Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).
Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.
Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.
Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.
Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.
Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….
Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.
Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.
Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.
In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r),o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.
Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.
Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.
Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.
In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).
Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.
Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.
Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.
Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.
Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).
Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.
Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.
L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.
Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.
Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?
Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.
Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.
Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.
Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.
Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?
Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.
Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?
Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.
Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.
Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.
P.S.
1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.
2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.
3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.
1. Ci sono[2] dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti, ma che non vengono mai esplicitamente portati all’attenzione e fatti oggetto di analisi. Perciò restano conoscenza implicita, senza alcuna riflessione[3]. Questi fenomeni corrispondono un po’ a ciò che Raffaele Simone ha chiamato fenomeni vaghi[4]. Solo in particolari occasioni, in seguito a qualche evento critico, pubblico o privato, ci si rende conto – “si prende coscienza”, si diceva una volta – dell’esistenza di qualcosa di nuovo, anche se magari di assai vecchio nella sostanza. Solo a questo punto, il fenomeno vago può essere circoscritto, diventa familiare, può avere una sua denominazione, può essere analizzato, magari anche compreso nella sua portata.
2. Un caso tipico è quello dell’attuale deriva culturale della sinistra italiana[5]. Intendo qui la sinistra come categoria sociologica, la gente della sinistra o il popolo della sinistra. Si tratta di un fenomeno da tempo collocato sotto gli occhi di tutti, pur non avendo mai avuto alcuna ufficializzazione. Fenomeno vago, appunto. Deriva culturale non vuol dire semplicemente che si perdono le elezioni, come peraltro avviene da un pezzo. Non sto parlando neanche di un eventuale tradimento dei principi e valori della sinistra da parte dei suoi dirigenti, oppure di un abbandono da parte dei partiti della sinistra del proprio popolo. Questi sono fatti che, in qualche misura, sono stati ampiamente rilevati e commentati, come ha fatto, ad esempio, Luca Ricolfi[6]. Io stesso, nel mio piccolo, ho scritto noiosi articoli e saggi in merito, anche se a un certo punto mi sono stancato, visti gli scarsi riscontri. Deriva culturale qui fa piuttosto riferimento alla evaporazione inesorabile della cultura politica della sinistra, come era diffusa e radicata in gran parte del Paese. Sto parlando proprio di un degrado della materia prima, cioè di un degrado intrinseco allo stesso popolo della sinistra. In breve: non siamo più quello che eravamo una volta.
3. Vorrei trattare qui, insomma, della condizione materiale e morale del popolo della sinistra. È una questione intorno alla quale ho sempre creduto, magari a torto, di saperne abbastanza. Sono infatti cresciuto in un ambiente di sinistra, in mezzo a tanti altri come me, in mezzo ai cosiddetti compagni. La qualifica di “compagni” in realtà non ha mai significato un granché, poiché, anche tra i compagni, quelle che emergevano erano sempre le differenze: teorie, ideologie, punti di vista, “sensibilità”, programmi politici e così via. Anche differenze di atteggiamento. Differenze che spesso portavano a rotture, frammentazioni, troncatura di amicizie di rapporti. C’erano anche le invidie e le antipatie personali. C’erano poi anche i furbetti che riuscivano sempre a farsi trovare nel posto giusto, nonostante i tempi cangianti e le incertezze del momento. Tuttavia, al di là della sempre difficile navigazione, al di là dei diversi schieramenti e contrasti, restava sempre la vaga percezione che tutte quelle persone avessero un quid comune, magari davvero assai tenue, capace tuttavia di accomunare, di distinguere dal resto. Di fare la differenza. Si trattava dell’individuazione di un noi collettivo. Un lievissimo comune sentire che si poteva appena avvertire e nel quale si poteva tuttavia confidare. Che magari sarebbe senz’altro emerso, nell’analisi di un fatto politico, nazionale o internazionale, oppure in un momento critico dello scontro politico, in una campagna elettorale importante. Ma sarebbe emerso anche discutendo di libri, oppure discutendo di cinema. Oppure in occasione di una raccolta di firme per qualche iniziativa. Anche la scelta circa la modalità di passare il fine settimana, o di fare le vacanze estive, poteva avere un implicito sottofondo comune. Anche certi hobby avevano un che di distintivo.
4. Su questi vaghi elementi, invero assai indefiniti, superficiali, occasionali ed evanescenti, si basava un senso del noi, un sentimento identitario che derivava da una scelta compiuta, implicita ma anche consapevole, di far parte e di voler continuare a far parte di un certo Mondo[7]. Un Mondo sentito, più intuito che ragionato, ma che per questo non era meno reale[8]. Anche perché gli altri “mondi” erano considerati negativi fuori ogni discussione, erano considerati come dei perfetti disvalori. E, bene o male, questo senso del noi era davvero diffuso. Percepito e condiviso da un numero davvero ampio di persone. Quando c’era qualche iniziativa comune, quelle iniziative davvero basilari, qualificanti, quelle cui non si poteva mancare, ci guardavamo intorno soddisfatti: eravamo comunque in tanti. Magari anche intimamente diversi, ma tanti. Naturalmente qui si sta parlando soprattutto dei tempi andati, del fantastico Mondo dei Boomer[9] e della loro cultura politica. Costoro hanno una descrizione sociologica abbastanza precisa. Sono i nati tra il 1946 e il 1964 e sono stati così chiamati in riferimento al boom demografico (baby boom) indotto dalla fine della guerra[10]. Si tratta oggi della generazione più anziana ancora vivente, che si è particolarmente distinta per una sua specifica cultura politica e per uno straordinario coinvolgimento attivo nelle vicende politiche nazionali e internazionali. Le culture politiche precedenti sono ormai in gran parte trapassate, ahimè, con i loro stessi portatori fisici, e quelle successive, come dirò, costituiscono, proprio sul piano della cultura politica, un notevole punto interrogativo.
5. Premetto qui due righe di teoria sulle questioni generazionali. La nozione sociologica di generazione è incentrata intorno all’esperienza collettiva di un gruppo di età[11]. In questo senso, gli appartenenti a una generazione, accanto al possesso di analoghe caratteristiche di tipo anagrafico, economico e sociale, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati da quella esperienza stessa. Si fa dunque riferimento a qualche tipo di esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo chi l’ha compiuta. Esperienze che abbiano avuto un profondo carattere formativo ed educativo. Si suppone che queste modifiche rimangano in qualche misura come permanenti, sia pure in forma compatibile con lo svolgersi della vita ulteriore. Anzi, queste modifiche dovrebbero costituire un background capace di determinare un comune modo di reagire di quella generazione alle più diverse occorrenze della vita pubblica e privata.
6. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché hanno condiviso una qualche comune esperienza, hanno anche avuto modo di sviluppare una loro auto rappresentazione (una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una loro propria memoria collettiva). Esse, inoltre, proprio in quanto entità bene individuabili, grazie alle caratteristiche che hanno maturato, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle narrazioni di altri soggetti (altre generazioni, i media, la letteratura o talune ideologie). Le generazioni dunque sono dei costrutti sociali, ma sono ben lungi dall’essere arbitrarie, poiché sono un prodotto preciso della storia, dell’azione collettiva e della memoria collettiva.
Se è vera la nostra ipotesi, che sia cioè in corso, o sia addirittura in fase avanzata, una progressiva deriva culturale del popolo della sinistra, allora questa deriva culturale dovrebbe, come minimo, essere fatta risalire indietro nel tempo, a cominciare proprio dai Boomer e dovrebbe coinvolgere progressivamente anche le generazioni successive. Naturalmente si tratta, in questa ricognizione, di prendere in considerazione anche le eventuali continuità o discontinuità nella trasmissione culturale tra le generazioni.
7. Un dato di fatto, per intanto, è che il senso del noi dei Boomer aveva ancora un carattere trans generazionale. C’erano gli anziani (tecnicamente ora definiti come Silents[12]) da cui si poteva sempre imparare qualcosa. C’era una tensione spasmodica nel tentativo di trovare tra loro delle figure guida, dei riferimenti di valore. Dei Maestri[13]. C’erano poi i più giovani di noi, ai quali ci sembrava di avere qualcosa di importante da trasmettere. C’era poi chi aveva all’attivo esperienze significative e magari esemplari da proporre. Quelli della Resistenza, quelli della nuova sinistra dei primi anni Sessanta, come ad esempio quelli dei Quaderni Rossi. C’era il mondo degli intellettuali, ampio, variegato e diffuso anche a livello locale, ma c’erano anche quelli del sindacato e c’era il vasto mondo del lavoro. E poi c’eravamo noi, gli studenti, che eravamo affacciati su questo Mondo. C’erano quelli del volontariato. C’erano poi gli iscritti e i militanti di numerose organizzazioni single issue. Oppure anche soltanto quelli che non sono mai riusciti a prendere una tessera, nemmeno una volta. Quelli, cioè, impietosamente definiti come cani sciolti. Erano sciolti ma avevano un tasso elevato di coinvolgimento e di partecipazione politica.
8. La sinistra, dunque, aveva allora un profilo nettamente pluri generazionale. La cultura politica, le conoscenze, i principi e i valori, le esperienze si cumulavano e si trasmettevano. E la sinistra pareva comunque in crescita. A un certo punto però è subentrata quella che può essere definita come una rottura generazionale. Non mi riferisco tanto alla Generazione X, ancora legata ai postumi del Sessantotto e alle complesse problematiche del riflusso, e peraltro ancora estranea alle nuove tecnologie, bensì soprattutto alla Generazione Y, quelli che sono detti anche Millenial. È quella la generazione che ha, di fatto, accantonato il patrimonio delle generazioni precedenti. Sono coloro che hanno cercato, attivamente e consapevolmente, di costruire una cultura politica completamente diversa, che doveva essere nuova e alternativa. Una politica che fosse antipolitica, di movimento, caratterizzata da un attivismo pragmatico e anti ideologico. Il che finiva per concretizzarsi in cose strane, come il non partito, il non statuto, il mandato imperativo e, soprattutto, il rifiuto della distinzione tra destra e sinistra. La politica, per intenderci, del Vaffa, che poi ha avuto la sua più rilevante espressione nel movimento di Grillo. Il Vaffa non si riferiva soltanto ai santuari del potere, ma anche all’intera cultura della sinistra precedente. Non a caso, come manifestazione estrema del nuovo che avanzava, c’era l’infrastruttura della rete e la famosa piattaforma di Casaleggio, che ebbe poi degli sviluppi tragicomici[14]. Sono loro i veri e definitivi sciolti dal giuramento. Direi, sciolti da ogni giuramento. Con loro la deriva stava cominciando a divenire tangibile. Tutto questo mentre il PD cercava di raccattare confusamente le frattaglie della vecchia destra (la DC) e della vecchia sinistra (il PCI), in una nuova cultura politica detta “democratica” che, in realtà, non è mai nata.
9. Abbiamo allora cominciato a capire che i più giovani, tra quelli delle generazioni successive, non avevano più quell’impercettibile senso del noi di cui s’è detto. Se ne infischiavano del senso del noi, del magico quid che a lungo aveva unito le nostre generazioni e le altre precedenti. Non consideravano la cultura cumulativa delle generazioni, guardavano principalmente al presente. Il passato e il futuro cominciavano a cadere fuori dal campo di attenzione. Era anche quello un fenomeno vago che avrebbe dovuto allarmare, ma che è stato digerito senza troppo scompiglio. Ma non è di questi esiti che intendo occuparmi. M’interessa inseguire che fine ha fatto quel senso del noi che era così diffuso tra i Boomer, che ci ha segnato abbastanza profondamente e che, bene o male, ha caratterizzato una intera stagione politica del nostro Paese. L’ultima stagione che ha visto di fatto, nel bene o nel male, una forte politicizzazione della sinistra.
10. Dicevo che non siamo più quelli di una volta. C’è oggi, sotto il naso di tutti, un fenomeno emergente, proprio tra i vecchi “compagni”, quelli per lo meno che, compatibilmente con l’età, sono ancora attivi, che ancora leggono, scrivono, discutono, partecipano, ciascuno a suo modo. E forse anche tra coloro della Generazione X – i cosiddetti quarantenni – che stanno faticosamente prendendo in mano quel che resta della politica. Questo fenomeno è il senso di estraneità (cioè l’esatto opposto del senso del noi) che emerge subito, ogni qualvolta si cominci appena ad accennare a qualche tipo di questione che abbia, anche solo vagamente, a che fare con la politica e la cultura, vuoi locale, nazionale o internazionale. In altri termini, non ci si capisce proprio più. Il magico quid è evaporato. È andato a ramengo. Quello che una volta era stato per noi Boomer il “Mondo della sinistra” è diventato un mondo di estranei. Determinando così, appunto, la prospettiva demartiniana della fine di un Mondo. Tralascio qui, per motivi di spazio, le implicazioni psicopatologiche che De Martino attribuiva alla sua “fine del mondo”. Sarebbe interessante, in proposito, trattare ampiamente della nozione di de-storicizzazione. Chi fosse interessato, può ricorrere al mio saggio già citato nella nota n. 7.
11. La cultura politica delle fasce più anziane, come i Boomer, è oggi decisamente cambiata. Lo scambio politico tipico, quando c’è, è configurato come una serie di chiacchiere superficiali[15] unite a una mitragliata di slogan sempre più brevi, emozionalmente carichi e dal carattere intransigente. L’impressione è che i pochi Boomer che sono rimasti attivi sulla scena della cultura politica della sinistra credano per lo più di esser giunti a conclusioni definitive. Solo che queste conclusione sono tutte diverse, non coincidono proprio. E queste conclusioni le buttano fuori, le eruttano così come viene, senza alcuna voglia di esaminare e discutere le conclusioni altrui. Certezze ormai consolidate, ma anche fossilizzate e incancrenite. Al posto di qualsiasi attitudine alla riflessione e alla discussione, sembra essersi sostituito l’impulso a produrre una espressione qualsiasi, urgente e necessaria. Alla stregua della classica parresia[16]. È come se le complesse articolazioni della vecchia cultura politica avessero lasciato il posto a poche enunciazioni schematiche. Le antiche disparità di opinione sono ricondotte a poche stanche formule dogmatiche, del tutto rituali. Ciò rende gli attuali consessi dei Boomer ormai sempre più carichi di posizioni schematiche, di noiose ripetizioni e di quel senso di estraneità reciproca di cui si diceva.
12. Questa deriva incombente verso la fossilizzazione non facilita il rapporto con le altre generazioni, anzi lo rende quasi impossibile. La cultura politica dei Boomer sopravvissuti appare oggi, agli occhi delle generazioni successive, del tutto fuori luogo. Notoriamente, la qualifica di Boomer è sempre più usata in forma spregiativa. Essa è salita alla ribalta, e ha fatto il giro del mondo, in una data precisa. Si tratta del novembre 2019, quando il famoso motto “OK Boomer!” è stato usato, nel Parlamento neozelandese, come qualificazione negativa, da una deputata venticinquenne contro un altro deputato, peraltro della Generazione X. Il gergo dispregiativo anti Boomer, dicono le cronache, era tuttavia già in circolazione sui media da almeno una decina di anni.
Così, dopo esser stati a lungo ignorati, i Boomer da almeno un decennio stanno cominciando a divenire – come generazione – oggetto di attenzione da parte delle altre nuove generazioni, che tendono sempre più a considerarli come un blocco residuale dotato di alcuni tratti comuni eminentemente negativi e inopportuni. In altri termini, i Boomer, da soggetti di una complessa e articolata cultura politica quali erano, diventano ora principalmente oggetti di contumelie e invettive. Qui non si tratta solo più di una rottura generazionale, un mancato passaggio della cultura politica cumulata, bensì di un conflitto generazionale che si sta facendo sempre più palese e aperto. I Millenials e la Generazione Z sembrano sempre più infastiditi anche solo dalla presenza dei Boomer[17]. Il conflitto è ovunque sempre più evidente. Non c’è, a sinistra, una sola formazione politico culturale che sia in grado di costituire uno spazio comune di discorso tra i Boomer e le successive generazioni.
13. Nell’ambito della sinistra, ci troviamo dunque di fronte a un fenomeno di estraneità generalizzata, oppure, se vogliamo, a una doppia estraneità. Anzitutto quella ormai ricorrente entro la generazione dei Boomer ancora in attività e poi, secondariamente, anche e soprattutto, quella tra i Boomer e le generazioni successive. Quest’ultima sta prendendo l’aspetto non solo di una rottura ma anche di un vero e proprio conflitto. La prospettiva di un conflitto delle generazioni più giovani contro i Boomer emerge in maniera abbastanza chiara e preoccupante nel lucido e corrosivo OK Millenials! di Brice Couturier[18]. Emerge anche, in forma assai preoccupante, in termini sociali ed economici, dall’analisi di Luca Ricolfi contenuta ne La società signorile di massa[19].
14. Il mio intento tuttavia è quello di caratterizzare soprattutto la deriva dal lato dei Boomer. Facciamo un esempio. Non amo parlare in pubblico delle mie esperienze personali, poiché credo che, in fin dei conti, siano del tutto irrilevanti. Ma questa volta, farò una piccola eccezione. Ho avuto modo di provare il senso di estraneità intra generazionale di cui sto parlando, qualche tempo fa, nel corso di una conversazione con una persona della mia stessa generazione, appartenente in qualche modo a quel Mondo comune, politico e culturale, di cui sto descrivendo e lamentando il progressivo e forse definitivo deterioramento. Stavamo discutendo dei fatti di Gaza, di Netanyahu e quant’altro. In quel contesto, essendomi pronunciato su alcune questioni, peraltro di dettaglio, mi sono sentito rivolgere l’epiteto di antisemita. La cosa mi ha dato un qualche fastidio, anche perché, alla mia età e con la mia storia alle spalle, quella era davvero la mia prima volta nei panni dell’antisemita.
15. Mi sono reso conto in quel frangente, in termini esistenziali più che intellettuali, della perfetta inutilità della discussione che stavo facendo. È proprio così, più o meno con una specie di intuizione, che i fenomeni vaghi diventano fatti reali. Il comune percorso generazionale e il senso del noi, il magico quid, non erano più sufficienti a trovare uno straccio di terreno di discorso comune, peraltro su una questione a proposito della quale ormai c’è una storiografia consolidata e una bibliografia enorme, oltre a innumerevoli prese di posizione di studiosi, intellettuali e opinion leader. Una questione oltretutto che, per quelli della mia generazione, esiste da sempre, fin da quando eravamo bambini. Insomma, mi trovavo esattamente come se il mio interlocutore, Boomer anch’esso, fosse un estraneo qualsiasi incontrato per caso, in treno o al bar. Esattamente come se il famoso quid non fosse mai esistito.
16. Ho citato questo fatterello perché mi pare emblematico e perfettamente generalizzabile. Nel campo di discorso della sinistra, soprattutto dal lato dei Boomer – ma la cosa vale certamente a maggior ragione anche per le generazioni successive – ormai, al posto di una esperienza formativa e costitutiva comune, al posto di una cultura politica cumulativa, ci sono solo più innumerevoli questioni divisive, che vengono “risolte” apostrofando l’altro come un nemico, rovesciandogli addosso le più improbabili accuse, utilizzando l’insulto e lo screditamento morale. Siamo diventati tanti piccoli fondamentalisti che, invece di studiare le questioni e di argomentare, si beano di aggiungere delle reazioni, come se fossimo costantemente su Facebook. O in un talk show permanente. Il termine reazione è perfetto, per qualificare questa modalità deteriorata e residuale di rapporto.
17. Si dice, in sede di psicologia sociale, che i social media avrebbero avuto l’effetto di produrre, nei loro utenti, un pensiero schematico e semplificato, oltre ad averli abituati ad avere reazioni emotive amplificate e di pancia. Ma i Boomer dovrebbero essere oggi quelli meno contagiati di tutti. Sono ormai gli unici, tra i rimasti ancor vivi, ad avere passato ben più di mezza vita senza computer, senza smartphone e senza social media. In più, il Movimento del Sessantotto aveva avuto, come sua caratteristica, l’impiego massiccio della parola scritta, dalle scritte sui muri fino all’interminabile serie degli opuscoli politici e degli articoli e saggi pubblicati nelle riviste. Passando attraverso una miriade di ciclostilati e fotocopie. Fino ai malloppi dei vari Maestri della teoria che circolavano come non mai. Ho esaminato in dettaglio questo aspetto della cultura dei Boomer nel mio saggio: Un Sessantotto gutemberghiano[20]. Tutto questo curricolo formativo è silenziosamente caduto nel dimenticatoio. Come non fosse mai esistito.
18. Era ovviamente da un bel po’ che questo senso di estraneità aveva pieno effetto, che era ormai onnipresente e si infilava più o meno in tutte le questioni. Più o meno in tutti i rapporti interpersonali. Ma sembravano sempre estraneità di volta in volta particolari, specifiche e occasionali. Estraneità di cui si prendeva magari atto, ma magari come “contraddizioni in seno al popolo”, per usare un frasario un po’ datato. Ora sembra proprio il caso di prender atto che sta sopravvenendo una estraneità generalizzata.
Bisogna riconoscere che, ben oltre alla questione palestinese, in effetti, veniamo da stagioni divisive davvero straordinarie. Vediamone alcune, a mo’ di esempio. La sarabanda delle scissioni avvenute intorno al PD e all’ineffabile Renzi. Il conflitto contro tutti del movimento del Vaffa, nato proprio entro la Generazione Y. Il senso di estraneità reciproca con i No-Vax, nato intorno alle discussioni sulla questione delle vaccinazioni. E più in generale intorno alla valutazione della scienza e della tecnologia. Oppure sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina. Uno degli argomenti più divisivi è ancora oggi costituito dalle cause della guerra tra Russia e Ucraina. La NATO poi è in assoluto uno degli argomenti più divisivi. La definizione di cosa sia il regime di Putin è un’altra questione altamente divisiva. Più o meno come era stata divisiva la questione intorno alla vera natura della Unione Sovietica, negli anni Venti e Trenta. Per non parlare delle questioni relative alla pace e alla guerra, con tutti gli annessi e connessi, tra cui la questione delle spese militari. Tutte le volte che parlo della democrazia, quella sostanziale, non quella formale, vedo intorno a me sguardi di pena e commiserazione. Per la maggior parte dei Boomer la democrazia era sempre stata “borghese” e sempre lo sarà! Meglio poi non parlare di magistratura, di legge elettorale, di regolamentazione dei partiti e dei sindacati. Mi dicono che anche nel movimento femminista ci sono oggi delle profonde spaccature.
19. Non parliamo poi ancora di Jobs Act e di questioni legate al mondo del lavoro e al ruolo del sindacato. Il recente Referendum del giugno 2025 ha visto profonde divisioni interne alla sinistra, come una valanga che nessuno più riesce a fermare[21]. Sulle questioni ambientali ci sono poi innumerevoli dissidi, come sulla cosiddetta democrazia diretta e sui beni comuni. Non parliamo poi dei diritti civili e del politically correct. Anche sulla immigrazione siamo riusciti a creare nemici e fronti contrapposti. Possiamo aggiungere anche le ricorrenze del calendario civile, con punte estreme il 25 aprile. Non parliamo poi dell’Europa. Non parliamo poi ancora dell’America e dell’Occidente, sempre colpevoli, secondo alcuni, di qualsiasi nefandezza. Si riesce anche a litigare, in campo filosofico, in maniera piuttosto irriducibile, sui principali filosofi degli ultimi tre o quattro secoli.
Insomma, ci ritroviamo divisi su tutto. Ripeto, su tutte queste questioni è del tutto legittimo esistano punti di vista diversi. Meno comprensibile è che non ci siano più chiavi interpretative minimamente condivise e che ormai nessuno abbia più voglia di dibattere, di studiare, e che le opposte fazioni si affrontino a colpi di insulti, condanne moralistiche e interdizioni perpetue. Ovviamente tutte queste questioni divisive rendono impossibile la formulazione di un qualsiasi programma elettorale progressista di sinistra. Tutto ciò, ovviamente, si è tradotto e si tradurrà in pessimi risultati elettorali. Il 2027 non è poi così lontano. Ma questo sembra non importare a nessuno. Gli effetti concreti della deriva culturale si sono visti nel 2022, quando la sinistra disunita ha fatto vincere la destra.
20. E qui vengo alla questione dell’Occidente senza pensiero, nella sua versione più idiosincrasica. Nel particulare cioè delle nostre vite e dei nostri rapporti quotidiani. Se appena si cerca di approfondire qualcuna delle questioni in gioco, ci si troverà di fronte sempre e soltanto a pezzi di ragionamenti, talvolta di senso comune, talvolta provenienti da epoche passate, talvolta raccattati sui social o presso qualche sito di riferimento di nicchia. Tutte le posizioni, anche le più strampalate, hanno oggi il loro sito di riferimento che coordina i loro adepti. Le analisi (che riguardano magari questioni di grande complessità) sono spesso ridotte all’osso. Spesso si tratta di semplificazioni difficilmente accettabili e del tutto inutili. Al posto dell’approfondimento, abbiamo le ripetizioni martellanti. Le poche e vecchie cause motrici della storia e della società, ossificate, vengono invocate per spiegare le conseguenze più varie, per proporre politiche del tutto improbabili. Scattano sempre gli stessi modelli esplicativi. Colpa dei padroni, degli americani, delle banche, della UE, della finanza internazionale, dei rigurgiti neofascisti, del neoliberismo, del patriarcato, dell’antisemitismo[22], degli immigrati[23] e di quant’altro.
21. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? Io mi do la seguente spiegazione. Finché c’erano le ideologie[24], nel Mondo di cui ci stiamo occupando, c’erano anche le agenzie di produzione ideologica, c’erano gli intellettuali di riferimento, c’erano innumerevoli corpi intermedi che si occupavano intensamente della produzione delle idee. E le idee che circolavano avevano un carattere decisamente professionale. E di idee in circolazione ce ne erano assai. Alcune erano sicuramente pessime, ma alcune decisamente illuminanti, capaci di dar senso alla nostra vita e alla nostra storia. C’era di che scegliere. Tra gli intellettuali c’erano – come dice Aldo Schiavone nel suo saggio – i Maestri, coloro che erano in grado di analizzare le grandi questioni e di operare le grandi sintesi prospettiche che davano senso alle nostre vite e al nostro impegno nella storia. Nonostante le differenze di analisi e di opinione, si aveva l’impressione di una qualche omogeneità, per lo meno nei presupposti di metodo, che consentivano un qualche dibattito civile. Le nuove interpretazioni, quando c’erano, venivano soppesate, i dibattiti procedevano con un certo ordine. Tutti avevano l’impressione di occuparsi all’incirca delle stesse questioni, quelle all’ordine del giorno, che erano perciò considerate da tutti come le più importanti. Magari ci si divideva, ma c’era la consapevolezza che le questioni erano quelle. In genere, ci si divideva per delle ragioni. Se non si era d’accordo con qualcuno o qualcosa, si sapeva sempre spiegare perché. Questo anche perché investivamo tempo e denaro per informarci, per studiare.
22. Bastava leggere qualche rivista o qualche libro ben scelto, per tenersi aggiornati sugli sviluppi dei dibattiti nazionali e internazionali. Magari c’erano dei benemeriti che ogni tanto si peritavano di fare delle sintesi ad usum delphini. Magari anche ricche di copiosi riferimenti storici e con repertori bibliografici che avrebbero ammazzato chiunque. Oppure bastava frequentare le numerose e diffuse conferenze in cui si faceva il punto delle principali questioni. Si poteva dibattere con i relatori, fare delle domande. Ma poi, come ho già accennato[25], c’era un sacco di gente che scriveva. Lettere, articoli di giornale, saggi di vario genere, inchieste, denunce, relazioni a convegni, documenti politici. Habermas avrebbe detto che c’era qualcosa che somigliava al suo modello della opinione pubblica democratica. Al modello del Diskurs. Oggi, a sinistra, non ci sono più dibattiti, non c’è più opinione pubblica, ci sono solo risse da stadio.
23. Con la fine delle ideologie, questo universo culturale comune, questo universo pubblico di discorso, è progressivamente venuto meno. Non sto qui a esaminare in dettaglio perché e come questo sia avvenuto. Sarebbe troppo lungo. Di fatto gli intellettuali pubblici sono diventati dei chiacchieroni televisivi, le riviste hanno chiuso, le case editrici hanno cominciato a sfornare paccottiglia per le nuove generazioni dalla bocca troppo buona. Perfino i corsi scolastici e gli esami sono stati drasticamente semplificati. Oggi si può pigliare una laurea triennale con una tesina di 25 pagine. Così, è accaduto che ciascuno dei Boomer, neanche più tanto giovani, si è trovato a dover ricominciare a camminare con le proprie gambe. Gestire in proprio (cioè da soli) la ricerca delle informazioni e la loro interpretazione. Gestire in proprio la costruzione e il mantenimento di uno straccio di visione del mondo. Tanto per sapere cosa si vive a fare.
24. Di fronte al venir meno di un comune universo di discorso, i più “deboli” (mi sia permesso questo aggettivo, che nell’intenzione vuol essere di grande simpatia) si sono subito persi per strada. Magari anche sommersi dalle accidentalità e dalle incombenze, sempre più difficili, della vita quotidiana. Un riflusso lento e progressivo che in generale ha significato comunque un impoverimento della partecipazione. I più tenaci, sempre più pochi, hanno invece cercato di concentrarsi sulle questioni più commestibili, quelle più alla loro portata, lasciando da parte gli aspetti più ostici, quelli che avrebbero richiesto competenze e linguaggi specializzati. Direi che – contro Lyotard[26] e la schiera dei post-marxisti postmoderni – sia sopravvenuta un’incapacità generalizzata di produrre grandi narrazioni che fossero appena decenti[27], la qual cosa ha assicurato il proliferare delle piccole narrazioni, particolaristiche e identitarie, come quelle della cultura woke. O quelle dei tanti cespugli della sinistra minoritaria nostrana.
25. Avvenne così che, da quella che era sempre stata una galassia, si è dato luogo alla formazione di tanti piccoli micro sistemi – “giochi linguistici” di tipo pragmatico, direbbe il solito Lyotard – sempre più isolati e incomunicabili, sempre più concentrati a cuocere nel proprio brodo. Le idiosincrasie individuali e il progredire delle età anagrafiche hanno fatto il resto. Gruppi di irriducibili, sempre meno numerosi, entro cui ormai si perpetuavano pochi spezzoni di cultura politica, sempre più ripetitivi, sempre meno efficaci a cogliere nel segno i processi e i cambiamenti sociali, e le grandi vicende internazionali. Sempre meno efficaci a indicare prospettive credibili per affrontare la grande trasformazione tecnologica ed economica di fronte alla quale ci troviamo. Ciò ha prodotto anche l’allontanamento dal pensiero scientifico, dalle scienze economico sociali in particolare. Dalle scienze umane. E l’allontanamento dalla filosofia e dai valori dell’umanesimo. Umanesimo, oltre a democrazia, è un’altra parola che suscita ilarità e compassione nel mio circondario, tutte le volte che la pronuncio. Con l’aggravante del fatto che il pensiero politico ha comunque fondamentali risvolti filosofici. La filosofia è nata con la polis, ma la polis non sta in piedi senza una qualche passabile filosofia politica condivisa.
