Raschiando il fondo del barile

di Vittorio Righini, 3 gennaio 2025

La Simenon.tm è una sussidiaria della GSL, Georges Simenon Limited, così come lo è la “Maigret”.

La prima si occupa di tutti i lavori di Sim (d’ora in avanti lo indicherò così) ma non di quelli letterari, cioè non dei romanzi e delle autobiografie, né dei Maigret, per i quali appunto c’è un’apposita sussidiaria, bensì solo di quelli a carattere di corrispondenza sia privata che professionale, resoconti, disegni, foto scattate da Sim (e non solo, come vedremo) e sceneggiature.

La GSL invece si occupa del “grosso” del materiale, cioè centottantatrè romanzi ufficiali a suo nome e un numero imprecisato di racconti (a suo nome o con pseudonimo), mentre il lavoro totale di Sim arriva a oltre circa cinquecento opere.

La Simenon.tm ha pensato bene di raschiare il fondo del barile, in particolare recuperando gli articoli di corrispondenza giornalistica scritti da Sim per molte famose testate francesi e internazionali, soprattutto nella prima parte della sua vita lavorativa. In effetti, ultimamente (diciamo negli ultimi sei anni), sono saltate fuori, dal sale nel fondo del barile, alcune sardine. E di queste sardine, qualcuna è andata a male, qualcuna no.

I titoli dei Sim.tm che sono usciti per i tipi di Adelphi (l’editore che detiene tutti i diritti per l’Italia), si differenziano da tutti gli altri Sim dell’Adelphi per un particolare formato: misurano 18 x 11 cm, quindi sono più piccoli dei prodotti tradizionali dell’editore milanese, le copertine sono azzurrine, con una foto abbozzata sullo sfondo, e ospitano spesso all’interno piccole fotografie in b/n.

I titoli ci sono stati offerti in dose di uno all’anno, come segue:

  • Il Mediterraneo in barca, 2019
  • Europa 33, 2020
  • A Margine dei Meridiani, 2021
  • Dietro le Quinte della Polizia, 2022
  • L’America in automobile, 2023
  • Una Francia sconosciuta, 2024

Proverò a dare una mia interpretazione di questi lavori, che vale per quel che vale, cioè ben poco: ma parte le oggettività in questi casi è solo questione di gusti. Non rispetterò l’ordine cronologico.

Una Francia sconosciuta, 2024 – 187 pagine (66 dedicate alle fotografie, circa 120 di testo)

Premetto che di fotografie fatte da Sim ce ne sono cinque o sei, le altre le ha scattate un fotografo di origine Ceca, Hans Oplatka, che lavorava con Sim nel settimanale Vu. Anni dopo i suoi temerari viaggi su una barchetta a motore e remi per i canali della Francia, Sim ripercorrerà con il fotografo, ma in auto, i viaggi fatti ai tempi in barca, ricavandone un bottino di duecento foto.

Le fotografie son ben fatte, e benché piccole risultano nitide e leggibili, nonostante la inadatta carta di stampa usata per questi minuscoli Adelphi. Il merito è di Oplatka, che il fotografo lo faceva di professione. Se si confrontano le sue foto con le poche fatte da Sim, le prime cinque o sei, o con quelle del libro illustrato Fotografie di Viaggio, (2007, foto di Sim e testo di Freddy Bonmariage), e di altri libri ancora come Il Mediterraneo in barca, si evince che Sim era appassionato in fotografia tanto quanto lo posso essere io, ma non era certo un professionista, anche se era abituato, da corrispondente giornalistico, ad uscire di casa con la macchina fotografica sulle spalle (o in tasca, una piccola Leica acquistata nel 1931 su consiglio di Oplatka) per cogliere i fatti salienti della cronaca, spesso nera, che doveva raccontare al pubblico (in ispecie i primi tempi per la Gazette de Liege). Va ascritta però a suo merito un’innovazione non da poco: pretese che i primi due Maigret avessero sulla copertina una foto a tutta pagina, che in tempi in cui l’editoria francese era dominata dal bianco delle copertine Gallimard, fu un notevole shock. E per le copertine, Sim non usava foto sue, ma di Germaine Krull, di Man Ray, di Robert Doisneau …e scusate se è poco.

Questo libretto raccoglie tre articoli giornalistici scritti tra il 1931 e il 1937, dal titolo:

  • Une France inconnue ou L’aventure entre deux berges, marins pour rire, marins quand meme, 1931
  • Au fil de l’eau, 1932
  • Long cours sur les rivieres et les canaux, 1937

Ai quali se ne aggiungono due successivi:

  • La France souriante, 1977
  • Una Francia sconosciuta o L’avventura tra due sponde, 2024

Sono tutti figli del viaggio di sei mesi, compiuto nel 1928 in barca, lungo parte dei 15.274 km. di vie navigabili in Francia a quei tempi (oggi solo una parte assai ridotta è ancora navigabile senza permessi da un’ utenza turistica, sul Canal du Midi, sul canale laterale della Loira, sulla Garonna e sul Canal de Bourgogne).

Sim viaggia su una barchetta di 4 o 5 metri, con un piccolo motore ausiliario da 3hp, e al traino lega una piccola canoa sulla quale carica attrezzatura e viveri. Si imbarca con la moglie Tigy, la domestica (e amante) Boule e Olaf, il cane di razza danese da 60 kg. Sim e Tigy dormono in barca, Boule e Olaf in una tenda sulla riva. Le difficoltà e le piacevolezze del viaggio, con aneddoti e con informazioni utili (soprattutto ai tempi) per la navigazione fluviale, sono il sale del racconto. Soprattutto, ci aiutano a capire l’uomo Sim, non lo scrittore e le sue fantasie. Per lo scrittore invece, chi conosce Maigret capisce da dove saltano fuori certi suoi romanzi con ambientazione fluviale (La Chiusa n. 1, La casa sul Canale, Il cavallante della Providence, La balera da due soldi e altro ancora), o perché tutte le domeniche Jules Maigret vuole andare a pescare in riva al fiume con la sua cara moglie, e poi a pranzo in trattoria.

Un solo aneddoto: quando ormeggiavano alla fonda, Sim ad un certo punto fischiava, segnale per Boule di preparare il caffè; poi Boule si metteva il vassoio in testa, e con l’acqua fino alla gola recapitava la calda bevanda a marito e moglie! che tempi, che tempi!!!

Sim, l’uomo più detestato dalle donne moderne, il più invidiato tra i moderni anziani …

Le ripetizioni tra i vari articoli non sono rare, e a volte davvero tediose, ma è lo scotto da pagare per non aver manipolato i testi originali, per cui io questo libretto lo consiglio, a me è piaciuto e nel mio indice di valutazione, che è in sardine da 1 a 5, do:

Il Mediterraneo in barca, 2019, 189 pagine, 24 foto in b/n scattate da Sim, provenienti dall’archivio Simenon, curato da sua moglie Tigy, che era, come scrive Matteo Codignola in una nota a fine libro, “meticolosa ma laconica”, perché le foto erano inserite negli album in ordine cronologico, ma prive totalmente di didascalie, tranne i nomi delle città in cui fece scalo la goletta.

I nove articoli giornalistici che compongono questo libro furono commissionati dal settimanale Marianne “grand hebdomadaire littéraire illustré”, che li pubblicò nell’estate del 1934 col titolo Mare Nostrum e il sottotitolo “La Méditerranée en goélette”.

Sim e Tigy, con la cuoca e cinque uomini di equipaggio, s’imbarcano su un brigantino-goletta battezzato “Araldo”, con equipaggio toscano, per fare il giro del Mediterraneo. Uno dei principali pregi del libro è che ci porta nelle baie e nei porti del Mediterraneo com’erano novant’anni fa circa, e l’occhio di Sim è critico e benevolo, innamorato dell’acqua (mare, laghi e soprattutto fiumi) e incuriosito dalla gente, che ritrae con un pennello a volte di crine, a volte di ferro, ma spesso con un’angolazione corretta. (Mi vengono in mente gli stupendi tre libri di Goran Schildt, che subito dopo la Seconda Guerra scende, via canali, dal Nord, e naviga tra le isole greche e turche e nel Mediterraneo)

Da Porquerolles, dove il viaggio inizia, a Arbatax, dove si conclude l’ultimo tratto di penna, è una analisi (giornalistica, appunto) nella quale si parla anche di sfruttamento della prostituzione, dei problemi delle famiglie rimaste senza un padre perché emigrato, della povertà in assoluto delle coste del Mare Nostrum, ma anche della qualità della vita, cosa che gli americani non comprenderanno mai. Il che si traduce in una tutt’altro che velata critica all’economia americana e alle sue basi.

