi all’improvviso. Erano già presenti da un pezzo, ma si muovevano a ranghi sconnessi, senza avere un’idea ben precisa della natura vera dell’avversario, delle strategie da perseguire e degli obiettivi cui mirare. “Erano quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli statinazione e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata ‘populismo’ (o ‘populismo di destra’), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi ‘valori’ e ‘punti di riferimento’ nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo senso.

Certo, i campioni di questa resistenza non brillavano per la ricchezza del loro bagaglio culturale o per la finezza delle loro proposte, ma avevano il pregio di coinvolgere attivamente quelle masse popolari che il globalismo stava cloroformizzando:

“Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla nemmeno vicino al ‘prosciugare la palude’ e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante ciò, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance e Big Tech inseparabili da loro.”

In realtà: “Trump non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

[…] La forza trainante della mobilitazione di massa dei ‘Trumpists’ è diventata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.”

Per Dugin il fattore davvero importante e decisivo per il passaggio da una strategia di resistenza ad una di attacco è rappresentato proprio dall’emersione nel cuore nell’Occidente di un “nemico interiore”, dal quale “la storia degli ultimi secoli con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali è messa in discussione”.

Torna anche a sottolineare ripetutamente l’esistenza di un fronte esterno che si sta compattando, e che va dalla Russia di Putin alla Cina (Pechino ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà), al mondo islamico (nel quale tanto l’Iran sciita quanto la Turchia e il Pakistan sunniti hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione), all’Africa (sia quella mediterranea che quella subsahariana), e che comincia a coinvolgere anche l’India e il Sudamerica: ma ciò che davvero lo conforta nella sua visione è la nascita di un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.

Questo dualismo si fa strada anche nell’ambito intellettuale: “Sul piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accettato le paradossali conclusioni della postmodernità e del realismo speculativo”.

Ma bada a non insistere troppo su questo piano: “Il Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le masse, le persone in quanto tali. E il risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica. È una reazione spontanea delle masse, poco competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più spazio per le persone in futuro.

D’altro canto, quando deve citare qualche “autorevole” intellettuale schierato contro il Great Reset sembra in difficoltà. Si limita a dire che “Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Lo stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde”. Oppure cita Pat Buchanan, Richard Weaver e Russell Kirk, degli illustri carneade, o Alex Jones, che ha il solo merito di aver coniato lo slogan del “grande Risveglio”.

In realtà il materiale non gli mancherebbe, potrebbe pescare persino in Italia, ma preferisce insistere sul carattere spontaneista, genuino e popolare (o populista, termine che usa in una accezione positiva) del movimento: “La tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della protesta. Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza della sua fine imminente”.

Arriva ad ammettere che “Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non è affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi storica approfondita. Come abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti Trumpist e i partecipanti a QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel. La cospirazione è una malattia infantile dell’antiglobalizzazione. Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale. Nasce così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione liberale”.

Consapevole o meno (certo è difficile parlare di consapevolezza in presenza di QAnon), il Risveglio è comunque tangibile. E anzi, è favorito proprio dal sostrato povero ma genuino di cui si nutre:

Liberati da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno. Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali di portare a termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.”

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L’ultima parte del libello è dedicata alle prospettive di tradurre questa resistenza in vittoria.

“Il Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è nemmeno iniziato. Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, è di grande (forse cruciale) importanza.

Se c’è chi proclama il Grande Risveglio, per quanto ingenue possano sembrare le loro formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta maturando un nocciolo di resistenza, che cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Great Reset e i suoi seguaci. Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità. È l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e sulla direzione del futuro.

Ma andando poi sul concreto, Dugin deve ammettere che: “Naturalmente, il Grande Risveglio è completamente impreparato. Negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo. Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e comunisti sono state recentemente rilevate dai liberali e riorientate dal condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari”. Questo si chiama vederci chiaro.

Allo stesso modo “La destra, d’altra parte, è confinata nei suoi stati-nazione e nelle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione disperata.

Quindi c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica. Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse nei tempi moderni nello stesso Occidente.

Qualcosa di totalmente inedito, insomma. E tanto per cominciare questo qualcosa ha da scavalcare le logiche di contrapposizione bi- o tri-polari:

Per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità. Questa non è solo la salvezza dell’‘Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.”

In questa prospettiva l’esito dell’inevitabile confronto finale si rivela molto meno incerto. Una rapida carrellata su quelli che potrebbero diventare i poli del Grande Risveglio ribalta i rapporti di forza.

Si parte naturalmente dagli Stati Uniti, che sono già oggi essenzialmente “in uno stato di guerra civile. Sebbene lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori – 70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano preso la dittatura liberale come un dato di fatto. Sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di diventare illegali, ma un’opposizione di 70.000.000 di persone è seria”.

Pertanto: “Non importa come ci sentiamo nei confronti degli Stati Uniti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio. Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro compito comune”.

Si passa quindi all’Europa. “L’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due parti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, distruttori della cultura europea e becchini della classe media. Allo stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, a volte contraddittorie e frammentarie.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici: il definitivo superamento del confine tra Sinistra e Destra (cioè il rifiuto obbligato dell’‘antifascismo’ artificioso di alcuni e di ‘anticomunismo’ inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo integrale – in un modello ideologico indipendente”.

Per quanto concerne la Cina, “ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società. Ma non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva. L’individualismo cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale. La civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura su tutta l’individualità.”

Un grande serbatoio dal quale attingere odio antiglobalista è l’Islam. “Durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso assume questa missione. In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla globalizzazione liberale.” D’altro canto: “Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme.”

Infine: “Il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia (nessuno ne dubitava). Nonostante la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti dell’Occidente.

L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il passato ne era solo una preparazione. E in questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al liberalismo, la peste del ventunesimo secolo.

La Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo. L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico. Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale fissata nel nostro destino storico.”

Questa è la nostra missione: essere il katechon, ‘colui che trattiene’, impedendo l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali. Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano, africano… e europeo.

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Che dire? Il testo si commenta da solo (anche la foto sopra). Mi scuso se le continue e lunghe citazioni lo hanno reso di faticosa lettura, ma mi sembrava inutile parafrasare le argomentazioni di Dugin, dal momento che sono esposte già in maniera sintetica e tutto sommato abbastanza chiara. Mi limito pertanto ad aggiungere un’indicazione e un paio di osservazioni.

L’indicazione è per “L’idea russa”, di Bengt Jangfeldt, breviario indispensabile per chi volesse approfondire la storia profonda che sta dietro questo manifesto, a partire dal panslavismo ottocentesco. È un libro snello quasi quanto quello di Dugin, ma di ben altro “spessore”.

La prima osservazione riguarda l’uso o il non uso di determinati termini. In tutto il testo la voce Eurasia compare una sola volta. Eppure riassume l’idea di fondo di Dugin, per il quale la Russia è una realtà culturale e territoriale totalmente autonoma e sostanzialmente compatta, pur se insistente su due continenti diversi (i continenti sono una convenzione geografica). Forse non voleva forzare troppo la mano su questo concetto, che suppone un legame forte, sia culturale che storico-politico, con l’Oriente, e quindi una propensione espansionistica ed egemonica in quella direzione: cosa che non può suonare gradita né alla Cina né all’Islam, gli altri due grandi poli del Risveglio. Tra l’altro, in questo unico riferimento Dugin cita lo storico e antropologo Lev Nikolaevič Gumilëv (figlio di Anna Achmantova), che in realtà non attribuiva affatto al termine Eurasia un significato politico ma lo considerava solo un paradigma storiografico. Piuttosto, il riferimento a Gumilëv è significativo se si considera il concetto da questi coniato di ethnos, inteso come “un collettivo che si differenzia dagli altri per un proprio stereotipo comportamentale e contrappone sé stesso a tutti gli altri collettivi”. Definizione che si presta molto bene a spiegare l’idea che Dugin ha del popolo russo.

Un altro termine che nel testo non compare mai è razionalismo, pure aleggiando costantemente, sotto le specie del suo derivato applicativo razionalizzazione, dietro i progetti dei liberali globalizzanti. Credo che anche questa cosa abbia un senso: Dugin non vuole lasciare in appannaggio agli avversari il monopolio della ragione, e anzi tende a sottolineare la loro perversa devianza da quello che ne sarebbe un uso onesto e corretto: ma non può nemmeno farne la bandiera di un movimento che, per sua stessa ammissione, è nato ed è tuttora mosso da pulsioni irrazionali.