26. Coltivare in proprio anche solo qualche spezzone di discorso approfondito diventava sempre più oneroso, sempre meno remunerativo. E così è venuto il momento in cui ci siamo arresi. Siamo diventati tutti ritualisti nel senso di R. K. Merton. Coloro cioè che, essendo ormai del tutto impossibilitati nei mezzi, continuano inutilmente a vagheggiare i vecchi fini. Si pensi, ad esempio, al degrado subito dal dibattito nel campo delle scienze dell’educazione. Che pure è un campo che coinvolge innumerevoli professionisti, dotati di un certo livello di istruzione, nelle scuole di ogni livello. La qualità scadente della istruzione che trasmettiamo alle giovani generazioni è allarmante, ma nessuno si preoccupa. Neanche le giovani generazioni stesse. Tutti contenti.
27. All’appartenenza viva a un Mondo – la cultura politica della sinistra funzionava proprio come un Mondo demartiniano – con tutte le sue variegate sfaccettature, è così succeduta la coltivazione di costellazioni di identità rituali, rigide, impermeabili a ogni cambiamento. Lasch parlerebbe di Io minimo[28]. Che queste identità siano confinate in piccoli gruppi di irriducibili (destinati a sciogliersi solo con la sopravvenuta inabilità dei singoli appartenenti) oppure confinate entro la soggettività di singoli cani sciolti. Finché c’era un Mondo, era facile partecipare, discutere, scegliere tra le diverse alternative, magari anche cambiare posizione, ingenuamente anche infinite volte. Venuto meno il Mondo, l’economia del cambiamento non poteva più funzionare. Cambiare prospettiva da soli[29] era diventato sempre più oneroso, sempre più difficile. Non restava che rinchiudersi in una sorta di Fortezza dei Tartari. Ormai si costruiscono solo più cinte difensive, fortificazioni per difendere quelle quattro idee in croce che qualcuno ancora conserva gelosamente. Cimeli di un passato che una volta era stato vivo ma che ora è poco più che ridotto a un fossile museale. In generale, possiamo dire che alle elaborazioni complesse delle analisi e dei punti di vista che erano propri di un Mondo, è subentrato il fai da te individualizzato e, soprattutto, disperato. È subentrata la presunzione autoreferenziale di albergare e mantenere un residuo di cultura politica senza un autentico confronto, senza elaborazione, senza pubblico discorso, ma semplicemente sventolando una bandierina.
28. Se qualcuno poi cerca faticosamente di mantenere qualche standard culturale appena un po’ più elevato, magari affine a quei Maestri cui pure si era ispirato in passato, oppure se cerca di armeggiare con qualche forma di pensiero meno semplicistico, un po’ più articolato, oppure se cerca di tenersi aggiornato al panorama culturale internazionale, ebbene costui sollecita e suscita, nel circondario, l’incredulità e poi le immediate diffidenze. E talvolta aperte ostilità. Financo aggressività. L’Io minimo, oggi così diffuso, non può che produrre il rancore contro i diversi. Perché l’appiattimento cui siamo soggetti è una cosa che si deve consumare tutti insieme. Chi non si appiattisce come tutti, è decisamente un provocatore. Mal comune, mezzo gaudio. Sono reazioni in fin dei conti comprensibili, sebbene non giustificabili. Non si hanno ormai più gli strumenti per capire ciò che appena si distanzia dal senso comune. Costui sta dalla mia parte oppure è contro di me? Devo dargli ragione o devo dargli torto? Nel dubbio, è sempre meglio tenersi alla larga, meglio bannare senza esitazione. L’Io minimo è implacabile.
29. Quando vengono progressivamente meno i criteri di valutazione in termini di cultura politica, cioè criteri legati a un comune universo di discorso, a un universo di principi e valori, a un’enciclopedia di concetti condivisi, a un Mondo, come si diceva poc’anzi, allora si fa strada con prepotenza la logica realistica dell’amico/ nemico. Quella che è piaciuta tanto a certi nostri marxisti post-marxisti. Che hanno mollato Karl per avere in cambio l’altro Carl. Non contano più le idee, bensì i rapporti tra le persone. Si passa, ahimè, come dice Lyotard, dalla semantica alla pragmatica. La tendenza allora è quella a costituire piccole consorterie di sodali, che discutono di niente al proprio interno, ma che sono convinti di avere alcune comuni idee–bandiera, alcuni vessilli simbolici da sventolare, qualche vecchia canzone da ascoltare, qualche rito periodico da compiere. Qualche causa assurda da sostenere. Appunto, cose come i “giochi linguistici” e le “piccole narrazioni” di Lyotard. Da brandire contro tutto il resto del mondo. Soprattutto da brandire contro i concorrenti interni alla sinistra stessa. Il che avviene oggi ancora esattamente come nella vecchia Unione sovietica. Il capitalismo poteva anche aspettare, ma quello che dovevi combattere, e far fuori subito, era il tuo immediato concorrente interno. Al di sotto degli striminziti e spesso assurdi vessilli simbolici, se si va a ben guardare, spesso ci sono soltanto piccoli interessi di bottega. Occupare qualche posto nella pletora di piccole organizzazioni che non contano più nulla, piazzare gente della tua lobby negli incarichi e organismi dirigenti, far venire qualcuno dei tuoi a tenere una conferenza da fuori, o a presentare un libro, mandare qualche post su Facebook per intrattenere la tua cerchia, rilasciare qualche intervista a nome della tua organizzazione, fare delle cene per raccogliere fondi, farsi invitare a tenere qualche pubblico dibattito. In tutto questo attivismo da amico/ nemico, accade così inevitabilmente che il famoso merito, tanto blaterato in teoria quanto sempre ignorato in pratica, vada a farsi benedire e si generi quella caratteristica selezione degli incapaci, così tipica ormai ad ogni livello delle organizzazioni superstiti del popolo della sinistra. Deriva culturale e selezione degli incapaci sono un miscuglio tossico che caratterizza sempre più il panorama tardo della fine di questo Mondo.
30. Spero di avere adeguatamente motivato che un Occidente senza pensiero[30], l’argomento del mio precedente saggio, non è solo un vezzo intellettualistico. O un argomento salottiero di moda. È piuttosto qualcosa che ha riguardato da vicino le nostre vite, quel che eravamo e quel che siamo purtroppo diventati. E che determina oggi la chiusura delle nostre prospettive e delle nostre speranze rispetto al futuro. Per noi e per quelli che verranno (anche se a costoro la cosa sembra davvero poco importare!). Si tratta di una deiezione nella quale siamo scivolati, senza neppure accorgercene. Senza neppure gridare. Senza neppure invocare aiuto. Semplicemente perché stavamo precipitando tutti nella stessa direzione, e ci sembrava allora una cosa del tutto normale.
In questo saggio mi sono occupato soprattutto del Mondo che ho conosciuto meglio, quello dei Boomer di ieri e di oggi. Se questo è però il quadro della deriva della cultura politica nell’ambito dei Boomer – cioè, quella generazione ancor vivente che nel contesto della propria formazione ha avuto le maggiori iniezioni di cultura politica – ci si può seriamente domandare allora quale sia la situazione presso le generazioni successive. Su questo argomento ho avuto qui solo il modo di fornire qualche flash estemporaneo. Magari tornerò sull’argomento. Qualche tempo fa mi sono ampiamente occupato della questione[31] e posso dire che, in merito, è ormai disponibile una vasta letteratura e che questa non è delle più confortanti. Peraltro, basta guardarsi intorno.
OPERE CITATE
1983 Anderson, Benedict, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
2021 Couturier, Brice, OK Millenials! Puritanisme, victimization, identitarism, censure. L’enquête d’un baby-boomer sur les mytes de la génération “woke”, Éditions de l’Observatoire, Paris.
1984 Lasch, Christopher, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.
1979 Lyotard, Jean-François, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
1952 Mannheim, Karl, The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London. [1923]
2000 Putnam, Robert D., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York. Tr. it.: Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna, 2004.
2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.
2019 Ricolfi, Luca, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.
2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.
1969 Riesman, David & Glazer, Nathan & Denney, Reuel, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven and London. Tr. it.: La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999. [1950]
2012 Rinaldi, Giuseppe, “La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino”, in Anima e Terra, n. 2, ottobre, pp. 133-157.
2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.
[2] Recentemente ho scritto un saggio di analisi intitolato Occidente senza pensiero. In quel saggio, in dialogo ideale con Aldo Schiavone (Cfr. Schiavone 2025), mi occupavo di una questione un poco astrusa, cioè del destino culturale dell’Occidente, nella attuale tormentata fase storica. Devo dire che il mio saggio, tranne lodevoli eccezioni e qualche latrato fuori luogo, non ha suscitato grandi reazioni, né positive né negative. Il saggio che qui presento, tratta esattamente e pervicacemente gli stessi argomenti dell’altro, non più però dal punto di vista generale, bensì dal punto di vista idiografico, cioè particolare. Diciamo che qui mi occupo del lato particolaredel vuoto di pensiero dell’Occidente, quello che ci riguarda da vicino e ci tocca direttamente come individualità storiche. Mi aspetto pertanto almeno qualche reazione negativa, ma staremo a vedere. Preciso, dati i tempi, che nella stesura di questo testo non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.
[5] Userò il termine “sinistra” in senso ampio, senza alcuna distinzione interna, riferendomi soprattutto agli elementi basilari della cultura politica sinistrese. Circoscrivo per semplicità il discorso alla sinistra italiana. Quanto al termine deriva, così recita il Passerini Tosi: «Andare alla deriva = Detto di nave che non si può più governare ed è trascinata dalle correnti. […] In senso figurato […] lasciarsi trascinare senza reagire. Esser come in completa balia degli eventi».
[7] Uso qui il concetto di Mondo, che ha avuto una rispettabile tradizione filosofica, a cominciare da Kant e Schopenhauer per continuare con Dilthey e Husserl, e che, specificatamente nel campo storico sociale, culmina con uno dei miei Maestri virtuali, Ernesto de Martino. Sulla nozione di “mondo” in Ernesto De Martino si può vedere il mio saggio Rinaldi 2012. Il saggio è stato da poco rivisto e ripubblicato sul mio blog: Finestre rotte: La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012).
[8] Su questo punto, il riferimento ovvio è Comunità immaginate di Benedict Anderson. Cfr. Anderson 1983.
[9] Uso questo termine, anziché termini similari, solo perché è più preciso e permette così il raffronto con le altre generazioni. Sociologicamente, i Boomer sono coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 61 e 79 anni. La generazione successiva è la cosiddetta Generazione X, che comprende i nati tra il 1965 e il 1979. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 46 e 60 anni. Sono costoro a rappresentare il contingente più ampio dell’attuale personale politico. La generazione successiva è quella dei Millenial (detti anche Generazione Y) che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1994 e che, nel 1925, hanno una età compresa tra 31 e 45 anni. Costoro – vista la gerontocrazia tipica del nostro Paese – si apprestano a costituire la schiera new entry nell’ambito del personale politico. La generazione successiva è la Generazione Z, nata tra il 1995 e il 2012. Oggi nel 2025 hanno un’età compresa tra 13 e 30 anni. Data la loro età, sono ancora in gran parte coinvolti nei processi di formazione. Sono coloro cui dovrebbero essere rivolte formidabili e obbligatorie iniziative di formazione alla cultura civica e alla vita politica. Sarebbe questo il solo investimento che potrebbe provare a invertire la deriva di cui stiamo parlando. Ma nessuna forza politica nostrana ha all’ordine del giorno qualcosa di simile.
[10] Il boom demografico vale soprattutto per gli Stati Uniti. Un po’ meno per l’Italia.
[11] Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.
[12] Sociologicamente così è stata denominata la generazione dei nati prima del 1946, tra il 1928 e il 1945.
[13] Sembra strano oggi, ma queste figure guida c’erano, erano numerose e distribuite anche a livello locale. Le si poteva incontrare, si poteva discutere con loro, si potevano ascoltare le loro conferenze o leggere i loro articoli sulle riviste. Oggi, a destra e a sinistra, tutti credono di saperne abbastanza e di non aver alcun bisogno di figure guida. Chi si presentasse come figura guida sarebbe perfettamente ignorato. Ovviamente, fanno eccezione i leader populisti.
[14] Tutto ciò è ormai caduto nel dimenticatoio. Il danno arrecato è stato grave, ma costoro uno straccio di analisi e di autocritica non la faranno mai. Scurdammoce o’ passato!
[15] Non posso non evocare qui il mondo della chiacchiera come descritto da alcuni filosofi esistenzialisti.
[16] La parresia è l’impulso irrefrenabile a dire pubblicamente quella che si ritiene essere la verità, a qualsiasi costo.
[17] La mia impressione è che le radici ultime di questa conflittualità siano assai profonde. Non ho spazio qui per entrare in argomento. Altrove ho parlato di mutazione antropologica. Cronologicamente, i primi a rilevare qualcosa di simile a questa mutazione sono stati David Riesman (1909-2002) e Marshall McLuhan (1911-1980). A seguire poi molti altri studiosi, come ad esempio Cristopher Lasch (1932-1994). Si tratta di una diversa strutturazione dell’Io dovuta a processi sociali e soprattutto culturali. Riesman, nel suo The Lonely Crowd, contrappone il tipo psicologico degli inner-directed a quello degli other-directed. Ho trattato diffusamente di questa problematica nel mio saggio David Riesman e l’individuo ben socializzato, peraltro mai pubblicato su Città Futura. Cfr. Finestre rotte: David Riesman e l’individuo ben socializzato. Si veda eventualmente Riesman 1969 [1950].
[22] Oggi anche l’ONU è da taluni considerato come antisemita. Mi sento dunque in buona compagnia.
[23] In occasione del Referendum 2025, è accaduto spesso di sentire rudi militanti della “rivolta” landiniana sostenere che la presenza, nel pacchetto dei Referendum, della questione della cittadinanza agli immigrati avrebbe alimentato l’assenteismo elettorale e fatto perdere voti ai referendum sul lavoro. Un chiaro invito a non ripetere più l’errore di simili connubi contro natura.
[24] Assumo qui – seguendo l’opinione corrente – che ci sia stata effettivamente una fine delle ideologie, anche se la questione è davvero assai discutibile e controversa. È senz’altro riscontrabile che siano finite giustamente alcune ideologie decisamente dannose e financo perverse. Insieme a loro sono state buttate ideologie invece del tutto indispensabili, come l’umanesimo, la democrazia, l’eguaglianza oppure il cosmopolitismo Non ho spazio qui per trattare questa problematica.
[26] Cfr. Lyotard 1979. Lyotard è un filosofo post-strutturalista e postmodernista.
[27] Il problema non è se le narrazioni siano piccole o grandi, bensì se siano giuste o sbagliate. Siccome Lyotard è un relativista, guarda soltanto alla dimensione delle narrazioni (grandi o piccole) e non al loro contenuto.
Negli interventi postati su questo sito compare sempre più spesso il richiamo alla “verità”. Non è un caso. È un’insistenza voluta. Questo non perché si stia abbracciando un qualche credo fondamentalista, o si vogliano rincorrere le “offerte culturali” del mese, che traboccano non di sconti ma di concetti dati per scontati, primo tra tutti, guarda caso, quello di post-verità. La nostra è semmai è una controfferta: vorremmo difendere l’idea che una convivenza civile non possa prescindere da una quota sia pur minima di verità condivisa, intesa quest’ultima non come scolpita su marmo in lettere maiuscole – “LA VERITÀ” sulle origini e sui destini del mondo – ma come lo sforzo di comprendere e descrivere nella maniera più oggettiva possibile l’andamento delle cose nel mondo. Se rifiutiamo che i nostri rapporti con ciò e con chi ci circonda debbano e possano essere improntati a questa idea, allora apriamo la porta appunto alla post-verità: cioè al nuovo fondamentalismo relativista.
Ci sembra dunque più che opportuno riproporre il saggio scritto da Beppe Rinaldi sette anni orsono sul fenomeno della post-verità e pubblicato sul sito “Finestre rotte”il 5 aprile 2018. In tempi di intelligenza artificiale e di rincitrullimento di quella naturale sette anni equivalgono a secoli, ma nel saggio c’era già tutto il necessario per capire quella che oggi appare una inarrestabile deriva. E soprattutto c’era – e c’è ancora, e vale anzi più che mai –, proprio per la profondità e la lucidità e l’accuratezza che sempre distinguono le riflessioni di Rinaldi, l’esempio concreto di come a tale deriva si possa malgrado tutto opporre una dignitosa resistenza. Senza sventolare o bruciare bandiere, senza scandire slogan insulsi, senza inscenare pietose pantomime per le strade o nelle aule parlamentari: semplicemente perseverando nella volontà di conoscere, e quindi di pensare con la propria testa, e insistendo a credere nella possibilità di condividere e di confrontare delle idee, anziché delle ideologie (o peggio, delle imposture o delle stronzate).
Leggetevi allora queste pagine con la calma e l’attenzione che meritano: magari non accederete all’empireo della Verità, ma ne uscirete senz’altro vaccinati contro la post-verità.
Paolo Repetto
***
1. Da qualche tempo[1] le fake-news sono all’ordine del giorno. La loro diffusione sta preoccupando alquanto il mondo della informazione e quello della politica, i governi e perfino le grandi multinazionali dei social media. C’è solo da essere soddisfatti poiché, finalmente, il grande pubblico sembra abbia compreso che le fake sono una cosa seria e che possono rappresentare un enorme pericolo. Si sta diffondendo, a quanto pare, la consapevolezza che, in una società minimamente civile, non possiamo fare a meno della verità. Una modica quantità di verità sembra sempre più costituire un bene primario cui non possiamo rinunciare. Non resta che sperare che non sia già stato ampiamente superato il punto di non ritorno. In realtà, il caso delle fake-news è solo uno degli aspetti – forse quello più appariscente ma non certo il più importante – di un fenomeno assai più generale e cioè della diffusione della menzogna, e di una serie di suoi nuovi derivati, nelle interazioni sociali, nello spazio pubblico della comunicazione e, soprattutto, nell’ambito della politica nazionale e internazionale. Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a essere segnalato intorno agli anni Novanta del secolo scorso e che è cresciuto progressivamente fino ai nostri giorni.
2.In campo culturale, e particolarmente in campo filosofico, l’allarme circa la diffusione di prodotti menzogneri è vecchio ormai di almeno due o tre decenni. Tra l’inizio degli anni Novanta e il nuovo secolo avevano cominciato a comparire varie reazioni critiche nei confronti della diffusione di certi prodotti subculturali, strettamente legati all’affermazione presso il grande pubblico del postmodernismo.[2] Nel 1997 Sokal e Bricmont pubblicarono un loro famoso saggio contro le imposture intellettuali[3](fashionable nonsense)in cui furono messe alla berlina le disinvolture argomentative di alcuni famosi intellettuali postmoderni per lo più francesi (Lacan, Kristeva, Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio) e in cui si faceva un resoconto dettagliato della cosiddetta burla di Sokal che aveva contribuito a smascherare un certo ambiente postmoderno nordamericano.
Sokal e Bricmont erano entrambi professori di fisica, rispettivamente a New York e a Lovanio. Ecco il resoconto della burla, attraverso la penna dei diretti protagonisti: «[…] uno di noi, Sokal, decise di tentare un esperimento non ortodosso […]: sottopose a una rivista culturale americana alla moda, Social Text, una parodia del genere di articoli che abbiamo visto proliferare negli ultimi anni, per vedere se l’avrebbero pubblicata. L’articolo, intitolato «Trasgredire le frontiere, verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica», è pieno di assurdità e di palesi non sequitur. Inoltre propone una forma estrema di relativismo cognitivo: dopo aver messo in ridicolo il “dogma” superato secondo cui “esista un mondo esterno, le cui proprietà sono indipendenti da ogni essere umano in quanto individuo, e in definitiva dall’umanità intera”, afferma categoricamente che “la ‘realtà’ fisica, non meno che la ‘realtà’ sociale, è in fin dei conti una costruzione sociale e linguistica”. Attraverso una serie di salti logici sbalorditivi, arriva alla conclusione che “il π di Euclide e la G di Newton, un tempo considerati costanti ed universali, vengono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità […]”. Il resto dell’ articolo è dello stesso tono. Ciò nonostante l’articolo fu pubblicato in un numero speciale di Social Text […]. La beffa fu immediatamente svelata dallo stesso Sokal, suscitando un diluvio di reazioni […]».[4] Tutto ciò avveniva nel 1996. Possiamo considerare da parte nostra che, in generale, stupidaggini alla moda ci siano sempre state ma è abbastanza significativo il fatto che il loro primo massiccio sdoganamento e il loro primo debutto nei circoli della cultura alta sia avvenuto proprio all’interno del mondo stesso degli intellettuali, il quale deve, evidentemente, aver subito qualche trasformazione profonda.
3. L’allarme circa la diffusione di contenuti menzogneri non ha riguardato solo il campo della produzione intellettuale. Nel 2005 il filosofo nordamericano Harry Frankfurt pubblicò un libretto intitolato Bullshit, ovverossia, tradotto in italiano, Stronzate.[5] Così esordiva l’Autore: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. […] non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro, o di quale funzione svolgano. […] In altre parole, non abbiamo una teoria».[6]Il contenuto del libretto era già comparso come articolo nel 1986, tuttavia il successo di pubblico si ebbe nel 2005, quando l’articolo fu pubblicato nella veste di libro, in un contesto dove ormai l’attenzione al problema era piuttosto alta. Con il suo intervento Frankfurt intendeva richiamare l’attenzione su un certo nuovo tipo di contenuti fasulli, poco seri, decisamente fastidiosi e invadenti, che avevano preso a diffondersi sempre più nell’ambito comunicativo e che minacciavano di sommergere qualsiasi altra espressione. Va detto che il libretto di Frankfurt era più che altro un pamphlet dal tono ironico e dissacrante e quindi non presentava, in effetti, alcuna teoria approfondita sul fenomeno in oggetto. Esso ebbe tuttavia il merito colpire nel segno.
Secondo Frankfurt, cercando di ricavare una definizione sintetica dalla sua trattazione,[7] il bullshit sarebbe all’incirca un prodotto linguistico grezzo e sommario che fornisce una rappresentazione non adeguata, insignificante o futile della realtà. Il carattere distintivo del bullshit sarebbe costituito proprio dalla sua totale mancanza di aderenza nei confronti della realtà. All’alba del nuovo secolo, Frankfurt suonava dunque un campanello di allarme, evidenziando un fenomeno di degrado del discorso pubblico che tutti avevano ormai sotto il naso. In effetti, già allora era ben presente la sensazione di essere sommersi da una marea di insulsaggini incontrollate e incontrollabili. Quella di Frankfurt poteva sembrare una boutade, invece gli sviluppi successivi avrebbero finito per superare ogni pessimistica immaginazione.
4. Più o meno nello stesso periodo, cominciava a emergere la sensazione che si stesse diffondendo, presso il vasto pubblico, un atteggiamento di sempre maggior tolleranza verso la menzogna. Il grido di allarme in proposito fu lanciato da Ralph Keyes, nel suo volume Post-Truth Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, uscito nel 2004. Lo studio di Keyes ha segnato, a quanto pare,la prima comparsa del termine post-truth nella titolazione di un libro. Keyes si occupava del fenomeno – com’era allora percepito – della sempre maggior diffusione della menzogna nella vita quotidiana e nella sfera pubblica. L’Autore contrapponeva la situazione tradizionale, nella quale verità e menzogna erano chiaramente contrapposte e in cui la menzogna era per lo più esecrata e andava incontro alla pubblica disapprovazione, a una nuova situazione in cui tra verità e menzogna erano collocate infinite sfumature, in cui la menzogna stava diventando un comportamento sempre più diffuso e sempre meno censurato dalla disapprovazione sociale. Si era dunque di fronte, secondo l’Autore, a un netto cambiamento di segno che coinvolgeva in profondità le relazioni interpersonali e la comunicazione sociale. L’epoca della postverità (post-truth era) sarebbe dunque – secondo l’Autore – una nuova epoca in cui le relazioni interpersonali sarebbero state sempre più caratterizzate dallo sdoganamento della menzogna, accompagnato strettamente dalla diffusione della disonestà. Anche Keyes non produceva alcuna elaborata teoria in merito, tuttavia nel suo libro, dallo stile peraltro piuttosto giornalistico, l’Autore snocciolava una casistica impressionante di fatti e fatterelli che testimoniavano di una sempre maggior indifferenza nei confronti della verità ormai diffusa in tutti i settori della società contemporanea.
5. Il termine post-truth ha poi avuto sempre più diffusione, segno evidente della sua capacità di individuare e contraddistinguere un nuovo fenomeno. Prova ne è che l’Oxford English Dictionary ha deciso di eleggere post-truth come “parola dell’anno” del 2016. Consultando qualche autorevole dizionario possiamo vedere meglio il significato attuale del termine, per come si sta consolidando. Il Collins, alla voce post-truth, recita: «Di, o relativo a, una cultura in cui il ricorso alle emozioni tende a prevalere a discapito dei fatti e delle argomentazioni logiche». Secondo gli Oxford Dictionaries: «Denotante, o relativo a, circostanze in cui i fatti oggettivi, nella configurazione della pubblica opinione, sono meno influenti degli appelli alle emozioni e alle credenze personali». Il Cambridge Dictionary riporta: «Relativo a una situazione in cui le persone sono più propense ad accettare una argomentazione basata sulle proprie emozioni o credenze piuttosto che una basata sui fatti». Tutte le definizioni, come si può ben vedere, segnalano una sorta di antitesi tra un approccio emotivo del tutto soggettivistico e il riconoscimento oggettivo dei fatti. Pongono cioè una contrapposizione tra un atteggiamento di realismo e la mancanza di realismo o l’irrealismo.
Su Wikipedia[8] si può trovare un tentativo di sintesi che costituisce quasi una definizione organica: «Il termine post-verità, […] indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali».[9] La definizione pare del tutto pertinente, anche se, a nostro giudizio, avrebbe bisogno di un’estensione di campo, in aderenza a un fatto ora più che mai evidente: la postverità non concerne solo le discussioni, com’è suggerito, ma coinvolge ormai ogni tipo di comunicazione che sia scambiata nel mondo sociale, e quindi, indirettamente, le stesse relazioni sociali che ne derivano.
6. Il prefisso post davanti a truth ha, più o meno, il significato di un oltre.[10] Si noti che il termine post-truth è considerato nel mondo anglosassone come un aggettivo. La traduzione in italiano con “postverità” lo trasforma in un sostantivo, rendendolo così un concetto astratto. A nostro giudizio poteva andar meglio una traduzione con il costrutto oltre – vero, che può essere usato sia come aggettivo sia come sostantivo, e che porta con sé una vaga assonanza nicciana che non guasta. Pur non intendendo produrre alcuna innovazione terminologica, proverò in questo scritto a usare ogni tanto questo termine, cercando così di esplorare la possibilità di un suo uso efficace.
Sul piano del contenuto, il concetto sta a sottolineare una sorta di oltre passa mento della istanza della verità nella sfera delle comunicazioni e delle relazioni sociali, fino al punto dal determinarne la sua totale perdita di importanza. Nel mondo della postverità, o dell’oltre-vero, la verità sembra essere diventata, insomma, una cosa superflua, una cosa che non è alla nostra portata o una questione che non ci riguarda più. Il termine oltre-vero non si riferisce dunque a particolari contenuti falsi (per i quali esistono già altri termini, come i già citati fake-news o bullshit) ma a una particolare modalità di considerare le questioni di verità che pare si stia instaurando presso il vasto pubblico. Il che può configurarsi come un atteggiamento pratico, soprattutto da parte del grande pubblico oppure come una disposizione teorica, soprattutto da parte degli intellettuali, degli opinion leader e simili.
7. La sensazione dunque è che con l’oltre-vero non ci troviamo più di fronte alla nozione tradizionale della menzogna[11] bensì di fronte a qualcosa di costitutivamente diverso. Secondo Frankfurt – è questa una delle sue argomentazioni più costanti – le stronzate (bullshit)non sarebbero propriamente menzogne. La menzogna classica implica per lo più che chi la proferisce abbia la nozione di quale sia la verità e implica un’esplicita intenzione di occultare la verità. Afferma infatti a un certo punto Frankfurt: «È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Ebbene, produrre stronzate non richiede questa convinzione».[12] La stronzata, come definita da Frankfurt, è invece semplicemente indifferente alla verità e proprio in ciò sta la sua principale inadeguatezza nei confronti della realtà. In ciò sta anche la spiegazione della sua estrema diffusione, della relativa tolleranza con cui è accolta e, in fin dei conti, del suo grande successo. Frankfurt ci ha fornito qui la chiave per una conclusione di qualche rilievo: in una post-truth era che sia giunta a piena maturazione non ci sarebbero più menzogne, ci sarebbero solo stronzate. Nella postverità non c’è più tendenzialmente il caso classico di chi, conoscendo la verità, la neghi consapevolmente per scopi disonesti. Nella post truth era nessuno più pretende di conoscere la verità, semplicemente non c’è più alcun commitment per la verità. Forse proprio per questo i mentitori – anche quelli classici – sono sempre più frequentemente assimilati a simpatici intrattenitori, cioè a bullshit artist.[13]
8. L’atteggiamento di crescente irrilevanza verso la verità non poteva non influenzare il mondo dell’informazione. Parallelamente alle imposture intellettuali e al bullshit, sono salite all’attenzione del pubblico le fake-news, di cui abbiamo già accennato. La definizione di fake-news è decisamente più circoscritta e meno controversa. Recita Wikipedia:[14] «Il termine inglese fake-news (in italiano notizie false) indica notizie redatte con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, rese pubbliche con il deliberato intento di disinformare o diffondere bufale attraverso i mezzi di informazione. Tradizionalmente a veicolare le fake news sono i grandi media, ovvero le televisioni e le più importanti testate giornalistiche. Tuttavia con l’avvento di Internet, soprattutto per mezzo dei media sociali, aumentando in generale la diffusione delle notizie, è aumentata proporzionalmente per logica conseguenza anche la diffusione di notizie false».
Se le fake sembra abbiano avuto la loro lontana origine nel campo della più classica produzione di menzogne, è chiaro che il passaggio delle fake-news dagli ambiti più tradizionali dei grandi media a quelli della rete sta creando le condizioni per una sovrapposizione sempre più ampia tra le fake e il bullshit, fino a una sorta di vera e propria transizione dalla menzogna classica verso il bullshit. Anche i mezzi di informazione – indipendentemente da casi di ricorso a menzogne classiche – sembrano sempre meno sensibili alla verità e sempre più propensi a diffondere contenuti dal basso valore veritativo che siano però dotati di una forte attrattiva per il pubblico. Strettamente connesso alle fake-news è il mondo delle bufale, delle dicerie, dei rumor che spesso costituiscono il contenuto delle fake stesse. Anche in questo caso si tratta di fenomeni che pur essendo sempre esistiti, hanno assunto una loro visibilità ed efficacia in conseguenza dello sviluppo della rete. In Susstein 2009 si trova uno studio sui loro meccanismi di diffusione. Su argomenti analoghi e sulla psicosociologia delle credenze si può consultare Bronner 2003.
9. Infine, la diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità non poteva che coinvolgere in maniera rilevante anche e soprattutto il mondo della politica. Almeno dal 2010 è in uso, nei paesi anglosassoni, il termine post-truth politics. Anche in questo caso la traduzione comporta qualche difficoltà. Alla lettera potrebbe andare bene politica post veritiera, oppure, se vogliamo, possiamo usare la nostra locuzione politica oltre-vera. Sulla scorta di Ferraris 2017, che usa postverità come sostantivo e postruista come aggettivo, potrebbe andar bene politica postruista.