Voto:

A Margine dei Meridiani, 2021, 223 pagine, 50 fotografie in b/n. Album del viaggio effettuato nel 1935 intorno al mondo.

Questo è forse il libro contenente la raccolta di articoli più confusi e disomogenei che abbia mai letto in Sim. L’interesse per la fotografia va scemando, non è più prioritario come in passato, lo sfocato a volte prevale, come sfocata è la realizzazione di questo lavoro.

Il libro consta di cinque racconti, il primo dei quali, dal titolo Il Paese del freddo (1933) è per me il meno peggio. Vi si narra la vita dei popoli dell’estremo nord, tra i pescatori delle Lofoten, i pastori Lapponi, e la bellezza del grande bianco contrapposto alla immensa notte del Nord.

Il Misterioso dramma delle Galàpagos, del 1935, è il resoconto del viaggio di Sim, per conto di Paris Soir, in quelle remote isole per indagare sul misterioso ritrovamento di due cadaveri, un anno dopo i fatti. Non essendo una storia di Sim, non essendoci un Maigret a dipanare la matassa, gli avvenimenti non hanno né capo né coda, e si mischiano in una confusione totale che solo nella realtà si può prefigurare, non nella penna di un romanziere: perché se fosse stata una storia sua avrebbe ricamato all’uncinetto gli indispensabili dettagli per agevolare il lettore.

Panama, ultimo crocevia del mondo (1939), parla della nascita quasi dal nulla di una città per motivi unicamente commerciali ed economici (il Canale), e degli sviluppi che ne derivano. Un articoletto non certo da prima pagina.

Tahiti o I gangster nell’arcipelago degli amori (1935) è totalmente incongruo. Stranamente, le foto di bellissime fanciulle poco vestite sono particolarmente riuscite, ma altre foto dei luoghi sono del tutto anonime. Sim ha vissuto a Tahiti nella casa in cui aveva abitato Murnau (l’autore e regista di Nosferatu e di molti altri capolavori dell’orrore dei primi anni del Novecento) per girare Tabù, ambientato in Polinesia, un film che creò enormi problemi al regista. I Tupapau, i fantasmi che avevano terrorizzato il regista, non è da escludere che abbiano turbato anche le notti di Sim; di certo l’uomo che ritornò in Francia era più maturo, più consapevole, e più pronto a scrivere i capolavori che seguirono in quegli anni.

Voto:

Dietro le quinte della polizia, 2022, 281 pagine, 37 foto in b/n

Non bisogna farsi tentare dal Sim romanziere; stiamo sempre scrivendo di articoli commissionati da quotidiani, settimanali, mensili, comunque giornalismo, non racconti. Nonostante la premessa, in questo libro, anche per dar corpo al contenuto, (che altrimenti si sarebbe ridotto alla metà) Sim inserisce brevi resoconti dei casi più difficili e curiosi. C’è sempre il solito ricercare l’aspetto umano in ogni criminale, ma in questo libro sono presentati anche i tratti della Parigi più misteriosa, lugubre e malfamata, almeno a quel tempo. Oggi è davvero tutto molto cambiato, le grandi città, tutte, sono pericolose se non si pone una minima attenzione, se non si evitano certi quartieri; ma nella rive gauche, quella narrata nel libro, ci si trova in zone piene di studenti, di localini non troppo costosi, di qualche vecchia bottega e di un certo fascino accogliente.

Il libro parte da un assioma:

  1. Maigret è Commissario al Quai des Orfevres;
  2. Sim ne è l’autore;
  3. Sim viene invitato a vivere qualche giorno nell’ambiente del Quai des Orfevres dei tempi (il 1931, poco dopo l’uscita di Pietr il Lettone, uno dei migliori lavori di Sim con Maigret);
  4. Sim deve quindi descrivere l’ambiente che tanto gli ha reso in termini di fama.

E in effetti lo fa, raccontando senza remore i bruschi metodi dell’epoca, ma con stima e con una tacita approvazione di quei vecchi metodi nei confronti del moderno lavoro del poliziotto.

Fondamentalmente questo libro mi dà poco, non scopro nulla di nuovo se non qualche breve e curiosa storia di cronaca giudiziaria, ma tutto sommato preferisco l’altra interpretazione, cioè quella romanzata da Sim nel Maigret Memorie, in cui un giovane e sfrontato cronista (George Sim) viene invitato a visitare il Quai des Orfevres e a conoscere internamente i metodi in esso usati, non più solo per sentito dire.

Voto:

Europa 33, 2020, 2ª ediz., 377 pagine, 67 foto in b/n.

Uno dei motivi che mi hanno fatto amare Sim è il suo profondo indagare l’essere umano ma, alla fine, non dare un giudizio. Se fate caso, per esempio, il colpevole, in un Maigret qualunque, una volta che è stato arrestato non è mai criminalizzato, ma anzi si tende ad avere un po’ di compassione per lui (esempio eclatante il romanzo – non Maigret – Lettere al mio giudice).

E in questa Europa del 1933 di storie da raccontare ce ne sono, di personaggi ancor di più. Sim si occupa in questo libro dei più disagiati, di quelli che fanno la “vera” fame, soprattutto nell’Europa dell’est, nell’ex impero zarista. Non tutte le fotografie (Sim non si fece accompagnare da un fotografo professionista, ma insieme a Tigy fu l’autore di tutte le immagini proposte) sono ben fatte, ma alcune sì, bisogna dargliene atto, e non tutti i personaggi e le storie raccontate sono così interessanti, ma narrano la storia vera dell’Europa che si avvia al secondo conflitto mondiale.

Avevo letto Sir Patrick Leigh Fermor, che nel primo libro della sua trilogia (Tempo di regali) attraversa la Germania e l’Austria nel dicembre del 1933, e lo fa con maggiore intensità e poetica di Sim; il suo è il resoconto di un viaggio, e anche quello di Sim lo è, ma con un taglio giornalistico. Poi, mentre Fermor impiega molto tempo camminando a piedi attraverso i campi e le fattorie e le città, e si immerge con rispetto e delicatezza in quella cultura in subbuglio con un viaggio lento, in modo mai aggressivo, Sim invece viaggia spedito, pagato dal giornale di cui è corrispondente, e le sue descrizioni sono meno poetiche, anche se pur sempre intense. Lui si definisce “un fabbricante di istantanee”, e trova grande accoglienza su Voilà, rivista ideata nel 1931 da Gaston Gallimard ed espressamente dedicata ai reportage d’autore.

Il libro ha anche una consistenza diversa rispetto agli altri della serie, con ben 377 pagine, perché il viaggio si dipana su più fronti, nell’arco di quasi sei mesi. Salta subito all’occhio la scarsa simpatia che Sim nutre verso il regime sovietico e le sue forme oppressive della libertà individuale. Dal Belgio alla Turchia, dalla Germania alla Polonia, dalla Lituania all’Ucraina e alla Georgia, Sim attraversa gran parte del vecchio continente da Nord a est, ben raccontando le numerose preoccupazioni e pulsioni che intaccano la serenità di quei popoli prima della guerra. È un ottimo libro a mio parere, tra i più seri nella serie del barile: forse è un po’ freddo, ma si merita un plauso.

Voto:

L’America in automobile, 2023, 185 pagine, 1 ill. b/n nel testo e 20 foto in b/n.