Allo stesso modo, non mette sotto accusa direttamente la scienza, se non per denunciarne l’uso criminale volto ad azzerare le coscienze e a sostituire l’uomo con un suo clone digitale. I richiami costanti all’impero e alla tradizione ortodossa non ne fanno un nostalgico reazionario, così come le strizzate d’occhio al trumpismo e a QAnon non ne fanno un complottista grossolano e ignorante: sono esche per la pesca a strascico, i primi ad uso interno, le seconde lanciate in acque internazionali: allo stesso modo in cui i riferimenti a Tommaso d’Aquino, ultimamente tornato di moda e non solo tra i teologi, lo sono negli ambienti culturali più all’avanguardia.

E ancora. Il termine “democrazia” compare nel testo sempre legato a “liberale”, in una accezione che l’aggettivo rende negativa, perché sta come “rappresentativa”. In luogo della rappresentanza democratica Dugin propone invece quella “comunitaria”: “L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Dugin ha in mente (altrove lo cita espressamente), il mir, l’assemblea di villaggio che nella Russia zarista gestiva tutti gli obblighi comunitari nei confronti dello stato, dalle esazioni fiscali al reclutamento per l’esercito. La rievoca a sostegno dell’immagine di un’identità russa che sino alla vigilia della prima guerra mondiale aveva resistito alle sirene della modernizzazione e dell’individualismo. L’idea che ha della democrazia non si scosta molto da quanto scritto da Massimo Fini – un intellettuale antisistema, come lui stesso si definisce – qualche settimana fa su “Il fatto quotidiano” (credo che i servizi russi di controinformazione abbiano sottoscritto l’abbonamento – e forse più di uno – al quotidiano di Travaglio):

Non credo alla democrazia rappresentativa (cfr. Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). Credo solo alla democrazia diretta, quella immaginata del ginevrino Rousseau. La democrazia esisteva quando non sapeva di essere democrazia. Nell’ancien régime l’assemblea del villaggio, formata da tutti i capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio.” Che è una ricostruzione di quanto avveniva nell’ancien régime piuttosto fantasiosa.

Quella di Fini è solo una delle tante voci – non certo tra le più autorevoli, ma che trova comunque un suo non trascurabile uditorio tra gli indignati a vita e una cassa di risonanza negli organi della “controinformazione” antiglobalista, pentastellata o meno – che propugnano come nuovo (o antico) modello di socialità il comunitarismo. La nebulosa comunitaria offre il migliore spaccato del mare ideologico interno all’Occidente nel quale Dugin può pescare. Di comune c’è in realtà solo la concezione di massima per la quale l’individuo esiste in virtù delle sue appartenenze culturali, etniche, religiose o sociali, ovvero della sua possibilità di creare comunità. Questa concezione può poi essere declinata in varie maniere, che vanno dall’integralismo cattolico all’anti-illuminismo della Nouvelle Droite fino alla ibridazione col marxismo, più rozza in Costanzo Preve e più articolata in Andrè Gorz: e ha forti implicazioni, oltre che sul piano del rapporto individuale con le istituzioni (il concetto di cittadinanza attiva e di partecipazione politica è molto simile a quello della pòlis greca), su quello etico (ad esempio, rifiuta l’aborto).

A questo si riferisce evidentemente Dugin quando parla di una quinta colonna antiglobalista che sgretola dall’interno la “civiltà” occidentale.

La seconda osservazione concerne ancora il tema degli “apparentamenti”. Mentre leggevo il manifesto di Dugin provavo una sensazione di déjà vu, e mi è tornato in mente qualcosa di molto simile in cui mi ero imbattuto diversi anni fa. Ho verificato poi che si tratta della prolusione ad una Conferenza Internazionale sulla Depressione (svoltasi nel 2004). L’autore era il cardinale Javier Lozano Barragán, che al termine di una carrellata ancor più sintetica di quella di Dugin sulla storia del pensiero occidentale arrivava a riassumere così la situazione attuale:

Non vi è unità ma solo frammentazione. La società si trasforma in gruppi di simboli, associazioni, movimenti. La solidità del partito politico, ‘della comunità, della nazione, sono così sostituiti.

L’uomo radicale professa un individualismo totale, possessivo e anarchico; si manifesta in una serie di negazioni: è antifamiliare, antimilitarista, anticlericale, antipartito, antistatale. Alla sua spontaneità attribuisce un valore assoluto, con le conseguenze socio-politiche della liberazione sessuale, dell’omosessualità, del femminismo, dell’aborto, del divorzio, della lotta contro i manicomi, contro le carceri, contro i concordati, per l’abolizione dell’insegnamento religioso, ecc. È l’uomo dell’anticultura radicale.”

Le diverse valutazioni che il cardinale dava del peso da attribuirsi alle vicende storiche o alle successive correnti di pensiero non inficiano la sostanziale omogeneità dello schema di lettura adottato. Ad Occam ad esempio Barragán faceva appena cenno, ma per contrapporlo “ai grandi pensatori che culminano nella Scolastica”, in primis a proprio a Tommaso d’Aquino. Un modo elegante per liquidare il nominalismo, senza per questo tacerne l’influsso negativo. Lo stesso dicasi per gli esiti della riforma protestante. Certo, il documento non prendeva in considerazione il ruolo di ‘resistenza’ del cristianesimo ortodosso, che tanta importanza ha per Dugin, e lo attribuiva invece in toto alla Chiesa cattolica: ma insisteva comunque sull’effetto di disgregazione indotto dalla modernità, e in termini non molto diversi da quelli usati dall’ideologo russo.

Non credo che negli ultimi vent’anni la posizione del mondo cattolico militante sia cambiata molto, se non nel senso di essere diventata ancor più critica nei confronti della “globalizzazione capitalistica”. Questo spiega e “giustifica” le convergenze sul piano della politica internazionale con l’universo ex-sovietico, la comprensione per i regimi che si reggono sull’integralismo religioso, le posizioni filo-putiniane professate recentemente, a fronte dell’invasione dell’Ucraina, non solo dall’ala arroccata su postazioni preconciliari, ma anche da molti esponenti della base (condivise ad esempio dal nuovo presidente della Camera, assieme all’apprezzamento per la “coerenza” patriottica e antiliberale del metropolita di Mosca).

È ciò cui si riferisce Dugin quando afferma che nella battaglia contro il globalismo, per far decollare il Grande Risveglio, tutti i mezzi e tutti gli alleati vanno bene: non è importante partire da una piattaforma di idee comuni, ma identificare il nemico comune. A uniformare le idee e a stabilire i confini si provvederà dopo, e ciascuno degli insorgenti lo farà a casa propria e a modo suo (sempre che i confinanti glielo permettano). Come abbiamo visto sopra, quindi, si parli di “grande risveglio” (che è peraltro l’etichetta usata anche dai gruppi avventisti d’oltreatlantico), di rinascita spirituale collettiva, di Jihad o di sindrome complottista, il banco del quale Dugin aspira ad essere il pesce-pilota è ricchissimo, vi nuotano nella stessa direzione le specie ittiche più diverse, dai pescecani ai tonni. Ma soprattutto è decisamente sguarnito e scarsamente motivato quello dei suoi difensori, o almeno di quelli che pur riconoscendo la strumentale malafede dell’ideologia di Dugin non possono fare a meno di condividerne almeno in parte la lettura storica. Costoro si trovano a combattere su due fronti, stando nel bel mezzo dello scontro, senza vedere alcuna realistica via d’uscita. Non occorre essere apocalittici per capire che si annunciano tempi duri.

Tre manifesti 12

***

I due “manifesti” precedenti (ma a questo punto possiamo dire tre, comprendendo anche quello del cardinal Barragán) ci prospettavano diversi scenari possibili del crollo dell’occidente: il primo per implosione interna, il secondo per un attacco dall’esterno, il terzo per trasgressione delle leggi divine.

Aldo Schiavone non è così pessimista. Ne “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che non è un manifesto ma ha la densità e le ambizioni di un vero saggio, vede le stesse cose che vedeva Jeffers e che vedono oggi gli “incivilizzati”, parte da constatazioni che sono proprie anche di Dugin, ma lo fa da un angolo prospettico e con una disposizione d’animo completamente diversi. Non potrò seguirlo passo dopo passo come in pratica ho fatto nei due casi precedenti, ma cercherò di ordinarne le tesi in una sequenza ordinata. Andrà persa la ricchezza delle argomentazioni, ma m’importa arrivare al nocciolo.

Già dalla prima pagina si capisce che Schiavone non è un catastrofista; non dice che il mondo va a ramengo, ma che è sempre più complicato viverci.

Viviamo in un mondo che non è mai stato così complesso e anche così caotico – di una complessità̀ che produce (tra molte altre cose) disordine – con due principali componenti che concorrono, sia pure non da sole, a determinare questi caratteri.