Citiamo da Wikipedia anglofona: «La post-truth politics (denominata anche post-factual politicse post-reality politics) è una cultura politica in cui il dibattito è largamente caratterizzato da appelli alle emozioni del tutto disconnessi dai dettagli effettivi delle varie politiche, e dalla continua ripetizione delle parole d’ordine, le cui confutazioni fattuali sono del tutto ignorate. La post-truth politics è differente dalla tradizionale contestazione e falsificazione della verità in quanto consiste nel trattare la verità come una cosa di secondaria importanza. Sebbene questo fenomeno sia stato descritto come un problema nuovo, c’è la possibilità che esso faccia parte da tempo della vita politica, ma che sia stato poco visibile prima dell’avvento di internet e dei suoi relativi cambiamenti sociali».
La politica postruista (o oltre-vera) è dunque una politica che, seguendo l’andazzo generale, è diventata indifferente alle questioni di verità, non tiene conto dei fatti, non tiene conto della realtà delle cose. Una politica, insomma, che fa a meno della verità. La politica postruista costituisce così la curvatura che la politica assume quando questa sia collocata entro il quadro della postverità, sia sul piano pratico sia su quello teorico. Poiché la politica postruista è una politica che si sviluppa sul terreno della postverità, essa tende a fare liberamente largo uso di imposture, fake e bullshit. Come casi esemplari di politica postruista sono state spesso citate la campagna per la brexit e quella per la prima elezione di Trump alla Casa Bianca nel 2016. La campagna condotta, con successo, da Trump nel 2024 non fa che confermare l’esemplarità del caso.
10. Come si vede dalla rassegna che abbiamo presentato, siamo in presenza, a quanto pare, di fenomeni nuovi, per molti versi inaspettati, che stanno assumendo un peso di rilievo nella vita delle nostre società. Si tratta di fenomeni di non facile definizione e che sembrano tuttavia avere per lo meno qualche somiglianza di famiglia.[15]Oltretutto, la terminologia relativa a questo campo è ancora in fase di formazione, vi si possono trovare usi e definizioni alquanto sovrapponibili ma anche alquanto diversificati. Quel che è certo comunque è che tutte queste novità linguistiche e concettuali segnalano, direttamente o indirettamente, la consistenza e la pervasività del fenomeno che stiamo cercando di circoscrivere e rappresentare.
Volendo utilizzare una metafora intuitiva, tanto per stipulare con il lettore una convenzione provvisoria, propongo di immaginare un gigantesco iceberg che galleggia in mare: le imposture intellettuali (fashionable nonsense), le fake-news e la politica postruista sarebbero l’equivalente della punta dell’iceberg. Sarebbero cioè la parte più visibile che corrisponde a ciò che il vasto pubblico ha cominciato appena a scorgere. Il bullshit, data la genericità della sua definizione, costituirebbe l’iceberg nella sua totalità, che notoriamente è molto più grande della parte emersa e, proprio per questo, molto più pericoloso. La postverità, o il mondo dell’oltre-vero, sarebbe il mare dove galleggia tranquillamente il bullshit, sia per la parte emersa che per quella sommersa. Secondo questa immagine, le imposture intellettuali, le fake-news e la politica postruista si potrebbero considerare come tipi specifici di bullshit, cioè per così dire specie di stronzate specializzate, avendo tutte in comune la caratteristica minimale di non prendere sul serio la verità e la realtà.[16] Va da sé che, in questo quadro, viene a essere sempre più trascurabile la menzogna classica, la quale – pur non essendo certamente sparita – sembra divenuta meno importante, perché nel mare dell’oltre-vero – come s’è detto – nessuno più pretende di sapere una qualche verità e di volerla intenzionalmente celare.
Dopo avere delineato sommariamente, in termini descrittivi, i fenomeni che ci interessano e le relative nomenclature, cercheremo, in quel che segue, di esplorare alcuni aspetti dell’inquietante paesaggio glaciale di fronte al quale ci troviamo e con il quale ci dovremo sempre più confrontare nel prossimo futuro.
11. Se la posterità (o l’oltre-vero) è il mare che tiene a galla il bullshite tutto il resto, è il caso allora di comprendere meglio di che cosa si tratti. La postverità, in estrema sintesi, può essere ricondotta al consolidamento e alla diffusione presso il vasto pubblico di una convinzione, di ordine pratico e teorico, secondo cui in molte situazioni la verità è trascurabile. Questa convinzione implica che ci possono essere tante verità, che possiamo fare a meno di una nozione condivisa di verità e che, quindi, non abbiamo più alcun interesse a fare sforzi e a impiegare risorse per accertare la verità e per dire la verità. In altre parole, ormai ci sono soltanto dei punti di vista, collocati tutti sullo stesso piano, che ciascuno accoglie o rifiuta in base a disposizioni e scelte del tutto personali, o anche in base al momento. Il tutto però – si badi bene – è supportato da un’ulteriore sottile connotazione di ordine morale, secondo la quale è inevitabile, o addirittura giusto, che sia così e secondo la quale, così facendo, possiamo cavarcela tranquillamente o, addirittura, vivere decisamente meglio di prima. Meglio di quando ci trovavamo sotto l’assillo della verità. Insomma, la condizione della postverità può essere vissuta come un fatto positivo o addirittura come una liberazione. Si badi bene che chi pratica e condivide l’oltre-vero non necessariamente deve esserne compiutamente consapevole. Basta fare quello che fanno tutti, quel che è considerato del tutto normale. Provando ad addentrarci ulteriormente nei meandri della postverità, per comodità di analisi, distingueremo ora un ambito pratico e un ambito teorico, anche se nella realtà i due aspetti sono strettamente intrecciati e correlati.
11.1. Per quel che concerne l’ambito pratico, sembra dunque assodato che in molte situazioni, la verità non sia più considerata come un imperativo capace di qualificare il nostro comportamento e di dirigere le nostre scelte. Si tratta di un mero fatto, sotto gli occhi di tutti. Affermava Keyes già nel 2004: «Anche se ci sono sempre stati dei mentitori, le menzogne di solito sono state dette con esitazione, un pizzico di ansietà, un po’ di colpa, una qualche vergogna, almeno qualche imbarazzo. Ora, intelligenti come siamo, abbiamo tirato fuori degli stratagemmi per manomettere la verità tanto che possiamo dissimulare senza sentirci in colpa. Questo lo chiamo post-vero. Noi viviamo in una era post-vera (post-truth era). La postverità esiste in una zona grigia dell’etica. Ci permette di dissimulare senza che ci dobbiamo considerare disonesti. Quando il nostro comportamento confligge con i nostri valori, la cosa più facile che possiamo fare è di rivedere i nostri valori. Pochi di noi sono disposti a pensare di se stessi di essere immorali e tanto meno attribuire ad altri qualcosa di simile, così ricorriamo ad approcci alternativi alla moralità. Si pensi a questi approcci come a una sorta di alt ethics [etica alternativa]. Questo termine si riferisce a sistemi etici nei quali dissimulare è considerato positivo, non necessariamente sbagliato, a volte non effettivamente “disonesto” nel senso negativo della parola. Anche se noi raccontiamo più menzogne che mai, nessuno vuole essere considerato un mentitore».[17]
Insomma, è come se noi, in pratica, tenessimo costantemente spalancata una zona grigia entro la quale la definizione di vero e falso è tenuta continuamente in sospensione, tanto che la questione della verità non ha più alcuna rilevanza agli effetti delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. Siamo sempre più ambigui e ci aspettiamo continuamente di trovarci di fronte all’ambiguità. L’indifferenza verso la verità, nel suo lato pratico, pare così avere perso il carattere minaccioso della figura del mentitore, di colui che conoscendo una verità la celava per ingannare. Pare anzi assumere una connotazione positiva, poiché pare capace di oliare adeguatamente la macchina delle relazioni sociali. Non badare troppo alla verità risparmia un sacco di fastidi e permette di essere sempre perfettamente adeguati.
11.2. Si noti che un atteggiamento oltre-vero nell’ambito pratico è possibile solo in un contesto nel quale sia indebolita la nozione stessa della autenticità individuale. Il problema di fronte a cui si trovano costantemente gli individui oltre-veri non è più quello di presentarsi agli altri nella propria autenticità quanto quello di apparire in modo adeguato alla situazione in cui si trovano. Nello sforzo di essere aderenti a ciascuna situazione, i singoli individui sono sempre più disincentivati allo sforzo di definire una propria autenticità personale stabile e permanente. Ciò ingenera identità fluttuanti che curano soltanto la rappresentazione contestuale da mettere in scena. Insomma, sempre meno autentici e sempre più teatranti. Solo in una simile prospettiva la menzogna può essere derubricata a peccato veniale o anche considerata come una sottile arte di buona condotta, come nel caso del già citato bullshit artist. Con la postverità cade l’interesse per una definizione stabile del self e quindi un interesse per l’autenticità della rappresentazione di sé presso gli altri. Poiché si deve mettere in scena una rappresentazione adeguata e poiché il contesto muta velocemente, allora il bullshit può rappresentare uno strumento di lavoro del tutto ammissibile, anzi una materia prima indispensabile – nello spirito rortyano di essere ironici, tolleranti e socievoli.[18]
11.3. La diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità oltre al suo lato pratico ha naturalmente anche il suo lato teorico. La perdita di importanza della verità in campo pratico è del tutto parallela con la convinzione che la verità non esista, e viceversa. Non ci stiamo occupando qui della questione filosofica della negazione della verità, vecchia quanto la filosofia occidentale.[19] Ci occupiamo piuttosto di un fatto conclamato ed esplicito, cioè della convinzione oggi diffusa ovunque – dagli intellettuali ai politici, fino alle casalinghe – secondo cui in fin dei conti non c’è alcuna questione di verità di cui valga la pena di occuparsi.
11.4. Questa idea strampalata,[20] per quanto se ne sa, ha presumibilmente avuto origine nell’ambito dei movimenti radicali degli anni Sessanta. Fu proprio in quell’ambito che cominciarono a diffondersi, a livello di massa, sull’onda della popolarità delle filosofie del sospetto,[21] due orientamenti strettamente imparentati con l’oltre-vero, e cioè il relativismo[22]e, soprattutto, il politically correct.[23] Si trattava, in origine, dell’applicazione di un egualitarismo radicale al linguaggio, alle relazioni sociali e ai fenomeni culturali. Siccome la verità era generalmente considerata come un’imposizione del potere (come ad es. in Michel Foucault) allora non restava che considerare come altamente sospetta e pericolosa qualunque pretesa veritativa e riconoscere radicalmente la pluralità dei punti di vista. Ciò trovava ampie applicazioni soprattutto nel campo del discorso, ma anche nei campi relativi ai rapporti tra i sessi o alle questioni etniche. Ben presto però tutte le nozioni cardine elaborate dalla modernità, come la razionalità, la logica, le grammatiche e le enciclopedie, la scienza, la tecnologia, gli apparati giuridici e istituzionali, furono sottoposte a una critica erosiva, spesso vandalica, che mirava a smascherare il potere ovunque nascosto, a imporre la neutralità terminologica e a riconoscere la molteplicità dei punti di vista.
11.5. Proprio a partire dal relativismo e dal politically correct, nel volgere di pochi anni, ha preso forma e si è diffusa presso il vasto pubblico, anche e soprattutto come una moda, la filosofia postmoderna che ha costituito una specie di pastiche sincretico – di carattere cinico, anarcoide e antimoderno – di tutte le filosofie che nell’ambito dei movimenti si erano connotate contro. Il postmoderno si è scagliato contro tutti i sistemi consolidati di verità e ha proclamato la fine delle grandi narrazioni. Al posto del pensiero forte (quello che pretenderebbe di veicolare una qualche verità) è stato esaltato il pensiero debole ed è stato dato l’addio alla verità.[24]
Sui rapporti tra il postmoderno e la postverità (o oltre-vero) è stato scritto alquanto e ci sarebbe molto da dire.[25] Abbiamo già citato le imposture intellettuali e la burla di Sokal che era diretta proprio contro la filosofia postmoderna. Per brevità, mi limiterò a un breve montaggio di alcuni passi di Maurizio Ferraris, che è intervenuto ancora recentemente sulla questione nel suo libretto intitolato Postverità e altri enigmi.[26] L’Autore sottolinea il peso che ha avuto il postmodernismo nello screditamento della verità anche e soprattutto a livello del grande pubblico. Si domanda Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto, dalla filosofia. […] La postverità è un frutto, magari degenere, del postmoderno».[27] E continua: «[…] quella che si chiama «postverità» non è che la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni»».[28] E ancora: «[…] la postverità è l’inflazione, la diffusione e la liberalizzazione del postmoderno fuori dalle aule universitarie e dalle biblioteche, e che ha come esito l’assolutismo della ragione del più forte».[29] Più precisamente: «L’ultima fase [del postmoderno ndr] […] corrisponde alla popolarizzazione delle idee postmoderne, che escono dalle accademie e, con l’aiuto decisivo dei media, si trasformano dapprima nel populismo (in cui esiste ancora un rapporto verticale tra governanti e governati garantito dalla televisione) e poi nella postverità (in cui il rapporto diviene orizzontale, visto che governanti e governati si servono dei medesimi social media)».[30] E ancora, tanto per finire: «[…] la continuità fra postmoderno, populismo e postverità è diretta».[31]
11.6. Se questa piccola ricostruzione ha qualche fondamento, allora l’antipatia per la verità, che sta con ogni evidenza alle origini della post-truth era, è dunque storicamente connessa, in forma ovviamente del tutto scorretta, all’antipatia per il potere, per tutte le limitazioni e per i vincoli di ogni sorta. Essa corrisponde a un momento intenso di autoesaltazione dei soggetti i quali pare abbiano preso a considerare se stessi come il centro del mondo. In filosofia – come bene ha spiegato Ferraris – questo atteggiamento è tipicamente costituito e supportato dalle filosofie trascendentali, attraverso l’idea cioè che il soggetto strutturi il mondo attraverso gli schemi della sua mente.[32] Più ampiamente, a livello culturale, questo atteggiamento è stato tipico di tutti i romanticismi. In proposito, così ha sintetizzato Isaiah Berlin: «I fondamenti essenziali del Romanticismo sono i seguenti: la volontà, il fatto che non esiste una struttura delle cose, che ci è possibile plasmare le cose a nostro piacimento – esse pervengono all’essere soltanto per effetto della nostra attività plasmatrice –, e di conseguenza l’opposizione a qualunque concezione che cerchi di rappresentare la realtà come dotata di una forma suscettibile di essere studiata, descritta, appresa, comunicata ad altri, e sotto ogni altro aspetto trattata in un modo scientifico».[33] Insomma, secondo Berlin, anche quando i romantici sembrano profondamente immersi in quel che fanno, essi sono pervicacemente fuori dal mondo, assolutamente indisponibili a venire a patti con la realtà. Si noti che il romanticismo è stato forse la prima forma culturale prodotta da intellettuali a essere ampiamente popolarizzata e ad avere guadagnato una specie di vita autonoma. Molto prima del postmoderno.
12. Perché proprio ora? Si tratta di fenomeni decisamente nuovi oppure si tratta solo di nuove modalità di presentazione di fenomeni vecchi come il mondo? Secondo diversi studiosi, la caduta dell’autorità veritativa cui stiamo assistendo sarebbe stata resa possibile, ingigantita e moltiplicata, da una nuova base materiale (per dirla con Marx) prima sconosciuta, costituita dalle nuove tecnologie dell’informazione. In altri termini, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione costituirebbe una condizione sufficiente, seppure non necessaria, dell’oltre-vero. In effetti, a guardare bene, le tappe temporali dell’allarme circa la diffusione della famiglia delle nuove menzogne sono all’incirca le stesse che hanno segnato la diffusione delle nuove tecnologie.
Le nuove tecnologie, seguendo Ferraris,[34] hanno agito, a quanto pare, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, la rivoluzione delle nuove tecnologie ha messo a disposizione di ogni singolo individuo la possibilità di memorizzare, elaborare e diffondere una quantità enorme d’informazione. Ancora nel caso dei primi media, l’informazione era distribuita a senso unico da centri e agenzie specializzate verso il pubblico. Oggi ogni singolo è diventato un’agenzia di produzione e diffusione. In secondo luogo, nello stesso tempo, è aumentato decisamente il ruolo della informazione nella costituzione intrinseca del mondo sociale.[35] In particolare si è reso sempre più tangibile il ruolo delle iscrizioni e dei documenti nella vita quotidiana e nella strutturazione stessa delle istituzioni. Ferraris, per concettualizzare queste trasformazioni, ha parlato di una rivoluzione documediale.
Secondo Ferraris: «[…] la rivoluzione documediale è l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui ogni ricettore di informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di informazioni e di idee».[36] La documedialità ormai diffusa sta così permettendo una strutturazione completamente nuova dello spazio comunicativo, rendendo così possibile – sebbene non sia una conseguenza necessaria – anche il mondo della postverità. Così ha sintetizzato Ferraris con una formula davvero icastica: «L’ideologia che anima la postverità è l’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso) ma da sole».[37]
Le nuove tecnologie sembra dunque abbiano così reso possibile – magari anche solo come effetto secondario – una indifferenza di massa nei confronti della verità e della realtà.
13. Il carattere peculiare della nuova situazione è chela verità, da fatto pubblico e sempre soggetto a qualche tipo di controllo autoritativo – qual era stata finora prevalentemente – tende sempre più a diventare un fatto privato che tuttavia è costantemente ed egotisticamente sbandierato in pubblico da chiunque. Ciascuno è diventato imprenditore della propria verità. Questa nuova situazione contrasta profondamente con un’imposizione che si è sempre accompagnata alla nozione tradizionale della verità e cioè con l’obbligo morale di dire la verità o, per lo meno, di tener conto della verità. I greci avevano elaborato in proposito il concetto della parresia,[38] su cui ha riflettuto l’ultimo Foucault. Socrate non può evitare di dire la verità ai suoi concittadini. Oggi Socrate avrebbe il suo blog e, a parte i suoi follower, sarebbe perfettamente ignorato da tutti. Al posto della parresia pubblica, divenuta impossibile, abbiamo oggi l’impulso a pubblicare i nostri preziosi punti di vista, anche se già svalutati in partenza dalla loro convivenza con i punti di vista di milioni di altri soggetti.
Volendo usare una semplificazione, è come se l’indebolimento e la crisi delle grandi narrazioni collettive – fenomeno che è stato ampiamente sottolineato proprio dal postmodernismo – avesse lasciato il posto a una moltitudine di micro narrazioni private riguardanti i campi più disparati e che ciascuno ora è in grado, per quel che può, di costruire, di mantenere e diffondere a suo uso e consumo. Ognuno prende per veri i propri deliri e li mette in rete, alla ricerca di qualcun altro disposto a condividerli, con la probabilità, sorprendentemente alta, di trovare un gran numero di follower. Analizzare e smentire ciascuno di questi infiniti deliri sarebbe ormai un compito improbo per qualsiasi autorità che abbia in mentre di provvedere a qualche tipo di controllo e certificazione. Il volume enorme di pretese verità e narrazioni che si rendono ogni giorno disponibili non fa altro che produrre una sorte di meccanismo di inflazione. Troppe verità in giro non possono che andare soggette a una svalutazione. Così la zona grigia tra il vero e il falso si è dilatata mostruosamente, come aveva già suggerito Keyes.
14. Questa trasformazione non resta confinata ai singoli individui. La postverità tende sempre più a caratterizzare lo spazio comunicativo e il fatto più rilevante è che si appresta inavvertitamente a prendere il posto dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica in Occidente – secondo il classico studio di Habermas[39]– è nata con la libertà di pensiero e con la diffusione dei primi mezzi di comunicazione, come le gazzette e i servizi postali, e dei primi luoghi di incontro, come caffè e teatri.[40] I singoli soggetti s’informavano, s’incontravano, discutevano e alla fine opinavano, esprimevano cioè un’opinione più o meno meditata intorno a importanti questioni pubbliche. L’opinione pubblica (che pure non sempre aveva ragione) contribuiva comunque – nel sistema democratico – all’elaborazione di credenze condivise, all’identificazione del bene comune e alla formazione della volontà generale. Sappiamo bene che la nozione dell’opinione pubblica habermasiana è stata sottoposta a molte critiche. Spesso ne sono stati identificati i limiti. Lo stesso Habermas aveva parlato, quando ancora il fenomeno era poco avvertito, di una crisi della opinione pubblica. Molti studi relativi alle trasformazioni delle democrazie contemporanee si sono focalizzati sulle trasformazioni o sui limiti della opinione pubblica. Tuttavia resta pur sempre il fatto che una opinione pubblica matura costituisce uno dei pilastri essenziali delle democrazie.
Accade così che, al posto della vecchia opinione pubblica, plurale e variegata, fatta di molteplici incontri faccia a faccia che avvenivano ancora in spazi fisici e grazie a oggetti fisici, oggi si va sostituendo il mare della nostra metafora, ossia un unico spazio virtuale indifferenziato, di dimensioni globali, dove ogni individuo – divenuto centro di elaborazione e diffusione di informazione – rovescia i suoi contenuti e valuta i contenuti altrui con risposte che si mantengono – come si è detto – per lo più a livello espressivo ed emotivo, e che non hanno mai alcuna validazione, alcun confronto effettivo con la realtà. Uno spazio in continua ebollizione, dove tuttavia non si giunge mai ad alcuna conclusione, alcun accordo, dove anzi si scatenano sovrapposizioni continue, dove c’è continua concorrenza o dove ci si ignora bellamente. Si tratta di uno spazio in cui gli universali della comunicazione[41] sono costantemente violati o stravolti. Si tratta tuttavia di uno spazio che è in grado di condizionare in modo imprevedibile le risposte, le scelte e i comportamenti di un pubblico enorme. In questa alterazione radicale delle caratteristiche della tradizionale opinione pubblica sta proprio la radice dei fenomeni più eclatanti della postverità e cioè della invasione delle imposture intellettuali, delle fake-news e della politica postruista.
15. Il mondo della postverità – è il caso di ricordarlo esplicitamente –è decisamente antitetico ai fondamenti del processo politico democratico. La nozione roussoviana della democrazia implicava che i cittadini dovessero stabilire un’agenda comune, dovessero entrare in un confronto razionale tra loro e che, alla fine, dovessero giungere a deliberare intorno al bene comune. E che la deliberazione della maggioranza dovesse essere accettata dalle minoranze, poiché tutti sarebbero stati tenuti a sottomettersi alla regola della maggioranza. Per fare questo occorreva comunque che si condividessero gli universali della comunicazione, ad esempio l’esigenza di argomentare, di fornire delle prove, di non fraintendere, di non screditare l’interlocutore. Nella post-truth era non c’è più nulla di tutto questo. Nessuno è più tenuto ad argomentare, ad ascoltare, a confutare o a consentire, non ci sono più universali comuni che sottintendano alla comunicazione. Non si cerca più una verità comune perché si è già convinti che una verità comune non c’è, e che non è neppure così importante che ce ne sia una. I criteri di scelta di ciascuno sono imperscrutabili e comunque del tutto fluidi. Gelosamente privati. O al più condivisi momentaneamente in ambiti ristretti. I gruppi dei follower si fanno e si disfanno con grande rapidità, non discutono esaurientemente di nulla, non deliberano su nulla, al più usano una logica binaria del tipo like–dislike. L’unica cosa implicita che è sempre presente è la richiesta a tutto il mondo del riconoscimento del proprio punto di vista, del proprio ego. Questa nuova situazione non può che spingere i sistemi democratici verso il populismo.[42]
16. Abbiamo rilevato come le nuove tecnologie dell’informazione abbiano costituito per lo meno la condizione sufficiente – seppure non necessaria – per lo sviluppo del mondo dell’oltre–vero. Tuttavia è assai problematico individuare quale sia esattamente la connessione tra i due fenomeni e su questo punto anche tra gli studiosi sussistono molte divergenze. Per capire meglio la questione dobbiamo approfondire la questione del rapporto tra tecnologia e cultura.
16.1. Sugli effetti culturali delle tecnologie, il riferimento più tradizionale va a McLuhan e alla scuola di Toronto. Secondo questo orientamento, le tecnologie della comunicazione sono delle vere e proprie estensioni del self e gli esseri umani tendono a costruire il proprio self in funzione delle tecnologie comunicative di cui dispongono, nella loro società e nella loro epoca storica. Gli studiosi della scuola di Toronto hanno distinto all’incirca tre fasi fondamentali nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia. La prima fase sarebbe quella dell’oralità primaria. È questa la condizione delle società che non conoscono la scrittura e che devono organizzare tutto il loro patrimonio culturale intorno all’oralità. Esempio tipico di questa condizione è la cultura omerica, cui corrispondeva un ben preciso tipo di organizzazione del self. A questa prima fase segue la seconda, che corrisponde all’introduzione della scrittura e – dopo molti secoli – all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Secondo McLuhan la modernità sarebbe stata possibile solo grazie all’invenzione della stampa, a partire dalla quale si sono sviluppati la Riforma e il pensiero scientifico moderno. Questa seconda fase, assai lunga e variamente definita, sarebbe culminata con lo sviluppo dell’individualità moderna, cioè con il self del cosiddetto uomo gutemberghiano. Si tratta di un self articolato e complesso che è strutturato in forma argomentativa, dotato di un ordine rigoroso, esattamente come un libro stampato.
Solo nella seconda metà del Novecento alcune invenzioni (il telefono, la radio, la televisione) avrebbero spodestato il libro stampato e avrebbero reso possibile la formazione del self per altre vie, recuperando gli aspetti visivi e auditivi della comunicazione. Si sarebbe così giunti alla cosiddetta terza fase, che comporterebbe un indebolimento del carattere gutemberghiano del self e a una sorta di recupero di funzionalità tipiche dell’antica oralità prescritturale. Questa fase è stata definita come oralità secondaria o oralità di ritorno. McLuhan ha caratterizzato questa come la fase del villaggio globale, reso appunto possibile dai media, il cui prototipi erano la radio e la televisione. Nell’ambito della scuola di Toronto naturalmente gli ultimi sviluppi legati alla rete e ai social media sono stati considerati come una conferma della interpretazione di McLuhan.
16.2. Non mancano ai giorni nostri studi specifici sugli effetti a vasto raggio delle nuove tecnologie sul self e sulla cultura. In molti casi i risultati sono effettivamente allarmanti. Un caso è quello di Nicholas Carr che ha pubblicato nel 2010 uno studio dal titolo Internet ci rende stupidi?[43]L’Autore ha ripreso le tesi di McLuhan e le ha messe a confronto con i più recenti risultati delle neuroscienze. Ebbene, le tesi dello studioso canadese sono uscite decisamente corroborate e meglio chiarite nei dettagli applicativi. Nello studio di Carr si mostra, con dovizia di basi empiriche, come il nostro cervello sia eminentemente plastico e come le nuove tecnologie siano in grado di cambiare profondamente – in termini fisici – le nostre stesse connessioni e strutture cerebrali e il nostro apparato cognitivo. In particolare, poi, gli studi di Dehaene[44] sulla lettura – ripresi da Carr – hanno mostrato in maniera inequivocabile come gli alfabetizzati abbiano dovuto costruire, nel loro sviluppo, delle particolari strutture cerebrali per essere messi in grado di leggere correntemente. Ha affermato Carr: «La Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è la più potente arrivata dopo il libro».[45] L’autore ha lanciato di conseguenza un allarme rispetto alla dipendenza che s’instaura nei confronti delle nuove tecnologie e rispetto all’obsolescenza degli strumenti della cultura – come il libro – cui è stato legato lo sviluppo degli ultimi secoli. Tutto ciò costituirebbe una minaccia molto seria per il pensiero articolato e complesso.
16.3. Non tutti gli studiosi concordano con le teorie della scuola di Toronto. In effetti, se non ci si vuol impegnare con una teoria complessa come quella di McLuhan, per tutta la famiglia di fenomeni connessi all’oltre-vero è disponibile una spiegazione più elementare, la quale insiste sulla sproporzione che è venuta a determinarsi tra la potenza estrema dello strumento reso disponibile dal progresso tecnologico e i limiti (l’animalità, la stupidità o l’imbecillità) dell’utilizzatore medio. Un po’ come nel caso della bomba atomica.
Ferraris, ad esempio, non concorda con le tesi della scuola di Toronto. Secondo Ferraris non sussisterebbe il fenomeno del ritorno a una qualche sorta di oralità secondaria e la nostra civiltà continua a essere, a pieno titolo, una civiltà della scrittura. Pochi anni fa l’Autore aveva scritto un libro per mostrare che il telefonino – data la sua capacità di fondere insieme testo, suono e immagini – costituisce uno sviluppo della fase gutemberghiana, una sua compiuta realizzazione e non certo la sua crisi.[46] Ferraris quindi è stato indotto ad attribuire l’avvento della postverità soprattutto al cattivo influsso di una cattiva filosofia e cioè – come abbiamo già visto – alla filosofia postmoderna. L’avvento della post-truth era sarebbe stato determinato da una scelta colpevole, sia da parte di certi intellettuali sia da parte del grande pubblico che si è lasciato abbindolare. Il tutto non può che tradursi in una condanna morale. Un giudizio assai tranchant nei confronti della tendenza diffusa a sottovalutare le questioni di verità è stato in effetti dato da Ferraris, tra il serio e il faceto, in termini di accusa di imbecillità. Dice Ferraris: «Definisco […] categorialmente o transcategorialmente, l’imbecillità come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è una colpa».[47] Sembra tuttavia che l’indignazione morale non possa esser sufficiente a contrastare quello che pare stia diventando un vero e proprio fenomeno di massa. Anche se Ferraris pare sostenere che l’imbecillità umana sia una costante e che, talvolta, possa giocare anche un ruolo positivo nello sviluppo dello spirito umano.
Anche Umberto Eco aveva sostenuto qualcosa di simile. È il caso di ricordare la sua famosa affermazione: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».[48]Secondo Eco, dunque, la stessa potenza delle nuove tecnologie stava rendendo possibile la riproduzione e diffusione ovunque della spazzatura subculturale. Alle origini del fenomeno ci sarebbe sempre il contrasto tra la potenza dello strumento e la costitutiva stupidità umana che sarebbe da considerarsi, sul piano storico, più o meno come un elemento invariante.
16.4. Altri studiosi hanno segnalato, in forme diverse, sempre a partire dagli anni Novanta, la realtà di un progressivo degrado culturale a livello di massa, che costituirebbe una netta inversione di tendenza rispetto al periodo precedente. Il linguista Tullio De Mauro ha spesso richiamato l’attenzione sull’analfabetismo funzionale di una parte rilevantissima della popolazione italiana, a cui l’istruzione di massa, promossa in tutta la seconda metà del Novecento, pare non abbia posto gran che rimedio.[49] Le statistiche in questo senso sono, in effetti, sempre più preoccupanti e, in termini funzionali, non si nota alcun miglioramento.