Sim si reca nel 1945 negli Stati Uniti, non per diletto, ma per filarsela dalle accuse di collaborazionismo e dalle minacce di epurazione subite alla fine della guerra. Naturalmente, con l’animo del curioso indagatore dell’animo umano, e del giornalista, si spinge in un viaggio dal Maine al Golfo del Messico, con una Chevrolet a noleggio, in compagnia della sua Tigy e del figlio Marc (1939-1999, nella vita un buon regista cinematografico), mentre la segretaria e l’istitutrice del figlio viaggiano su una Oldsmobile. Si stabilisce in Canada, nel Nouveau Brunswick (oggi New Brunswick, di lingua anglofona e francofona), un posto tranquillo e al riparo dalle grane francesi, ma il suo occhio è rivolto a sud, agli Stati Uniti, verso i quali prova una grande curiosità. Il libro altro non è che il diario del viaggio del 1946, circa 5.000 km. dal freddo del nord al caldo del sud e della Florida. Percorrendo prevalentemente la Route 1, l’autore si innamora di quei territori e delle loro genti, che trova, soprattutto nel sud degli USA, cordiali ed ospitali. (ma allora, Easy Ryder e tutte le storie simili che ci hanno propinato, cosa ce le hanno raccontate a fare? ah, forse perché lui, uomo bianco con famiglia bianca, arriva in Chevrolet, alloggia in Hotel, e agli occhi dei locali appare come un agiato turista in viaggio con famiglia? o forse erano semplicemente altri tempi? lasciamo perdere).

Sim vivrà dieci anni nel Nord America, cinque nel Minnesota, e in quegli anni produrrà alcuni dei migliori racconti di Maigret. Il libro a me è piaciuto poco, non amo gli Stati Uniti di oggi, forse quelli di allora erano diversi. Questo mi condiziona, e il voto ne è la conseguenza. Non fateci caso.

Voto:

Termina qui la mia piccola analisi dei reportage di Sim, ma ho letto che c’è ancora uno strato di sale in fondo al barile, e si prevedono nuove sardine in futuro. Non so, forse finiranno per rovinare il legno della botte. Per me così basta e avanza.

P.s.: mi scuso per aver giudicato in sardine, sono il primo che odia le classifiche, era solo per scherzare un po’…

La felicità oltre il quotidiano acufene

di Fabrizio Rinaldi, 26 ottobre 2024

C’è un’ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va …
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
Trilussa, Poesie scelte, Mondadori 1985

Accade – per fortuna o per scelta – che ci si allontani dalla routine quotidiana per concedersi di fare altro, di pensare diversamente. E meno male, altrimenti sai che strazio!

Recentemente ho partecipato a un incontro ispirato ad un brano dei Negrita, Che rumore fa la felicità? Non era un convegno di filosofi o letterati in qualche blasonato festival o salotto televisivo, ma una riunione tra colleghi della mia cooperativa, provenienti da settori molto diversi – coordinatori di strutture educative, operatori dell’inclusione sociale, responsabili del personale – che avevano percorso anche un bel po’ di chilometri (io più di 200) per ritrovarsi a Torino e tentare di rispondere a questa semplice ma insidiosa domanda.

S’è partiti alti, dalla Costituzione americana del 1776: “Tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità”. Beh, mica poco. Salvo che poi, per ottenere quest’ultima, gli Stati Uniti hanno agito in modo tale che il loro credo venisse imposto (con la forza) e diffuso (con i media) per una buona parte del globo. Nella nostra Costituzione, quella definita “la più bella del mondo”, alla felicità non si fa alcun cenno, e nessuno ha mai fatto una proposta di legge per introdurre un articoletto in cui si miri al suo raggiungimento. Forse perché è già stracolma di principi ideali a cui ispirarsi e ai quali sembra piuttosto difficile conformarsi (due articoli, così, a caso: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”). O forse perché in effetti pare impossibile trovare un accordo su cosa si debba intendere per “felicità”. Eppure è uno dei termini più ricorrenti e abusati anche nel nostro quotidiano.

La felicità oltre il quotidiano acufene 02La pubblicità, ad esempio, sfrutta il “desiderio di felicità” proponendo una sterminata gamma di prodotti che dovrebbero consentire di raggiungerla: da “Le pastiglie Leone. La fabbrica della felicità” a “La felicità è andare in bagno con Fave di Fuca“; da “Pasta, integratore di felicità” a “Fiat, grande Panda” (con il brano Felicità di Albano). Fatevi un giro in rete e ne uscirete frustrati, quasi colpevoli per non esservi ancora procurati quegli infallibili generatori di felicità! A me è venuta voglia di comprare un’altra Panda; poi, per fortuna, ho dato un’occhiata al catorcio guidato da mia moglie e m’è passata la smania.

La felicità oltre il quotidiano acufene 03Al di là degli usi biecamente commerciali e propagandistici del termine, e andando su un terreno meno inquinato, resta il fatto che definire la felicità, anche con molta approssimazione, è davvero un’impresa ardua. Da sempre ci hanno provato poeti e filosofi (per i politici il discorso è più recente), senza venirne a capo. È una condizione cui tutti tendono, ma che nessuno riesce non dico a realizzare, ma neppure a mettere chiaramente a fuoco. Questo perché i parametri che ciascuno adotta sono incredibilmente diversi: è come se ogni individuo possedesse una personale ricetta, con gli ingredienti più svariati, ma questa è realizzabile quanto la trasmutazione del metallo comune in oro.

Mi accorgo che di questo passo rischio di impantanarmi nei luoghi comuni e nell’inconcludenza. Provo dunque a riformulare la domanda, procedendo per gradi. Parto naturalmente dalla più banale: siamo convinti che si possa essere felici, se non qui e ora, da qualche parte e in qualche momento? Messa così, la questione pare più semplice, anche se la domanda fa emergere dubbi e incertezze: alcuni (io fra questi) ammettono di non essere sicuri di averla mai provata quella condizione, distinguendola dalla gioia, che invece appare più accessibile, anche se meno durevole.

La felicità oltre il quotidiano acufene 04Ciò non significa negarne la possibilità, ma semplicemente ammettere di non averne mai goduto. E questo può essere accaduto per vari motivi, tutti comunque riconducibili alla soggettività: al carattere, alla disposizione genetica, alle aspettative verso la personale esistenza, alla condizione ambientale e sociale (in una situazione di guerra, miseria e fame, quale felicità è possibile?). Quindi, una prima risposta c’è: forse non esiste “la Felicità”, ma senz’altro esiste in tutti l’aspirazione ad “esser felici”.

Cosa significa però “esser felici”? Anche qui, c’è da sbizzarrirsi, ma solo per arrivare a concludere che non c’è un denominatore comune da ricondurre a questo sentimento. Alcuni, ad esempio, lo considerano un premio meritato per l’impegno profuso, mentre altri al contrario lo percepiscono come un dono gratuito ed effimero, una grazia che sfugge alla logica della meritocrazia. Anche perché ciò che per qualcuno è fonte di felicità, per altri può essere irrilevante o addirittura una tortura (vedi l’amore per i figli o l’angoscia che comporta crescerli). All’incontro di Torino c’era chi associava una grande felicità ad una vincita alla lotteria, a me non smuoverebbe proprio nulla. Ma ammetto d’esser strano.

Per assaporare la felicità occorre accettarne la natura effimera, ammettere che è costituita da una somma di attimi la cui durata e intensità sfuggono dal nostro controllo. Un godimento breve ma intenso che deve essere accolto con la consapevolezza che è destinato a finire. O meglio ancora, che si tratta solo del “promo” di un film che non sarà mai proiettato, perché in fondo noi non “desideriamo la felicità”, che è appunto qualcosa di indeterminato, ma aneliamo costantemente l’“esser felici”. In sostanza: non siamo mai felici, ma desideriamo costantemente esserlo. È questa tensione perpetua che ci spinge a reggere e ad andare avanti.

La felicità oltre il quotidiano acufene 05D’altra parte, è pur vero che i momenti di grazia ci sono e non arrivano casualmente, che anche quando ci stupiscono siano il frutto di una autoconsapevolezza: avviene quando soppesiamo le emozioni positive del presente e le mettiamo a confronto col nostro strapazzato io. Per molti parrebbe valere esattamente il contrario con l’abbandono totale a ciò che accade. Credo invece che sia possibile riconoscere e associare un momento vissuto alla felicità solo quando si è consapevoli dei propri desideri più intimi, delle inevitabili paure, degli onesti e franchi limiti e del personalissimo concetto di benessere.