La prima è un prodotto delle nuove possibilità della tecnica, che mettendo in contatto realtà finora non comunicanti e anzi drasticamente separate – nello spazio e nel pensiero – ha moltiplicato reti di interazioni sempre più intricate e difficili da decifrare, creando un contesto che è estremamente arduo comprendere e padroneggiare.

La seconda è costituita dalla convivenza intorno a noi – quasi dovunque in Occidente, come esito del salto tecnologico – di due insiemi culturali e sociali del tutto disomogenei, ma intrecciati l’uno nell’altro, ciascuno dei quali condiziona e coinvolge in modo opposto: uno che sta sparendo – in maniera spesso dolorosa e a volte perfino cruenta – mentre l’altro sta appena cominciando a formarsi, e non ha ancora un volto ben definito, anche se già se ne avvertono la presenza e l’impatto.”

Il che significa che gli occidentali non sono sgomenti e passivamente rassegnati come vorrebbero tanto Dugin che Jeffers (sia la natura o siano altre culture a metterli sotto attacco), ma sono senz’altro sconcertati.

Prima di spiegarci il perché di questo sconcerto, Schiavone chiarisce cosa intende per Occidente: “Occidente si dice in molti modi, per lo più contrapposti. È una parte del mondo o la matrice di valori universali? Lo spazio in espansione della democrazia o quello del suo declino? La terra del tramonto o l’alba di un nuovo inizio?

Per Schiavone c’è intanto un Occidente geopolitico (il global North), che è definito in linea di massima dal maggiore sviluppo industriale, e di conseguenza dalla maggiore ricchezza individuale, sia pure distribuita inegualmente. Questi parametri sono al momento attuale invalidati dalla crescita rapidissima di altre potenze economiche, fino a ieri relegate nel global south, quello che una volta si chiamava terzo mondo: l’accezione “economica” va quindi perdendo rilevanza, perché corrisponde sempre meno alla reale situazione.

Il termine assume poi un secondo significato, che designa invece una categoria universale dell’incivilimento umano, una forma di civiltà. Questo Occidente – dice Schiavone – è “un insieme di cultura, acquisizioni tecnologiche, economia, rapporti sociali, modelli e valori politici e giuridici, stili di vita, sviluppatosi originariamente in Europa, poi trapiantato in America e diffuso nel mondo fino a presentarsi ormai come tendenzialmente delocalizzato”. Ed è a questo secondo significato che l’autore farà costante riferimento.

Ad una percezione superficiale, quella che tiene conto soprattutto dei parametri economici, vince l’impressione che al rapido scombussolamento in corso degli assetti economici corrisponda una crisi ben più profonda, quasi un crollo, della intera “civiltà” occidentale. Non è cosa nuova: già nella prima metà del Novecento, quando ancora l’Occidente dominava in pratica tutto il resto del globo, si moltiplicavano le voci di un suo imminente rovinoso collasso (Spengler per tutti, ma anche Freud o i francofortesi, o economisti come Schumpeter e sociologi come Revel, o distopisti come Orwell e Bradbury). “[…] Possiamo dire sin d’ora che in tutte le predizioni di declino o addirittura di rovina dell’Occidente c’è un tratto comune, al di là degli eventuali elementi di verità che in qualche caso possono contenere.” Il tratto comune sarebbe appunto l’aumento, divenuto esponenziale, della complessità.

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E tuttavia, a dispetto di eventi catastrofici (crisi economiche, conflitti mondiali, ecc.) il crollo non c’era stato, o non era stato comunque così rovinoso. Anzi, verso la fine del secolo, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, che per quasi l’intero secolo aveva rappresentato il principale competitor, il modello liberal-capitalistico era parso uscire definitivamente vincitore, così da far ricomparire un cauto ottimismo (espresso ad esempio da Fukuyama ne “La fine della storia”)

Le cose sono rapidamente cambiate dopo l’ingresso nel nuovo millennio: prima con l’11 settembre 2001, con la guerra in Afghanistan e la fine della “pace americana” nel mondo; poi con il dissesto finanziario ed economico esploso nel 2008; quindi con l’epidemia del Covid-19 e infine con la guerra nel cuore dell’Europa, il tema è tornato in voga. Sono cadute in pratica le certezze sul proprio ruolo-guida che l’Occidente aveva maturato nel corso degli ultimi cinquecento anni. Si sono dissolte sotto la spinta dei “risvegli” altrui, ma soprattutto per una esasperazione del sentimento autocritico che da sempre ha controbilanciato la presunzione di superiorità (persino un apologeta della civilizzazione occidentale come Arnold Toynbee ammetteva che “Nell’incontro fra il mondo e l’Occidente, in corso da ormai quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo, non l’Occidente. Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall’Occidente”).

Per Schiavone il risultato è che si sta diffondendo “una sorta di sindrome occidentale […]; uno stato d’animo che ha dato origine a una vera e propria cultura della paura e della crisi […]; tensioni che, in alcuni ambienti e circostanze soprattutto europei, hanno assunto caratteri propriamente anticapitalistici e antiamericani […]; orientamenti riconducibili a una specie di fondamentalismo antitecnologico, che fanno coincidere la tecnica con l’Occidente […]; un illanguidirsi delle appartenenze e delle identificazioni nazionali; la maggiore permeabilità sociale e personale tra i generi […]; la minor presa dei legami familiari; la trasformazione dell’etica del lavoro […]; le nuove forme di solitudine […]; l’appannarsi e il relativizzarsi del sentimento religioso, e in specie della comune identità cristiana – paragonata al fervore dell’Islam […]”.

Sono elencati in pratica tutti quei sintomi che abbiamo visto comparire nei tre precedenti manifesti, segnatamente in quello di Dugin, ma che là erano letti “positivamente” come segnali di risveglio, o quanto meno di una presa di coscienza. Schiavone li interpreta invece come frutto di “una lettura (apologetica e nostalgica) del passato, trasformata in previsione e in giudizio (fortemente negativi) sul futuro”.

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Questa lettura “emotiva” è alimentata dalla deplorevole tendenza a trascurare gli studi storici a favore dei “cultural studies”, che alla ricerca di una sia pur imperfetta “oggettività” sostituiscono le interpretazioni delle vicende. La storia come la conosciamo e come veniva insegnata sino a ieri è accusata di essere una ricostruzione “occidentale”: ad essa viene opposta la “memoria storica”, che non è una disciplina, nel senso che non prevede il confronto sulla base di regole e criteri il più possibile oggettivi e condivisi. Ora, se i risultati del dibattito storico non danno la verità assoluta, ma almeno una verità sempre in fieri, le ricostruzioni operate sulla base della memoria ci rimandano ad esperienze singole o collettive che quasi mai sono state vissute e percepite allo stesso modo dagli altri protagonisti (e meno che mai dagli antagonisti). Si dice che la storia è scritta dai vincitori, ed è vero: ma è altresì vero che poi la correggono o la riscrivono gli storici, e che il compito di costoro è di arrivare, attraverso il confronto, ad una ricostruzione che regga il vaglio degli strumenti critici. In questo senso, con tutte le cautele del caso, si può affermare che la storia è una disciplina scientifica.

È la storia che ci può aiutare a capire, – scrive Schiavone – che può rendere possibile questo radicale ma indispensabile cambio di prospettiva, aperto sul futuro. Non soltanto la storia, probabilmente: ma lei di sicuro. Ed è innanzitutto un difetto di adeguata storicizzazione a impedirci di mettere nella giusta luce quel che si vede dal nostro oggi, e a farci confondere l’alba con il tramonto, l’incompiutezza con il declino. Quasi avessimo smarrito la capacità di connettere gli eventi secondo strutture di senso che solo se colte attraverso la loro storicità possiamo sperare di rappresentare nella loro completezza, e quindi di conoscere veramente. Come se la ragione delle cose che stanno accadendo avesse sovrastato la razionalità del pensiero che dovrebbe comprenderle: una condizione che se durasse a lungo, allora sì, che potremmo dire di essere perduti.

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A dire il vero, quella che emerge dal libro è una concezione non particolarmente scientista: sembra anzi riprendere la filosofia della storia hegeliana, in quanto Schiavone cerca nel futuro le chiavi per l’interpretazione del passato, anziché viaggiare in senso opposto (e va aggiunto che anche Hegel vedeva nell’Occidente – quello che era tale alla sua epoca, quello europeo – il principale motore della storia universale, o addirittura l’unico.)