Va segnalato anche – quasi profetico nel nostro contesto – il grido di allarme di Sartori nel suo famoso libretto Homo Videns che è del 1997.[50] Sartori fin da allora si era particolarmente interessato al destino dell’homo politicus, che egli vedeva lentamente trasformarsi in homo videns, una specie di bambino mai cresciuto che non è più in grado di ragionare. Seguendo in un certo qual modo McLuhan, Sartori ha messo l’accento sulla differenza fondamentale tra vedere e pensare e sul «[…] prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza capire».[51] Afferma Sartori: “[…] tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensibilis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e cancella i concetti: ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire. […] L’idea, scriveva Kant è «un concetto necessario della ragione al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto adeguato”».[52]
Va segnalato che il sottotitolo del libro di Sartori era Televisione e post-pensiero. Il post-pensiero cui accenna Sartori sembra del tutto analogo alla post-verità di cui abbiamo lungamente discusso. Così si esprime, infatti, Sartori, riferendosi al nuovo tipo umano derivante dalla prevalenza dell’immagine sul pensiero: «Il loro non è un genuino anti-pensiero, un attacco dimostrato o dimostrabile al pensare logico-razionale; è più semplicemente una perdita di pensiero, una banale caduta nella incapacità di articolare idee chiare e distinte».[53]Anche in questo caso possiamo parlare di una sopravvenuta irrilevanza del pensiero logico – razionale in una situazione in cui le immagini paiono esaurire il nostro rapporto con la realtà. Sartori si mostrava ben consapevole del fatto che la politica democratica era strettamente legata al pensiero argomentativo e che la progressiva prevalenza di media non-argomentativi avrebbero determinato un grave pericolo per la democrazia.
Anche il linguista Raffaele Simone in diversi suoi scritti ha ripreso, in un certo senso, alcuni aspetti delle tesi di McLuhan. Egli tuttavia – più che sviluppare un’articolata teoria dell’oralità secondaria – si è limitato a costatare, attraverso osservazioni empiriche del fenomeno linguistico, che i nuovi media e la rete inibiscono certi modelli culturali dove la testualità è ricca a favore di certi altri ove la testualità è più superficiale ed elementare. Il che rappresenta un ovvio indebolimento dell’uomo gutemberghiano. Si è limitato inoltre a far notare che sussiste il rischio di un grave impoverimento del pensiero. Non a caso il sottotitolo del suo libro del 2000 suona: «Forme di sapere che stiamo perdendo». Darò qualche spazio, nel prossimo paragrafo, alle tesi di Simone, non perché le ritenga del tutto risolutive, ma poiché mi paiono descrivere in maniera appropriata alcuni dati di fatto difficilmente confutabili e oltremodo preoccupanti cui ci troviamo di fronte.
17. Nel suo studio intitolato La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo[54]Simone ha condotto, dal punto di vista del linguista, un’interessante analisi sul fenomeno del cambiamento del self in relazione alle mutazioni dello spazio comunicativo. Poiché il self è in gran parte un costrutto linguistico, è del tutto lecito pensare che il tipo di linguaggio che usiamo e in cui siamo costantemente immersi contribuisca alla strutturazione dello stesso self.
17.1. Come premessa, è di grande interesse una sua nota metodologica relativa alla possibilità di individuare e circoscrivere dei fenomeni che sono per loro natura sfuggenti e che hanno attinenza con le lente trasformazioni culturali e sociali. L’Autore li ha chiamati fenomeni vaghi. Afferma Simone in proposito: «[…] il mondo del simbolico è ricco di quelli che […] ho suggerito di chiamare “fenomeni vaghi” […]. Si tratta di fenomeni di cui tutti avvertiamo la presenza, che ci colpiscono a volte con un’evidenza quasi insopportabile, contro i quali possiamo reagire perfino con fastidio, perché ci irritano o semplicemente ci disorientano – ma che non si lasciano ridurre a cifre, tabelle e trend, non affiorano sotto forma di dati palpabili e obiettivi. Spesso non si lasciano neanche indicare con un nome preciso – anzi, quando li trattiamo in questo modo, si limitano a sparire silenziosamente».[55] È evidente che molti dei fenomeni che abbiamo descritto a proposito della postverità sembrano possedere proprio le caratteristiche dei fenomeni vaghi.
17.2. Simone, nel suo studio, ha cercato dunque di individuare e circoscrivere un fenomeno vago come il cambiamento che sta avvenendo nella struttura del self delle giovani generazioni. Basandosi su osservazioni empiriche sul mondo giovanile e sul confronto tra le generazioni, ha introdotto un’interessante distinzione tra culture proposizionali e culture non proposizionali. Egli osserva che: «[…] negli ultimi decenni del secolo XX, le generazioni giovani hanno adottato usanze comunicative totalmente diverse da quelle dei loro genitori (e più ancora dei loro nonni)».[56] Per comprendere adeguatamente queste trasformazioni: «Distinguerò […] due modelli di uso del linguaggio: uno che chiamerò proposizionale, l’altro che chiamerò non-proposizionale.[…] La pratica proposizionale è tipica di chi ritiene che l’esperienza, se è rilevante, debba essere espressa in parole – anzi, più propriamente, in parole organizzate in proposizioni – e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto più sono interrelate tra di loro, formano cioè testi in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo di struttura».[57] Simone sta parlando qui di scrittura. È il caso di ricordare che per definizione: «Nella teoria della letteratura, un testo è qualsiasi oggetto che può essere «letto»».[58] Questo significa che il carattere testuale dell’uso proposizionale non può che derivare dalla familiarità con il testo scritto. L’uso proposizionale del linguaggio è dunque tipicamente gutemberghiano. Afferma Simone che: «[…] l’atteggiamento proposizionale rispetta massime tacite come «sii analitico, sii referenziale, sii strutturato, sii gerarchico». Questi requisiti sono strettamente collegati tra loro, anzi possono essere visti come facce della stessa realtà».[59] Queste massime sono chiamate dall’Autore Massime della Lucidità. Si evoca qui il criterio cartesiano del chiaro e distinto.
17.3. All’inverso, secondo Simone, le caratteristiche dell’atteggiamento non – proposizionale sarebbero le seguenti:«[…] a) è generico, perché non scompone il contenuto del pensiero in elementi distinti, ma si limita ad evocarlo globalmente, lasciandolo inanalizzato e indistinto; b) è vago dal punto di vista referenziale, in quanto non designa individui, ma solo categorie generali indifferenziate; c) per conseguenza non dà nomi alle cose, ma allude, usando “parole generali”, entro le quali si può includere quello che si vuole, così facendo conto su una conoscenza globale condivisa, nella quale i singoli oggetti non hanno nome, e quindi non è necessario nemmeno indicarli specificatamente; d) rifiuta la struttura, sia quella gerarchica dei componenti, sia quella sintattica e testuale, oppure usa strutture estremamente semplici; non usa gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore il compito di crearsene una».[60] La conseguenza è che: «Questo orientamento si ispira quindi a una sorta di generale Massima di Fusione. Per effetto di questa, tutto si presenta in una massa indistinta, tutto è in tutto, e analizzare, gerarchizzare e strutturare è inutile o illecito. L’analisi sciupa la percezione e la ricchezza dell’esperienza. […] È costante l’allusione ai rischi del classificare, del distinguere, del separare – proprio le operazioni che […] stanno alla base dell’atteggiamento proposizionale».[61] La Massima di Fusione insomma è quella che governa le conversazioni quotidiane in ambiti familiari, o al più quella che sta alla base di certe esperienze e filosofie di orientamento irrazionalistico, come ad esempio il romanticismo o la gnosi. Per certi aspetti può richiamare il globalismo della visione del mondo infantile.
Dunque le culture non proposizionali non è che mettano da parte il linguaggio scritto, non è che tornino alla oralità primaria. Semplicemente non usano le migliori potenzialità del testo scritto e si limitano a usare la scrittura in termini riduttivi accanto e insieme ad altri elementi mediali. Insomma, quello che Sartori chiamava pensiero è qui ridotto alle sue forme più elementari.
17.4. Questa differenza nell’uso linguistico, secondo Simone, struttura diversamente il self, genera diversi orientamenti culturali e ha un valore decisamente generale: «Non c’è dubbio che quella che chiamiamo globalmente civiltà occidentale (termine generico, che include non solo determinazioni politiche come il concetto di democrazia, di persona, di libertà personale, ma anche determinazioni discorsive come quelle di ragione, di discorso, di analisi, di scienza, di spirito critico, e così via) sia di tipo proposizionale».[62] Come si può ben comprendere, quelle citate da Simone sono le caratteristiche della civiltà occidentale che sono culminate nella classica visione della modernità. È abbastanza ovvio concludere che l’indifferenza alla verità, di cui ci siamo a lungo occupati in questo stesso articolo, possa trovarsi agevolmente dalla parte della cultura della Grande Fusione piuttosto che dalla parte della cultura della Lucidità. Si noti che le caratteristiche della cultura proposizionale, che sono anche quelle della modernità, sono quelle stesse caratteristiche delle grandi narrazioni (tra cui la scienza) di cui il postmoderno ha dichiarato l’oltrepassamento. Quasi tutte le definizioni della postverità insistono – come s’è ben visto – sulla dominante emotiva che tende a sostituire l’attenzione per la verità e per la realtà. Anche nel caso del populismo – espressione politica per eccellenza dell’oltre-vero – sembra essere presente una dominante decisamente emotiva, oltre a una chiara tendenza a non fare i conti con la realtà. Anche il bullshit artist è un intrattenitore di successo proprio grazie ai meccanismi non proposizionali della Grande Fusione.
Trattandosi di fenomeni vaghi, nell’ accezione di Simone, occorre ovviamente guardarsi dall’istituzione di relazioni causali univoche e dirette tra le nuove tecnologie e le diverse manifestazioni della postverità. Le nuove tecnologie con ogni probabilità rappresentano soltanto la condizione sufficiente che ha reso possibile la diffusione della cultura della Grande Fusione e della postverità. Le nuove tecnologie, di per sé, possono ugualmente alimentare entrambi gli usi del linguaggio, entrambe le culture, sia quella della Lucidità sia quella della Grande Fusione. Perché allora a livello di massa pare stia di gran lunga prevalendo la Fusione sulla Lucidità?
Le ragioni generali di questo trend non sono difficili da spiegare. La testualità articolata e complessa (e tutte le sue implicazioni, tra cui il pensiero argomentativo e la razionalità) non è spontanea, deve essere conseguita attraverso una disciplina. È un greve fardello che si sovrappone – per dirla con Recalcati – all’anarchia del desiderio. Abbiamo visto che secondo Dehaene per accedere alla lettura occorre costruire e mantenere dei veri e propri circuiti cerebrali che hanno anche dei risvolti fisici. In termini foucaultiani, la testualità poi è sempre stata considerata come espressione del potere. Rappresenta una sottomissione. La Grande Fusione da questo punto di vista rappresenta invece la liberazione dal fardello del testo. Lo svincolamento dal potere nascosto associato alla scrittura e alle grandi narrazioni. I postmoderni, in molte delle loro manifestazioni, hanno solo e sempre predicato la Grande Fusione contro la Lucidità.
Le nuove tecnologie non sono dunque soltanto veicolo di modernità, permettono anche di sfuggire facilmente al fardello della modernità e permettono indubbiamente di liberare il desiderio. Insomma, invece di alfabetizzarsi e disciplinare il self, invece di strutturare il self come un testo organico e rigoroso, invece di diventare compiutamente uomini del libro,si può passare il tempo a contemplare suoni e immagini. Si può diventare molto social. Si può aspirare a diventare bullshitter professionali. Mentre l’interazione con il libro lascia le sue tracce e ci cambia profondamente, l’interazione con le nuove tecnologie più che altro non fa che rispecchiare quel che già siamo. Secondo la legge di Dember, ciascuno di noi tende a scegliere gli stimoli che hanno il nostro stesso livello di complessità interna.[63] Parafrasando Ferraris, se siamo imbecilli, useremo le tecnologie da imbecilli. Ha senz’altro ragione Ferraris quando ci ricorda che il telefonino è una macchina per scrivere[64] e quindi rappresenta uno sviluppo nobile della scrittura e della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, di fatto, è prevalentemente utilizzato per produrre e scambiare il bullshit che ci invade da ogni parte. La tecnologia è accondiscendente ai nostri peggiori difetti, ci permette anche questo suo uso degradato, ma se così facciamo, in effetti, è solo colpa nostra.
17.5. Cerchiamo, avviandoci a concludere, di riprendere le fila del nostro discorso. Abbiamo preso il via da una serie disparata di fenomeni connessi alla svalutazione della verità che si sono progressivamente imposti alla nostra attenzione, che all’incirca sono emersi tutti nello stesso periodo e che possiedono indubbiamente una certa somiglianza di famiglia. Di qui la nostra metafora dell’iceberg. Secondariamente abbiamo osservato come tutti questi fenomeni siano connessi alle nuove tecnologie, se non altro in termini di condizioni sufficienti. Senza le nuove tecnologie questi fenomeni non sarebbero diventati così tangibili e preoccupanti. In terzo luogo ci siamo domandati se i nostri fenomeni, nella loro relazione con le nuove tecnologie, non costituissero altrettante facce diverse di uno stesso fenomeno unitario ben definibile e spiegabile. Siamo andati in altre parole in cerca di una teoria.
Abbiamo qui incontrato una gamma di spiegazioni non del tutto univoche. La teoria più semplice consiste nell’invocare una sproporzione tra la potenza degli strumenti oggi resi disponibili e l’insipienza umana. Nel caso della postverità ci troveremmo così semplicemente di fronte all’espressione dell’imbecillità umana elevata alla nona potenza. Il pericolo in questo caso è che la maggioranza così caratterizzata finisca per prendere il potere (se non lo ha già fatto). La teoria più complessa postula invece che le nuove tecnologie stiano per così dire agendo dall’interno, stiano producendo cioè una serie di trasformazioni profonde a livello culturale e soprattutto a livello del self. In tal caso, sarebbero queste trasformazioni profonde a rendere possibili i fenomeni ben visibili di cui ci siamo occupati, dalla politica postruista alle fake news, fino ai populismi. Di queste trasformazioni profonde avremmo poca consapevolezza poiché – con il linguaggio di Simone – esse costituirebbero dei fenomeni vaghi, molto evidenti nelle loro manifestazioni particolari ma costitutivamente alquanto sfuggenti. Il pericolo qui è quello di una minaccia che si accumula dentro di noi, di una lenta trasformazione dei nostri simili, fino a renderli irriconoscibili, più o meno come nel film L’invasione degli ultracorpi.
Possiamo in estrema sintesi scegliere tra due macro alternative: a) quel che succede oggi alla verità è soprattutto frutto della costitutiva imbecillità umana oggi esaltata dalla potenza delle nuove tecnologie, oppure b) quel che sta succedendo oggi alla verità è frutto di una mutazione antropologica, effetto delle nuove tecnologie stesse, che ci sta cambiando profondamente in peggio, a nostra insaputa, anzi, con il nostro concorso. Dalla padella nella brace. Può darsi che l’avvento della documedialità – siamo appena all’inizio -possa costituire la base materiale per una nuova maturazione individuale, la possibilità davvero per tutti di un salto nella terra della testualità più ricca, e quindi la possibilità effettiva di realizzazione di una vera modernità, per la quale però – come s’è visto – occorrerebbe rimettere al centro la verità. Le potenzialità forse ci sarebbero. Oppure può darsi – come sembra piuttosto stia accadendo, quale che ne sia la spiegazione – che il mare dell’oltre-vero finisca per seppellire definitivamente la verità e la modernità, annegandoci nel bullshit e consegnandoci a un nuovo medioevo populista.
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Note
[1] Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nell’aprile del 2018. Poiché l’argomento non ha cessato di essere di estrema attualità, ho avuto l’occasione di apportarvi diversi aggiornamenti. La versione che qui presento è un ulteriore aggiornamento realizzato nel giugno 2025, in seguito all’interesse a ripubblicarlo manifestato dagli amici del blog Viandanti delle nebbie. Preciso di non avere usato, nella redazione del testo, alcuno strumento di intelligenza artificiale.
[2] Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo cominciarono a comparire diversi contributi critici contro il relativismo e contro il postmodernismo che era stato la prospettiva filosofica imperante nei due decenni precedenti. Si vedano, ad esempio, Jervis 2005, Boghossian 2006 e Marconi 2007.
[3] Cfr. Sokal & Bricmont 1997. Nella versione francese compare la dizione impostures intellectuelles, mentre nella versione in inglese nel titolo compare la dizione fashionable nonsense, traducibile con stupidaggini alla moda o sciocchezze di moda.
[5] Il termine bullshit – altresì rendibile con svariati sinonimi, come balle, fesserie, cazzate, puttanate – viene comunemente tradotto in italiano con stronzate. Il libretto è stato pubblicato in italiano col titolo di Stronzate. Un saggio filosofico. Cfr. Frankfurt 2005.
[8]Si noti che la stessa Wikipedia, per certi aspetti, potrebbe essere un prodotto della postverità. La qualità delle definizioni di Wikipedia è assai variegata e un attento controllo è sempre necessario.
[9] Si veda Wikipedia in italiano, alla voce rispettiva. Wikipedia in inglese fornisce la stessa definizione.
[10] Così spiegano gli Oxford Dictionaries: «The compound word post-truth exemplifies an expansion in the meaning of the prefix post- that has become increasingly prominent in recent years. Rather than simply referring to the time after a specified situation or event – as in post-war or post-match – the prefixin post-truth has a meaning more like ‘belonging to a time in which the specified concept has become unimportant or irrelevant’». Cfr. https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016.
[11] Sulla nozione logica e filosofica di menzogna, vedi D’Agostini 2012.
[13] Cfr. Frankfurt 2005: 51. Bullshit artist potrebbe essere reso con il nostro termine contaballe.Una sorta di contaballe specialista e professionale.
[14] La citazione contiene un mio piccolo aggiustamento, visto il carattere cooperativo di Wikipedia.
[15] La nozione di somiglianza di famiglia risale al filosofo Ludwig Wittgenstein.
[16] So bene che non tutti gli studiosi concorderebbero con queste mie semplificazioni. Solo per brevità seguo la definizione di Frankfurt, per il quale bullshit è una categoria generale. Secondo Ferraris, ad esempio, il bullshit costituirebbe una categoria più specifica, assieme a numerose altre. Si veda Ferraris 2017, prima dissertazione.
[17] Cfr. Keyes 2005: Post-Truthfulness. La traduzione è nostra.
[18] L’allusione ovviamente va al filosofo nord americano Richard Rorty, neopragmatista e postmoderno.
[20] Per una confutazione della tesi VNE secondo cuila verità non esiste si veda D’Agostini 2002.
[21] Paul Ricoeur ha definito come filosofie del sospetto le filosofie di Marx, Nietzsche e Freud. Si tratta di filosofie che condividono l’ipotesi che oltre alle apparenze esista un’altra verità più autentica. Questo modo di pensare ormai popolarizzato ha favorito, nell’era della rete, la proliferazione delle cosiddette verità alternative che spesso non sono altro che bullshit.
[22] So bene che esistono diversi tipi di relativismo. Qui non posso che semplificare per brevità.
[23] È curioso che il politically correct abbia conosciuto una ampia diffusione all’inizio degli anni Novanta.
Ho avuto la percezione netta dello smottamento alla fine degli anni Settanta. Non che prima le cose andassero meglio, le tivù private erano nate a metà decennio e stavano già imponendo un nuovo “stile”, al quale la Rai era corsa immediatamente ad adeguarsi: ma tutto sommato la novità erano ancora i comici demenziali usciti del Bagaglino e un po’ di tette che davano fastidio a nessuno. Qualche avvisaglia c’era certamente già stata, ma all’epoca non avevo tempo da dedicare alla televisione, se non per gli incontri di boxe: quindi fui colto quasi alla sprovvista, e posso quasi citare anche la data della rivelazione.
Dell’accelerazione rovinosa mi accorsi assistendo a una delle prime puntate de Il processo del lunedì della gestione Biscardi, tra l’altro trasmessa su Rai3, l’emittente in forza alla sinistra. Ero allibito. Aldo Biscardi, che già di suo parlava un italiano a dir poco approssimativo e capiva una mazza di qualsivoglia argomento, aveva messo assieme una vera corte dei miracoli, nella quale tra pseudo-giornalisti ed ex-calciatori in bolletta gigioneggiavano personaggi assurdi come Maurizio Mosca, uno che su un campo di calcio non avrebbe avuto un ruolo nemmeno come raccattapalle. Non mi scandalizzava l’incompetenza, perché avendoci giocato sino a cinquant’anni sapevo benissimo che sul calcio non c’è nulla da sapere, da capire o da discutere, si tratta solo di mettere un pallone in rete o di non lasciarcelo finire, ma ero disgustato dalla beceraggine di tutto l’assieme, dai toni, dagli argomenti e dalle atmosfere da bettola d’angiporto, proposti su un medium nel quale un attimo primo erano passate notizie di guerre o di catastrofi, oppure rubriche di arte o di letteratura, o anche semplicemente qualche bel film o qualche documentario a tema storico. La cosa peggiore era che in quella trasmissione non circolava un filo di ironia, si prendevano tutti sul serio (come sogliono fare notoriamente gli imbecilli) e, ma questo l’ho scoperto dopo, venivano presi sul serio anche dalla sinistra più accorta, quella sempre un po’ più avanti, che plaudiva al fatto che finalmente si desse voce anche al più genuino “sentire popolare”, confondendo l’idiozia e la sguaiataggine con l’autenticità e la freschezza. In fondo, pensava, quei quattro bagonghi rompevano gli schemi seriosi e ingessati della televisione di regime, erano una ventata d’aria, magari puzzolente ma nuova.
Fu un tutt’uno: compresi allora che l’elogio di Franti tessuto da Umberto Eco e Fantozzi e il gossip confidenziale di Maurizio Costanzo non erano passati invano, c’era una logica che li legava, erano tanti cunei ribattuti nelle crepe della cultura occidentale aperte da due guerre e da tutto quel che c’era stato in mezzo. E compresi anche che quelle martellate non preludevano a una ripulitura e a un restauro (che non è una “restaurazione”, ma il riportare in vita quei motivi, quei colori, in definitiva quei valori originari che il tempo e le nequizie della storia hanno sporcato e deturpato), ma annunciavano la demolizione.
Da allora il degrado dell’etica, del gusto, del semplice buon senso non ha più avuto sosta: ogni volta che ho pensato si fosse toccato il fondo ho dovuto immediatamente ricredermi. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto di tutto: gabibbi chiamati a raddrizzare i torti e inviati “sul campo” bardati come mentecatti: filosofi di grido e indagatori della psiche ridotti a cumulare marchette nei talk show, senza il minimo pudore; intellettuali, artisti, politici, magistrati, sportivi, persino religiosi, in corsa a mendicare un passaggio televisivo per promuovere “eventi” o paccottiglia “d’ingegno”; uomini e donne di ogni età e condizione ansiosi di sputtanarsi in trasmissioni per cerebrolesi, in cambio di trenta secondi di visibilità.
I risultati li abbiamo di fronte: non è nemmeno più il caso di accendere la tivù per farsi un’idea del degrado. Basta girare per strada, origliare le conversazioni, quelle dal vivo e peggio quelle telefoniche, che vengono fatte condividere per un raggio di cinquanta metri, entrare in una scuola, sfogliare un quotidiano. Certamente però i media di massa rimangono il sensore più attendibile, non nel senso che ci raccontino il vero, ma, al contrario, perché del degrado sono il principale veicolo. Una trasmissione radiofonica come La Zanzara, ad esempio, giusto per fare riferimento alla manifestazione più recente di idiozia perversa nella quale mi sono imbattuto, dovrebbe essere usata come argomento di studio nelle facoltà di psicologia, di antropologia, di sociologia, per dare un taglio all’eterno dibattito sulla natura umana. Io non so se allo stato brado questa sia buona o cattiva, ma per certo è facilmente plasmabile da ogni input negativo, mentre non lo è altrettanto da quelli positivi. Se siamo stati modellati con la polvere, c’era qualcosa che non funzionava nell’impasto.
Comunque sia, credo valga la pena cercare di capire come milioni di anni di evoluzione ci abbiano regalato uno che si chiama come Paperino e ne ha la stessa consistenza cerebrale, ma si trova tra le mani le sorti del mondo. E che non ci è arrivato per via ereditaria, come accadeva un tempo, ma attraverso una ufficialmente libera competizione elettorale. È dura da spiegare, ma voglio provarci lo stesso, almeno a grandi linee e almeno per quanto riguarda la parte di cui sono stato un sempre più sconcertato spettatore.
Per parlare dell’oggi prendo spunto da un libro scritto sessanta anni fa, che fotografava la realtà sociale dell’epoca col teleobiettivo, ne coglieva gli sviluppi futuri e la incorniciava in una efficacissima definizione. Lo rispolvero non tanto per verificarne i riscontri, quanto piuttosto per constatare come nel frattempo l’interpretazione di quella (e quindi anche dell’attuale) realtà sia andata radicalmente cambiando. Devo dunque partire di lontano, sperando di non perdermi per strada.
Come è stata raccontata – Nel 1967 Guy Debord pubblicava La société du spectacle, (in italiano: La società dello spettacolo, De Donato, 1968, successivamente ritradotto e ristampato da Vallecchi, 1979, e ultimamente da Massari, 2002 e da Baldini-Castoldi, 2017). Debord era stato uno dei fondatori, dieci anni prima, dell’Internazionale Situazionista. (Per chi non conoscesse la vicenda del situazionismo, fornirò qualche riferimento in calce a questo intervento, allegando anche uno dei documenti di fondazione. Comunque anticipo che il situazionismo come inteso da Debord, da Asgen Jorn e da Raul Vaneigem aveva nulla a che vedere con i patetici sciamannati che da allora hanno nascosto dietro quella fortunata etichetta la propria presuntuosa inconsistenza).
Il libro arrivava al momento giusto – si era alla vigilia del Sessantotto. Conobbe anche una qualche notorietà (sia pure di seconda mano, perché era molto citato ma molto meno letto – in effetti era piuttosto noioso) e in particolare esercitò un forte influsso sul linguaggio immaginifico della contestazione. Debord vi sviluppava un’analisi della trasformazione che era in atto all’epoca nei rapporti sociali e nelle forme del dominio, ovvero della loro sempre più accentuata “spettacolarizzazione”: uno slittamento che aveva conosciuto un’accelerazione esponenziale con la comparsa della televisione, ma aveva preso avvio già nella prima metà del Novecento, con il cinema e con la radio. Non si limitava però a scandagliare il passato e il presente, profetizzava per questa trasformazione uno sbocco rivoluzionario: e lì la lucidità dell’analisi veniva meno, anche se non si può negare che in parte, almeno per quanto concerneva la deriva più immediata, quella precedente la rivoluzione informatica degli anni Novanta, i suoi pronostici fossero azzeccati.
Il testo di Debord si articola in una lunghissima sequenza di “tesi” (addirittura 221), e ha come modello formale quello del Manifesto del 1848. Esordisce così: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Enunciazione che rimane quanto mai vera oggi, anche se io farei risalire la tendenza a tradurre la vita in spettacolo molto più addietro, a tempi precedenti la cosiddetta “modernità”: direi piuttosto che il moderno “modo di produzione” l’ha solo spinta alle estreme conseguenze, ad un esito per il quale Debord può scrivere che “le necessità della produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come l’inversione della vita”.
Il nuovo manifesto prende l’avvio da dove Marx era arrivato, ovvero dall’alienazione prodotta dal capitalismo classico, che aveva indotto un passaggio di senso dell’esistenza “dall’essere all’avere”, e descrive l’ulteriore transizione ad un “capitalismo spettacolare”, quello che produce il passaggio “dall’avere all’apparire”. “La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”.
È accaduto insomma che la progressiva razionalizzazione dello sfruttamento, quella che il capitalismo moderno ha operato per esercitare un sempre maggiore controllo e mantenere gli sfruttati a margine del processo produttivo, nel ruolo di pura forza-lavoro, ha determinato una sovrabbondanza di beni (almeno nel mondo occidentale): ma questo non ha liberato né i popoli né gli individui dalla necessità, perché la sovrabbondanza è finalizzata al nuovo modello di accumulazione capitalistica, e non certo a venire incontro ai loro bisogni. Ha creato al contrario una necessità apparentemente meno immediata, ma più subdola, perché non potrà mai essere pienamente soddisfatta: la coazione al consumo. Il ciclo del controllo è stato quindi portato a compimento dal capitalismo contemporaneo sfruttando le masse non solo nella fase della produzione ma anche in quella del consumo, determinandone e falsificandone bisogni, aspettative, rapporti: penetrando insomma ogni aspetto dell’esistenza. (Come poi funzioni questa faccenda, perché insomma il capitale per accrescersi debba operare una sia pur molto contenuta redistribuzione, è apparentemente ovvio, ma i modi sono poi complessi da spiegare: ci hanno provato moltissimi economisti, arrivando a conclusioni diametralmente diverse. Io credo dipenda soprattutto da due fenomeni: la finanziarizzazione sempre più spinta – il prevalere del capitale finanziario su quello produttivo – e l’autonomizzazione della tecnica: cose di cui su questo sito si è già parlato, e sulle quali avrò ancora qui modo di tornare).
La totale dipendenza del produttore-consumatore è indotta dalla rappresentazione spettacolare che il capitale elabora di se stesso. I progressi tecnologici nel campo della produzione vanno infatti di conserva con quelli nella comunicazione – ma in questo caso sarebbe forse più corretto dire nella “persuasione”. Tanto meno un prodotto risponde ad una reale necessità, tanto più avrà bisogno di essere caricato di significati esterni che lo rendano desiderabile. I costi della sua promozione vengono naturalmente scaricati a valle, entrano quindi a far parte integrante del costo totale di produzione, mentre il marchio, la certificazione di qualità, promette al consumatore una ostentazione di esclusività e di capacità economiche. La comunicazione a questo punto non è più solo un mezzo, diventa un fine, e avviene in base a codici che sono elaborati tutti dall’offerente, e che vanno a ridisegnare le modalità dei rapporti tra gli individui. Nei paesi capitalisti si sta dunque configurando un modello sociale all’interno del quale gli individui sono ridotti a meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere. Queste immagini giustificano l’assetto di potere istituito e si sostituiscono completamente alla realtà. “Le nuove tecnologie della comunicazione spingono all’estremo il feticismo delle merci, la coazione al consumo, e soprattutto rimodulano il rapporto sociale fra gli individui, mediato dalle immagini”.
Il nuovo rapporto sociale è in realtà, secondo Debord, un non-rapporto. La messa in scena dello spettacolo presuppone, infatti, l’assenza di dialogo tra gli spettatori. Al consumatore non resta altro che ammirare, rimanendo nella passività assoluta, le immagini che altri hanno scelto per lui. L’individuo ha dunque esclusivamente il ruolo di “pubblico”, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. A parlare deve essere solo il potere. Gli individui risultano sempre più isolati nella folla atomizzata. “Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”.
In questo isolamento lo spettatore finisce per essere dominato dal flusso delle immagini, immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. O meglio: nel quale è vero ciò che chi governa lo spettacolo ha interesse a mostrare, mentre tutto ciò che non è stato creato o selezionato dal potere è falso, o non esiste.
Pertanto, nella misura in cui l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. Il consumatore non vive più esperienze dirette, ma si accontenta dei surrogati che lo spettacolo gli offre, e cerca di soddisfare quei bisogni, sia materiali che emozionali, che gli vengono artificialmente indotti. Diventa un consumatore di illusioni. Lo spettacolo è dunque il contrario della vita. Debord scrive “Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.