A questo punto, risulta evidente che la felicità è un concetto indefinibile e che di per sé non esiste, con buona pace dei costituenti americani. Tuttavia, possiamo ammettere che ciascuno ha il proprio modo di sentirsi o reputarsi (non è la stessa cosa) “felice” a modo suo. La felicità, infatti, non è un diritto, ma uno stato d’animo: non può essere sancita da una legge, ma solo resa possibile attraverso la consapevolezza, l’etica e l’intelligenza orientata al positivo.

La felicità oltre il quotidiano acufene 06

Possiamo allora tornare al titolo dell’incontro, che chiedeva una riflessione sul “rumore” della felicità: ed è questo che intendo ora indagare.

Alcuni associano la felicità al canto degli uccelli, al fruscio delle foglie, alle onde del mare, alla risata della persona amata o al sorriso di un bambino: sono le associazioni più scontate, assolutamente legittime, ma ne esistono altre, più inconsuete, che meritano di essere considerate.

Ad esempio, nel brano 4’33” di John Cage l’orchestra, anziché suonare, osserva un silenzio totale, costringendo l’ascoltatore a percepire, nella durata del “brano”, i suoni accidentali dell’ambiente e i rumori interiori. Nel silenzio assoluto, l’orecchio umano è indotto a porsi in ascolto di ciò che resta di sé. Di conseguenza il dialogo si sposta inevitabilmente dal mondo esterno a quello interiore. Non so cosa Cage si proponesse, forse quel silenzio dovrebbe essere liberatorio, ma ammetto che dal mio interno arriva invece un fracasso che non sopporto, che mi urta: forse non riesco a sintonizzarmi sulla giusta lunghezza d’onda, certamente non lo associo alla felicità.

La felicità oltre il quotidiano acufene 07

All’opposto, la felicità trova espressione nella potenza della Nona Sinfonia di Beethoven, con l’Inno alla Gioia di Schiller. Composta quando il musicista era ormai sordo, questa sinfonia è un paradosso: una celebrazione della felicità scritta da qualcuno che non poteva più udirne le note. Forse proprio per questo, la sua opera è così emblematica del concetto di felicità come esperienza interiore, capace di superare le barriere fisiche. Il “suono” che sentiva non passava per le orecchie, ma da una vibrazione dentro di lui, una melodia immaginata che trascendeva i limiti del corpo, risuonando persino nel silenzio della sua sordità. La felicità, allora, diviene una propensione interiore che vibra anche quando il mondo esterno tace.

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Umberto Eco, ne Il nome della rosa, parla di un’estasi simile, derivante dalla contemplazione e dal superamento dei limiti fisici attraverso il potere creativo della mente. Adso, descrive così la felicità di Guglielmo da Baskerville: “Stavo osservando il mio maestro in quell’arca di scienza, in quel tempio della saggezza, e non potevo fare a meno di pensare che nemmeno la città celeste avrebbe mai potuto procurargli estasi più grande della seduzione della conoscenza![1]. Per Eco, la felicità non è un traguardo statico, ma un processo dinamico (appunto quello della ricerca, del “desiderio”), una continua seduzione che nutre la mente con domande e riempie il cuore di meraviglia. È il fruscio delle pagine sfogliate, la colonna sonora del pensiero in azione, dove ogni nuova scoperta aggiunge un tassello al nostro essere e si traduce in pensieri differenti e difformi.

La felicità oltre il quotidiano acufene 09 John-Berger-1980-by-Jean-Mohr

John Berger, in Capire la fotografia, ci invita invece a riflettere sul tempo della felicità stessa: “Non credo proprio che la felicità sia uno stato. Può esserlo l’infelicità, ma la felicità è, per sua natura, un momento. Il momento può durare qualche secondo, un minuto, un’ora, un giorno e una notte, ma credo che in quanto tale non possa durare neanche una settimana. L’infelicità somiglia spesso a un lungo romanzo. La felicità è molto più simile a una foto! Ed è intimamente legata a quel che dici tu: il senso della meraviglia”. La felicità, dunque, non si presenta come un suono prolungato, ma come una singola nota o una sequenza di suoni che può durare anche istanti, minuti, ore, giorni, ma è comunque destinata a svanire. È quindi paragonabile ad un’istantanea fotografica, nella quale si coglie la bellezza dell’istante vissuto in modo irripetibile. Quindi la felicità ha il suono di un click fotografico su un singolo momento, che svanisce mentre inquadro la realtà successiva. La precarietà diviene un carattere distintivo della felicità.

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Devo ammettere che, personalmente, un persistente acufene mi ostacola nella percezione del “suono” della felicità, nonostante viva una situazione familiare, sociale e lavorativa relativamente serena. Tuttavia, la serenità non coincide con la felicità: può essere paragonata ad un romanzo – come scrive Berger –, con il suo andamento ondulatorio, fatto di alti e bassi, di piaceri, di attimi al cardiopalma e altri di monotona quiescenza. La felicità, invece, se devo definirla almeno per analogie, la immagino più simile a una poesia: breve, intensa, condensata di significati ed emozioni, capace di irrompere improvvisamente e di travolgere i sensi con la sua intensità.

La felicità oltre il quotidiano acufene 11Il fatto è che il baccano della quotidianità rende difficile percepire gli esili suoni che potrebbero essere associati alla felicità. Tuttavia, fare pace col proprio acufene e accettare questa “semisordità”, impone una maggiore sensibilità verso i rumori di fondo del quotidiano, nel tentativo di cogliere tra di essi frammenti di note felici. È un esercizio perenne di ascolto selettivo della realtà, di ricerca della meraviglia nel caos, durante il quale ci si concentra su una realtà a volte distopica, cercando di estrarne le singolarità che sconquassano per le loro felici armonie.

La felicità oltre il quotidiano acufene 12 BeethovenLa classica raffigurazione di Beethoven come figura corrucciata non riflette necessariamente il suo carattere, ma piuttosto la sua concentrazione assoluta, la sua capacità di ascoltare anche il minimo sussurro del mondo. È questa attenzione profonda che permette di cogliere la bellezza nell’istante, di praticare l’arte della meraviglia nel caos. La felicità, come una nota breve ma intensa, può essere trovata anche nel silenzio, se solo siamo disposti a cercarla nel rumore che abita dentro di noi.

Forse anche il semplice scrivere questo pezzo è per me una forma di felicità. Forse.

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[1] La scena, tratta dal film di Jean-Jacques Annaud del 1986, in cui Guglielmo finalmente entra nella biblioteca è perfetta nella rappresentazione di questa felicità intellettuale.

Collezione di licheni bottone

Archeologia del passato prossimo. Alberto Novaro, un fotografo dimenticato

di Fabrizio Rinaldi, 18 maggio 2024 – dall’Album “Archeologia del passato prossimo. Alberto Novaro, un fotografo dimenticato

Archeologia del passato prossimo Alberto Novaro, un fotografo dimenticato copertinaConoscendo la mia mania (perché tale ormai va considerata) per gli oggetti che raccontano storie e la mia passione per la fotografia, mesi fa un amico mi disse che doveva sgomberare una casa ereditata da una lontana zia e che avrei potuto trovarvi qualcosa di interessante. In particolare, il marito di questa lontana parente – morto decenni fa – fu pure un fotografo.

Al mio amico, quale parente più prossimo, toccava sobbarcarsi onori ed oneri dell’eredità, soprattutto questi ultimi, perché le quattro stanze non erano a Portofino ma in un paesino sperduto nella periferia di Torino. Il che significa che le grane superano di gran lunga gli utili.

1715226018601-3a0a1287-af9e-4308-b8ac-8d890143833b smallPassato un po’ di tempo, era ora venuto il momento di fare un salto in questa casa, prima di dare il via libera allo svuotatutto, per liberarla di una vita di accumulo e finalmente svenderla (perché questo è ciò che accade oggi).