Per l’autore “la storia correttamente letta ci insegna che l’umano ha un futuro. Questo è indubbio. Come è altrettanto indubbio che l’umano, non essendo vincolato a un’essenza in forza di una legge di necessità, sta cambiando e continuerà a farlo, a oltrepassarsi, in una dimensione post-umana che lo ha accompagnato non da oggi ma da sempre, in una lotta infinita con i propri limiti”.

Dopo quanto accaduto negli ultimi decenni l’Occidente sembra però avere persa la sua capacità di guardare avanti: “L’Occidente immagina il futuro o come un prolungamento indefinito del presente o come un luogo abitato da ansia e paura. Un luogo di incertezza e di peggioramento della propria condizione sociale ed economica. Un luogo di perdita di vita complessiva della propria dignità. Arroccati nella nostalgia di un passato ormai esaurito, perdiamo la direzione complessiva del processo in corso, il suo senso d’insieme.”

Questo accade proprio nel momento in cui si annuncia una trasformazione epocale. “E così non vediamo il salto di civiltà che abbiamo di fronte. Non sappiamo sintonizzarci alla svolta che viviamo. Orientarsi in questo intrico, venire a capo delle sue sconnessioni, è tutt’altro che facile. Come se fossimo finiti in una zona morta della nostra capacità di vedere.”

La svolta di cui Schiavone parla sta nel fatto che “oggi la storia evolutiva sta smettendo di essere un presupposto immodificabile e sta per diventare un risultato delle nostre scelte. Questo perché nel giro dei prossimi decenni, non dei prossimi secoli, avremo una capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla.”

È questa l’idea portante che attraversa tutto il libro. Quella del passaggio della nostra specie da una storia “naturale” – controllata soltanto dai meccanismi dell’evoluzione, quindi affidata alla biologia – alla storia “culturale”. Non è certamente un’idea nuova, ma qui viene spinta sino alle estreme conseguenze. D’altro canto, era un tema già presente diversi anni fa nel saggio più famoso di Schiavone, “Storia e destino”, e sta alla base anche di tutti i suoi studi successivi sulla natura del diritto. È “[…] il superamento della separazione tra storia della vita e storia dell’intelligenza. Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato dalla nostra cultura. Questo ricongiungimento, il passaggio dal controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente non è lontano […]”.

La storia “culturale” nasce con la comparsa della tecnica, anzi, è la storia di come la tecnica abbia modificato i rapporti dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, con la natura e con i suoi simili, ma soprattutto con se stesso e con il proprio destino. Perché la tecnica compare in funzione e a supporto di una progettualità, mirata ad un aumento del benessere e della sicurezza dei singoli e della specie: ovvero, compare associata all’idea di “progresso”.

L’idea di progresso – ci spiega Schiavone – esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Dentro un’idea positiva del futuro come progetto, come speranza, come proiezione in avanti delle nostre vite ecco che appare l’idea di progresso.”

Non va dunque liquidata come un rottame illuministico: “Oggi più che mai, noi come specie umana, abbiamo bisogno di recuperare una parola come progresso. Ne abbiamo bisogno perché quella parola ci consente di riappropriarci del futuro.”

Quel “noi”, prima ancora che all’intera specie umana, si riferisce agli occidentali. E qui sta la specificità della posizione di Schiavone. La fiducia nel progresso va recuperata innanzitutto da chi ne è stato sino ad oggi il principale interprete. Alla faccia della “cancel culture” dilagante, Schiavone rivendica all’Occidente un primato (anche se scrive: “non si tratta di rivendicare primati. E tanto meno di fissare gerarchie antropologiche, ma di riconoscere percorsi storici disuguali”). Perché “solo l’Occidente ha prodotto l’autonomia della scienza e la rivoluzione industriale”.

E aggiunge: “l’Occidente è definito dal proprio eccezionalismo perché è il continente delle idee e della libertà”.

La civiltà “eccezionale” che l’Occidente ha espresso è frutto della superiore capacità performativa della sua tecnica. Torna dunque l’annosa questione: la tecnica, proprio per lo stretto legame che immediatamente stringe con il capitale, ma anche a prescindere da questo, per l’atteggiamento performativo che induce nei confronti della natura, è di per sé “disumanizzante”? le derive sociali, ambientali, politiche e psicologiche di cui oggi è chiamata responsabile, le sono intrinseche? Schiavone non ha dubbi. Intanto, usa i termini capitale e capitalismo spogliati di ogni valenza ideologica, positiva o negativa: il capitale è il fondamento economico che permette alla tecnica di svilupparsi, traendo dalla tecnica stessa le risorse da reinvestire. Ritiene poi che le derive non siano un problema attinente la tecnica. Quest’ultima è solo un mezzo che apre all’uomo infinite possibilità di scelta e varianti di sviluppo. Produce risorse, e quindi anche strumenti di dominio o di distruzione, che dovrebbero però poi essere controllati e guidati dalla politica, dall’etica, dal diritto.

Il problema vero sta per lui nel fatto che quanto la tecnica ha più o meno direttamente indotto, dalla filosofia alla politica, al diritto, ai valori cardine della libertà e dell’uguaglianza che si esprimono nella democrazia, non tiene il passo con la tecnica stessa (e con l’economia che le è connessa). Non lo tiene perché è oggettivamente difficile marciare in pari con uno sviluppo tecnologico ed economico così prodigioso come quello odierno, ma anche perché da tempo l’eccezionalismo occidentale è messo in discussione, come abbiamo visto nei manifesti precedenti, dal suo stesso interno: il modello di crescita che ha informato questo sviluppo ha contraddetto troppo spesso i valori di cui si faceva portatore, principalmente quello dell’uguaglianza, suscitando le reazioni più disparate (estremismo, populismo, rivendicazioni identitarie, cancel culture, ecc..). Ma ciò che soprattutto pesa, secondo Schiavone, è “il declino di un intero sistema di saperi”, quello che stava invece alle spalle della tecnica e del capitale nell’Ottocento. Manca la capacità di “leggere” in un quadro d’insieme tutti gli aspetti dello sviluppo tecnologico, e quindi di governarne e orientarne le ricadute economiche e sociali.

Comunque, a dispetto delle sue contraddizioni, “l’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità – e l’ha fatto non solo per se stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto. In effetti però, se guardiamo bene come solo ora ci è consentito di fare, ci accorgiamo che quella che abbiamo finora sperimentato non è stata la modernità nel suo pieno realizzarsi – come si è a lungo creduto – ma solo una specie di suo straordinario per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare: una specie di protomodernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo Novecento e con il culmine politico dell’impero americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi di quell’oceano.”

Se la smettessimo per un attimo di autoflagellarci, scrive ancora Schiavone, dovremmo ammettere che dopo l’impatto con la civiltà occidentale “masse di donne e di uomini sono uscite per la prima volta dalla naturalità di un’esistenza spesa solo per sopravvivere, e hanno alzato lo sguardo oltre l’acqua per dissetarsi e il cibo per sfamarsi. In una manciata di anni, parti intere del pianeta – in Asia, specialmente, soprattutto nei grandi contesti urbani – hanno acquistato una visibilità mai posseduta; e chi ci vive è riuscito ad appropriarsi, per quanto poteva, del proprio destino. Enormi blocchi di umano sono per così dire usciti dalla natura ed entrati nella storia: in diversi modi, e per diverse vie. Hanno incontrato pezzi di modernità e si sono dati un tessuto identitario secondo l’unico modello disponibile: quello che l’Occidente ancora una volta vincitore – molto al di là di quanto egli stesso, anche per sfuggire alle proprie responsabilità, non riesca e non voglia riconoscere – ha saputo loro proporre”.

A questo punto secondo Schiavone si aprono per il futuro dell’umanità scenari ancora inesplorati, e il tono della trattazione diventa quasi visionario – anche se l’autore cerca di tenere i piedi sempre poggiati sulla concretezza. “Si riesce a capire il significato del presente solo così, cercando di guardare quel che ci aspetta per decifrarne il senso. Il mondo intero sta entrando nella versione globale della modernità”. La nostra epoca è testimone di un evento senza precedenti: la nascita della prima civiltà planetaria della storia. Una civiltà che vedrà fusi in un sistema unico il capitalismo e la tecnica, perché il capitalismo è esso stesso una potenzialità tecnica, è una macchina economica: e una volta che l’azione di questa macchina sarà diffusa a livello sovranazionale verrà liberata tutta la sua forza emancipativa. La crescita esponenziale della potenza prodotta dalla tecnica darà presto all’uomo, quasi totalmente affrancato dalla dipendenza dalla natura, la possibilità di decidere del proprio destino biologico.