Molto all’ingrosso, questo è il succo della prima parte del saggio, quella dell’analisi: e direi che sin qui il discorso non fa una piega. D’altro canto, questa chiave di lettura della modernità e dei suoi esiti ultimi non arrivava del tutto nuova, e Debord stesso riconosce i suoi debiti. Si pone infatti come abbiamo visto in diretta continuità col marxismo (sia pure con un Marx liberato dai dogmatismi delle letture “ortodosse”, a partire da quella di Lenin), ma tra i suoi riferimenti vi sono anche Max Stirner, George Lucàks e i francofortesi (e io includerei Thornstein Weblen e Vance Packard, che tuttavia nel Sessantotto erano considerati “organici” al pensiero borghese, quindi poco spendibili – infatti non li cita mai). Il merito del libretto sta nell’aver raccolto e sistemato in una trama coerente tutti questi spunti, di averli attualizzati. E magari anche di avere intravisto le origini più remote del fenomeno, le cui prime avvisaglie fa risalire sino a Cervantes (e anche su questo tornerò).
Ciò che Debord metteva a fuoco sessant’anni fa oggi lo diamo per scontato, perché nella spettacolarizzazione viviamo immersi, è la nostra quotidianità: sul suo libro si è già depositata la patina del tempo, senza peraltro farne un piccolo classico del pensiero, ma al più un reperto documentale da esibire in occasione di future celebrazioni anniversarie o di festival del situazionismo. All’epoca invece l’analisi appariva, oltre che estremamente lucida, anche tempestiva, sviluppata in tempo utile per immaginare delle contromosse, per esorcizzare in qualche modo il fenomeno. Ed è proprio qui che Debord risulta datato: nell’idea che da questa coscienza potesse scaturire una qualche positiva reazione.
La seconda parte del nuovo manifesto è infatti dedicata alle strategie che Debord suggerisce per sottrarsi agli allettamenti della spettacolarizzazione. Non è il caso di elencarle tutte, ma direi che possono essere riassunte ed esemplificate nella pratica del détournement: ovvero del cambiamento di senso di tutto ciò che è espressione del potere, dell’inversione dei meccanismi della ricezione culturale, specialmente se legati alla comunicazione di massa, come la pubblicità o il fumetto, ma anche della modifica e della dissacrazione di oggetti estetici che da sempre orientano o dettano i canoni del gusto: “La libertà per esempio di trasformare la cattedrale di Chartres in luna-park, in labirinto, in campo di tiro, ecc.”.
Di primo acchito verrebbe da pensare che il suo invito sia stato raccolto. In fondo lo stravolgimento dei canoni estetici e dei messaggi, lo snaturamento di luoghi sacri o edifici storici, l’irrisione dei rituali, la falsificazione delle tradizioni, gli sberleffi alle istituzioni, tutto questo è già in atto da tempo. Il problema è che, appunto, lo “spiazzamento”, la “decostruzione”, il “disincanto” sono diventati la nuova normalità. Questa presunta “rivoluzione” continua ad essere gestita dal sistema stesso. Si può discutere se l’abbia anche innescata, senz’altro comunque se ne è appropriato, come è accaduto del resto per tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella inglese a quella francese, da quelle “nazionali” dell’Ottocento a quelle “sociali” del primo Novecento. È accaduto nel Sessantotto, quando la contestazione giovanile è stata pilotata a svecchiare il sistema e a reclutare nuove fasce di utenti al consumo; è accaduto l’altro ieri, col femminismo, continua ad accadere oggi coi vari movimenti di rivendicazione di identità sessuale.
Insomma, il rinnovato protagonismo auspicato da Debord si risolve in una provocazione sterile, totalmente autoreferenziale, quando non addirittura funzionale al sistema che professa di voler combattere. In linea con la presunzione di épater les bourgeois che dal Romanticismo in poi ha sempre animato ogni “avanguardia” intellettuale. D’altro canto il situazionismo nasce proprio nell’ambiente delle avanguardie artistiche, che con la prosa della realtà hanno in genere un rapporto piuttosto conflittuale, e alla spettacolarizzazione sono predisposte già di per sé. Debord non fa che riproporre in chiave più esplicitamente politica il “sabotaggio” predicato mezzo secolo prima dai surrealisti, da operarsi con gli spostamenti di senso e gli accostamenti paradossali. Ma un orinatoio esposto in un museo o i baffi sul volto della Gioconda non smuovono le coscienze: semmai le anestetizzano, irridono dei valori, decostruiscono dei codici, ma non ne propongono di alternativi. Debord sembra non aver capito che il sistema è un muro di spugna. Fagocita tutto quello che gli butti contro e te lo rigetta in forma di merce. Non a caso i surrealisti più famosi sono Magritte e Dalì, quelli che hanno disatteso i dettami “internazionalisti” di André Breton, mentre nessuno legge più le poesie di quest’ultimo. E non a caso le “avanguardie” del secolo scorso, dai futuristi appunto ai surrealisti, rivelano poi una inquietante consonanza coi totalitarismi.
Com’era –Il discorso a questo punto potrebbe sembrare chiuso: liquidati ormai tutti i sogni di una palingenesi che passi per la presa di coscienza collettiva, rimane solo l’illusione di un protagonismo individuale, sia pure effimero. E invece, proprio di qui potrebbe partire una riflessione non oziosa. Non so infatti se Debord fosse del tutto inconsapevole di quanto onnivoro sia il sistema: di quanto cioè egli stesso, con la fondazione del movimento situazionista, e tanto più con la pubblicazione del libro, si prestasse ad essere risucchiato nei meccanismi di quella rappresentazione sociale che voleva smascherare. Forse consapevole lo era, dal momento che già immediatamente dopo la contestazione sessantottina, durante la quale il movimento aveva conosciuto una particolare popolarità, disgustato dalla massa di aspiranti che professavano la loro adesione all’Internazionale senza averne minimamente capito il senso, dichiarò quest’ultima disciolta (definiva sprezzantemente i neo-adepti “i pro-situ”: lascio immaginare cosa potrebbe pensare degli odierni “post-situ”): ma rifiutava di accettarne le conseguenze, e si trastullava con l’idea che portando scompiglio nei modi della trasmissione culturale, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue” e di che trucchi e menzogne si nutra, si sarebbe aperta la strada ad un ribaltamento dell’assetto sociale.
Lungo tutto il saggio è fortissima la critica alla contemplazione: “Solo nell’attività l’uomo realizza se stesso, nel caso contrario non può esserci che alienazione”. Ma non è ben chiaro di quale attività si stia parlando: “Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di scuole, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente, ma simultaneamente.” Appunto, un gran casino. Ma non del tipo che Debord si sforzava di immaginare.
Se infatti l’analisi era centrata, non lo erano le prospettive future che l’autore ne inferiva. Certo, come abbiamo visto la “spettacolarizzazione” si è realizzata compiutamente, addirittura al di là di quanto ci si potesse attendere. Tutti sono diventati “produttori-consumatori”, in una filiera nella quale sotto molteplici spoglie il capitale tecno-finanziario gestisce i luoghi, i tempi e i mezzi di produzione delle merci, gli apparati per il loro spostamento, le cattedrali del loro consumo e i rituali per la loro consacrazione. E all’individuo continua ad essere riservato un ruolo passivo di contemplazione (quello dal quale il situazionismo avrebbe voluto riscattarlo), di consumatore delle merci e di una cultura e di una politica “spettacolarizzate”, ridotte a merce anch’esse.
Ma è accaduto anche qualcosa che Debord non aveva messo in conto. Non solo non c’è stata affatto quella reazione liberatoria che secondo il filosofo belga le masse e i singoli individui, una volta acquistata consapevolezza, avrebbero prodotto, ma al contrario le une e gli altri si sono totalmente integrati nella messa in scena, e hanno accolto l’invito all’azione e al ritorno al protagonismo in un senso esattamente contrario a quello da lui atteso. Hanno scelto di essere, ma non di essere consapevoli, quanto piuttosto di essere visibili. Di esserci, di essere riconosciuti (che è cosa ben diversa dall’essere conosciuti), e quindi di rappresentarsi. Si sono arresi ad un surrogato di protagonismo, ad una smodata e malata coazione ad apparire che rientra perfettamente nel disegno del sistema spettacolare.
Va detto onestamente che un detournement di questo tipo non era prevedibile. Nel ‘67 internet e gli smartphone e i social network erano di là da venire, la frontiera tecnologica più avanzata della comunicazione scritta erano la Lettera 22 e il ciclostile. Ma ora che abbiamo imparato a conoscere i media di ultima generazione, a usarli, ad avvertirne le dipendenze, dobbiamo prendere atto che hanno completamente stravolto il quadro. Con le nuove tecnologie l’inflazione multidimensionale di cui Debord parla si è tradotta in una polluzione multimediale, entro la quale tendenze, esperienze, “scuole” non si esprimono, ma si appiattiscono, si svuotano di senso e si perdono dentro un rumore di fondo indistinto.
Provo a riassumere. Nelle aspettative della sinistra movimentista la rete telematica avrebbe dovuto fornire a ciascuno un megafono, essere lo strumento di una partecipazione attiva all’esercizio della democrazia diretta, del controllo dal basso, della trasparenza, e consentire un libero accesso alla conoscenza. Nella realtà si è rivelata un ulteriore formidabile strumento di manipolazione e ha dato la stura al manifestarsi di un individualismo narcisistico e presuntuoso, che si nutre di like e dell’illusione di protagonismo, Se nella fase precedente non c’era alcun dialogo e gli occhi degli spettatori-consumatori erano puntati solo sul cinema messo in piedi dal sistema, ora l’isolamento è ancor più totale, perché il dialogo è in realtà solo un chiacchiericcio unidirezionale e l’attenzione si concentra soprattutto sulle immagini autoprodotte e su una patetica ricerca di “consenso”, che dia l’illusione di una qualche eco e di una qualche visibilità. Tutto ciò che transita sulla rete viene banalizzato, e anche i messaggi e gli inviti al risveglio lanciati in buona fede, persino quelli che sembrano momentaneamente conoscere un certo successo, sono risucchiati velocemente nel vuoto. Ne è riprova il caso delle proteste di massa dello scorso decennio, degli indignati e dei girotondini, delle primavere arabe e non, delle rivolte popolari che non si sono non mai tradotte in rivoluzioni durature, nonché dei passaggi nostrani di banchi di Sardine: milioni di persone hanno risposto simultaneamente, come si augurava Debord, agli appelli al cambiamento diffusi attraverso i network, ma una volta in piazza non sapevano più cosa dire e cosa fare, e nei casi più seri hanno finito per scatenare risposte ferocemente reazionarie.
Per capire come si sia arrivati a questa situazione è necessario comunque fare un passo indietro. Non è liquidabile come un rincoglionimento generalizzato (anche se ha tutte le caratteristiche), frutto di un qualche avvelenamento da piombo come si ipotizzava un tempo per la fine dell’impero romano, o dell’inquinamento atmosferico. Il fatto è che i nuovi media sono stati colonizzati immediatamente dal sistema, così come del resto era accaduto per quelli del passato, ma con effetti più diluiti e meno traumatici. Negli anni Novanta l’alleanza tra il neo-capitalismo digitale e quello finanziario ha prodotto un vero sconvolgimento, in primo luogo nell’economia, accelerando la globalizzazione e la concentrazione monopolistica. Le innovazioni portate dall’ industria high tech sono state sospinte ed enfatizzate con enormi iniezioni di capitali da una finanza in cerca costante di nuove opportunità di investimento. A loro volta le nuove tecnologie hanno velocizzato in maniera esponenziale le transazioni, creando di fatto un mercato finanziario unico, legittimandone le operazioni speculative più ardite e cancellando le regole e i contrappesi che sino a ieri lo avevano regolamentato. E soprattutto hanno “smaterializzato” il concetto stesso di capitale, un tempo legato ai frutti di imprese produttive, oggi a quelli di una attività puramente speculativa. La gran parte dei dirigenti delle grandi multinazionali non ha la minima idea di cosa producano le aziende di cui hanno il controllo, mentre è sintonizzata costantemente sugli algoritmi che ne monitorano le fluttuazioni di valore.
Gli effetti di questa trasformazione sono stati immediati. Intanto il ridimensionamento, in termini di occupati, degli apparati produttivi. In un mercato aperto e senza regole la competitività può essere mantenuta soltanto abbattendo i costi fissi di produzione: e dal momento che sulle altre componenti, materie prime ed energia, non ha il pieno controllo, il capitale interviene comprimendo l’occupazione, esternalizzando il più possibile le attività, spostandole in paesi nei quali il costo del lavoro è più basso o appaltandole ad aziende più piccole, nelle quali la forza contrattuale dei lavoratori è minima; o addirittura individualizzandole, tramite l’affidamento a lavoratori “indipendenti” che operano in regime di “libero mercato”. In quest’ultimo caso soprattutto, ma anche negli altri, sono appunto le tecnologie digitali a consentire un controllo costante e istantaneo.
Ma questa è una storia risaputa. Mi interessano piuttosto gli affetti sociali più eclatanti che questo terremoto economico ha prodotto.
Intanto la precarizzazione del lavoro, quindi il venir meno di quel riferimento fisso che nel bene o nel male informava le esistenze delle generazioni precedenti. Con conseguente insicurezza e perdita di ogni stimolo a progettarsi un futuro. Poi la dissoluzione di quei legami di solidarietà che il lavoro dipendente creava, e che diventavano anche occasioni di amicizie, di rapporti interpersonali effettivi, concreti. Quindi il progressivo isolamento dei singoli nel guscio individuale e il disinteresse nei confronti dei problemi collettivi.
Nel mentre procedeva a questa azione distruttiva l’alleanza tecno-finanziaria si premurava anche di fornirne una giustificazione. Il lavoro precarizzato e individualizzato è stato presentato come un’opportunità di democratizzazione dei nuovi modelli produttivi. In sostanza, il lavoratore verrebbe a godere di margini di libertà più ampi di quelli di cui godevano coloro che operavano nelle imprese fordiste.
A sostituire i rapporti sociali concreti maturati lavorando in azienda provvederebbe la stessa rete, ampliando a dismisura la possibilità di contatto con interlocutori sparsi in tutto il mondo, e consentendo di scegliere e selezionare entro uno spetto molto più ampio.
A questo tipo di rappresentazione fornito dal sistema corrisponde però una realtà molto diversa. L’autonomia di cui dovrebbero godere i nuovi produttori è smentita proprio dal controllo più stretto che le tecnologie digitali consentono, oltre che dalla dipendenza costante dai flussi verso i quali il capitale dirige i consumi. D’altra parte, l’isolamento degli individui non è affatto superabile attraverso un surrogato tecnologico di rapporto che di per sé, per quelli che sono gli aspetti essenziali della sua natura (velocità, appiattimento dei livelli, la modalità stessa della fruizione), prescinde da ogni effetto emozionale e al tempo stesso non si presta affatto a reggere un discorso ponderato e organizzato.
Ciò che effettivamente vediamo scaricato e circolante in rete sono piuttosto sfoghi insensati, urlati, patetici, quando va bene solo sterili; ed è tutto materiale funzionale allo spettacolo. Creano da un lato l’illusione di una appartenenza identitaria, di far parte di una comunità che sia pure solo virtualmente ti riconosce e sia pure solo attraverso gli emoji ti prende in considerazione, dall’altro quella di affermare una autonomia di pensiero e di giudizio all’interno del delirio di voci collettivo. Tutti si influenzano vicendevolmente, tutti parlano e straparlano, ma nessuno in realtà ascolta l’altro. Un brevissimo tour nell’inferno dei social ci offre una fotografia allucinante e allarmante della solitudine, del livore e dell’avvilimento che regnano in platea.
Ma non è tutto: utilizzando i dati forniti dalla coazione ad autorappresentarsi, il sistema è ormai in grado di andare oltre le proposte di consumo generalizzate, di elaborare per ciascuno delle risposte mirate. Non si fa a tempo ad esprimere un’opinione, una preferenza, un interesse o un dubbio che si è immediatamente inondati di offerte e proposte da parte del mercato (e di risposte o di insulti da parte degli altri utenti). È in fondo il modello Toyota, applicato ad ogni forma di produzione di merce.
Questo ci si doveva attendere. Il fatto che Debord non l’abbia previsto è comprensibile, mentre lo è molto meno l’ostinazione odierna della sinistra superstite a non prenderne atto.
Vorrei precisare che il difetto stava comunque già a monte, ben prima della comparsa dei social. Stava intanto nel continuare da parte della sinistra ad adottare criteri di analisi obsoleti; nel fare riferimento a categorie sociali, il proletariato in primis, assunte come se nulla fosse cambiato dai tempi della redazione del Capitale; nel continuare a leggere Marx come un profeta, e non come un economista che ragionava sui dati e sulla realtà del suo tempo; nel credere infine che il sistema sarebbe comunque rimasto ancorato al modello fordista. Debord almeno questo ultimo cambiamento lo aveva intuito.
C’era naturalmente anche l’abbaglio di fondo che ha condizionato tutti i messianismi, religiosi o secolari che fossero, e le utopie: il postulare una natura umana originariamente positiva, corrotta poi ed espulsa dall’Eden per la sua presunzione di dominio sulla natura, bisognosa soltanto di essere riscoperta e redenta. Paradossalmente, questa riappropriazione del sé dovrebbe passare attraverso un contradditorio iter di “rieducazione” alla libertà, di rifiuto di ogni condizionamento politico e sociale (che in occidente si esprime innanzitutto attraverso la critica della democrazia). Di fatto, si risolve nello scivolamento progressivo verso una centralità dei diritti individuali rispetto a quelli collettivi.
Com’è – È ora però di arrivare al dunque. Che non significa tirare delle conclusioni, perché la trasformazione sociale è velocissima e imprevedibile, e riserva ogni giorno nuove sorprese: si possono però fare almeno un paio di considerazioni.
Intanto penso di dover chiarire ulteriormente a cosa mi riferisco quando uso il termine “sistema”, perché dal significato che gli si dà dipende l’interpretazione di tutto quanto ho scritto finora. Io lo intendo come il risultato di un processo, sempre in divenire, messo in moto sin dai primordi dell’evoluzione della specie umana, quando quest’ultima si è trovata nella necessità di ricorrere al soccorso di tecniche per garantirsi la sopravvivenza (e per “tecniche” intendo tutto, secondo l’originale valenza etimologica, dall’uso di protesi e di strumenti materiali – per la difesa, per gli spostamenti, per la domesticazione della natura, ecc. – a quello di un pensiero e di un linguaggio complesso, e dei supporti – scrittura, stampa, ecc. – destinati a trasmetterlo). Col tempo quel supporto che era nato in funzione difensiva si è sviluppato in una direzione offensiva, ed è stato monopolizzato o comunque posto al proprio servizio da una piccola parte dell’umanità per soggiogare e sfruttare non solo la natura, ma la restante maggioranza di una popolazione o di intere altre popolazioni. Di qui la formazione delle classi sociali (sacerdoti, cavalieri, scribi, ecc.) e la sua cristallizzazione in dominanti e dominati, secondo un modello che ha continuato a funzionare così, pur con tutte le possibili varianti, per millenni. Poi sono arrivate la rivoluzione scientifica, e appresso quella industriale, e al seguito di questa quelle sociali, che hanno aperto in quel modello delle crepe.
Ma la rivoluzione profonda, quella che ha sparigliato del tutto le carte, è stata indotta dall’autonomizzazione della tecnica. Voglio dire che ad un certo punto il controllo di quest’ultima è sfuggito dalle mani delle stesse classi dominanti, perché si è innescato un meccanismo in base al quale l’innovazione tecnologica non è più governata in funzione della produzione o dell’accumulazione di capitale, ma è forzata da un processo “necessario” e autoreferenziale di accrescimento. Lo sviluppo della tecnica non è più finalizzato a scopi esterni, ma ad alimentare la capacità tecnica stessa. Un po’ quello che sembra destinato ad accadere in maniera eclatante con l’intelligenza artificiale, ma che già è accaduto ad esempio quasi tacitamente con la progressiva finanziarizzazione del capitale. Il sistema a questo punto non è più rappresentato dai colossi dell’industria o della finanza o del network, tutti protagonisti intercambiabili, e meno che mai dagli apparati politici al loro servizio: è come un enorme e complesso quadro elettrico dove si sono cumulati e intrecciati nel corso della storia innumerevoli fili di colore e diametro diverso, e interruttori e relè e inverter e altre apparecchiature e pulsantiere, che assorbe e distribuisce energia, ma del quale nessuno più è in grado né di individuare i dispositivi di accensione o di spegnimento né di ricordare le finalità del funzionamento.
Tutto questo ha potuto accadere per via della parcellizzazione e della specializzazione delle competenze e dei ruoli tecnici, a sua volta indotta dalle esigenze di strumenti e di modalità produttive (o accumulative) sempre più performanti. Per costruire una carriola erano sufficienti le competenze di mio nonno, per un’auto elettrica si assemblano quelle di migliaia di operatori, nessuno dei quali possiede un’idea complessiva del prodotto finale e a ciascuno dei quali si chiede solo di garantire e aumentare l’efficienza del proprio segmento. Ciascuno aggiunge un filo o un interruttore, e si preoccupa che all’interno di quello passi o si interrompa la corrente. La finalità unica del quadro pare ormai essere proprio quella di funzionare.
Il termine più adatto per definire questa situazione potrebbe essere “tecnocrazia”: ma anche qui, occorre intenderci sull’accezione in cui viene usato. Nel mio caso non mi riferisco a un “governo dei tecnici”, perché questa accezione suppone una “autonomia” di questi ultimi che di fatto non esiste, in quanto al momento è ancora il capitale finanziario a orientare e decidere le direzioni della ricerca e dello sviluppo, e i tecnici semmai rappresentano la componentistica più avanzata, ma sono essi stessi dei cavi o degli strumenti di trasmissione. Penso invece ad un “governo della tecnica”. Sono due cose decisamente diverse: un governo dei tecnici ha una dimensione ancora “umana”, è comunque uno strumento, che può essere piegato a finalità di sfruttamento o di egemonia, ma teoricamente potrebbe anche perseguire altre strade; un governo della tecnica, come dicevo sopra, prescinde da qualsiasi altra finalità che non sia la propria perpetuazione e il proprio sviluppo.
Può sembrare quindi prematuro definire quella attuale una “tecnocrazia”, perché ancora il processo non si è compiuto: ma siamo già molto avanti su questa strada, sulla via della totale autoreferenzialità tecnologica.
Su questo discorso si innesta quello della spettacolarizzazione. Il quadro-sistema è il teatro in cui tutti recitano una parte, alcuni da protagonisti, la maggioranza come semplici comparse, ma nessuno è insostituibile e nessuno ha davvero in mano la regia. A decidere su chi o su cosa puntare o spegnere i riflettori è il tecnico delle luci, come in questo caso potremmo definire la tecnica autoconsapevole, quello che fa sì che il tutto continui a funzionare, che le spie rimangano accese. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che oggi la scienza (e quindi la tecnica, che ne è l’applicazione) non guarda più a ciò che è utile fare, ma a tutto ciò che è possibile fare: che non è dunque più al servizio dell’uomo, ma di se stessa. Sembra stia parlando della saga di Terminator, ma se sostituiamo l’intelligenza artificiale guerriera che lì prende possesso del mondo in maniera violenta e crudele, e la sostituiamo con un’invadenza tecnologica strisciante, apparentemente ancora strumento e in realtà altrettanto determinata a diventare il fine, ci siamo già dentro. Fisicamente (io stesso ho già dovuto ricorrere a “ricambi” artificiali), ma soprattutto intellettualmente (la rete è già diventata un’indispensabile protesi della nostra memoria).
Non è un’immagine confortante, soprattutto se connessa a quella abusatissima (anche da me) di Kierkegaard, del teatro che sta andando in fiamme e degli spettatori che applaudono e se la ridono, ma è forse quella che meglio fotografa la realtà attuale.
Come se ne esce? Sinceramente, non ne ho la minima idea. Altri le idee le hanno, ma mi sembrano piuttosto confuse e contraddittorie, Per alcuni la soluzione verrà dalla tecnica stessa, che ad un certo punto, a sua stessa salvaguardia, attiverà un riduttore o un salvavita e rimetterà in ordine i fili. Altri prevedono un’operazione di autodifesa del capitale, che ha sensori acutissimi, e che davanti alla prospettiva di un generale collasso vorrà riformarsi secondo modalità più “sostenibili”. I nostalgici del marxismo continuano a sperare in un risveglio collettivo degli ultimi, che è improbabile quanto quello del capitale ed apre a scenari altrettanto foschi, e comunque nebulosi. Altri ancora, al contrario dei primi, ritengono che l’incombere della catastrofe ambientale stia già facendo maturare un rifiuto integrale della tecnica, e dunque del consumismo, e propugnano il ritorno ad una economia “a misura d’uomo”. Magari auspicando anche una drastica riduzione numerica della nostra specie, operata in questo caso dalla natura stessa coi suoi mezzi (dagli asteroidi alle epidemie). Insomma, l’impressione è che chi si pone il problema in termini realistici non possa augurarsi altro che un rallentamento della corsa al disastro, anziché una sospensione, e che negli animi si stia sottilmente insinuando la rassegnazione di fronte a ciò che appare ineluttabile. Non in tutti, per fortuna.
Non rassegnarsi non significa per me progettare migrazioni su Marte o continuare a vagheggiare rivolgimenti sociali sulla Terra, oppure ritirarsi a pascolar capre in montagna: significa molto più semplicemente continuare a fare quello che bene o male ho cercato di fare fino ad oggi: pensare, indagare, capire almeno come siamo arrivati alla condizione attuale, per vedere casomai una delle strade non scelte in passato potesse offrire qualche via di fuga. E lo scritto presente, nel suo piccolo, imponendomi di riflettere risponde a questo assunto.
Come sarà? – Cerco dunque di venirne a una, tornando finalmente al tema che avrebbe dovuto essere centrale. Ho parlato sin qui di due modalità di autorappresentazione, quella proposta dal sistema sul grande schermo del mondo e quella concessa nel formato selfie ai rimanenti otto miliardi di individui umani. Ora vorrei cercare di chiarire qual è il rapporto tra il trionfo della rappresentazione e il crescente rifiuto dell’istituto della rappresentanza. Che a questo punto mi sembra scontato. Ma andiamo con ordine.
La rappresentanza è uno dei cardini della democrazia occidentale, e di fronte all’attuale crisi di credibilità del sistema democratico è il primo ad essere messo in discussione. Lo si elenca tra i trucchi illusionistici imputati alla “modernità” per mascherare l’azione sempre più pervasiva del potere, anche se a ben vedere non è affatto un portato dell’età moderna. Delle modalità di delega erano già presenti infatti, per i ruoli più diversi e in ambiti di partecipazione più o meno ristretti, sin dalla nascita delle comunità umane (a dispetto di quanto sostenuto dai nostalgici dell’eden paleolitico, delle società “orizzontali” dei cacciatori-raccoglitori). E duemilacinquecento anni fa ad Atene erano già regolamentate secondo il modello vigente ancora oggi. Col tempo, con la crescita di istituzioni politiche di grandi dimensioni (per intenderci, con lo stato moderno), e soprattutto con i rivolgimenti sociali prodotti dal modo di produzione industriale, le forme della rappresentanza sono state più o meno uniformemente definite e universalmente accettate. Questo soprattutto in Occidente, e almeno fino a ieri.
Oggi non è più così. Nei confronti della democrazia rappresentativa crescono i dubbi e la disaffezione. E dal momento che non si conoscono modelli alternativi che abbiano funzionato meglio, la critica investe tutto il sistema di princìpi, valori, regole e procedure che caratterizzano le istituzioni democratiche nel loro complesso. Anche questi attacchi non sono una novità: nei secoli scorsi erano uno sport praticato principalmente dalle destre, legittimiste, populiste o tradizionaliste che fossero, e questo è comprensibile. Ma non meno ostile era l’atteggiamento delle sinistre più radicali, nelle loro svariate sfumature, ortodossamente marxiste, operaiste, consigliari, leniniste, anarchiche, che nel mirino hanno sempre avuto la “democrazia borghese”
La differenza sta nel fatto che quelle proponevano bene o male delle alternative, (anche se dove hanno potuto sperimentarle sono andate incontro a risultati tragici), dei progetti sociali definiti e strutturati, mentre il rifiuto espresso dal nuovo corso “movimentista” è tutto all’insegna dello spontaneismo, del culturalismo (le appartenenze identitarie non sono più quelle di classe, ma quelle di cultura o di genere), dell’“orizzontalismo” (quello che avrebbe dovuto passare per Internet). Ciò spiega l’incapacità di questi movimenti di coordinarsi e di adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Si tratta in sostanza di un velleitario miscuglio di ideologie ferocemente antigerarchiche e antistataliste, genericamente antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali o di gruppi specifici, che finisce poi paradossalmente per essere espressione più o meno cosciente della globalizzazione e per aggregare masse disorientate, il “volgo disperso che nome non ha”, attorno a leader carismatici.
Tutto questo meriterebbe però una trattazione specifica, che rimando a una prossima volta. Qui mi interessa invece mettere in luce come la narrazione in negativo della politica che prevale oggi non sia solo trasversale ai due vecchi schieramenti, ma li superi, perché è orchestrata appunto da quel “sistema post-politico” che ho identificato sopra. I temi, le argomentazioni e i modi della critica tradizionale sono ripresi e riproposti in una confezione patinata, che sfrutta la potenza e la duttilità dei nuovi strumenti mediatici lasciando parlare, per così dire, le evidenze. Quelle, naturalmente, che si prestano a screditare il modello democratico. Cosa ci raccontano infatti i notiziari, i talk show, le inchieste scandalistiche, ma anche i film, le serie televisive, gli spettacoli di satira, se non che il mondo della politica è un letamaio, che quello politico è uno sporco lavoro, che non c’è verso a giocare puliti e che occorre averci il minor contatto possibile se non vogliamo a nostra volta insozzarci?
Questa narrazione ha senz’altro buon gioco, perché per un funzionamento corretto della rappresentanza la delega dovrebbe essere conferita ad individui in possesso dei giusti requisiti, e nella realtà politica queste condizioni ideali non si verificano quasi mai – non è un problema di oggi, è sempre stato così. Sulle scelte influiscono infatti logiche di partito, condizionamenti economici, interessi più o meno occulti, che alla lunga falsano completamente le regole del gioco. Basti pensare ad esempio a ciò che accade negli Stati Uniti, dove l’enorme aumento dei costi delle campagne elettorali ha finito per riservare ai ricchi la competizione elettorale, tagliando fuori dalla possibilità di vedere rappresentati i propri interessi non solo le classi lavoratrici, ma anche le classi medie (per cui a questo punto è praticamente indifferente che vinca l’uno o l’altro candidato). Lì la cosa è più eclatante per le cifre spropositate che entrano in gioco, ma anche in Europa, pur senza arrivare a questi eccessi, la democrazia non sta molto meglio. Ciò parrebbe in parte spiegare la disaffezione nei confronti della rappresentanza: in realtà spiega però solo quella nei confronti di coloro che deputiamo a rappresentarci, mentre oggi ad essere messo sotto accusa è proprio l’istituto politico.