(Una piccola parentesi personale. Non oso pensare al giorno in cui verrà a mancare mio padre. Ovviamente per la lacerazione affettiva, ma – non ultimo – per l’incombenza di dover liberare i tre garage, le due cantine e il capanno degli attrezzi nell’orto, dal momento che son poco interessato ai materiali che vi sono accantonati. Sono stipati all’inverosimile, una quantità tale di roba da colmare tutti i banchetti del mercatino dell’usato di Ovada.)

Eccoci qui, quindi – con famiglie al seguito –, a rovistare in casa d’altri per cercare un tesoro celato, qualsiasi esso sia. Perché è questo che si spera di trovare: l’oggetto che giustifichi il viaggio e la giornata, un ninnolo, un libro, un disco, un quadro che agli altri non dice nulla e che solo il cercatore scafato individua. Qualcosa che appaghi il desiderio di possesso e a cui ridare un nuovo ruolo, salvandolo dall’oblio o dalla distruzione.

Nella combriccola dei convenuti ci sono stati d’animo i più diversi: c’è chi non vede l’ora di disfarsi di quella roba stantia, punto e basta; chi vorrebbe portar via una dozzina di gonne in voga decenni fa; chi delle anfore e un tavolino da esterno, chi una elegante scrivania; c’è anche chi s’è già scocciata/o e vorrebbe andare a giocare a palla. È comprensibile che dei ragazzini pensino a far altro piuttosto che a ravanare fra cose impolverate e vecchie: non sono ancora posseduti dal germe del vintage. Purtroppo per le mie tasche, hanno quello del trendy …

Io, ovviamente, punto subito alla libreria. Mi trovo fra le mani l’opera completa di Cesare Pavese, in 15 volumi della Einaudi, con cofanetto (scoprirò poi – con una fitta al cuore – che manca La luna e i falò), alcuni volumi in una splendida edizione sempre Einaudi di storia del Novecento, una Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia in quattro tomi, La Seconda Guerra Mondiale in sei volumi di Winston Churchill, diversi numeri rilegati di Conosci L’Italia del Touring Club Italiano, e persino biografie e libri fotografici dedicati ad Eros Ramazzotti (ho sentore che qui emerga qualche passione della moglie).

Nella camera da letto trovo invece un set con tinozza, pitale e specchio, utile per chi non aveva la “sala da bagno”; un paio di lampade da comodino anni ‘30; una radio degli anni ‘50 della Grundig; un enorme quadro astratto con campiture verdi, e nella parete di fronte un classico ritratto di famiglia, con Giuseppe falegname, Maria e pargolo al seguito (un abbinamento ardito).

Facendo un rapido calcolo volumetrico, capisco che nell’auto non potrà mai entrare tutto quel ben di dio. Medito anche di mollare moglie e figlie alla prima stazione ferroviaria, per poter abbassare i sedili e farci stare quanto più possibile, compreso uno splendido mappamondo da terra in legno (quello che si vede in molte raffigurazioni iconiche di esploratori intenti a progettare i loro viaggi). Ma niente, alla fine le ragioni familiari prevalgono e mi porto a casa le donne a scapito del mappamondo, di Churchill, del Risorgimento, del quadro e del set. Una ferita che porterò dentro per un bel po’.

Figure sulla balconata small

Fuori casa, attraversando un piccolo giardino, c’è finalmente il sancta sanctorum per il quale sono lì: lo studio (diventato da anni magazzino) del fotografo. Seminascoste in mezzo a vasi, cianfrusaglie e scatole di videocassette, trovo decine di cartelle zeppe di fotografie in bianco e nero, stampate su carta rigida e in grande formato.

Una veloce sbirciata mi dice subito che sono immagini di ottima qualità, risalenti agli anni ‘50-’60: ritratti di bambini e di anziani, di donne e di contadini, scorci di Francia, Spagna e Marocco, asini nei campi e musicisti in fiera: un’immersione in un tempo finito decine di anni fa.

Il fotografo si chiamava Alberto Novaro, classe 1922: era un disegnatore meccanico della FIAT con l’hobby della fotografia e cominciò ad esporre dai primi anni Cinquanta. Era iscritto al Gruppo Fotografi FIAT, un’associazione che riuniva gli appassionati del genere all’interno dell’azienda Agnelli, e nel 1958 venne insignito dell’onorificenza AFIAP, un titolo prestigioso conferito dall’International Federation of Photographic Art a coloro che si distinguevano per la qualità artistica a livello internazionale.

Montanaro della Val del Gesso (1) smallLe stampe recano sul retro il marchio dell’autore, quasi mai il titolo e la data, ma in molte ci sono i timbri di dove la foto venne esposta: Torino, Vincenza, addirittura Hong Kong. A volte I timbri riportano anche le date, ad esempio 1958 o 1963.

Non sono né un esperto, né e critico fotografico, ma posso azzardare alcune riflessioni. Dalle immagini emerge una grande versatilità nella produzione fotografica: i toni bianchi e neri presentano ampie sfumature di grigio, cui la digitalizzazione artigianale non rende pienamente giustizia. Ritraggono spesso scene di vita contadina e una povertà senza retorica; che si tratti del montanaro della Val del Gesso o del pastore marocchino, ciò che emerge è una parca timidezza nel gesto; sono figure dignitose nella loro autenticità.

Teresa smallLe giovani donne, alcune ritratte più volte nel corso della loro vita, sono di una bellezza ieratica: raramente sorridono. Sono composte, armoniose, non assumono artificiosi atteggiamenti seduttivi, la loro posa è del tutto naturale. Le mani, spesso sproporzionatamente grandi rispetto alla loro giovane età, rivelano la quotidiana fatica di un lavoro greve.

Numerose fotografie ritraggono bambini, forse commissionate dai loro genitori, o forse sono espressione di un desiderio mai realizzato. Mi piace pensare che Novaro cercasse in quegli sguardi un modo più genuino di osservare il mondo, quell’innocenza che, paradossalmente, ritrovo anche negli sguardi dei vecchi.

Virtù tentata small

Faccio ora un azzardo presuntuoso. Le modalità con cui sono state scoperte le fotografie di Alberto Novaro mi fanno venire in mente la vicenda di Vivian Maier, le cui fotografie furono scovate nel 2007 da John Maloof, un collezionista d’arte che ha avuto la capacità di comprendere il valore intrinseco di quegli scatti scovati ed è stato capace di farli conoscere al mondo.

1714927646995-b3ee1a39-87f2-4044-8f64-272ac8276e43 smallPosso trovare delle caratteristiche comuni: una vita vissuta nell’ombra, facendo altro (lei la bambinaia, lui il disegnatore), lontani dal bagliore dei riflettori, pur avendo avuto il secondo il piacere di vedere esposte alcune sue opere. Entrambi hanno catturato istanti di vita quotidiana con uno sguardo attento e sensibile, creando ritratti intimi di persone e luoghi comuni.

Il suo tipo small

Purtroppo è arrivata l’ora di andare, di lasciare lì ancora tanto materiale, anche se ho riempito l’auto all’inverosimile. Nello studio non ho trovato alcuna macchina fotografica, come neppure i negativi. Spero che prima o poi saltino fuori e che altri aprano ulteriori squarci sul velo d’oblio che è calato su Novaro.

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Collezione di licheni bottone

La retorica e la “Gramatica”

ritorno nei bagni pubblici di Tokyo

di Paolo Repetto, 26 gennaio 2024

Bah! l’ultima delle cose che intendevo fare era tornare sul film di Wenders. Mi sembra di aver già detto tutto quello che avevo da dire. Un amico mi ha però segnalato una recensione molto negativa di Lorenzo Gramatica (Contro la retorica delle piccole cose, pubblicato su Lucysullacultura.com), specificando che lo condivide: opinione più che legittima, ma che mi fa sentire un po’ tirato per la giacchetta. E allora è forse il caso di qualche chiarimento, perché a me invece la recensione non è piaciuta affatto.

Non m’è piaciuto innanzitutto il tono, o se vogliamo l’intenzione che sta sotto l’articolo.