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Questa radiosa (?) prospettiva è però al momento tutt’altro che scontata. La strada è ancora molto lunga. “È al centro di una lotta in parte non anc0ra decisa che dobbiamo prendere coscienza di trovarci. Ed è questa la sfida che aspetta l’Occidente. Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo: questo in qualche modo lo ha già fatto. Ma completarne la fisionomia secondo la razionalità che è capace di esprimere, e dargli un’anima e un destino – come solo lui si è dimostrato in grado di poter fare.

Sappiamo bene che sono in questione aspetti della nostra identità ai quali abbiamo legato parti importanti delle vite appena trascorse […] a cominciare da una certa idea di nazione, di classe, di lavoro, di famiglia, di genere – e saranno da trasformare radicalmente, se non da dismettere. […] Ma è proprio una caratteristica dell’Occidente quella di vivere rivoluzionando continuamente se stesso.

Prima di arrivare a questo stadio tuttavia l’Occidente dovrà superare una serie di contraddizioni. “La prima è quella tra l’unificazione tecnocapitalistica del mondo e la sua frammentazione politica. Va quindi impedito il consolidarsi di una “alleanza asiana”, che veda la Russia, la Cina, il Pakistan, l’India e parte dei paesi mediorientali consolidare un blocco in funzione anti-occidentale e anti-democratica.” Per Schiavone questo rischio è concreto e presente (non so se abbia letto Dugin, ma ha scritto il saggio già avendo presente quanto accade in Ucraina); al tempo stesso però non crede possa nascere un sistema egemonico alternativo centrato sull’Asia (Cina o India) e/o sulla Russia, perché a suo parere nessuna di queste potenze è in grado di esportare su scala globale una visione del mondo e un modello culturale e sociale universalmente appetibili (sono d’accordo), e possiede capacità di innovazione tecnologica analoghe a quelle dell’Occidente (non sono d’accordo). D’altro canto “anche la Russia post-sovietica è diventata qualcosa di diverso, sulla cui carne i processi di mondializzazione stanno incidendo in modo lento ma irreversibile. Da una società neocapitalistica, per quanto ancora fragile, è assai complicato uscire, una volta che il meccanismo si è avviato”. E in Cina “il progetto perseguito dai gruppi dirigenti di modernizzare in senso occidentale la società apre a prospettive che vanno seguite con attenzione: anche lì si creeranno contrasti difficili da gestire”.

Al di là però delle arretratezze e dei problemi dei competitori, l’Occidente ha già in sé secondo Schiavone gli anticorpi per scongiurare la formazione di una alleanza asiana, o eurasica, o islamica o di qualsiasi altro tipo: e questi non sono rappresentati da un superiore armamento nucleare, ma dalla capacità di costruire “una geopolitica intesa non solo come confronto tra le potenze, ma come costruzione di canali di collaborazione e di connessione dei popoli oltre gli stati, puntando sulla valorizzazione delle reti tecnologiche e capitalistiche globali”. Ciò implica naturalmente che l’Occidente sia capace di accogliere una molteplicità di prospettive, di adattarsi per costruire sintesi unitarie più avanzate.

Ma la geopolitica nuova che l’autore auspica, e che teoricamente avrebbe anche un senso, si concilia poi con il modello di organizzazione economica proprio del capitalismo? Ebbene: “Occorre accettare realisticamente questo dato: che l’organizzazione capitalistica è solo un esito storico provvisorio, che non ha dentro di sé nulla di naturale, e come tale va accolta e discussa”. Vale a dire che nessun modello è proprio del capitalismo, ma è storicamente determinato. “La forma del mercato e delle merci non è iscritta in modo naturale in quella della nostra specie e della sua storia: ne è semplicemente un prodotto di successo” (di “meritato successo”, si affretta ad aggiungere Schiavone).

Allo stato attuale delle cose, comunque, l’organizzazione capitalistica sembra muovere in una direzione ben diversa da quella auspicata, e crea una nuova contraddizione, “quella tra carattere intrinsecamente privato e sempre più concentrato delle attuali strutture capitalistiche dal punto di vista dei poteri, delle decisioni e dell’inaudita accumulazione di profitti: e di contro il carattere sempre più ‘pubblico’ delle ricadute sociali di quei dispositivi di produzione e di mercato”. Le ragioni economiche della produzione, le ragioni del mercato, stanno insomma progressivamente “autonomizzandosi”, scindendosi da quelle sociali: nello stesso tempo pesano in misura sempre maggiore sulle scelte politiche degli stati e su quelle comportamentali degli individui. “Per questo l’Occidente ha bisogno di esercitare quella capacità di autoanalisi che ha ben imparato a mettere in campo: per la critica della sua economia, che è cosa ben diversa e più seria dell’inutile e autodistruttivo rinnegamento del proprio passato: per correggere fin dove possibile il meccanismo alla base di questo contrasto.

L’esercizio di una corretta autoanalisi ci dice che “una volta che il lavoro ad alta intensità tecnologica ha preso il posto del vecchio lavoro di fabbrica, una volta abolito cioè il carattere sociale della produzione, e l’antagonismo strutturale che esso produceva […] la contraddizione si è trasferita dal dentro al fuori dell’ingranaggio capitalistico.”. E che anche rispetto a questa nuova contraddizione l’Occidente disporrebbe di un antidoto, che è la democrazia, se solo fosse capace di pensare quest’ultima come una costruzione (e astrazione) storica, quindi in costante evoluzione, e di conseguenza adattabile a rapporti inediti con il capitale e con il mercato. “In realtà, è l’intero rapporto fra forma capitalistica dell’economia e forma democratica della politica quale si è venuto delineando nel corso del Novecento che va ripensato a fondo, insieme al rapporto tra gestione della democrazia e uso delle più recenti tecnologie. Sapendo che nuove connessioni e compatibilità sono non solo storicamente possibili, ma appaiono funzionalmente indispensabili, e vanno a tutti i costi mantenute e sviluppate, sia pure con caratteri tutti da ricostruire.

Quando si tratta di arrivare al dunque, però, sul modello di democrazia compatibile con l’età digitale Schiavone rimane molto vago (ed è anche comprensibile che lo faccia: è uno storico, non uno scrittore di fantascienza). Si limita a parlare di un dispositivo democratico che consenta ai cittadini un esercizio della sovranità più ravvicinato, “come oggi è tecnicamente possibile”. Liquida l’improponibile mito di una democrazia diretta esercitata per via telematica, della quale già conosciamo i disastrosi esiti sperimentali, ma è anche certo che per il futuro l’esercizio della sovranità non potrà più essere affidato al modello rappresentativo, o almeno alla sua versione attuale, che non corrisponde più al sentire comune. Parla di costruire di una cittadinanza globalmente condivisa, come accade ad esempio nei movimenti per la tutela ambientale o per quella dei diritti legati alla differenza di genere, che combini in modo nuovo iniziativa dal basso e presenza nelle istituzioni e garantisca una interazione equilibrata tra potenza tecno-economica e potere politico. Un obiettivo encomiabile, ma evidentemente ben poco realistico.

Tre manifesti 17

Nell’ultima parte del saggio l’azzardo sul futuro della nostra specie è spinto ancora oltre. L’autore fonda le sue anticipazioni sul presupposto che una situazione compiutamente globalizzata farà riemergere l’“invarianza del comune umano”. Ripropone cioè in termini nuovi l’annosa questione dell’esistenza o meno di una “natura umana” (tornando sul tema col quale aveva aperto il saggio, e che percorre un po’ tutti i suoi scritti). È indubbio per lui che di “natura umana” si può parlare, e che anzi da essa non si può prescindere, tenendo comunque fermo che “su una base genetica sempre eguale a se stessa in ogni esemplare si intreccia il gioco di una illimitata combinazione di caratteri morfologici e intellettivi”. Questo sostrato biologico però non è affatto immodificabile. “Osservata dalla giusta distanza, qualunque strutturazione naturale è anch’essa storia, nient’altro che storia.

Come tutto ciò che ha a che fare con la natura, anch’esso è soggetto alle leggi dell’evoluzione. Con una novità, consistente nel fatto che “la rivoluzione attuale, dove prima c’era una enorme difformità di contesti, sta sovrapponendo all’identità della base genetica una identità globale di stimoli e di sfondi mentali e sociali”. In altre parole: la tecnica sta uniformando il volto economico del pianeta e la morfologia del suo territorio, ma sta omologando anche i comportamenti di massa dei suoi abitanti, includendoli tutti nello stesso circuito di consumi, tanto materiali quanto culturali: persino le idee sono già confezionate come merci. Questa omologazione da un lato apre alla speranza, perché per certi versi rende obsolete le guerre (l’uniformità di pensiero dovrebbe azzerare i contrasti ideologici, così come la razionalizzazione dei mercati dovrebbe attenuare quelli economici) e inutili anche i regimi autocratici; dall’altro spaventa, perché costringe il mondo nella rete di una ragione tecno-economica che in realtà non coincide con la razionalità complessiva della specie, e cancella diversità, peculiarità, ecc Ora, la sfida è quella di preservare queste differenze senza rinunciare al percorso dell’unificazione. E per differenze si intendono, oltre a quelle tra le civiltà, anche quelle con le altre forme di vita animali.