Va altresì aggiunto che anche laddove una parvenza di senso le elezioni sembrano mantenerla, coloro che per onestà e competenza potrebbero essere più adeguati tendono a sottrarsi alla responsabilità, e non sempre per una scelta di comodo. In molti casi questo atteggiamento nasce dalle delusioni maturate nelle esperienze dirette, che inducono i più sensibili a ritirarsi nel loro guicciardiniano “particolare”.
Tutto, insomma, congiura a far prevalere l’idea che chi vuole preservare la sua dignità dovrà limitarsi alla resistenza passiva, alla difesa delle sue private libertà. E lasciare libero campo all’azione del sistema, rassegnandosi a vivere in una società post-democratica.
Questo avviene infatti mentre dietro le quinte dello spettacolo, nel mondo reale, aumenta in maniera esponenziale la distanza tra l’esigua minoranza dominante e il resto della popolazione, mentre è in atto lo smantellamento dello stato sociale, con la privatizzazione di una quota crescente di attività di assistenza, di cura, di controllo dell’ordine, di gestione del territorio e delle infrastrutture, tutte cose che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie. Quelle che erano le competenze degli stati sono trasferite ad agenzie transnazionali o a grandi aziende private che operano su scala planetaria, e le vecchie istituzioni politiche sopravvivono solo come facciate della gestione locale del capitale globale. E tutto ciò accade nella quasi totale indifferenza dei “sudditi”, la cui attenzione è stata frammentata e dirottata sui diritti individuali e sulle rivendicazioni identitarie, che sono impegnati a rappresentarsi e a gratificarsi reciprocamente sui social, e ai quali, disponendo di una tribuna teoricamente aperta sul mondo intero, di avere dei portavoce non importa più per niente. D’altro canto, che istanze dovrebbero rappresentare i delegati? quelle femministe, quelle ambientaliste, quelle pacifiste, quelle delle identità di genere o di cultura, e con quale tipo di mandato, e soprattutto, di fronte a chi?
Qui volevo arrivare. Il nuovo assetto sociale fa sì che venga meno anche la necessità di una finzione democratica, di un’ammortizzazione politica: democrazia e mercato, che bene o male avevano convissuto sino al secolo scorso, non viaggiano più di concerto. La prima non funziona nemmeno più da paravento, ha ceduto campo totalmente al secondo. Gli interessi del tecno-capitalismo globale, la sua nuova configurazione e gli strumenti di persuasione di cui dispone, gli consentono di governare direttamente le nostre vite, senza più bisogno di mediazioni politiche.
Questo, lo si voglia o no, è lo stato delle cose. Come si sarà capito, mi è difficile stabilire quanto sia frutto di un ben preciso progetto e quanto invece di un effetto a valanga, prodotto come dicevo sopra dall’autonomizzazione della tecnica, da una corsa di quest’ultima all’autorealizzazione che riesce per il momento perfettamente funzionale al capitale. Nel primo caso un’azione di contrasto dovrebbe essere eminentemente politica, e forse può essere ancora pensabile, nel secondo si tratta di mettere in discussione tutto un modello esistenziale, e qui davvero temo che le probabilità di sovvertire i pronostici infausti siano nulle. Rimanendo comunque al primo caso, sono convinto che l’azione politica non possa prescindere da una difesa e da una rivitalizzazione della democrazia. E che questa sia attuabile solo attraverso l’istituto della rappresentanza, senz’altro rivisto, purgato delle tante criticità, ridisegnato nei modi e nelle finalità: ma non ci sono alternative. Per come gli stati moderni sono configurati non si può pensare di saltare la rappresentanza per attuare una democrazia diretta: lo hanno dimostrato le recenti esperienze politiche dei “nuovi movimenti” che avevano come unico collante “l’indignazione”, l’insofferenza per i doveri, lo sprezzo per ogni tipo di istituzione – segnatamente di quelli che hanno avuto momentaneamente accesso al potere, come è accaduto in Italia per i grillini. Il rifiuto di un’organizzazione politica strutturata, la partecipazione digitale praticata con un click, ha creato in alcuni l’illusione che la democrazia potesse essere rivitalizzata semplicemente cambiandone le regole, in molti la presunzione di essere finalmente protagonisti e di farsi interpreti dei problemi del “paese reale”. Col risultato di consegnare il paese nelle mani di una combriccola incompetente e inconcludente, rissaiola, altrettanto disonesta e compromessa di quelle che avrebbe dovuto spazzare via, e di disamorare ulteriormente dalla partecipazione gli incerti e i delusi. Ha fatto cioè esattamente il gioco del sistema, ha recitato nel suo spettacolo.
Preferirei non assistere alle repliche.
Due postille
1) Non vorrei che il mio approccio al tema della tecnica fosse confuso con quello dei vari Severino, Galimberti e, giù per li rami, Heidegger e Nietzsche. La differenza sta nel fatto che da costoro la tecnica è intesa come un male assoluto, il peccato originale che ha strappato l’umanità dal suo edenico rapporto con la natura, e ha indotto la nostra specie a contrapporsi alla natura stessa e a volerla dominare.
Ora, non c’è dubbio che la risposta adattiva della nostra specie alla propria particolare condizione di debolezza biologica sia finita sopra le righe, ma a mio giudizio questo rientra pienamente nella sua particolare natura. Si può anche pensare che l’uomo sia un tragico errore dell’evoluzione, ma è pur sempre frutto di un processo evolutivo, che nel suo caso ne è la continuazione “con altri mezzi”. La tecnica non è “innaturale” in sé, lo diventa semmai quando il suo controllo è volto a finalità che secondo il nostro metro morale risultano sbagliate. Non è espressione della pura “volontà di potenza” come pensa Heidegger, sulla scia di Nietzsche, o una fuga di fronte angoscia del divenire, del destino della mortalità, come la considera Severino. È una “necessità” evolutiva.
Insomma, dobbiamo capirci. L’uomo per sopravvivere ha bisogno della tecnica: su questo non ci piove. È una scimmia nuda: non ha una pelliccia né una corazza, non ha dentature potenti come le tigri o i coccodrilli, non ha zanne né artigli, non si difende e non attacca coi veleni. Non è attrezzato come tutti gli altri animali alla vita di natura, almeno a partire dal momento in cui lo consideriamo una specie separata dalle sue più affini. Quando questa separazione sia avvenuta più o meno l’abbiamo stabilito, ma non sappiamo né come né perché. Probabilmente i cambiamenti climatici hanno costretto una parte dei nostri cugini scimpanzé a uscire dalle foreste e li hanno gettati allo sbaraglio nelle savane. Comunque sia, per non sopravvivere precariamente solo come prede, gli esuli da quel momento hanno dovuto riadattare il loro fisico alla nuova situazione, e là dove la selezione non provvedeva hanno dovuto ingegnarsi con quello che l’ambiente offriva, pietre, ossa, bastoni, pelli degli animali uccisi. Farne delle protesi dei loro corpi. Sono diventati “umani”, e hanno cominciato a modificare con le loro attività l’ambiente stesso (caccia, raccolta, agricoltura, allevamento) e a plasmarlo progressivamente in un crescendo inarrestabile, a creare nuove forme di società e di rapporti, moltiplicandosi fino ad arrivare a coprire con la loro presenza ogni angolo della terra.
Tutto questo ad un certo punto ha travalicato la pura volontà di sopravvivenza. E qui sposo completamente la tesi esposta da Ortega y Gasset nella Meditación de la técnica (1939): “Senza la tecnica l’uomo non esisterebbe e non sarebbe mai esistito”. L’uomo, dice Ortega, sviluppa, proprio per le circostanze che deve affrontare, una “intelligenza tecnica”, idonea a individuare le relazioni tra i fenomeni che lo circondano. Oltre a fornirgli la basilare possibilità di sopravvivere, questa gli permette di immaginare molteplici possibilità esistenziali e di scegliere tra esse per costruirsi un programma di vita. La sua condotta non è quindi più casuale, ma intenzionale. Per poter realizzare questo programma, per poter “essere insomma quello che vorrebbe essere”, e quindi vivere bene, usa la sua ingegnosità tecnica per creare artifici e procurarsi strumenti che gli consentano di superare le difficoltà e gli allevino le fatiche. Compie delle azioni “tecniche” volte a modificare e a migliorare la natura che lo circonda, generando in tal modo una sovranatura, e adattando l’ambiente a se stesso. La tecnica non è infatti soltanto adeguamento dell’uomo alla Natura ma, viceversa, tende progressivamente a diventare adattamento del secondo termine al primo. “L’esistenza dell’uomo, il suo stare al mondo, non è uno stare passivo ma egli deve, necessariamente e costantemente, lottare contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere abiti nel mondo.”
Bene. Anzi, male. Perché tutto questo funziona fino a quando l’uomo ha chiaro l’essere che vuole diventare: ma in caso contrario non può che maturare angoscia e disorientamento. E questa è la sua condizione attuale.
Cos’è accaduto allora (cosa è accaduto soprattutto nel frattempo, da quando quasi un secolo fa Ortega esponeva le sue Meditaciones: ma va ammesso che ciò che ancora non era così evidente il filosofo spagnolo ha saputo presagirlo)? È accaduto che gli sviluppi tecnologici hanno creato nell’uomo la sensazione di poter “essere tutto”: hanno moltiplicato esponenzialmente le sue possibili esistenze, ma proprio questa potenziale mancanza di limiti ha generato smarrimento, ha complicato sia l’individuazione che l’attuazione di un proprio progetto di vita, sino ad indurre all’assenza del desiderio o a perdersi dietro “pseudo-desideri, spettri di appetiti privi di sincerità e vigore”. L’uomo ha cominciato a riporre fiducia esclusivamente nella tecnica in quanto tale, addossandole anche la responsabilità creargli un senso. Dal canto suo il dominio della tecnica e della strumentazione scientifica, che orienta le nostre vite, quel senso invece lo nega, frammentandolo nella specializzazione e riducendo quei comportamenti che sono le caratteristiche costitutive della nostra identità a reazioni chimiche, elettriche o meccaniche (e questo per Ortega era uno dei prodomi della massificazione). “All’uomo è data l’astratta possibilità di esistere ma non gli è data la realtà. Questa se la deve conquistare, minuto dopo minuto: l’uomo, non solo economicamente ma anche metafisicamente, deve guadagnarsi da vivere”. Questo perché «l’essere umano e l’essere della natura non coincidono totalmente: dal “lato naturale” l’uomo risulta essere immerso nella natura circostanziale in cui i suoi processi naturali si attivano spontaneamente; la sua “parte extra-naturale” che “pretende di essere” ossia la sua personalità, il proprio io, necessita di costruzione, di cura ininterrotta e di attenzione».
Quindi: la tecnica è un beneficio nella misura in cui risponde alla sua funzione principale, ovvero, cambiamento ma soprattutto miglioramento della nostra situazione esistenziale. Il maggior rischio insito nella tecnica non è la produzione sterminata delle possibilità di vita che può offrirci; questa è una complicanza (il che non significa male assoluto) direttamente proporzionale alla sua grandezza. È invece l’uso improprio, il ricorso esasperato al suo aiuto per semplificarci la vita, che ce la semplifica ma solo nel senso che l’appiattisce, la omologa, la rende simile a tutte le altre, annichilendo la nostra identità. L’avanzamento tecnico, conclude Ortega, se fuori controllo, «indebolisce la forza dei centri riflessivi, semplifica e organizza razionalmente i rapporti umani. Potremmo essere vittime di un sistema tecnico che a sua volta corre un grave pericolo, quello “di sfuggirci dalle mani e scomparire in molto meno tempo di quanto potessimo immaginare”».
Riassumendo. La tecnica ha permesso all’essere umano di superare la sua ancestrale situazione di bisogno, di conquistare una libertà nei confronti delle determinazioni naturali della quale prima non godeva. Gli uomini hanno creato delle macchine moltiplicatrici della potenza, della velocità, della memoria, della conoscenza, le hanno usate per produrre o per distruggersi vicendevolmente, le hanno automatizzate e oggi con le nanotecnologie le hanno rese compatibili col nostro organismo, addirittura incorporabili. Tutto questo non l’hanno fatto le protesi, gli utensili, le strumentazioni, le macchine, lo hanno fatto gli uomini, e la tecnica è rimasta al loro servizio. Che poi ne abbiano fatto un buon uso o meno, è un altro discorso. Guardiamo al risultato: siamo più di otto miliardi. Dal punto di vista evolutivo, un incontestabile successo.
Fino ad oggi. L’evoluzione prevede infatti anche situazioni recessive. Anche queste le vanno messe in conto. Le specie che hanno esercitato sulla terra una eccessiva pressione si sono ridimensionate, o sono addirittura scomparse, e a questo non hanno provveduto solo i cataclismi o l’azione umana. I segni di una recessione di quella umana ci arrivano già dalle proiezioni sul calo demografico naturale a partire dalla metà di questo secolo (che potrebbe essere accelerato dalla natura stessa – epidemie, cambiamenti climatici – o dalla dissennatezza degli uomini – conflitti, carestie indotte). E sappiamo che anche là dove l’uomo ha inciso più profondamente e distruttivamente le tracce del suo passaggio la natura non impiega secoli per riprendere il sopravvento, ma pochi decenni.
C’è però un altro punto di vista da considerare: quello della essenza “umana”. Gli uomini non hanno bisogno della tecnica solo per sopravvivere. Hanno si trasformato il mondo per adeguarlo alle proprie aspirazioni, alla propria interiorità, per raggiungere i propri scopi, ma lo hanno fatto a costo di arrivare a dipendere totalmente dalle risorse tecniche. Le nuove necessità dell’uomo sono sempre meno determinate dalla sua natura e sempre più dallo stesso progresso tecnico-scientifico. La liberazione si è tradotta in una nuova forma di dipendenza.
Non è necessario insistere oltre su questo aspetto. Basta guardarci attorno. O riflettere su ciò che facciamo, sul tipo relazioni che viviamo. Ogni aspetto della nostra vita oggi è condizionato dalla tecnica, anche quando riteniamo di non essere “fuori controllo”. Può sembrare terribile, per molti versi lo è: ma l’ho già scritto sopra, non abbiamo alternative alla tecnica. Come scrive Ortega: “L’unica alternativa possibile all’uso delle macchine è quella di ritirarsi in se stessi e limitarsi a contemplare il mondo, rinunciando ai propri sogni e alle proprie aspirazioni per un futuro migliore”, e “vivendo in un continuo e vacuo sforzo di adattamento ai suoi (della tecnica) mutamenti”.
Questo non significa che non abbiamo alcuna possibilità di riprenderne almeno in parte il controllo, di sfruttarne positivamente i potenziali, di decidere se e quando cambiare marcia e svoltare. Significa che abbiamo una alternativa non all’uso, ma nell’uso.
Per darci un taglio, ed evitare di incartarmi ulteriormente, ricorro ad un esempio. Di fronte alla crescente digitalizzazione delle opportunità e delle competenze si parla del rischio di una “amnesia digitale”. Con questo si indica sia la precarietà dei contenuti, che possono andare dispersi per un qualsivoglia motivo, dall’attacco hacker all’incidente tecnico nel sistema, sia la perdita di competenze, la loro atrofizzazione, dal momento che l’operatività può essere demandata ai sistemi operanti sul web. Pensiamo alle mappe stradali, o alle calcolatrici sullo smartphone, o all’enorme deposito di conoscenze presente su Google. È chiaro che se ci affidiamo all’ausilio delle mappe digitali, che ci suggeriscono ogni svolta del nostro percorso, alla lunga perdiamo la capacità di orientarci autonomamente, di interrogare la segnaletica stradale, di affidarci al ricordo visivo. Lo stesso vale naturalmente se anziché ricorrere alle competenze di calcolo mi affido alla calcolatrice, o se per le mie ricerche consulto Google anziché faticare a rintracciare, a leggere e a comparare le fonti scritte.
È però da considerare un altro fatto: questo modo di procedere esige un investimento di tempo, di attenzione, di sforzo molto inferiore a quello classico. Se ci disabitua all’uso delle nostre facoltà, libera però anche molto spazio nel nostro cervello, che può essere riempito con altre conoscenze e competenze. È qui semmai che viene fuori il vero volto del problema: lo spazio liberato andrebbe riempito con conoscenze e competenze intelligenti, non col ciarpame. La responsabilità quindi non è della tecnica, che fino a questo punto ci offre una opportunità, ma nostra: siamo noi a dover decidere come utilizzare positivamente questi spazi. Il fatto che ciò non avvenga non può essere imputato all’invadenza degli strumenti, ma all’incapacità nostra di farne un uso sensato.
Quindi, lasciamo perdere le recriminazioni su come è andata a partire da Adamo ed Eva, o i vagheggiamenti di un’Arcadia presocratica desertificata dall’iper-razionalizzazione e dalle tecnologie. Abbiamo demandato alla tecnica la soluzione dei nostri problemi materiali, ci stiamo accingendo a demandarle anche il compito di pensare e decidere per nostro conto. È il momento di tracciare dei confini, e questo siamo ancora in grado di farlo: se non ci riusciremo come comunità umana, potremo comunque sempre volerlo come singoli. Non ci sono alibi.
Come vorrebbe dimostrare la postilla successiva.
2) Ne La société du spectacle Debord indica tra i suoi riferimenti Cervantes, dandogli atto di aver precocemente intuito dove sarebbe andata a parare la “modernità”. E questo pur vivendo lo scrittore spagnolo in un paese che nel XVII secolo accusava un grave ritardo nella nascita di un capitalismo moderno. Nella seconda parte del Don Chisciotte attorno al “cavaliere dalla trista figura” viene infatti costruito un mondo artificioso, nel quale tutti recitano uno spettacolo ininterrotto, un po’ alla maniera del Truman Show. In questo caso lo spettacolo non è finalizzato come accade oggi a realizzare un dominio economico e psicologico totale, risponde semplicemente alla maligna voglia di divertimento del duca e della duchessa d’Aragona; ma si tratta comunque di una rappresentazione ingannevole, nella quale tutti hanno una loro parte, e che finisce per far perdere il senso della realtà anche a chi l’ha inscenata. Mano a mano che l’inganno si complica e richiede una partecipazione sempre più allargata ci accorgiamo che i primi a crederci sono proprio coloro che lo ordiscono, nel senso almeno che nello sbeffeggiamento della loro vittima cercano un riscatto, qualcosa che dia un surrogato di senso alle loro vuote esistenze.
L’ultima rilettura del romanzo mi ha rafforzato nel convincimento che avevo già maturato sessant’anni fa, al primo incontro: il cavaliere sarà un pazzo, almeno in base ai criteri di normalità che vigevano all’epoca e vigono tutt’oggi, ma non è un idiota. Attraversa tutte le sue disavventure consapevole di vivere nell’illusione, ma preferisce quella eroica che lui stesso si è scelta a quella squallidamente prosaica nella quale gli altri pretenderebbero di confinarlo. Lo dice chiaramente nel suo testamento: “Ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest’alta e nuova impresa”. Ma non è l’unico ad avere questa consapevolezza: poco alla volta la sua determinazione scuote anche l’ignavia di Sancho Panza, e apre gli occhi a Sansone Carrasco, lo studente di Salamanca suo amico-avversario, che così lo ricorda dopo la morte: “Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò, / e che pure nella morte / la sua vita trionfò. / Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura; / fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto”.
L’hidalgo non ha combattuto e vissuto invano.
Appendice
Informazioni più dettagliate sul situazionismo si possono trovare cliccando la voce su Wikipedia, e magari andando poi a confrontarle con quelle presenti su altri siti (ad esempio, su quello della Treccani, su Situazionismo.it, su Anarcopedia, ecc …) o in blog come Doppiozero e Carmilla; oppure consultando direttamente volumi come “AA VV, Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998”, o “Mario Perniola, I situazionisti, Castelvecchi, 2005”, e “L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013”.
È difficile dare un’idea dell’impatto reale che il situazionismo ha avuto sul pensiero alternativo del secondo novecento. Nato nell’ambiente delle avanguardie artistiche, il movimento si è poi spostato progressivamente sul terreno della critica rivoluzionaria, andando incontro nel frattempo a diverse scissioni (chi ha vissuto gli anni attorno al Sessantotto sa di cosa parlo) e prestandosi alle più svariate riletture. Gli va comunque riconosciuto di aver portato nella sinistra una ventata di rinnovamento, mettendo a nudo i ritardi e le miopie dei partiti tradizionali e la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni in atto nel secondo dopoguerra.
Aggiungo solo un personalissimo ricordo di uno degli autori qui citati, Mario Perniola, una delle persone più aperte, intelligenti e disponibili che io abbia mai conosciuto, a dispetto di una non sempre totale convergenza delle nostre opinioni. Lo cito perché, a differenza di troppi altri cialtroni incontrati dentro e fuori del mondo accademico, mi ha regalato, col suo solo modo di essere, una straordinaria lezione di vita.
“Manifesto”, redazionale del 17 maggio 1960, I.S. n. 4, Giugno 1960
Una nuova forza umana, che il quadro esistente non potrà soggiogare, si accresce di giorno in giorno con l’irresistibile sviluppo tecnico e l’insoddisfazione per i suoi impieghi possibili nella nostra vita sociale privata di senso. L’alienazione e l’oppressione nella società non possono venire pianificate in nessuna delle loro varianti, ma solo rigettate in blocco con questa stessa società. Ogni progresso reale è evidentemente sospeso alla soluzione rivoluzionaria della multiforme crisi del presente.
Quali sono le prospettive d’organizzazione della vita in una società che, autenticamente, “riorganizzerà la produzione sulle basi di una associazione libera ed uguale dei produttori”? L’automazione della produzione e la socializzazione dei beni vitali ridurranno sempre di più il lavoro come necessità esterna, e daranno infine la libertà completa all’individuo. Liberato così da ogni responsabilità economica, liberato da tutti i suoi debiti e le sue colpe verso il passato e gli altri, l’uomo avrà a disposizione un nuovo plusvalore, incalcolabile in denaro perché impossibile da ridurre a misura del lavoro salariato: il valore del gioco, della vita liberamente costruita.
L’esercizio di questa creazione ludica è la garanzia della libertà di ognuno e di tutti, nel quadro della sola uguaglianza garantita con il non sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La liberazione del gioco, è la sua autonomia creativa, che supera l’antica divisione tra il lavoro imposto e i divertimenti passivi. La Chiesa ha bruciato un tempo le cosiddette streghe per reprimere le tendenze ludiche primitive conservate nelle feste popolari. Nella società attualmente dominante, che produce in maniera massiccia degli squallidi pseudo-giochi di non partecipazione, una vera e propria attività artistica è classificata necessariamente come criminalità. È semiclandestina. Si presenta come fatto scandaloso.
Cos’è, in effetti, la situazione? È la realizzazione di un gioco superiore, con più esattezza, è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana. I giocatori rivoluzionari di tutti i paesi possono unirsi nell’I.S. per cominciare ad uscire dalla preistoria della vita quotidiana. Proponiamo fin d’ora un’organizzazione autonoma dei produttori della nuova cultura, indipendente dalle organizzazioni politiche e sindacali che esistono in questo momento, poiché non riconosciamo loro la capacità di organizzare nient’altro che il riassetto dell’esistente.
L’obiettivo più urgente che fissiamo per questa organizzazione, dal momento in cui esce dalla sua fase sperimentale iniziale per una prima campagna pubblica, è la presa dell’UNESCO. La burocratizzazione, unificata su scala mondiale, dell’arte e di tutta la cultura è un fenomeno nuovo che esprime la profonda affinità dei sistemi sociali coesistenti nel mondo, sulla base della conservazione eclettica e della riproduzione del passato. La risposta degli artisti rivoluzionari a queste nuove condizioni deve essere un tipo nuovo di azione. Siccome l’esistenza stessa di questa concentrazione direttoriale della cultura, localizzata in un solo edificio, favorisce la conquista con un putsch; e siccome l’istituzione è del tutto sprovvista della possibilità di un uso sensato al di fuori della nostra prospettiva sovversiva, ci troviamo giustificati, di fronte ai nostri contemporanei, se ci impossessiamo di questo apparato. E l’avremo. Siamo determinati ad impadronirci dell’UNESCO, anche se per poco tempo, perché siamo sicuri di fare all’istante un’opera che resterà tra le più significative per illuminare un lungo periodo di rivendicazioni.
Quali dovranno essere i caratteri principali della nuova cultura, prima di tutto in rapporto all’arte del passato?
Contro lo spettacolo, la cultura situazionista realizzata introduce la partecipazione sociale.
Contro l’arte conservata, è un’organizzazione del momento vissuto, direttamente.
Contro l’arte parcellare, sarà una pratica globale basata contemporaneamente su tutti gli elementi utilizzabili. Tende naturalmente ad una produzione collettiva e senza dubbio anonima (almeno nella misura in cui, non essendo le opere immagazzinate in merci, questa cultura non sarà governata dal bisogno di lasciare delle tracce). Le sue esperienze si propongono, come minimo, una rivoluzione del comportamento ed un urbanismo unitario dinamico, suscettibile di essere esteso all’intero pianeta, e di essere poi diffuso su tutti i pianeti abitabili.
Contro l’arte unilaterale, la cultura situazionista sarà un’arte del dialogo, un’arte dell’interazione. Gli artisti — con tutta la cultura visibile — si sono separati del tutto dalla società, come sono separati tra loro dalla concorrenza. Ma anche prima di questa impasse del capitalismo, l’arte era essenzialmente unilaterale, senza risposta. Essa supererà questo periodo chiuso del suo primitivismo a favore di una comunicazione completa.
Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di “scuole”, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente ma simultaneamente. Inauguriamo ora quello che sarà, storicamente, l’ultimo dei mestieri. Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno «artisti», in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la costruzione della loro vita. Tuttavia, l’ultimo mestiere della storia è così vicino alla società senza divisione permanente del lavoro, che non gli si riconosce la qualifica di mestiere quando fa la sua apparizione nell’I.S. A quelli che non ci comprendessero bene, diciamo con un irriducibile disprezzo: “I situazionisti, di cui vi credete forse i giudici, vi giudicheranno un giorno o l’altro. Vi aspettiamo alla svolta, che è la liquidazione inevitabile del mondo della privazione, sotto tutte le forme. Questi sono i nostri fini, e saranno i fini futuri dell’umanità”.
Lo “sfogo” (come lui stesso l’ha definito inviandocelo) di Carlo Prosperi è ben comprensibile in giorni nei quali da tutti gli organi di informazione gronda il compianto per l’ennesima donna massacrata da un fidanzato, da un compagno o da un marito respinto. Non bastano l’insensatezza e l’efferatezza della vicenda (e delle cento e passa altre analoghe che hanno intriso di sangue quest’anno già disgraziato), dobbiamo anche sorbirci la morbosa caccia televisiva ai dettagli più macabri e ai pareri e alle testimonianze più stupide, l’insurrezione di ragazzine che hanno scoperto i misfatti del patriarcato senza avere la minima cognizione di cosa significhi quel termine e se non bastasse le lezioni di chi mette loro in bocca gli slogan, le reazioni dell’autorità, che tuona e minaccia il pugno duro e non riesce una volta a prevenire un delitto che sia uno, anche quando più che annunciato è addirittura gridato in anticipo ai quattro venti (e in compenso concede gli arresti domiciliari ai recidivi, facendo sì che ammazzino o sfregino un’altra disgraziata). Da ultimo poi è scesa in campo la corporazione degli psicologi, gli stessi che sino a dieci anni fa suggerivano un’educazione soft, permissiva e “amicale”, che chiedono di entrare nelle scuole ma non offrono di attenersi al salario minimo sindacale. Uno schifo la vicenda, ma uno schifo ben maggiore la sua nauseabonda strumentalizzazione.
Mi ero ripromesso per decenza di sottrarmi al coro, ma le amare considerazioni di Carlo mi hanno ricordato che queste cose le scrivevo già dieci anni fa, quando ancora c’era Berlusconi al governo e non c’era invece il nostro sito, e il termine “femminicidio” era stato appena coniato (cfr. …e il povero Abele? in Reazionario controvoglia, 2013). Da allora le cose sono andate solo peggio, ogni anno viene battuto il record di omicidi di questo genere (in questo mi dissocio da Carlo. Io non credo alle statistiche, credo ai miei occhio, e questi mi dicono di un aumento esponenziale e incontrollato della violenza). Quindi sono arrivato ad un compromesso: non scriverò nulla di nuovo, ma ripropongo lo scritto di quindici anni fa. Non per accampare delle priorità o una particolare lungimiranza (non ce n’era bisogno per capire in che direzione stavano scivolando le cose), ma per testimoniare come la situazione ci sia nel frattempo sfuggita ulteriormente di mano e quanto ipocrite siano le voci che gridano allo scandalo per quest’ultima vicenda. Forse in questi termini un senso quello scritto lo ha ancora.
Quasi mezzo secolo fa, negli “anni formidabili” in cui la mia generazione giocava a cambiare il mondo senza accorgersi che il mondo era già cambiato da un pezzo, per conto suo e nella direzione opposta, io ero molto impegnato a verificare le possibilità di una rappresentazione terrena di quel sogno: ma avevo anche già imparato a prendermi intervalli di istruttiva ricreazione. Avevo ad esempio scoperto che per capire qualcosa della vita era più utile frequentare le aule dei tribunali (come spettatore, naturalmente) che quelle universitarie, e che il banco degli imputati era un’ottima cartina di tornasole per ogni laboratorio di chimica sociale. Seguivo, al palazzo di giustizia di Genova, nelle pause tra un esame e un’assemblea e quando il lavoro part-time me lo consentiva, le cause più clamorose o le vicende più bizzarre. Un giorno mi trovai ad assistere ad un processo che vedeva alla sbarra un magnaccia di mezza tacca, accusato di aver ucciso a coltellate la convivente nei bagni di un cinema. L’imputato ad un certo punto, dopo aver ammesso il fatto …
Anni fa lessi la raccolta di racconti di Jürg Federspiel intitolata L’uomo che portava felicità, in cui erano tratteggiati dei personaggi incapaci di andare oltre i propri limiti, di comunicare il proprio vissuto. Immediatamente mi immedesimai nell’ussaro che, dopo la sconfitta subita ad Austerliz del 1805 contro i francesi, vagava nelle campagne innevate, alla ricerca del paese dove ritrovare ciò per cui aveva combattuto e perso.
Sono passati decenni, ma ancora oggi quella figura ieratica e solitaria che cavalcava sul lago ghiacciato, nella nebbia e incurante dei popolani che dalla costa lo avvertivano del pericolo di sprofondare, mi sta a pennello. Sarà tardo-romantica, sarà interpretabile in vari modi, ma mi ci riconosco ancora oggi.
Il mio non è snobismo nei confronti di una società che è diversa da come la vorrei: rivendico però almeno il diritto di non schierarmi da una parte o dall’altra, perché intravedo più torti che ragioni in tutte le posizioni che mi sono proposte. E invece, in sostanza, è questo ciò che viene richiesto: parteggiare sotto un vessillo, quale che sia; guardarmi dal manifestare un sacrosanto disinteresse; meno che mai dal coltivare un pensiero differente. Questo nessuno me lo chiede. Sembra che a pensare, anche a nome mio, siano deputati altri. Tutto ciò non mi appartiene. Tutto qui.