Gramatica trova irritante, lezioso, falso il film. Ha tutto il diritto di farlo. Ha pagato un biglietto per vederlo, non è rimasto soddisfatto e lo dice apertamente. Ma poi fa di più: smonta il film pezzo per pezzo, e ci offre una lezione su cosa è o dovrebbe essere il cinema e su cosa è o dovrebbe essere la vita. E qui diciamo, tanto per adeguarci subito all’argomento, che la fa un po’ fuori dal vaso. Sembra essersi auto-investito di una missione salvifica, quella di svegliare le anime belle e grulle che si son bevute la favoletta “della vita semplice, dei piccoli gesti, della gioia che c’è nell’accontentarsi”. Ora, io ho visto lo stesso film, e sinceramente riesco solo a immaginare spettatori che per due ore o sono stati presi o si sono addormentati: non credo che avremo una marea di aspiranti ai prossimi concorsi per operatori ecologici municipali (attualmente mi risulta vadano deserti). Sono entrati in sala come me, per assistere a una proiezione, a uno spettacolo, mica sono andati in un ashram o in una sala di meditazione per farsi intortare da un discepolo di Osho. Nessuno degli amici che hanno visto Perfect Days e coi quali l’ho commentato ha manifestato l’intenzione di darsi alla pastorizia o di ritirarsi in un eremo. Ma questo riguarda l’idea generale del ruolo del cinema, sulla quale torneremo.

La retorica e la Gramatica 02 - Perfect Days

Rimaniamo per ora sullo specifico di Perfect Days. Gramatica scrive che il film è, “superficialmente, un elogio della vita semplice, dei piccoli gesti, ecc …”. Ora, l’avverbio messo così, tra due virgole, può voler dire due cose: che il regista tratta l’argomento solo in maniera superficiale, o che sotto la superficie vuol dire altro. Il recensore secondo me lo usa in entrambe le accezioni. Rispetto alla prima mi chiedo dunque: cosa avrebbe dovuto fare Wenders per non rimanere in superficie? Un’inchiesta sui pulitori di cessi di tutto il mondo (tranne naturalmente dell’Italia, perché qui i cessi pubblici non ci sono, e se ci sono non li lava nessuno)? Gramatica ci ha appena comunicato che la commissione era per uno spot pubblicitario, perché “di questi bagni pubblici Tokyo è molto fiera” e “Ci si tiene molto, insomma, a questi bagni” (l’avevamo capito da soli, e aggiungo di mio che anch’io ci tengo molto a trovare bagni così – vedansi i miei criteri di giudizio sulla civiltà di un popolo). Wenders ne ha fatto un film, che sarà pure una furbata per far arrivare il messaggio a miliardi di utenti e in forma più accattivante, ma la ragione sociale del committente è stampata ben visibile per tutta la durata della storia sulla tuta da lavoro del protagonista, per cui non lo si può certo accusare di pubblicità occulta. Da buon maestro del sospetto però Gramatica insiste: “è strano non vedere praticamente mai macchie di piscio in un film dove il protagonista di mestiere è addetto alle pulizie”. In realtà è meno strano di quanto a lui appaia, perché siamo a Tokyo, dove probabilmente ti educano anche a centrare il buco, e dove magari c’è sempre qualcuno che rimedia ai lanci fuori bersaglio, Quindi, via il sorrisetto ironico: sono contento che qualcuno ci tenga a farmi trovare servizi puliti. A Roma non ci tengono, e non auguro a nessuno di averne bisogno (a proposito, non oso nemmeno immaginare lo scandalo di Gramatica davanti alle strade romane senza rifiuti mostrate ne La grande bellezza). Wenders ha fatto dello spot una cosa godibile (almeno per me, ma a quanto pare non sono il solo): pretendevamo ne tirasse fuori un Viaggio al termine della notte?

La retorica e la Gramatica 03 - Perfect DaysE qui subentra la seconda accezione. Cosa non ci ha fatto vedere Wenders gabellandoci la superficie di una vita dolcigna? Eleggendo a protagonista della storia un tipo che “conduce una vita esangue? […] Che non ha moglie, non ha figli, non ha animali da compagnia, non ha affetti stabili? La cui vita “è scandita da azioni che si ripetono identiche o quasi ogni giorno, che sorride benevolo e grato quando la giornata è bella, quando un bambino lo saluta, ecc… Che sorride, sorride e sorride ancora guardando le cose che accadono, e in definitiva della vita è osservatore defilato, perché le cose non accadono a lui, accadono agli altri?”.

Per Gramatica questa è pura malafede: cosa ci viene a raccontare Wenders? “La disciplina! La bellezza delle piccole cose! La felicità che si ottiene attraverso la reiterazione dei gesti e la ricerca del piacere nella quotidianità! I giorni perfetti!” Insomma, “tutto lo stucchevole repertorio di luoghi comuni a cui si ricorre in questi casi?” Ma non sia mai! “La vita non è poetica: è difficile, dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele. Non è ordine, è caos; il silenzio è spesso sovrastato da un rumore assordante e dal rovello incessante dei pensieri, a volte angoscianti e ossessivi, altre stupidi o turpi, che facciamo ogni giorno.” Alla faccia del bicarbonato di sodio, avrebbe detto Totò, e si sarebbe toccato. Io che non sono superstizioso non mi tocco, ma mi chiedo cosa non abbia funzionato nella vita di Gramatica. Il quale dice ancora: “Ma chi vorrebbe invecchiare come Hirayama? Come si può invidiare chi trova consolazione e salvezza negli oggetti, chi cerca la bellezza in una foto e non nei rapporti umani sfaccettati e imperfetti […]. Quello dei rapporti umani che non riesce a costruire, per timidezza e incapacità, è uno dei drammi di questo protagonista, anche se il dramma non ci viene presentato come tale. – Hirayama è un uomo solo […] che non sembra avere desideri di alcun tipo. Ha, in alcuni momenti, dei crolli emotivi che dovrebbero suggerire anche al commentatore più distratto e ottimista, che dietro al fondale di sorrisi e sguardi benevoli, si nascondono i calcinacci di una vita irrisolta.” Eh, la Madonna! Vedi un po’ cosa può nascondersi sotto la superficie ipocrita di un’esistenza sdolcinata. Intanto “una metodica, cinica e insincera ricerca dell’approvazione e della commozione dello spettatore”. Per ottenere la quale si ricorre anche “ai mezzucci narrativi. Ad esempio: un ragazzo con disabilità cognitive e un malato di cancro all’ultimo stadio sono due personaggi che compaiono nel film quasi solo per manifestare la loro condizione patologica, funzionale alle prese di coscienza del protagonista”.

Che con me a quanto pare non ha funzionato, perché non mi sono commosso, mi sono divertito. E perché, da paziente oncologico, non penso che per essere onesto un film debba per forza ricavare uno spazio non “funzionale” per disabili o malati terminali, e naturalmente nemmeno per le presenze femminili, o quelle fluide, o quanto altro richiesto dal “politicamente corretto”.

La retorica e la Gramatica 04 - PatersonMa non finisce qui. Perché ora viene fuori la proposta esistenziale alternativa del recensore, quella che avevamo già cominciato ad intravvedere. “Sospetto che la simpatia e la benevolenza che sono state accordate al film, risieda anche in questa mancanza di ambizioni del protagonista, scambiata forse per umiltà.” Perlomeno in un film paragonabile a questo, Paterson di Jim Jarmusch, il protagonista “è un autista di autobus e poeta dilettante, che scopre però di voler ambire alla pubblicazione. In lui si annida un desiderio, sopito, da risvegliare. E oltretutto non è solo: ha una moglie, un cane, degli affetti”.

Ecco dove si voleva arrivare. “Quest’uomo ha scelto davvero di pulire i bagni?” E figuriamoci! “A me Hirayama pare un po’ triste, con un lavoro poco gratificante a cui si dedica con ossessività alienante.” E, diciamolo, neanche solo triste: uno che “passa il sapone, togli la macchia, ma poi quale macchia? In questi bagni di design dove è tutto candido, immacolato, splendente prima ancora che il protagonista si metta al lavoro!” è evidentemente anche un povero sempliciotto. Come noi spettatori, d’altronde, irretiti dalla “retorica un po’ semplicistica delle grandi dimissioni”. Per cui: “C’è qualcosa di vagamente consolatorio nel pensiero che qualcuno non voglia migliorare la propria condizione, scelga di non competere in amore e nel lavoro, a differenza di noi spettatori, che possiamo bearci dell’infelicità di Hirayama perché rifiutiamo di considerarla tale”.