Schiavone preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, e legge la trasformazione all’interno di un più ampio divenire storico. Di fronte ai grandi mutamenti indotti dalla prima modernità il pensiero europeo aveva elaborato un’immagine dell’uomo come “individuo”, e questa immagine è rimasta dominante per tutta la stagione della grande industrializzazione (a dispetto anche di dottrine alternative che cercavano di opporle il modello del collettivo). La mondializzazione economica fa invece emergere il fondo comune della specie, creando attraverso un sistema universale di bisogni, quello che regge la rete globale dei mercati, una “prossimità globale”. Diventa possibile considerare l’umano, in tutte le sue complessità e differenze, come il manifestarsi di un’unica e totale soggettività impersonale. “La soggettività della specie che finalmente approda all’orizzonte della storia.” Hegel avrebbe detto che è lo Spirito che si manifesta.

La condivisione dei bisogni rende davvero possibile iniziare un discorso sull’eguaglianza, mentre l’individualismo, esaltando le differenze, le specificità, metteva in secondo piano ciò che accomuna ogni essere umano ai suoi simili. Ora invece “la tecno-economia globale esige, per venir regolata, di poter essere confrontata con una soggettività altrettanto globale, che si ponga sullo stesso piano. Per costruire un modello di soggettività e di eguaglianza che senza rinunciare ad un imprescindibile impianto formale sappia però anche guardare in tutte le profondità del diseguale che la nuova economia oggi ci propone”.

Ma alla fine, scendendo dal piano superiore della “soggettività globale” 0 “soggettività di specie” a quello terreno del “soggetto individuo”, che futuro gli riserva Schiavone? Intanto si tratterà di un individuo non più definito dalla sua attività lavorativa. “Col passaggio dalla forma industriale alla forma tecnofinanziaria del capitale, il lavoro (che era stato sin dai primordi della modernità la culla della figura dell’individuo e del paradigma di eguaglianza moderno) muta radicalmente, tanto che si può parlare di una ‘fine dell’età del lavoro’”. Con questo “non si vuol certo dire che abbia smesso di esistere il lavoro come attività propria della specie umana. Si vuole indicare soltanto che è finita una maniera storica di lavorare, che è stata costitutiva della nostra modernità e del nostro modo di pensare […]. E si vuole anche alludere, con quella formula, al fatto – di non minore importanza – che i nuovi lavori che stanno sostituendo in Occidente quello ormai al tramonto, non possono né potranno mai avere, per ragioni strutturali, indipendenti da ogni scelta politica, giuridica o etica, la stessa funzione della figura che sta scomparendo”.

Nella vita dei nostri discendenti, se le cose andranno come Schiavone pensa siano destinate ad andare, il lavoro sarà una cosa completamente diversa (lo è già adesso, con la cosiddetta “flessibilità”: ma a ben considerare è stato tale anche per un lunghissimo periodo in passato), e rivestirà un ruolo marginale. La liberazione, “l’emancipazione” degli umani non avverrà più attraverso esso, ma arriverà da una globale condivisione di strumenti conoscitivi e operativi che consentiranno alla specie il controllo non solo sull’ambiente e sulla tecnica, ma anche sulla propria natura. Avendo tra le mani il nostro destino biologico, saremo padroni delle nostre condizioni materiali di esistenza: saremo quello che vorremo essere.

Sommario: niente fine della storia o epoca del tramonto. Schiavone è anzi convinto che la vera storia cominci ora, e che a scriverla sarà ancora una volta l’Occidente, o meglio l’impronta della sua “civilizzazione” impressa su tutto il globo. Non si nasconde che la “mondializzazione” del modello occidentale ha messo in moto un percorso problematico, irto di rischi, che può anche condurre alla catastrofe, e nemmeno ignora le resistenze e i ripiegamenti che continueranno ad opporsi a questo processo. Quindi non lo considera ineluttabile, ma lo vede come l’unica vera possibilità di sopravvivenza dell’umano. Non solo, ma una sopravvivenza ricca di straordinarie potenzialità: la vicenda di un umano ormai quasi del tutto affrancato dalla dipendenza dalla natura, e sul punto di diventare completamente padrone del proprio destino.

Tre manifesti 18

E ora provo a tirare un po’ le fila. Intanto, non vorrei aver dato l’idea che nell’ultima parte del saggio Schiavone sia partito per la tangente. Non è così. È vero piuttosto che ho faticato molto io a costringere in poche pagine una ricchezza di argomentazioni che corre come un fiume in piena e che l’autore ha condensato in una serie di passaggi logici incalzanti. E dubito assai di esserci riuscito, anche solo parzialmente. Rimane tuttavia il fatto che dovendo passare dall’analisi del presente alla parte propositiva aperta sul futuro Schiavone cambia le tonalità del discorso: e come chiunque combatta una battaglia culturale (perché questo è, al di là della diversa profondità, un pamphlet, speculare a quello Dugin) le ha alzate di parecchio, senza peraltro mai trascurare di sottolineare come ciò che va prospettando rappresenti non una profezia ma una “possibilità.”

Che è già un ottimo distinguo. Una possibilità non è un’utopia. Non cancella il tempo o la condizione presente per rifare tutto daccapo, ma intravvede nel presente qualcosa che va interpretato nell’ottica di una futura trasformazione. In questo senso il saggio di Schiavone offre notevoli stimoli, se non a fare, perché sembra che tutto accadrà (o potrebbe accadere) dietro la spinta di forze superiori, almeno a capire, ad essere consapevoli di quali direzioni potrà prendere l’umanità dopo di noi, o magari (come sottolinea a più riprese l’autore) sta già prendendo sotto i nostri occhi. E mi offre anche l’occasione di riconfrontarmi per l’ennesima volta con le mie convinzioni.

Ora, non ho la presunzione di aver capito proprio tutto quel che Schiavone stipa in queste centottanta pagine, o di essere riuscito a seguire l’autore in certi passaggi che imponevano vere acrobazie mentali. Ma il senso generale del discorso credo di averlo afferrato, e in fondo condivido buona parte della sua impostazione e delle interpretazioni che offre del presente. Eppure non sono affatto persuaso che lo scenario futuro che ci prospetta sia coerentemente fondato. Per più di una ragione.

La prima concerne la possibilità di riconquistare il controllo sulla tecnica e di riorientare quest’ultima a finalità etiche. Ho l’impressione che sia già tardi, o meglio ancora, che sarà l’etica a riaggiornarsi sulla scia degli sviluppi tecnologici. In effetti, dobbiamo prendere atto che la tecnologia ha ormai di gran lunga sopravanzato la scienza e l’etica. Prendiamo il caso ad esempio delle scienze biologiche e della ingegneria bio-medica. Quest’ultima è in grado di produrre risultati che a livello scientifico non hanno alcun interesse o giustificazione, come le ibridazioni genetiche interspecifiche. Realizzare un uomo-scimmia non fa avanzare di un millimetro la conoscenza scientifica, mentre può avere terrificanti ricadute spettacolari o implicazioni economiche. È una cosa abietta, eppure decine di laboratori vi stanno lavorando: è tecnologia da apprendisti stregoni, fine a se stessa, intesa a mostrare sin dove può arrivare il suo potere, all’interno di una sfida continua nella quale non c’è più regola che tenga.

Un motivo ulteriore di perplessità concerne l’altra auspicata “domesticazione”, quella del capitale finanziario. Pur assumendo per scontato che il capitale sia indispensabile per reggere lo sviluppo della tecnica, e quindi che dal supporto offerto alla tecnica possa legittimamente attendersi un ritorno, mi sembra che Schiavone non dia il giusto rilievo al fatto che come la tecnica anche la finanza si è autonomizzata, ha preso una strada totalmente autoreferenziale nella quale il gioco speculativo prevale su quello produttivo. Il capitale tecno-finanziario è sempre più teso a creare ricchezza, e sempre meno a creare innovazione. O meglio, crea innovazione solo in prospettiva del ritorno, e di fatto brucia tutte le altre possibilità. Non si capisce cosa possa intervenire a disciplinarlo, a dissuaderlo dalla corsa all’accumulo. Sino ad oggi le nuove connessioni e le compatibilità etiche cui Schiavone accenna (quando scrive ad esempio che tra non molti decenni mangiare carne ci parrà un obbrobrio), e che gli paiono esemplificative della via da seguire, si sono risolte nella creazione di formidabili business che ruotano attorno alle etichette di “biologico” e di “ecosostenibile”, buone per far accettare costi maggiorati, ma che nella sostanza non mettono affatto in discussione la coazione al consumo (e anzi, in qualche modo la assolvono).