È pur vero che ho delle preclusioni a pelle, per cui di fronte a particolari situazioni i pori della cute si chiudono a qualsiasi dialogo: ammetto di non riuscire a comprendere idee e azioni di personaggi come Berlusconi (pace all’anima sua, ma non ai suoi imitatori, Renzi compreso), Salvini, Meloni, ecc …, con tutte le loro corti di politicanti, imprenditori, banchieri e faccendieri. Se anche dicessero e facessero cose condivisibili (tranquilli, non capita), rappresentano comunque l’antitesi del mio modo di pensare e vivere.
Ma anche con gli altri, l’empatia è decisamente bassa. Sembra che il loro gioco preferito sia quello di farsi le scarpe a vicenda e di attendere gli scivoloni altrui. Una guerra di logoramento che consuma soprattutto chi la conduce.
La schiacciante vittoria di Napoleone durante la battaglia di Austerliz confermò il predominio della Francia sulle potenze europee e la fine del secolare Sacro Romano Impero, con tutto ciò che rappresentava. Di qui lo smarrimento del mio ussaro, ma anche la sua volontà di ritrovare un senso, una causa in cui credere.
Oggi non c’è un Napoleone capace di mettere a soqquadro la società come si è evoluta nei secoli: chiunque vada al potere, tutto procede immutato (ovvero viaggia verso il disastro), mentre dilaga un individualismo incosciente e miope, per cui ogni singolo non riesce a vedere al di là di quelle che sono le sue immediate (e tutt’altro che naturali) esigenze.
Come lo scontro avvenuto ad Austerliz divenne volano per enormi cambiamenti politici e sociali, gli avvenimenti degli ultimi anni (dall’11 settembre alla guerra in Ucraina, dalle crisi economiche a quelle climatiche e – non ultima – quella sanitaria conseguente al Covid), avrebbero dovuto imporre drastici cambi di rotta, persuaderci a mettere in discussione i modelli sociali e i sistemi di relazione, a cercare di capire come potremmo sopravvivere senza annientarci. Invece rimaniamo scientemente immersi in un mare di futilità, fingiamo di non renderci conto della situazione in cui ci siamo cacciati, o l’accettiamo rassegnati, evitando di affrontare quella che non è più una remota eventualità, ma una minaccia imminente: la sostanziale estinzione del genere umano.
Mi si potrebbe obiettare che non è vero, che, se le classi politiche di tutto il mondo sono cieche e sorde, esistono però movimenti (come quello di “Ultima Generazione”) nati proprio da questa consapevolezza, che cercano di focalizzare l’attenzione su questo tema. Ma io mi riferisco a prese di posizione serie, fondate su una riflessione storica e sociale approfondita, non finalizzate solo alla visibilità mediatica: di proposte concrete che tengano conto, ad esempio, che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è già impegnata quotidianamente nella lotta per sopravvivere e quindi ha priorità diverse dalle nostre. Richiamare l’attenzione va bene, è necessario (anche se sulle modalità ci sarebbe da discutere), ma una volta che la si è ottenuta occorre avere qualcosa da proporre. Altrimenti tutto si risolve di volta in volta in girotondi, sardine più o meno in scatola o venerdì futuristi, che fanno dire “che bravi questi nostri ragazzi” e offrono momenti di folklore a una tivù onnivora e di eccitazione effimera ai media digitali, ma non progrediscono nella ricerca di soluzioni perseguibili.
In fondo la dopamina assunta attraverso l’uso compulsivo dei social, ci fa credere che ciò che affermiamo siano verità indiscutibili e condivise da molti. Nulla è più sbagliato perché le certezze non sono mai incontrovertibili, specie in un mondo in cui il ghiaccio sociale che calpestiamo si sgretola non solo per la “febbre” del pianeta, ma per i diritti sociali, i principi morali e gli sviluppi economici, tutti diventati precocemente avariati.
Pure la convinzione di una eterogeneità di pensiero è una chimera che si infrange contro la repentina mobilità d’opinione, senza particolari afflizioni o ripensamenti, rimpianti o rimorsi. È il gioco delle parti che impone un compulsivo cambio di casacca. Affermare convintamente oggi una cosa e domani l’opposto senza colpo ferire, è l’attestazione più potente della società destracentrica che viviamo (ma purtroppo non solo da quella parte lì). In fondo abbiamo appurato che Ruby Rubacuori è la nipote di Mubarak!
Ciò che vedo è che, mentre ad ogni scroscio di pioggia vengono giù le montagne e se non piove vanno a fuoco i boschi, non c’è alcuno sforzo di responsabilizzazione individuale: continuiamo a chiedere a parlamentari e a “managers” (impegnati a difendere i loro stipendi e profitti) di farsi carico del futuro nostro e del pianeta, ma in realtà badando a non sconvolgere le abitudini al consumo. Non mi pare che qualcuno sia in realtà disposto a rinunciare autonomamente a qualcosa.
Questo non significa che io abbia in mente delle soluzioni e sia in grado di metterle in pratica, almeno a livello individuale: ma so che non le ha nessuno, e soprattutto che nessuno sembra aver davvero intenzione di cercarle.
Rifiuto quindi di schierarmi sotto qualsiasi bandiera, per difendere la mia possibilità di “errare” convintamente, nel duplice senso di muovermi alla ricerca – magari sbagliando – e di confondermi, riprovando pure. Questa, a breve, lungo e lunghissimo termine resta la mia scelta per tollerare l’effluvio di inadeguatezza e incertezza che mi impregnano il cappello e il pennacchio rosso d’ordinanza.
Non voglio attendere l’arrivo della Waterloo per qualcuno. Anche perché ciò si ripete ormai ogni giorno e ne usciamo tutti egualmente sconfitti. Meglio allora rimanere ben ancorato alle briglie del cavallo e procedere senza sosta e ripensamenti, con passo spedito, affinché il ghiaccio sotto i piedi non si frantumi.
Alla via così, cercando “un paese. Un paese come il mio. Ho tutto il tempo al mondo, per trovarlo. Tutto il tempo al mondo”.
Nelle Vite dei maggiori filosofi Diogene Laerzio racconta di un giovane cretese, Epimenide, che fu mandato un giorno dal padre in campagna a cercare una pecora dispersa. Dopo aver girovagato a lungo il ragazzo, sfinito per il caldo e la fatica, si addormentò in una caverna, per risvegliarsi solo cinquantasette anni dopo. Devo dire che Diogene Laerzio non è particolarmente attendibile, tirava un po’ all’enfasi sensazionalistica, e che altri che hanno scritto di Epimenide prima di lui, come lo stesso Platone e poi Plutarco, non fanno cenno a questo episodio, mentre colui che fu probabilmente la sua fonte, lo storico-geografo Pausania, parla di “soli” quarant’anni. Anche nelle trasposizioni moderne della leggenda (Goethe ne Il risveglio di Epimenide e Washington Irving ne La leggenda di Rip Van Winkle) le cifre sono discrepanti: cinquant’anni di sonno per il primo, venti per il secondo: ma c’è una spiegazione, e la vedremo.
La sostanza della storia è comunque che, a prescindere dalla durata del riposino, al suo risveglio Epimenide trovò il mondo molto cambiato, quasi irriconoscibile (e si parla di sei o sette secoli prima di Cristo). A quanto pare già in gioventù il bell’addormentato era un tipo poco convenzionale (ad esempio, portava i capelli lunghi, contro l’uso dei tempi) ed è naturale che al momento in cui rientrò dal mondo dei sogni la sua eccentricità apparisse ancora più marcata. Ma nelle società antiche la stranezza, se da un lato era vista con sospetto, dall’altro veniva letta come spia di facoltà speciali, in questo caso divinatorie. Epimenide cominciò dunque ad essere chiamato in tutta l’Ellade per fornire consulenze su situazioni difficili. Lo interpellarono anche gli ateniesi, prostrati da un’annosa pestilenza, e il nostro risolvette in quattro e quattr’otto il loro problema, identificandone le cause; poi se ne andò, schivo di onori e rifiutando oltretutto qualsiasi compenso (era davvero un eccentrico). Pare invece che, come sempre accade, non fosse particolarmente apprezzato dai suoi compatrioti, dei quali infatti diceva: “Cretesi, cattive bestie, ventri pigri, mentitori sempre” (questa invettiva gli è attribuita da Paolo di Tarso). Di qui il famoso paradosso del mentitore, per cui, essendo lui cretese, se tutti i cretesi mentono nemmeno lui è credibile, e le sue accuse sono infondate.
Ma non è questo che mi interessa. Mi interessano invece la capacità divinatorie, perché interrogato sull’origine dei suoi poteri Epimenide si scherniva asserendo di non vaticinare rivolgendo lo sguardo al futuro, ma sulla base della conoscenza del passato. Mi pare un’affermazione tutt’altro che scontata, degna nel caso specifico di una riflessione più approfondita: credo infatti che il filosofo-vate non volesse affermare semplicemente che pensare al passato è fondamentale per capire il presente e orientare il nostro futuro, cosa abbastanza ovvia (anche se oggi non lo è affatto). Intendeva dire, sulla base della sua straordinaria esperienza, che chi per qualche motivo è rimasto più strettamente vincolato al passato, o non ha vissuto direttamente i cambiamenti, quando se li trova di fronte è in grado di apprezzarne la reale portata, si rende conto più nitidamente della di-stanza intercorsa. È in fondo ciò che accade a noi tutti, che non avvertiamo i mutamenti che avvengono in noi stessi e nelle persone con le quali abbiamo maggiore consuetudine, mentre li constatiamo sgomenti in coloro che abbiamo perso di vista per venti o più anni.
La cosa mi coinvolge perché in qualche modo un’esperienza simile a quella di Epimenide la sto vivendo anch’io. Provo sempre più spesso la sensazione di risvegliarmi da un lungo letargo e di trovarmi di fronte ad una realtà nella quale non mi raccapezzo. Ne avrei tutti i motivi, perché nel frattempo la trasformazione del mondo ha conosciuto un’accelerazione esponenziale. I cambiamenti che mi sorprendono in realtà io li ho vissuti da dentro, sono passati sulla mia pelle, sul mio corpo, sulle mie speranze e aspirazioni (lasciando anche cicatrici evidenti): eppure, sarà senz’altro per effetto dell’età e del rimbambimento senile, che induce anche patologiche nostalgie, il mondo nel quale mi risveglio ad ogni notizia di telegiornale, ma anche ad ogni esperienza di quotidiana banalità, non lo riconosco, non mi piace, mi respinge (il che potrebbe in fondo essere un bene, perché avrò meno rimpianti al momento di lasciarlo). Insomma, l’impressione è di essermi addormentato sessant’anni fa pieno di certezze e di speranze e di risvegliarmi oggi pieno di dubbi e di delusioni.
Per esemplificare questa sensazione ricorro ad alcune notazioni che ho appuntato in una giornata tipo della scorsa settimana. Non tengo un diario, ma assicuro che è andata proprio così, non sto inventando nulla.
Dopo aver tentato invano di chiudere gli occhi per più di un paio d’ore consecutive, e troppo stanco per leggere, mi piazzo ad un un’ora antelucana davanti al televisore, lasciando scorrere distrattamente le immagini mute e sperando nel loro effetto soporifero. Ad un certo punto però mi imbatto in un vecchio film-documentario, di quelli in voga nei tardi anni cinquanta, che giocavano maliziosamente col pretesto del cinema-verità per offrire agli spettatori immagini che all’epoca apparivano pruriginose. Si tratta di Europa di notte, di Alessandro Blasetti, che quella moda l’ha inaugurata. Mi sono perso tutta la parte “spettacolare”, ma mi godo invece lo spezzone finale, quello davvero documentale, che mostra in bianco e nero una Roma percorsa ai primi chiarori dell’alba dalla cinepresa, a raccontare un lento risveglio dopo i bagordi notturni: una Roma semideserta (per le strade ci sono solo i netturbini e distributori dei pacchi dei giornali alle edicole), grigia ma pulitissima (è quella dei film tardo-neorealistici, tipo Poveri ma belli – quella sporca comincerà ad apparire solo tre anni dopo, con Accattone).
Il caso (?) vuole che uno dei servizi del telegiornale trasmesso immediatamente dopo sia dedicato proprio all’immondizia che sta sommergendo ormai da decenni la capitale. Roba da chiedersi come abbia fatto una città che un tempo dominava il mondo – e già all’epoca era abitata da più di un milione di persone – a ridursi ad un tale letamaio. E non c’è in giro un Epimenide da consultare (se ci fosse se ne andrebbe via di corsa), o meglio, ne vengono consultati una miriade, ma si limitano a intascare il compenso. Soprattutto non c’è l’ombra di netturbini (anche se a ruolo paga ne risultano duemilaquattrocento).
Con la prima sigaretta arriva anche la prima riflessione: allora la mia non è solo una percezione distorta, falsata dalla nostalgia: il mondo che ho conosciuto prima di addormentarmi era molto più pulito, nelle città come nelle campagne, lungo le strade di montagna come sul greto dei fiumi. Come ho già raccontato altrove, nelle campagne non si producevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato, legno e carta per le stufe, l’organico per gli animali o come fertilizzante, la plastica non esisteva e le bottiglie di vetro erano preziose, i mobili, gli abiti e persino la biancheria passavano di padre in figlio. Persino le cicche venivano disfatte per recuperare il tabacco. Lungo le strade che salivano al paese e nelle vie interne le cunette erbose erano rasate ogni tre o quattro giorni, a ciascun cantoniere competeva la manutenzione di un tratto e c’era una vera e propria gara a chi lo teneva più in ordine. Anche nelle città funzionava una raccolta minuziosa. A Genova, dove ho trascorso nell’infanzia brevi periodi presso una zia portinaia, lo smaltimento dei rifiuti era quasi un rito, i netturbini erano implacabili con chi non rispettava i tempi e i luoghi del conferimento. Certo, la mia è una visione di superficie, ma almeno la superficie era pulita.
Mentre attendo che il caffè gorgogli nella moka il telegiornale prosegue. Un automobilista ubriaco, tra l’altro già privato un sacco di volte della patente, ha sterminato una famiglia che passeggiava tranquillamente a bordo strada. Gli omicidi stradali danno ormai vita ad una rubrica quotidiana, come i femminicidi e le previsioni meteo. Quando mi sono assopito, sessant’anni fa, naturalmente queste cose non accadevano. Mi si obietterà che circolavano forse un cinquantesimo delle auto odierne, ma la realtà è che c’erano anche molti meno ubriachi, alla faccia delle statistiche che vengono sbandierate ad ogni occasione, e quelli che c’erano in genere potevano fare del male solo a se stessi. Durante tutta l’adolescenza e la giovinezza non ricordo comunque di aver mai visto un mio coetaneo sbronzo. C’era sì qualche adulto o qualche anziano che alzava il gomito, ma al massimo capitava di trovarlo steso in una cunetta, dove aveva trascorso la notte dentro la neve, protetto dall’antigelo che circolava nel suo corpo. Oggi, a quanto mi arriva, lo sballo e la sbornia sono diventate abitudini giovanili, riti di passaggio che tendono a protrarsi poi all’infinito, e hanno anche cancellato le differenze di genere.
Al contrario di quanto faccio al solito, dopo il caffè non spengo il televisore. Una sindrome masochistica mi spinge a seguire anche le notizie internazionali. A meno di duemilacinquecento chilometri da noi, distanza che un aereo di linea percorre in tre ore, è in corso una guerra. Dopo quasi un anno e mezzo di carneficina, della quale non conosciamo nemmeno approssimativamente i costi reali, in vite umane, in sofferenze e in distruzioni, siamo a constatare che la cosa potrebbe durare all’infinito, così come evolvere all’improvviso in un disastro globale. Ci siamo già assuefatti, e le notizie dal fronte arrivano ormai di spalla, dopo le polemiche sulla Santanché e su La Russa.
Nessuno dei miei coetanei, nati a immediato ridosso dell’ultimo grande conflitto, avrebbe mai immaginato sessant’anni fa una cosa del genere. Si parlava di guerra fredda, è vero, veniva evocato ad ogni piè sospinto lo spauracchio nucleare, ma almeno dalle nostre parti (intendo in Italia, e penso anche al resto d’Europa) nessuno ci ha mai creduto veramente. A differenza che negli Stati Uniti, le aziende produttrici di rifugi antiatomici da noi hanno chiuso velocemente i battenti, e i pochi che sono stati venduti erano più intesi ad esibire uno status che a garantire una improbabile sicurezza.
Questo non significa che le guerre non ci fossero, che non fossero sanguinose e che non ne avessimo notizia. Sapevamo dell’Algeria, del Congo, del Biafra, del Vietnam e di tutti gli altri conflitti in corso in ogni angolo del mondo. Ma almeno li percepivamo come gli ultimi sussulti di un imperialismo in agonia, speravamo che avrebbero chiuso definitivamente la vergogna dello sfruttamento coloniale e aperto ad un mondo più giusto. Non è certamente il caso di quest’ultimo scontro: ed è indubbiamente assai più concreto il rischio di una deriva nucleare, anche se lo si esorcizza parlando di “atomiche tattiche”. Sembra che il mondo si sia rassegnato alla ineluttabilità di questo esito.
Di fronte a tutto ciò appare ancora più colpevole e scandalosa l’impotenza dell’Europa. All’epoca l’Unione Europea era ancora in fasce, esisteva solo per determinati settori economici, ma davvero si credeva che avrebbe potuto evolvere in una realtà politica. Magari eravamo tutti molto più ingenui, e non solo noi ragazzi, ma a volere questa unione era una classe politica che aveva vissuti gli orrori della guerra ed era determinata a non consentire che si ripetessero. Se potesse assistere allo spettacolo offerto dalle istituzioni politiche europee odierne inorridirebbe.
In appendice alle immagini della guerra arrivano quelle degli sbarchi dei migranti dall’Africa e dall’Asia. Nella sola giornata di ieri se ne sono contati settecento, e si sospetta che almeno un centinaio siano scomparsi nelle acque dello Ionio. Non riesco a seguire le polemiche e le dichiarazioni su accoglienza, respingimenti e ricollocazioni: un teatrino nauseante. Da neo-risvegliato mi colpiscono invece la natura e la dimensione del fenomeno. Mi ero assopito più mezzo secolo fa nella convinzione che la grande novità del terzo millennio sarebbe stata costituita da un terzo mondo finalmente libero e indipendente, capace di giocare un ruolo da protagonista: non mi aspettavo certo che la cosa prendesse questa tragica piega. Anche se non sono mai stato facile agli entusiasmi “rivoluzionari” del terzomondismo (voglio dire, niente Cuba, niente libretto rosso, niente Angola, ecc…), se guardo alla situazione geopolitica mondiale con gli occhi di allora non posso che rimanere allibito. È accaduto tutto il contrario di quanto speravo: il colonialismo ha cambiato pelle e ha trovato nuovi interpreti (la Cina, la Russia, gli stati arabi del golfo, …), le classi dirigenti indigene, in Africa come in Asia come nell’America Latina, hanno dato di sé pessima prova, dimostrandosi tutte egualmente incapaci e corrotte, quale che ne fosse l’estrazione o l’ideologia di riferimento, l’ONU è un baraccone privo di qualsiasi credibilità e potere, mentre tutte le agenzie specializzate che ha partorito, come l’UNESCO, la FAO e compagnia cantante sono diventate delle greppie inefficienti alle quali si nutre un numero scandaloso di funzionari, reclutati per lo più nei paesi “in via di sviluppo” e affamatissimi. Certo, hanno concorso gli stravolgimenti climatici, la desertificazione, lo sfruttamento criminale delle risorse operato dalle potenze neocoloniali: ma quello che balza agli occhi è ad esempio il fallimento di ogni progetto di “negritudine”, quello che aveva ispirato i primi anni dell’indipendenza africana. Altro che terzomondismo: e infatti, persino il termine è sparito dal vocabolario politico (così come “negritudine”, che da bandiera è diventata un insulto), e l’eredità è stata raccolta dall’azione “caritatevole” delle organizzazioni non governative, che anche quando sono in buona fede sembrano travasare l’acqua dell’oceano con un cucchiaio.
Le previsioni del tempo completano il quadro. Mezza Europa è prostrata da temperature torride, una buona parte è devastata da roghi che mandano in cenere il poco che rimane del patrimonio boschivo, mentre l’altra mezza è bombardata da fenomeni atmosferici estremi, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate. Questo accadeva senz’altro anche sessant’anni fa, e seicento, e seimila: ma si trattava di situazioni eccezionali, ed erano percepite come tali. Oggi rappresentano la nuova “normalità” meteorologica, al di là dei titoli strillati sui quotidiani e del sensazionalismo isterico dei notiziari televisivi: una “normalità” percepita attraverso lo stravolgimento mediatico, nel quale all’afa e alla grandine si aggiungono le inconcludenti polemiche tra catastrofisti e negazionisti (che, è sin troppo scontato dirlo, lasciano il tempo che trovano). La chiusa finale, prima del diluvio pubblicitario, reca almeno una nota comica, ma di una comicità desolante, priva di qualsiasi umorismo: sono i consigli dispensati degli esperti, che tutti seri in volto e qualche volta supportati dall’autorevolezza di una divisa suggeriscono di bere molta acqua e di stare all’ombra, o nel caso opposto di rimanere in casa durante i nubifragi e non cercare riparo sotto gli alberi.
È ora di spegnere e di staccarsi dal divano. Una passeggiata solitaria mi porta al Capanno, dove trascorrerò il resto della mattinata trafficando e leggendo. Ma lungo il percorso mi guardo attorno. Sessant’anni fa questa passeggiata la ripetevo quattro volte il giorno, con un passo decisamente diverso, oppure in bicicletta. L’ultima casa del paese era in fondo al viale, dopo partivano i vigneti. Non c’era un metro di incolto, e a vista d’occhio i filari coprivano le colline più prossime ma anche quelle al di là del fiume. Dalla tonalità di verde delle foglie potevi capire dove maturavano il dolcetto, la barbera, il moscato. Oggi la macchia ha riconquistato tutti i declivi. Nella Valle del Fabbro non c’è più una sola vite, l’unico fazzoletto di coltivo è costituito dal mio frutteto, anch’esso purtroppo in via di inselvatichirsi. Per certi versi può apparire un angolo paradisiaco, ma è il paradiso dei rovi, e anche se egoisticamente me lo godo non può non trasmettermi la sensazione triste dell’abbandono.
Per la lettura mi rifugio in alcuni fascicoli de Le vie del mondo, risalenti agli anni in cui mi sono addormentato. Ho conferma di ciò che scrivevo sopra quanto alle aspettative su un mondo più libero, più giusto, più pacifico. E noto anche come non ci sia traccia di razzismo nella descrizione di paesi e di popoli lontani, appena emersi dal limbo della storia: c’è solo una gran curiosità, checché ne dicano gli odierni cancellazionisti, per i costumi, per le tradizioni, per le prospettive future che ciascuna di queste culture potrà perseguire senza negarsi. L’occidente non ha atteso i cultori della memoria particolaristica per farsi un esame di coscienza, come ben sa qualsiasi appassionato del western classico: nel cinema degli anni Cinquanta dietro ogni rivolta o scorreria o massacro operato dagli indiani c’erano la mano o le mene di mascalzoni bianchi.
Nel pomeriggio cerco consolazione dal Tour de France. Un tempo, nel dormiveglia di fine secolo scorso, andavo a seguirne dal vivo qualche tappa alpina. E prima della metà degli anni Sessanta lo vivevo attraverso le radiocronache. Ho tifato e ho urlato anch’io, ma quella che vedo oggi è una mandria di idioti assiepati lungo le salite, che intralciano con bandiere e cartelli la fatica dei corridori, corrono al loro fianco mezzi nudi per scattarsi un selfie, rischiando ad ogni passo di buttarli a terra, o si parano davanti alle moto bardati da cerebrolesi per strappare un attimo di visibilità internazionale. Non mi si venga a dire che è sempre stato così, che anche Bartali e Nencini erano stati ostacolati: si tratta di cose ben diverse. Là c’era di mezzo uno sciovinismo esasperato, stupido ma ingenuo: qui vediamo invece manifestarsi platealmente gli effetti del rincretinimento mediatico, della spettacolarizzazione di tutto, e in primis della stupidità. Lo sciovinismo, il tifo, sono degenerazioni della sportività: questa è invece degenerazione assoluta, una crescente tabe antropologica.
Non riesco neppure ad attendere l’arrivo della tappa, sono disgustato. Esco a fare un giro per strada. Il paese sembra un villaggio fantasma. Non un’anima, neppure un cane o un gatto (oggi vivono in casa), e non certo per via del Tour. È già l’ora nella quale dalle porte delle case che si affacciano in via Benedicta o dai vicoli che ne dipartono uscivano sedie e sgabelli, e zie e nonne e mamme si riunivano in capannelli lungo la strada, dandosi sulla voce da un gruppo all’altro, commentando ogni passaggio e facendo la tara ad ogni acquirente che uscisse dai negozi aperti sullo stradone. Oggi i capannelli non ci sono più, in compenso malgrado il divieto ci sono auto posteggiate lungo tutta la via, e non ci sono più nemmeno i negozi (erano dodici, oggi ne rimane uno). Se muore qualcuno paradossalmente se ne ha notizia solo il giorno dopo, dai manifesti affissi nella bacheca, se qualcuno è malato o finisce all’ospedale lo si viene a sapere quando ricompare, per i pettegolezzi ci si può rivolgere solo all’agenzia informale che opera davanti al bar, ma con gravi ritardi e scarsi dettagli. Insomma: non c’è più alcun controllo sociale, e questo in un paese di meno di mille abitanti. Figuriamoci in città. L’unico controllo è quello che passa attraverso gli iphone, ma è tutta un’altra faccenda.
In tre quarti d’ora, misurando il passo e cercando di cogliere i minimi indizi di cambiamento, di interventi edilizi, di restauro dei muri e degli infissi, dei segni di vita insomma, faccio il giro completo del paese. Incrocio quattro persone, e non ne conosco nemmeno una. Più della metà degli attuali abitanti è arrivata recentemente da fuori, attratta dai costi stracciati delle case – che nonostante ciò rimangono invendute per anni.
Alla metà del secolo scorso, quando i residenti erano quasi il doppio, li conoscevo benissimo tutti, sapevo dove abitavano, che attività svolgevano, che carattere avevano, se fossero affidabili o meno. Oggi mi sento uno straniero nella terra nativa. Continuo a non chiudere a chiave la porta la notte, ma in realtà non sono più così serenamente fiducioso.
Scende finalmente la sera, e con essa torna purtroppo anche l’incubo dell’insonnia. Una volta era costume tirar tardi in cortile, dove confluivano vicini, dirimpettai e passanti occasionali: ma dopo la morte dei miei genitori la consuetudine si è rapidamente persa.
La televisione naturalmente non aiuta, i film sono gli stessi già trasmessi cinquanta volte, persino i western sono inguardabili, ridotti a uno spezzatino in un mare di pubblicità, i talk show sono un oltraggio costante al pudore intellettuale. Non restano che i libri, ma anche la dondolo a quest’ora è scomoda, e a letto ogni posizione di lettura è immediatamente stancante. Spengo la luce, chiudo gli occhi e mi concentro.
Realizzo che per tutta la giornata ho comunque fatto uso senza pensarci affatto di strumenti (il computer, il cellulare, il forno a microonde, ecc …) dei quali sessant’anni fa nemmeno avrei sospettato l’avvento, e di altri dei quali non avevo la disponibilità (auto, telefono, televisione, …). Che ho mangiato cibi conservati in confezioni di plastica, e lo stesso vale per le bevande. E che tutto sommato, a dispetto della consapevolezza negativa, ho anche pensato secondo gli schemi conseguenti a tutto questo modo di vita. Solo ora mi rendo conto di quanti bisogni artificialmente indotti ho cumulato, di quanto ne sono diventato dipendente. Mi vien da pensare di essermi mosso per tutto questo tempo come un sonnambulo. Di fatto, mi piaccia o meno, mi sono adeguato a tutti i cambiamenti, a tutte le novità. Non dico di averli digeriti o capiti tutti, ma quantomeno ci ho convissuto. E nemmeno ho scordato come il mondo preletargico non fosse propriamente un Eden. Diciamo che ho vissuto in uno stato di coma vigile, e che forse sono meno convinto di quanto credo di volerne davvero uscire.
Comunque ci provo. Può essere che stavolta mi addormenti, per risvegliarmi sessant’anni addietro. Non con sessant’anni di meno, non è questo a interessarmi. Eden o no, ciò che rivoglio, almeno per un attimo, è quel mondo.
P.S. Ho accennato inizialmente alle discrepanze sulla durata del sonno di Epimenide (alias Rip Van Vinkle) che si trova nelle versioni moderne della leggenda. Me ne do questa spiegazione. Goethe scrive Il risveglio di Epimenide nel 1814. Dietro l’opera c’è una motivazione politica autogiustificatoria. L’autore cerca di spiegare il suo cinquantennale silenzio di fronte agli straordinari accadimenti dell’ultimo secolo, rivoluzioni americana e francese comprese, e soprattutto rispetto a quelli che hanno profondamente toccato la vita della Germania. Sembra voler dire che il suo non è stato un atteggiamento di fuga e di non compromissione con la realtà, ma di osservazione della realtà dall’alto di una speciale consapevolezza indotta dal sapere artistico. E infatti, dopo tanti sconvolgimenti, le cose sono tornate al loro posto (Napoleone è appena stato sconfitto), l’ordine è stato ristabilito. Al contrario Irwing, che scrive il Rip van Winkle pochi anni dopo (1819) in Inghilterra, ma lo ambienta in America, constata che in vent’anni le cose sono cambiate moltissimo, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Si è addormentato in una colonia inglese e si risveglia negli Stati Uniti, rischiando addirittura di essere linciato quando in perfetta buona fede dichiara la propria lealtà alla corona britannica. Ma soprattutto prende atto di una rivoluzione ancora più importante, quella industriale, che viaggia sulle ferrovie e sui battelli a vapore, e del fatto che le trasformazioni sono destinate a diventare sempre più veloci. Nessuno attribuisce a Rip facoltà divinatorie, ma molti credono alla sua storia e invidiano la sua esperienza, non fosse altro per il fatto che gli ha consentito di sfuggire alla tirannia della moglie. In sostanza, secondo Irwing, due decenni sono sufficienti a cambiarti la vita e a trasformare il mondo.
Direi che alla luce degli ultimi due secoli abbia visto ben più lontano di Goethe.
Sono infastidito, se non nauseato, da tutto il can can mediatico seguito alla dipartita di Silvio Berlusconi, all’insegna ora del “servo encomio” ora del “codardo oltraggio”. Con rare eccezioni. Tutto eccessivo. Resto del parere che il personaggio, per cui non ho mai nutrito particolare simpatia, resti nel bene e nel male il simbolo dell’imprenditore ganassa, spaccone ed esibizionista, geniale ma incurante spesso delle leggi e della morale, dotato di un ego straripante, talora ipertrofico, in grado di sedurre, blandire, corrompere. Da perfetto imbonitore, da istrione di razza, all’italiana. Non è un caso che abbia contribuito a rafforzare agli occhi degli osservatori stranieri i più classici e triti stereotipi dell’italiano: gli stessi da lui interpretati per conquistare il consenso, l’ammirazione e l’approvazione della gente comune, in particolare dell’italiano medio e di quanti, con le sue televisioni, ha trasformato da spettatori in consumatori. A beneficio soprattutto delle piccole e medie aziende, dei pubblicitari.