Immagino invece la felicità di Paterson, che scopre di ambire alla pubblicazione, che ha una moglie, desideri sopiti da risvegliare e soprattutto un cane, da portare a spasso nelle mattinate invernali, con il cappottino. Mi corre un brivido lungo la schiena.

La retorica e la Gramatica 05 - Paterson

Qui ci starebbe ora una puntuale confutazione della lettura che Gramatica dà del film e dell’esistenza. Ma l’ho già tirata sin troppo in lungo, e quindi cerco di dare un taglio virandola sull’autobiografico. Anche perché, ripeto, da quella lettura mi sento tirato direttamente in causa.

La retorica e la Gramatica 06 - Perfect DaysIntanto, sul lavoro poco gratificante. Non mi sono mai dedicato alle latrine pubbliche, pur attribuendo loro un grande significato, ma ho dovuto forzatamente occuparmi in più occasioni di ripristinare fognature, e non solo le mie. Il terreno dietro casa ogni tanto va a farsi un giro, e ha la cattiva abitudine di portare con sé le tubazioni. Non c’è verso a trattenerlo. L’ho fatto quindi non per scelta, ma per necessità, vincendo le prime volte lo schifo e abituandomi poi all’idea che si tratti di un lavoro come un altro. Non mi sono divertito come a tirare con l’arco o a giocare a calcio, ma una volta portato a termine il lavoro mi sono sentito gratificato: era una cosa che andava fatta, e possibilmente bene. Anche sapendo, dopo un paio di volte, che poteva diventare routine. Sono il prigioniero di una concezione vetero-borghese del lavoro, un alienato che non si accorge di aggirarsi tra i calcinacci della vecchia facciata?

Poi, sull’ambire alla pubblicazione. Ho avuto la ventura di veder pubblicate le cose che scrivevo attorno ai venticinque anni, tra l’altro presso una casa editrice piuttosto seria. A trenta ho deciso che non era la mia strada: mi impegnava troppo, su un fronte unico, e mi impediva di correre dietro ai miei molteplici e confusi interessi. Da allora continuo a scrivere per me e per pochi amici, giusto quelli che mi stanno leggendo. Mi dà molta soddisfazione, non mi sento affatto irrisolto o frustrato. Anzi, mi reputo fortunato, o meglio ancora, sono sicuro di esserlo, perché ho potuto scegliere, e perché a conti fatti ho scelto bene. Per cinquant’anni mi sono occupato solo di quello che davvero mi interessava, nei tempi e nei modi che ho ritenuto più opportuni, e ho interagito solo con interlocutori dei quali avevo stima. Sono un’anima bella, infarcita di luoghi comuni, sorda al grido di dolore che arriva dalla vita vera?

La vita vera, appunto. Che la vita non sia tutta poesia lo so anch’io. Lo sa chiunque non sia un perfetto idiota. Di lì però a pensare che sia solo dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele, e che i nostri pensieri quando non sono angoscianti e ossessivi siano stupidi o turpi, ce ne passa. Posso capire che alcuni, molti addirittura, abbiano seri motivi per non sentirsi particolarmente felici (e Gramatica evidentemente, da quel che scrive, è tra costoro. Altro che Hirayama): ma ritengo anche che molti l’infelicità se la creino e se l’alimentino, mossi da un risentimento sordo che poi, spesso, si manifesta anche in un malinteso “impegno”, contro tutto e contro tutti. Sono coloro che si sentono in costante credito nei confronti della vita. Questo risentimento nasce proprio dal pensare che la vita debba essere competizione sempre, affermazione di sé in ogni ambito, nell’amore come nel lavoro: e allora non è sopportabile vedere qualcuno che quell’ambizione proprio non ce l’ha, che si impegna piuttosto a dare senso a quel che gli passa il convento, a farselo piacere.

Personalmente non mi sono mai sentito in competizione né in amore né sul lavoro. Ho amato e ho lavorato cercando di trarre tutto il piacere e il divertimento possibili dall’una e dall’altra cosa, e non per vincere una qualche gara. Non ho alcuna necessità di cercare consolazioni. E non mi passa nemmeno per l’anticamera del cuore o del cervello di bearmi dell’infelicità di Hirayama, perché davvero non la considero tale. Di più: amo la pulizia e l’ordine, segnatamente in bagno, in qualche caso aziono due volte lo sciacquone. Non ho tutta questa nostalgia delle macchie di piscio che sembra provare Gramatica. Sono un ipocrita, falsamente umile (oltre che ecologicamente scorretto)?

La retorica e la Gramatica 07 - Perfect Days

Ancora, sul ruolo da attribuire al cinema (e quindi sui criteri in base ai quali giudicare un film). Avendo vissuto da infante e da adolescente l’epoca d’oro della cinematografia, quella tra l’immediato dopoguerra e l’avvento della televisione, so per esperienza diretta quanto un film potesse incidere sulla formazione di un ragazzo, ma anche sugli orientamenti di un adulto: uso il congiuntivo remoto perché oggi naturalmente questo potere si è trasferito ad altri media, e il cinema si trascina lungo un viale del post-tramonto, illuminato da luci artificiali. So anche però che il cinema è come la montagna, ci trovi quello che ci porti. Per cui, se lo frequenti con lo spirito giusto può a volte suscitarti una maggiore consapevolezza rispetto alle tristi realtà che ti circondano, ma altre volte può offrirti dei parametri ideali. Ideali, appunto, ai quali guardare laicamente, con la debita attitudine critica. E sufficienti comunque ad aiutarti a capire che abbiamo noi stessi la possibilità e la responsabilità di dare un senso al caos che Gramatica sconsolatamente (non gli piacciono le cose vagamente consolatorie) vede regnare.

A me piacciono i film western. Sono un appassionato di John Wayne e di Clint Eastwood, ma non per questo mi faccio largo a cazzotti o ho mai sfidato qualcuno a duello. Mi hanno solo aiutato a capire che nella vita non ci sono solo interpretazioni, ma fatti; non solo opinioni, ma valori. E che rispettare i valori in cui credi (e magari farlo per quanto possibile con eleganza) è già dare una direzione, e addirittura un senso, alla propria esistenza. Sono un fascista, nemmeno consapevole di esserlo?

Per finire. Penso che i rapporti umani possano essere coltivati anche con il silenzio e la cortesia, che non siano necessariamente inibiti dalla timidezza e dalla discrezione. Lo dice uno che non è né timido né particolarmente riservato, ma intrattiene rapporti sinceri e profondi con persone che sanno camminare leggere su questa terra, e considera questo un privilegio. Ho anche una raccolta cospicua di musicassette anni sessanta, tra le quali quelle degli Animals, di Patti Smith e di Otis Redding: solo che a differenza di Hirayama non ho nemmeno il riproduttore per ascoltarle. E la sera, prima di dormire, addirittura leggo. Sono un disadattato?

E chiudo davvero. Mi accorgo di recitare da sempre un mantra più ripetitivo del rituale giornaliero di Hirayama. Dovrei essermi stancato (probabilmente ho stancato gli altri). E invece no. L’unica cosa che mi stanca è la piccineria di gente che ha risvegliato la propria ambizione, in realtà neppure troppo sopita, e si firma, come il nostro recensore, Editor-in-Chief.

La retorica e la Gramatica 08 - Perfect Days

P.S. (Ti pareva!) Proprio stamane ho avuto necessità di usare i bagni pubblici nel mercatino di Borgo d’Ale. Mi sono divertito comunque, ma mi sono venuti subito in mente Wenders e Gramatica. Se quest’ultimo proprio ci tiene a vedere macchie di piscio, gli do appuntamento per la prossima terza domenica del mese.