Di fronte a una situazione del genere è lodevole lo sforzo di Schiavone di richiamare in campo valori e saperi che stiamo perdendo, ma la cosa cozza contro la convinzione che lui stesso a più riprese esprime, e cioè che la trasformazione interesserà necessariamente anche l’ambito etico. Quando scrive: “Vedo che stiamo usando gli strumenti della tecnica non in eccesso, ma per difetto. Li stiamo usando al di sotto delle loro potenzialità” fa un’affermazione in parte vera, ma pericolosa. La “capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla”, che prevede per i prossimi decenni, non per i prossimi secoli, non appare certamente oggi finalizzata a una liberazione. Mi ripeto, ma credo che questo sia il punto più debole dell’argomentazione di Schiavone. Anche rimanendo entro i confini di ipotesi meno fantascientifiche di quella che ho prospettato sopra, gli interrogativi già oggi suscitati dallo sviluppo delle biotecnologie e dalle applicazioni (e implicazioni) dell’intelligenza artificiale sono tutt’altro che gratuiti. Toccano nel profondo il senso stesso dell’appartenenza all’umano, cambiano radicalmente i parametri di definizione della specie, fanno intravvedere non una trasformazione ma una vera e propria mutazione, che andrebbe ad interessare non solo la morfologia ma tutto il sostrato biologico, e di conseguenza gli stessi fattori di comunità nei quali Schiavone ripone la sua fiducia. Altro che “invarianza del comune umano”. L’uomo, da “antiquato” che era, rischia di diventare superfluo.

Un conto è parlare dell’uso di protesi o strumentazioni che migliorano le nostre condizioni di esistenza, di resistenza o di produttività, o suppliscono a carenze naturali o accidentali (dalla pietra scheggiata ai robot della catena di montaggio, dagli abiti alla farmacopea, dagli occhiali al bypass o agli arti artificiali), e che modificano senz’altro il nostro rapporto con l’ambiente e con il nostro prossimo, ma non vanno a toccare i ritmi e i percorsi evolutivi del nostro patrimonio genetico (o lo fanno in tempi lunghissimi, che consentono di ovviare ad eventuali effetti collaterali indesiderati): un altro conto è la presunzione di “decidere noi il nostro destino”, di programmarci totalmente in proprio l’esistenza, di accedere alla condizione post-naturale, senza in realtà nessuna idea di dove vorremmo o potremmo andare a parare. A meno di intendere che a decidere sarà la “soggettività globale della specie” (e temo che Schiavone intenda proprio questo), prospettiva che nella sua indeterminatezza fa accapponare la pelle. Pur facendo le debite tare, somiglia troppo al suo esatto contrario, a quello che Dugin, mostrando senz’altro lungimiranza, definisce “lo scambio dell’identità collettiva umana con l’identità collettiva postumana: la creazione di strumenti tecnici che diventano passo dopo passo i maestri, e smettono di essere strumenti”.

Tre manifesti 19

Mi spiego meglio. Questo discorso chiama automaticamente in causa il tema della libertà, che a sua volta si tira appresso quello dell’eguaglianza, e naturalmente quello della democrazia, che dovrebbe garantire sia la prima che la seconda. Senza volerla fare troppo lunga, sul concetto di libertà concordo pienamente con Isaiah Berlin, per il quale una persona è libera innanzitutto quando non è impedita di fare ciò che desidera fare da un atto o da un’omissione di un altro essere umano (la definisce “libertà negativa”). Per Berlin esiste però anche un’accezione più estesa del concetto, quella di “libertà positiva”, che implica che l’individuo non solo non subisca coercizioni da parte di altri, ma sia totalmente “autonomo” (alla lettera, “capace di governare se stesso”). Vale a dire che l’impedimento ad agire non gli deve venire neppure da ostacoli interni, come possono essere l’ignoranza, i desideri o le emozioni. Il che in teoria è molto vero, ma presuppone distinguere tra un soggetto autentico, interamente razionale e capace di dominare le passioni, e un Io empirico, condizionato dalle pulsioni naturali. Per la concezione positiva essere liberi significa accedere alla prima condizione, ovvero agire “moralmente”: ma, e qui nasce il problema, chi stabilisce cosa sia “moralmente” giusto? Perché se la normativa morale è dettata da altri, si è liberi in realtà solo di obbedirle.

Ora, Schiavone dice più o meno che quando la tecnica ricondotta alla sua originaria funzione ci avrà liberato dai condizionamenti, dagli impedimenti, dalle malformazioni che la natura ci riserva, e anche dalle inique differenze sociali ed economiche, ciascuno di noi potrà esprimere al meglio se stesso: ma la stessa tecnica gli fornirà anche la consapevolezza che in una società del genere la vera realizzazione individuale non può che coincidere con il benessere collettivo e con la sopravvivenza dell’intera specie. Quindi non saranno “altri” a dettare le norme morali, ma queste scaturiranno da una volontà collettiva concorde e razionalmente illuminata.

L’impressione che ho ricavato io dalla lettura è che qui non si parli più di un aggiornamento dell’etica, ma di una sua completa rifondazione. E se a decidere di ciò che è bene e ciò che è male fosse davvero la “soggettività della specie”, credo che nemmeno si potrebbe più parlare di etica, perché ci troveremmo in una condizione molto simile a quella degli insetti sociali. Con la differenza, certo, che quella condizione sarebbe ciascuno di noi a sceglierla, una volta messo in grado di decidere davvero del proprio destino e di capire cosa è meglio per lui, mentre gli insetti sociali rispondono ad una determinazione biologica: ma questo è comunque in contraddizione con quella difesa della diversità che l’autore rivendica costantemente, e presume anche una identificazione tra il bene individuale e l’utile collettivo che suona molto sospetta. Non sarei poi nemmeno così sicuro che tutti gli umani, anche messi di fronte ad una (discutibile) evidenza del “bene”, sceglierebbero di conseguenza.

Berlin invece la mette così: senz’altro la “libertà positiva” indica un livello di libertà superiore, ma la pretesa che esista una sola concezione universalmente valida del bene, e che quindi tutte le questioni etiche abbiano, almeno in linea di principio, una sola risposta corretta, sta purtroppo alla base delle tentazioni totalitarie. Tutti i grandi Utopisti (quelli con la maiuscola, che hanno immaginato – e qualche volta cercato di attuare – grandi disegni sociali) partono dal presupposto che una volta conosciuto il vero sistema morale potranno essere appianati tutti i conflitti e diverrà possibile creare una società perfetta, trovare un accordo universale su un unico modello di vita. Il paragrafo che riporto da “Due concetti di libertà” (1957) sembra scritto apposta per mettere in guardia contro gli entusiasmi un po’ facili di Schiavone:

Una credenza è più di ogni altra responsabile delle stragi di esseri umani sull’altare dei grandi ideali storici: giustizia o progresso o felicità delle generazioni future o la sacra missione o l’emancipazione di una nazione, di una razza o di una classe, o persino la libertà stessa, che esige il sacrificio degli individui perché sia libera la società. Si tratta della credenza che da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza, o nel cuore semplice di un uomo integralmente buono vi sia una soluzione finale”.

Per questo al “monismo morale” Berlin oppone il “pluralismo dei valori”, concetto sul quale peraltro, in una accezione più sfumata, insiste molto anche Schiavone. Entrambi sono coscienti che far coesistere valori diversi è tutt’altro che facile, ma prendono poi strade diverse quando si tratta di trovare una conciliazione. Il primo ritiene che questi valori siano delle creazioni storiche dell’umanità e non dei dati di natura, anche se alcuni – la libertà individuale in primis – attraversano tutte le culture. E che pur essendo in linea di massima i valori morali tutti validi, non sempre le diverse idee relative al bene e al giusto sono commensurabili. Il secondo crede invece che a una conciliazione si possa pervenire, proprio attraverso la grande trasformazione della quale stiamo scorgendo gli inizi. Parte cioè dalla posizione di Berlin, ma finisce poi bene o male in quella degli utopisti. Insomma, il discrimine sta nel fatto che Berlin accetta l’idea che la ‘natura umana’ sia costitutivamente imperfetta, e che a ciò si possa sia pure solo parzialmente ovviare mediando tra libertà positiva e libertà negativa, mentre Schiavone ritiene che l’imperfezione sia solo una condizione temporanea, destinata ad essere cancellata.