Invece di preoccuparsi di elevare il livello morale e culturale dei suoi compatrioti, ne ha solleticato i bassi appetiti, le voglie insane, il mal costume, a scapito del buon gusto, della serietà, dell’impegno coscienzioso, della buona creanza. Finendo paradossalmente per prestare il fianco alla satira più scomposta e ridanciana, diciamo pure volgare, fino a divenire lui stesso il bersaglio privilegiato di comici e vignettisti senz’arte né parte che, grazie a lui, dall’oggi al domani hanno trovato modo non solo di campare, bensì di prosperare. Magari dileggiandolo, calunniandolo, nutrendosi di quella stessa volgarità cui aveva dato la stura, ovvero la possibilità di esprimersi, di salire alla ribalta, di trionfare. Alla faccia dell’arte vera, della vera cultura. Sì, perché lo spettacolo, spesso peraltro di modesta qualità, ha finito per surclassare la cultura, la riflessione pacata ha ceduto il posto al dibattito estemporaneo, il confronto civile e ponderato all’alterco e alla rissa tra sedicenti esperti, quando non alla chiacchiera, al pettegolezzo, al lazzo e al frizzo, all’insulto, alle scurrilità, a chi la dice più grossa. L’intrattenimento da bar, da salotto, da baraccone o da night-club ha tolto spazio all’educazione, ha distolto dall’approfondimento, dall’esame accurato delle questioni problematiche.
È così mancata ogni stimolazione del pensiero critico ben vagliato e ponderato. Si è data l’impressione che l’opinione dello sprovveduto fosse equiparabile a quella dello studioso. Che l’arguzia, la battuta di spirito e finanche l’improntitudine valessero più del ritegno e del contegno, più dell’argomentazione rigorosa. Con riflessi devastanti sull’editoria, dove libelli e pamphlets hanno preso il posto dei grandi saggi, dove la brevitas e la levitas hanno scalzato la gravitas, e la superficialità è ormai sinonimo di brillantezza. Le stalle di Augia da allora hanno infestato e ammorbato l’aria del nostro Paese. Nani e ballerine, strimpellatori e cantanti da strapazzo, mimi e giullari, hanno così finito per diventare maîtres à penser. La sbracatura, il chiasso, la trivialità più becera sono assurti a costume, a moderni e quotidiani panem et c ircenses. Oppio per istupidire le masse.
È probabile che questa metamorfosi in peggio dell’Italia, da altri scambiata per modernizzazione, sarebbe comunque avvenuta: lui l’avrebbe solo intuita e anticipata. Non anche affrettata? Come si fa a dire: “Non ha cambiato la società con la televisione commerciale. Ha capito che il costume era cambiato e ha offerto un modo di fare televisione nuovo, eppure al passo coi tempi”? Poi è vero e non sorprende che il suo operato, soprattutto politico, non vada a genio “ai sinistri, per cui l’umanità non può essere come è. Dev’essere com’è giusto che sia, cioè come dicono loro. Le devianze, se ricorrono, sono per forza riconducibili a un fattore esogeno. L’idea si aggancia a quell’atavica e istintiva spinta a scaricare sul grande uomo, chiunque esso sia, ciò che siamo; a quella cultura popolare che rifugge dalle responsabilità” [PIER LUIGI DEL VISCOVO, Ha offerto una tv diversa a una società nuova, “il Giornale” del 14 giugno 2023]. Ma dov’era, allora, la responsabilità dei dirigenti del servizio pubblico che non tardarono ad assecondare il modello popolare e commerciale della tv privata? Berlusconi, dal canto suo, ha profittato di questo generale scanso di responsabilità, laddove nulla o ben poco ha fatto per raddrizzare il “legno storto” dell’umanità; anzi su quella innata “stortura” ha fatto leva per il proprio successo imprenditoriale. Col risultato di suscitare invidia, odio, rancore in chi si è visto strappare la platea abituale. Di qui l’accanimento giudiziario, i processi, le sentenze: accanimento che, alla luce del marcio imperante nella magistratura, nessuno dovrebbe più negare. L’homo novus di successo suscita sempre il sospetto e l’avversione dell’establishment. Il cane straniero in transito scatena la canea di quanti del canile si sentono i legittimi padroni.
Berlusconi, per di più, era stato avvisato (cfr. la testimonianza di Fabrizio Cicchitto nell’intervista rilasciata a Massimo Malpica per “il Giornale” cit.): non gli bastò vincere, volle stravincere. Nella sua smodata intemperanza si credeva inattaccabile, al di là o al di sopra di ogni sospetto. Fors’anche al di là del bene e del male. Di qui la gogna mediatica e la vergogna del “bunga bunga”, frutto di un radicato trimalcionismo che lo induceva a circondarsi di sodali e cortigiani plaudenti con cui condividere il proprio libertinaggio. Dietro cui s’intravede la sindrome del dongiovanni, la volontà di esorcizzare la vecchiaia e la morte, gl’immancabili convitati di pietra, indossando la maschera, sempre più grottesca, di un giovanilismo a oltranza. O ridendoci su, tra una battuta e l’altra, in una disperata illusione di immortalità.
Per il resto, è indubbio che abbia fatto delle cose buone – per il mercato del lavoro, per la pace, per lo sport, per la semplificazione della politica col bipolarismo, per lo sdoganamento della destra ovvero, a detta di Tomaso Montanari (che evidentemente ha qualche problema con la storia), “dei fascisti al governo”, ecc. – e che gli avversari politici, negandole, insistano invece sul conflitto d’interessi, che loro peraltro si sono ben guardati dal cancellare, sulle leggi ad personam, che pure ci furono; nondimeno è altrettanto vero che l’unica legge ad personam letale fu quella che segnò la momentanea decadenza politica del “caimano”.
Si dice che l’attuale governo Meloni sia l’esito della sua lungimiranza: in realtà Berlusconi non apprezzava affatto la Meloni, come ha dimostrato scarabocchiando in Senato una serie di malevoli giudizi su di lei sùbito inquadrati dalle cineprese in agguato, ed apprezzava ancor meno di essere il terzo della compagnia al governo. Credeva e voleva essere l’ago della bilancia, il sale dell’alleanza. Fino al ridicolo. La vittoria della Meloni ha in realtà segnato la sconfitta del signore di Arcore. Che non era né un angelo né un diavolo, bensì un uomo con le sue qualità e i suoi difetti. Come tutti, se pur dotato di talenti superiori alla media, peraltro non sempre impiegati nel migliore dei modi.
Ma il mio giudizio non pretende di essere insindacabile, né mi azzardo a considerare le più gravi accuse di collusione o di collaborazione con la Mafia sulle quali nemmeno l’occhiuta magistratura è riuscita a far piena luce. Personalmente, ritengo il concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie assente dai codici penali, un’aberrazione giuridica, frutto di quella creatività dei magistrati che mina la certezza del diritto. Non meno della retroattività della pena. E forse ha ragione Rosy Bindi a dire che “il berlusconismo va elaborato”, evitando santificazioni o demonizzazioni intempestive. Nel frattempo, però, del lutto nazionale e delle bandiere a mezz’asta, nonché dell’inqualificabile scialo televisivo avrei fatto volentieri a meno. Con tutto ciò, parce sepulto.
Commento di Paolo Repetto
Carissimo Carlo, ho letto il tuo pezzo e l’ho immediatamente girato a Fabrizio per la pubblicazione, corredandolo di qualche immagine (allego il risultato). Speravo vivamente che qualcuno dei Viandanti scrivesse un commento serio e pacato, non essendo io stesso nelle condizioni di spirito per farlo. Sono d’accordo su quasi tutto, ma ho qualche dubbio sulla genialità imprenditoriale. In fondo il nostro non è partito affatto dal nulla, ma dai soldi della prima moglie: forse rientra nelle abilità del self made men anche il trovare una consorte danarosa, perlomeno la prima della serie, ma non penso gli si possa ascrivere come una virtù. Anche se va concesso che i più si limitano a dilapidare il patrimonio della coniuge. Comunque, sul personaggio avrei avuto poco da dire, ha già detto tutto lui quel che serviva ad inquadrarlo: è piuttosto il contorno ad avermi schifato, la canea mediatica spudorata che si è scatenata, quasi che la morte, e il rispetto ad essa dovuto, abbia finalmente consentito di dare la stura a tutta una serie di piccole e meschine rivincite e rivendicazioni personali che pesavano da un pezzo sullo stomaco ad un sacco di gente. Non è stata tanto la beatificazione di un personaggio equivoco, quanto l’occasione per tutti i suoi clientes di emanciparsi, di immaginarsi veri e semoventi anche senza Mangiafuoco a tirare i fili. Credo balleranno una sola estate, ma lo spettacolo è stato comunque penoso.
Dall’altra parte, naturalmente, la sinistra si è istradata sulla solita geremiade del ritorno del fascismo. Nessuno sembra capire che il fascismo non c’entra nulla, se non nelle nostalgie antiquarie dei vari La Russa, e che il regime che va prefigurandosi (succedendo a quello instaurato, almeno sul piano culturale, settant’anni fa dalla “sinistra” – da quella irreggimentata come da quella “autonoma”), è qualcosa di completamente nuovo. È il peggiore dei regimi, che prescinde da ogni “lateralizzazione” ed è stato ormai già interiorizzato dalla maggioranza, per cui ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica. Ovvero, è affidata singolarmente a ciascuno di noi, alla resistenza e all’esemplarità dei singoli: e la resistenza può essere opposta individualmente nei modi più svariati.
Per quanto mi concerne, mi rifugio al momento in cose piccolissime, che possono sembrare – ed effettivamente sono – estremamente futili. Ad esempio, sto buttando giù una mini-biografia di Sven Hedin, l’esploratore svedese, cancellato dai libri della memoria per le sue frequentazioni naziste. Sino a ieri in Italia trovavi tradotto uno solo dei suoi libri (ne ha scritto una cinquantina), e non erano state ripubblicate neppure le vecchie edizioni della Treves. Da quest’anno si trovano anche una sua seconda opera e una biografia (che non ho letto intenzionalmente, perché temo fortemente orientata). Bene, Hedin nutriva simpatie – ricambiate con gli interessi – per Hitler, lo conosceva personalmente, ma era in parte ebreo e rivendicava orgogliosamente questa appartenenza. Un libro nel quale compare questa rivendicazione, nel 1938, in Germania non venne pubblicato (ed Hedin era famosissimo e stimato proprio in Germania). Dopo la guerra non fu inquisito né condannato, non c’era materia per farlo, ma venne ostracizzato e morì nel ’52 dimenticato volutamente e ipocritamente dall’establishment culturale, sia in patria che fuori. Credo che il suo mancato recupero attuale, in un’epoca che rivaluta e riabilita qualsiasi scamorza, sia dovuto alla cancel culture, in quanto gli si addebita di aver saccheggiato, assieme ad altri, tesori artistici e letterari rinvenuti nel corso delle sue spedizioni nell’Asia Centrale. Da notare che quelli non saccheggiati sono andati poi perduti, per la violenza iconoclasta mussulmana, per quella semplicemente idiota delle guardie rosse cinesi o per l’ignoranza delle popolazioni locali. Ebbene, in Italia abbiamo avuto il caso di Ardito Desio, per citarne uno, strettamente colluso col fascismo, intimo di Italo Balbo, responsabile della totale fascistizzazione del CAI, che nel dopoguerra non è stato minimamente sfiorato dalle epurazioni ed anzi, si è visto affidare la conduzione della spedizione al K2, condotta con metodi a dir poco mafiosi e raccontata poi ufficialmente per quarant’anni con un mare di menzogne a danno del povero Bonatti. Desio è morto a 104 anni (confermando la mia teoria che la cattiveria e l’egoismo sono un elisir di lunga vita) e in un documentario passato in televisione un paio di mesi fa era presentato come un padre della patria e un pilastro della cultura. Non è l’unico caso, è solo il primo che mi è venuto in mente: per altri la collusione con lo stalinismo (anche attiva, operativa, come nel caso di Longo, Togliatti e co. in Spagna e altrove) non ha mai costituito una macchia sulla fedina umana e politica.
Allora: questo io chiamo regime, la negazione o la rimozione sfacciata della verità, e la sua riduzione a barzelletta quando è scomoda (vedi il caso Moretti). Per questo considero Montanari alla stregua di Borgonovo e di Capezzone: una volta si sarebbe detto ottenebrati dall’ideologia, ma in casi come questi si può solo parlare di malafede, come intelligentemente scriveva Chiaromonte. Io che sono molto grezzo la chiamo stronzaggine congenita, e questa non conosce distinzioni di destra o di sinistra.
Commento di Marcello Furiani
1. Condivido sostanzialmente lo scritto di Carlo, con piccoli distinguo. Della genialità imprenditoriale di Berlusconi ha già detto Paolo, alle cui parole aggiungerei il mai chiarito il legame torbido con la mafia, l’oscura origine dei soldi con cui ha iniziato (vedi Banca Rasini, ovvero la Banca che riciclava denaro sporco per conto del Vaticano, della mafia e della massoneria deviata): vicende delle quali non ha qui senso scrivere. Ricordo solo che Berlusconi fu quello delle leggi ad personam, della compravendita di senatori, della corruzione e della normalizzazione dell’evasione fiscale, dei rapporti con la P2 e con la mafia, delle frodi fiscali, degli attacchi alla magistratura e delle olgettine, ecc. Ricordo inoltre che senza il potere politico, che gli ha consentito di cambiare i codici a suo vantaggio, Berlusconi sarebbe stato ripetutamente condannato.
2. Berlusconi e il fascismo. La Russa e compagnia avranno anche delle “nostalgie antiquarie”, ma quando fu eletto Presidente del Senato mi venne in mente un passo de “Le memorie di Adriano”: “Sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto”. Voglio dire che ciò che Berlusconi ha sdoganato a destra è diventato “normale”, è stato lentamente assorbito, soprattutto a livello inconscio, al punto da non sollevare più alcuna indignazione. Detto questo, l’Italia di Berlusconi non è il fascismo. Il fascismo è stato essenzialmente violenza, è stato conquista violenta del potere, in esplicita eversione delle leggi, trovando terreno fertile nella complicità di settori cruciali dello Stato, e nell’acquiescenza di tutti gli altri. Ma Silvio Berlusconi ha traghettato la destra postfascista nelle stanze del potere – una destra che non è più fascista ma che non è disposta a dirsi antifascista – facendo diventare mainstream parole d’ordine e idee prima marginali nel dibattito pubblico, tra cui la diminutio delle colpe del fascismo nella promulgazione delle leggi razziali, e la persecuzione degli ebrei come macchia su un regime che tutto sommato aveva fatto bene fino a quel momento.
3. Durante i suoi Governi Berlusconi propose leggi che misero le basi per la manomissione dei diritti sociali e economici di questo paese. Governò il paese come si amministra una impresa, pensandosi come il padrone, svilendo il ruolo delle opposizioni e inventando il pericolo comunista. Legittimò la cultura politica del privilegio e dell’interesse personale, al quale tutto può essere piegato, persino le istituzioni. Chi pensa che il berlusconismo sia una moda destinata a scomparire col tempo e con il suo leader non si è reso conto del complesso sistema di potere che ha eroso tutti i sostegni delle istituzioni democratiche. Il berlusconismo è penetrato nel tessuto della politica e non solo, lo ha plasmato, diventando carne, sangue, pensieri, pregiudizi, stereotipi, disvalori.
4. Ha ragione Paolo: “ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica”. Il berlusconismo ha corrotto la coscienza morale, incarna la sconfitta del primato dell’etica e sancisce il primato del successo a ogni costo, incurante di ogni scrupolo e di ogni merito. È la morte di Dio, e il pensiero senza Dio che ne scaturisce porta alla luce una volontà di potenza che null’altro vuole che se stessa. Il concetto di Dio ha rappresentato fino a un certo punto “l’emozione vitale” che trascende l’Io, il potere, il piacere, qualsiasi attribuzione venga operata nei suoi confronti. Il berlusconismo riproduce la disfatta di questa tensione morale, dove il denaro è l’unico generatore simbolico di valore, perché per il berlusconismo tutto si compra, poiché tutto è in vendita, tutti hanno un prezzo: una religione neopagana che ha azzerato il livello di indignazione etica e ha tumulato il valore della cultura svilendo tutto a seduzione, adescamento, corruzione.
P.S. Su Tomaso Montanari si possono avere opinioni differenti, ma mi risulta sia stato l’unico a disobbedire e rifiutarsi di abbassare a mezz’asta le bandiere.
Commento “Ancora caldo” di Nicola Parodi
Caro Carlo, ho letto le tue considerazioni sulla scomparsa di Silvio Berlusconi. Se fossimo su una panchina del viale della stazione a confrontare le nostre opinioni in proposito ti direi che i primi tre capoversi del tuo Parce sepulto li sottoscrivo, ma già al quarto la sintonia entra in crisi. Da premesse condivise non arriviamo a valutazioni condivise.
Siamo in sintonia nel riconoscere i guasti che possono produrre i cattivi maestri, oggi identificabili soprattutto in coloro che tramite la TV (immagini e suoni sono molto più “invasivi” delle sole parole) solleticano le pulsioni più egoistiche, quelle che la chiesa definisce vizi capitali nelle intenzioni o peccati nella pratica. E anche sul fatto che esiste, indubbiamente, un pensiero “di sinistra” convinto di una “naturale bontà umana”, per il quale i comportamenti errati, i peccati, sarebbero frutto solo di questi “cattivi maestri”. C’è però anche un pensiero di sinistra che poggia su basi razionali, illuministiche, e non si avvale delle categorie religiose di “peccato/male, virtù/bene”, ma ragiona in termini di “funziona/non funziona”[1]: che non è un criterio prettamente utilitaristico, è semplicemente il più naturale da adottarsi per mantenere in equilibrio le società umane. Questo significa che il giudizio su Berlusconi dovrebbe prescindere, almeno in prima istanza, dai nostri convincimenti morali o dai nostri modelli etici, ma basarsi sulla concretezza dei portati, positivi o negativi, delle sue azioni rispetto a questo equilibrio. E qui direi che dubbi non ce ne sono: Berlusconi ha trovato una società immatura e confusa, ci ha nuotato dentro come uno squalo nel Pacifico, pilotando i suoi circhi mediatici in abissi di bassezza, e ha lasciato una società becera e assuefatta al peggio. Non sarà tutta opera sua, ma ha dato senz’altro un contributo sostanziale.
Convengo anche sul fatto che nella società ideale che vorremmo la TV pubblica non avrebbe dovuto perseguire il modello populista e commerciale: ma è evidente che quando i criteri di “efficienza” sono parametrati non sull’equilibrio sociale ma sul liberismo sfrenato la scelta di fronte ai bivi è già scontata. C’è ancora dell’altro. Berlusconi, come tu ammetti, ha approfittato delle “storture” umane per farsi gli affari suoi. A mio parere ha fatto di peggio: si è proposto come modello con un detto/non detto il cui significato era: i miei e i vostri non sono vizi, ma virtù.
Ora, le nostre società sono regolate da una sorta di codice comportamentale, da regole di convivenza riconosciute e osservate da tutti: il trasgredirle comporta la perdita della buona reputazione e l’essere esclusi/espulsi dalla comunità. È assodato che i valori ai quali queste regole fanno riferimento, quelli che definiamo valori morali, si sono evoluti e fissati, diventando innati, e sono fondati primariamente sui principi di uguaglianza ed equità. Naturalmente nelle società composte da migliaia o addirittura miliardi di individui al codice comportamentale deve aggiungersi, senza contraddirne le radici innate, un sistema di leggi che vengono fatte osservare, quando la riprovazione sociale non è sufficiente, dallo Stato, al quale spetta l’uso monopolistico della forza. Per questo nelle democrazie moderne il potere giudiziario deve essere distinto dagli altri due. Per evitarne, nella misura del possibile, la manipolazione e l’abuso.
Qui volevo arrivare. In questo sistema la narrazione della persecuzione giudiziaria può essere letta si come convincimento della “bontà” dei propri comportamenti, ma anche come tentativo di conservare una reputazione di ottimo cittadino anche quando la realtà racconta altro. O di scombinare l’ordine dei valori, “legalizzando” quelli che in precedenza erano considerati comportamenti devianti. Può essere che un ego straripante sia necessario per realizzare grandi imprese, ma un grande ego significa anche grandi appetiti, cosa che confligge con i principi di equità e uguaglianza su cui si reggono le società. E i giudizi negativi non è detto siano dovuti sempre a invidia o odio o a rancore: sono strumenti necessari per preservare l’integrità di una società la cui crisi creerebbe a ciascuno di noi enormi problemi di sopravvivenza.
Per questo, per districarsi meglio fra i processi di Berlusconi, oltre che Il Giornale può servire leggere anche Il Fatto Quotidiano.
Spero insomma tu convenga che mettere in crisi un meccanismo che ha radici evolutive e permette di garantire la sopravvivenza delle istituzioni rientra tra i “peccati capitali”, se vogliamo prendere a prestito la terminologia della chiesa. E comunque ti assicuro che i vizi che in questo tipo di società hanno fatto di uno come lui un uomo di successo sono gli stessi che mi fanno pensare che non l’avrei mai voluto come vicino di destra nello schieramento della falange[2].
[2] “L’oplita … fianco a fianco con i compagni di linea, cercando protezione per il lato scoperto sotto lo scudo del commilitone di destra.” Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Ed. Il Mulino.
Vagando da un canale all’altro, l’altro giorno mi è apparso Cuperlo su Rete4. Era intervistato non so da chi, perché non frequento quel canale, ma soprattutto non so cosa dicesse (anche se non fatico a immaginarlo), perché la mia attenzione era concentrata su come si presentava ai telespettatori con l’intento di racimolare consensi uno dei candidati più autorevoli alla segreteria del PD. Dietro di lui non c’era l’ormai classica libreria coi libri, i ninnoli e i quadri che strizzano l’occhio allo spettatore, ma faldoni e fascicoli grigi e marrone con scritte a mano (chissà se era a casa sua o in qualche archivio segreto di Andreotti). Indossava una camicia bianca sotto un maglioncino beige pallido pallido e una giacca grigia, pendant con i faldoni sullo sfondo. Ora, va bene esser sobri e pacati, e volersi distinguere da chi indossava il giubbotto in pelle alla Fonzie (Renzi), ma non è il caso di personificare la tristezza più assoluta!
Cuperlo avrà detto pure delle cose sensate, ma mi rimane l’immagine di un uomo insipido, sbiadito, senza prospettive per un futuro diverso da quello attuale, senza proposte che vadano oltre la misera quotidianità del decidere se togliere o lasciare le accise sul carburante (che comunque è una scelta che al momento non gli compete). Umanamente potrei anche condividere ciò che pensa, ma mediaticamente è un disastro.
Un’altra immagine della sinistra che mi viene alla mente è quella di Bersani al bar (forse quello di Happy days), dove, invece di confrontarsi con altri su cosa sia esser di sinistra, ha come unico interlocutore un calice di birra. È la perfetta raffigurazione di una dignitosa ritirata umana, che è tale anche politicamente, ma fa comunque tristezza.
È pur vero che c’è chi specula impietosamente, come un avvoltoio sugli animali morenti, nello scovare foto che esprimano al meglio le difficoltà e le debolezze del malcapitato personaggio pubblico, di turno: ma un politico avveduto dovrebbe porre molta più attenzione a come si propone rispetto a ciò che dice. Altrimenti è bene che resti nel privato e non ambisca ad occuparsi della cosa pubblica. Purtroppo è così che va il mondo attuale. “E tu non puoi farci niente! Niente!” (L’ultima minaccia di Richard Brooks). È passato il tempo in cui Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta e Berlinguer si fermava a parlare agli operai di un cantiere col trench alla tenente Colombo.
Eppure negli ultimi decenni ci sono state delle immagini iconiche che hanno alluso a un diverso futuro: Prodi in bicicletta, ad esempio, e D’Alema in barca. Lo so, vien da chiedersi come siamo messi, però almeno un tentativo di offrire una “visione” c’era. Il primo, interpretato anche da Guzzanti come il “semaforo fermo e immobile”, sotto l’aspetto sornione sapeva esser risoluto e avere un’idea, giusta o sbagliata che fosse (vedi la rocambolesca entrata dell’Italia nell’area euro). Il secondo era – ed è tuttora, anche se ufficialmente si è ritirato dalle scene, – il “baffo” più odiato dagli italiani, accusato di incoerenza per il fatto di possedere una barca (e non solo quella) nonostante si professasse comunista: ma almeno, anche se più in apparenza che nella realtà, quel baffo pareva essere alternativo all’infoiato, colluso, mediatico e trapiantato Berlusconi.
Se la sinistra tradizionale vuole avere una qualche futuro e non sparire (è sotto il 15% ed è in discesa, di contro all’oltre 30% di Fratelli d’Italia) deve individuare poche ma chiare idee che la identifichino, diciamo pure dei segni o dei “sogni”, sui quali costruire prospettive differenti da quelle offerte dalla Meloni, ma pure da Draghi, Conte o Renzi.
Ed è necessario che lo faccia immediatamente, per poterne trarre un minimo di indicazioni di principio. Quelle che non verranno certo da un congresso presieduto da fantasmi litigiosi, i quali quasi sicuramente convalideranno un’insipienza congenita. Coloro che si riconoscono (o no) nel PD di oggi (come pure in quello di ieri) vorrebbero vedersi proporre, alle prossime elezioni, un’idea per la quale valga la pena andare a votare per quel partito. Saranno anche solo sogni, illusioni, ma si vive pure di quelli.
C’è innanzitutto bisogno di chiarirsi su ciò che s’intende oggi per sinistra progressista, su quali obiettivi si possano concretamente perseguire, e di escogitare anche una comunicazione mediatica che sostenga quelle affermazioni. È essenziale tradurre i concetti in immagini, in simboli forti e riconoscibili affinché ci sia una reciprocità fra la parola e la sua raffigurazione. È inutile ostinarsi a credere che la genuinità delle idee sia sufficiente per ottenere consensi. Non piacerà ai talebani della sinistra dura e pura, ma le cose stanno così: serve saper comunicare efficacemente e chiaramente. E spesso non basta neppure quello.
Chi si ostina a pensarsi di sinistra si nutre di sogni che possano narrare una società più equa; di “barbari” che arricchiscano la nostra cultura ferma da decenni; di scelte economiche a lungo termine concretamente praticabili, nella consapevolezza che quelle attuali vanno sempre e comunque a discapito dell’ambiente, e spingono l’umanità verso il suicidio; di recuperare una solidarietà e un interesse comune che offrono l’unica vera via d’uscita. Sono i sogni a mantenere in vita la speranza.
E per cominciare, occorre fare pulizia nel proprio cortile, liberarsi di tutte quelle ipocrisie relative al genere, alla razza, alla pseudo-correttezza politica, che portano a far su alla rinfusa figure come Soumahoro, pur di sventolare una bandierina “progressista”. A riempire il Parlamento o gli uffici di Bruxelles di canaglie o di incompetenti ci pensano già tutti gli altri: almeno in questo la sinistra dovrebbe distinguersi.
Ciò non mi toglie la convinzione che ci siano ancora persone che perseguono delle idee per avere un mondo ben differente da quello attuale, senza però perdere la lucidità di inseguire delle chimere. Basta cercarle e avere il coraggio di offrire loro spazio e dignità, smettendola di tarpare le ali a chi ha ancora l’“intenzione del volo”, per dirla alla Gaber.
Quel che vale per la politica vale pure per la cultura. E qui vengo al mio disaccordo sull’opinione espressa da Vittorio Righini nel pezzo I libri che non mi sono piaciuti, in cui critica il modo pacatamente ruffiano che ha Cognetti di scrivere i suoi libri.
Ho letto quelli precedenti a Le otto montagne e mi sembravano buoni. Un po’ “semplici” e immediati, ma ciò è una colpa? Non saranno capolavori, ma è vero che Cognetti è diventato un riferimento per coloro che si riconoscono in un certo modo di concepire il rapporto con la natura. Io mi sento perfettamente in linea con lui (ricordo un suo pezzo contro l’ennesima pista da sci), e non penso che questo sia cavalcare una moda e sfruttarla a fini utilitaristici. Semmai è un modo per veicolare messaggi un po’ differenti da quelli che vanno per la maggiore. I suoi testi non saranno il massimo di originalità e di profondità, ma, visti i tempi, che vengano pure queste mode i cui riferimenti sono London, Levi, Rigoni Stern, ecc…
Non dobbiamo star sempre lì a cercare il pelo nell’uovo… E che cazzo! Almeno quest’anno al cinema c’è stata la possibilità di vedere Le otto montagne, anziché i soliti cinepanettoni di Boldi, Checco e simili.
In fondo, nella mediocrità culturale attuale, Cognetti spicca per delle iniziative finalizzate a promuovere modi più rispettosi di stare in montagna e ha provato a fare qualcosa di diverso, impiegando i soldi vinti con lo Strega per sistemare un rifugio ad uso di amici e montanari.
Facce come la sua e quella dell’amico illustratore Nicola Magrin rappresentano un’ottima alternativa a quelle dei vari Calenda, Conte e compagnia bella. Dicono che, nonostante tutto, il sogno non “si è rattrappito”.
Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).
di Maurizio Castellaro, 22 agosto 2022
Dal fortino
Nella disperata solitudine dei vent’anni, il mondo ha bussato alla mia porta attraverso le voci di Radio Tre: giri di pensiero a cui non ero ancora pronto, bibliografie da memorizzare, conversazioni con uomini saggi e spiazzanti, argomenti inattesi, musica da imparare a riconoscere alle prime note… Credo che la mia fedeltà negli anni a Radio Tre abbia contribuito a formarmi, e sicuramente a salvarmi. Il succo è che il mondo è pronto ad aprirsi a te e a sorprenderti ogni giorno, se tu sei disposto ad imparare ad ascoltare e a vedere, a lasciarti cambiare dall’ascolto della voce, delle voci, dei suoni. Alveare sempre al lavoro, sempre miracolosamente uguale a se stessa, Radio Tre è ascoltata da meno di un milione di persone, e per questo è sempre stata ignorata dalla politica, Berlusconi compreso. Al riparo del suo fortino, forte di pane, munizioni e acqua fresca di pozzo, mi sento un po’ più pronto ad affrontare gli anni difficili che stanno arrivando.
Un brindisi
I soldati romani che partivano da Roma per le guerre in Oriente attraversavano il Sud dell’Italia lungo la via Appia fino al grande porto di Brindisi, dove si imbarcavano verso l’Egitto, la Palestina, la Siria. Prima di salire sulle navi rivolgevano le loro coppe di Falerno verso il mare, augurandosi il ritorno. La memoria di questo gesto beneaugurante ritorna inconsapevolmente nei nostri brindisi: solleviamo insieme le coppe di vino “come a Brindisi” facevano i soldati in partenza. Questa storia l’ho sentita proprio per le strade della città, e non trova riscontro nelle etimologie ufficiali, ma la do per buona perché plausibile e ispiratrice. Mi colpisce il fatto che anche alle radici del nostro lessico più conviviale e fraterno (“e ora un brindisi!”) vi sia una memoria rimossa del nostro passato bellico e colonizzatore. È come se la storia e il presente ci condannassero a bere per sempre e comunque nella coppa dell’ingiustizia, della violenza e della sopraffazione. Brindiamo allora a questa consapevolezza. Ora però serve dell’altro vino per dimenticarla.