Tre manifesti 20

Il caso più clamoroso di incommensurabilità dei beni è per Berlin quello tra libertà e uguaglianza. “Libertà e uguaglianza – scrive – sono tra gli scopi primari degli uomini, ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli”. D’altro canto – come dice ancora – “nel loro entusiasmo per creare le condizioni economiche e sociali affinché la libertà sia un valore autentico, gli uomini tendono a dimenticare la libertà stessa; e se ci si ricorda di essa è facile che si spinga da parte per far posto a quegli altri valori che hanno assorbito i rivoluzionari o i riformatori”.

Quindi, anche valori di per sé imprescindibili possono non andare pacificamente assieme: bisogna prendere atto che l’uguaglianza e la giustizia sociale entrano in conflitto con la libertà individuale, così come l’ordine e la sicurezza confliggono con la tolleranza o la giustizia con la misericordia: perseguono fini diversi, che devono essere bilanciati con prudenza e moderazione.

Per Schiavone invece la vera libertà non esiste se non in presenza dell’uguaglianza (ma lo pensava già Condorcet). Egli fonda come abbiamo visto la sua concezione sull’esistenza (e sulla riscoperta) dell’universale umano – per cui occorre ridefinire l’idea di uguaglianza sulla base del carattere impersonale del soggetto intra-individuale che caratterizzerà la società del futuro. In un saggio precedente, intitolato proprio “Eguaglianza”, scrive che bisogna “cominciare a pensare a un nuovo patto di uguaglianza, per salvare il futuro della democrazia; […]. Un patto che sappia farsi programma politico […], e parta non dalla parità degli individui, ma dall’illimitata eguale divisibilità della cose […], da condividersi equamente fra tutti i viventi. Un patto stretto, non nel nome di una classe, o di un qualunque soggetto che per indicare sé stesso debba escludere altri dalla definizione […], ma del comune umano come soggetto e come valore includente e globale”.

Nella sostanza, la formula di mediazione potrebbe essere questa: per come è fatto oggi l’uomo, se una società vuole essere giusta deve promulgare delle leggi che impongano questa giustizia, negando di fatto la libertà. Se invece vuole essere libera deve eliminare qualunque restrizione alla libertà; cosa che, sempre considerando la natura attuale dell’uomo, porta inevitabilmente a storture e ingiustizie. Non sappiamo se e come evolverà questa natura domani, e nel caso, se ai termini libertà ed eguaglianza potremo attribuire gli stessi significati e lo stesso valore che diamo loro oggi.

È chiaro che tra le due concezioni mi riconosco molto di più in quella di Berlin. Quanto a “soluzioni finali” ne abbiamo già viste sin troppe, ed erano tutt’altro che ispirate al trionfo della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della democrazia. So bene che Schiavone ha in mente altro, che si limita a dire che possono crearsi “occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo”. E che “si renderebbe possibile così la formazione, intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali”. Ma tutto questo rimane per forza di cose talmente vago da prestarsi a qualsiasi interpretazione: e anche lasciando perdere quelle che ne sono state date nel passato dai totalitarismi genocidi, è già sufficiente a farmi diffidare ciò che sento predicare dai vari Baricco e Maffesoli e dai postmoderni di complemento, che profetizzano l’avvento di una nuova “barbarie” a spazzare via le rovine della “modernità criminale”.

Nutro come Berlin una fiducia molto limitata nella essenza positiva della natura umana, e ritengo più importante per la nostra specie difendere gli ultimi ridotti di una civiltà sotto assedio piuttosto che attendere inerte l’arrivo dei nostri, di una tecnologia che venga a spalancare pianure di libertà. Sono convinto altresì che l’eguaglianza e la democrazia non si realizzano quando tutti vogliono le stesse cose, nemmeno se a suggerirle è la soggettività di specie, ma quando tutti per ottenere ciò che vogliono seguono le stesse regole. Naturalmente quando quelle regole le hanno dettate e accettate gli stessi che sono tenuti a rispettarle.

Penso infine anche che l’uguaglianza abbia a che fare solo con i diritti e con l’inviolabilità dell’esistenza di ogni essere umano: il “fondo umano comune” non ci rende uguali nelle caratteristiche corporee e nemmeno in quelle mentali. Come scrive Edoardo Boncinelli “come singoli siamo animali … il collettivo umano, e con esso l’individuo che gli appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà. Di questa nostra ultima particolarità andiamo giustamente fieri, ma non è conveniente né proficuo ignorare i vincoli e le condizioni che ci limitano come singoli”. Che ci limitano, ma che alla fin fine ci rendono anche liberi, perché se la “soggettività globale della specie”, come la chiama Schiavone, o “l’identità collettiva postumana”, come la definisce Dugin, cancellassero la conflittualità tra i fini diversissimi che gli uomini perseguono, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Non solo. La continuità culturale è quella che ha partorito il diritto, ma se si fonda l’uguaglianza dei diritti sul presupposto che siamo tutti uguali, non solo si proclama una falsità evidente, ma si creano le basi per rimettere in discussione l’uguaglianza dei cittadini ogni volta che si scoprisse tra loro qualche differenza biologica.

Basta. Mi accorgo che sto viaggiando verso la stesura di un quarto manifesto, e a questo punto non mi sembra proprio il caso (il che non significa che non abbia già in mente un’altra puntata). Anche perché ho perso completamente di vista il tema di partenza, quello del destino dell’Occidente. O forse ci ho solo girato attorno.

E allora taglio corto e lo riaggancio in extremis. I tre manifesti raccontano rispettivamente un funerale, un’agonia e un battesimo. La protagonista è sempre la stessa, la civiltà occidentale, ma ripresa da angolazioni ideologiche molto diverse, per cui i film che ci arrivano sono naturalmente discordanti. Io ho cercato bene o male di metterli a confronto. Chiunque può fare la stessa cosa, i testi sono disponibili, il primo solo in rete, gli altri anche nel formato cartaceo.

Aggiungo solo un’ultima considerazione. Parlando del compito che spetta all’Occidente (“Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo […] ma completarne la fisionomia”) Schiavone è drastico: “Innanzi a un simile impegno non c’è nostalgia del passato che tenga; non c’è rimpianto per come eravamo che possa reggere […]”. Va bene, magari come sterile rimpianto per come eravamo o per come stavano le cose non terrà; ma questo significa ancora una volta pensare che nella storia agisca un’astuzia della ragione, una necessità che a posteriori giustifica – o condona – le nostre scelte, e condanna tutte le potenzialità che quelle scelte hanno escluso, riducendole a spazzatura abbandonata ai margini della strada. Ora, è chiaro che indietro non si può tornare, ma si può almeno guardare, purché si guardi nella direzione giusta, e non ad un passato immaginario come quello costruito da Jeffers e da tutti i nostalgici dell’Eden. Magari per rendersi conto a quale bivio si era intrapresa la direzione sbagliata; o, perché no, per frugare in quella spazzatura e verificare che non sia stato buttato qualcosa che ancora può risultare utile e vitale. Ed è lecito anche provare rammarico per le scelte non fatte, pur quando c’è consapevolezza che magari non avrebbero poi cambiato granché le cose.

Quanto a me, confesso di essere un nostalgico militante. Come un tempo i maschi ebrei ringraziavano ogni mattina Dio di non averli fatti nascere donne (non so se lo facciano ancora), io ringrazio quotidianamente il cielo di avermi fatto nascere qui, in questo luogo e in questo tempo. E mi spiace vedere il primo trasformarsi e il secondo trascorrere, vorrei poter fermare l’una cosa e l’altra, e nel mio piccolo faccio tutto il possibile per almeno rallentarle. Non parteciperò ai funerali dell’Occidente e diserterò il battesimo del mondo nuovo. E non mi sento ancora affatto spazzatura.Tre manifesti 21

Indicazioni bibliografiche

Le citazioni che compaiono in questo testo sono tratte da:

KINGSNORTH Paul, HINE Dougald, Uncivilisation. The Dark Mountain Manifesto, Oxford 2009

JEFFERS, Robinson, La bipene e altre poesie, Guanda, 1969

JEFFERS, Robinson, Cawdor, Einaudi 1977

DUGIN, Aleksandr, Contro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio, AGA 2022

DUGIN, Aleksandr, Una civiltà planetaria, Il Mulino 2022

SCHIAVONE, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi 2019

DE TOCQUEVILLE, Alexis, La democrazia in America, Rizzoli 1999

BERLIN, Isaiah, Il legno storto dell’umanità, Adelphi 1994

BERLIN, Isaiah, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli 1989


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