Giorni perfetti

di Paolo Repetto, 14 gennaio 2024

Ho visto l’ultimo film di Wim Wenders, Perfect days (da non confondere col quasi omonimo A perfect day diretto nel 2015 da Fernando León de Aranoa). Non sarà una notizia da prima pagina, ma per me che non entravo in una sala cinematografica dallo scorso anno, quando per vedere il film di Moretti avevo interrotto un aventino iniziato ben prima del Covid, si tratta di un avvenimento significativo. Ero convinto (e La grande bellezza prima e Il Sol dell’avvenire poi mi avevano rafforzato nella mia convinzione), che il cinema non avesse più nulla da dire – a tutti in generale ma a me, ex-cinefilo entusiasta, in particolare. Pensavo che, soggetta come tutti gli altri prodotti della modernità all’obsolescenza rapida, la magia coinvolgente del grande schermo si fosse ormai dissolta, avesse esaurito il suo ruolo culturale, senza peraltro riuscire a conservare quello del divertimento (e questo, a dispetto di quanto sto per dire, continuo in linea di massima a pensarlo). Per uscire di casa ho quindi dovuto vincere, oltre la pigrizia senile, anche una giustificatissima diffidenza. Ora però sono contento di averlo fatto.

Perfect days è stato un bel regalo di Natale, assolutamente inaspettato, perché prima di entrare in sala del film sapevo nulla. Non sapevo che aveva già vinto la palma d’oro per il protagonista (ne avrebbe meritate altre sei o sette, dalla fotografia alla colonna sonora) all’ultimo festival di Cannes, che è in corsa per i prossimi Oscar e che viene considerato dai critici il miglior film in assoluto di Wenders. Neppure sapevo che era stato commissionato come documentario da The Nippon Project, per dare visibilità ai ritocchi architettonici e urbanistici operati nella capitale giapponese in occasione delle recenti olimpiadi, e in particolare per evidenziare l’attenzione all’accoglienza e al benessere dei visitatori (leggi: servizi igienici pubblici da fantascienza). Nessuna di queste informazioni mi avrebbe comunque schiodato dalla mia poltrona, anzi: ho un cattivissimo rapporto con i festival, con i premi, con i critici e con le opere realizzate su commissione. In realtà mi sono mosso da casa solo perché sollecitato da una coppia di amici affidabili, coi quali nel caso di una boiata avrei potuto prendermela e massacrare il film: ma in fondo anche perché mi andava di tenere viva una vecchia tradizione natalizia.

Giorni perfetti 02

Dunque ho visto Perfect days, e mi è piaciuto sotto tutti gli aspetti, a partire da quello che è definito lo “specifico filmico”, e che in letteratura sarebbe la “forma”. Vuol dire che per due ore consecutive non ho staccato gli occhi dallo schermo, cercando di fermare ogni fotogramma, perché da tempo non ricordavo immagini così elegantemente pulite. Si tratterà pure di uno spot promozionale per Tokyo (del resto, è nato proprio come tale), e la fotografia nitida e luminosa, sul tipo di quella usata per pubblicizzare le auto di lusso, risponde certamente anche alla destinazione originaria: ma rispetto a ciò che Wenders vuole trasmetterci attraverso l’esilissima traccia di storia che corre sotto (o forse sopra) le immagini, la cosa non crea alcun fastidio. Produce anzi un effetto straniante, di scrittura “sopra le righe”, quella che si addice giusto ad una parabola. E spingono verso questa dimensione atemporale e in qualche misura anche extra-spaziale sia il ritmo di svolgimento dell’azione, che non subisce mai accelerazioni o rallentamenti, sia l’essenzialità degli effetti sonori. Il silenzio ostinato nel quale si muove il protagonista è rotto solo ogni tanto, nei cambi di sequenza, dal brusio regolare del traffico sullo sfondo, oppure da brani pop ultracinquantenni che vengono educatamente proposti, e non sparati, o da spiccioli di conversazione che raccontano più di qualsiasi dialogo serrato.

Insomma, in due ore non ho sofferto la minima sbavatura: nessuna inquadratura superflua, non una immagine ridondante o una presenza o un suono estranei all’economia asettica del racconto. E di rimando, neppure ho percepito in sala un sospiro di noia, un mugugno, la battuta stupida di uno spettatore. Una gioia per gli occhi e per le orecchie. E soprattutto, per la mente.

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Esprimendo un giudizio prima ancora di venire alla sostanza del film ho volutamente invertito l’ordine del discorso. Questo perché intendevo parlare della storia, se così la si può chiamare, prescindendo dal valore artistico. Ma è chiaro che ritengo strettamente connesse le due cose. La storia colpisce perché è ben raccontata, e conferma che a spiegare un concetto vale più una metafora centrata che centinaia di pagine di disquisizione filosofica. Quando si è capito questo, che non stiamo parlando di verosimiglianza ma di una voluta simbolicità, l’immediatezza e la pulizia della narrazione si traducono in un valore etico, e viceversa.

La vicenda è felicemente semplice. Il protagonista è un addetto alla manutenzione e alle pulizie dei gabinetti pubblici di un quartiere di Tokyo. Svolge la sua mansione con estremo scrupolo: non è solo coscienzioso, ma è orgoglioso del suo lavoro, lo sente e lo vive come un servizio doverosamente reso alla comunità. Di questo atteggiamento abbiamo una spiegazione culturale ascrivibile a un sentire sociale diffuso, perché è un giapponese (fosse un italiano, intanto non avrebbe neppure l’opportunità, perché i servizi pubblici in Italia praticamente non esistono: e se pure l’avesse, non la coglierebbe, perché percepirebbe la sua occupazione come umiliante: e se anche fosse animato da buona volontà si scoraggerebbe subito, stanti la maleducazione e la maialaggine degli utenti). Ma c’è anche un’altra condizione, questa strettamente individuale e immaginata ad hoc per consentire alla storia di scorrere lineare e diventare “esemplare”, di diventare appunto metafora. Hirayama è un solitario che la solitudine l’ha scelta, e sa riempirla facendo ricorso a un bagaglio di interessi ridotto ma non leggero (libri, musica, cura delle piante, fotografia): vive in una casetta minuscola ma indipendente, senza condomini e senza vicini chiassosi o invadenti, e si è organizzato le giornate in una routine di gesti che non vengono compiuti in automatico, ma sono assaporati, come il primo caffè del mattino. Si è guadagnato col suo silenzio e la sua presenza discreta il rispetto e la stima delle persone con cui intrattiene quotidianamente i contatti essenziali: si è lasciato alle spalle un tipo di esistenza ben diversa (la sorella con l’autista), ma per quella condizione non prova né nostalgia né risentimento. Insomma, nella sua vita non ci sono interferenze, né familiari (quando ci sono, come nel caso della nipote in fuga da casa, riesce con dolcezza ad attenuarle, ad affrontarle senza lasciar turbare i suoi equilibri) né sentimentali, non sembra avere problemi economici, anche perché vive spartanamente, non nutre ambizioni che possano essere frustrate. Per intenderci, sarebbe l’uomo ideale per i vagheggiatori di grandi utopie. Che detto così, e da me, non parrebbe un gran complimento.

Giorni perfetti 04

Eppure, mentre seguivo il film non ho mai avvertito in quel tipo di esistenza un vuoto, l’assenza di calore. Ho piuttosto pensato per un attimo a come avrebbe potuto essere la vita del protagonista se ad attenderlo a casa avesse trovato una moglie e dei figli. Non potevo fare a meno di immaginare che gli avrebbero riversato addosso le loro contrarietà quotidiane, i loro malumori, e nel migliore dei casi un’affettività invadente. Non l’ho invidiato, perché conosco le mie debolezze e perché ho capito subito che si trattava di un esemplare da laboratorio, ma certamente mi ha fatto riflettere su un sacco di cose.

Ciò che credo di avere bene afferrato è che il film non propone un modello di vita radicalmente alternativo a quello attuale, non ne ha alcuna intenzione. Tutto si svolge a Tokyo, una delle metropoli più moderne del pianeta, mica su un’isoletta del Pacifico o in un eremo di montagna. Propone invece una sorta di esperimento in vitro, per il quale era difficile trovare un vitro più appropriato di Tokyo quanto a modernità, razionalità, efficienza e asetticità. Hirayama è il topolino che sopravvive dopo aver ridotto al minimo i suoi bisogni essenziali. Ma non si limita a sopravvivere, vive attingendo benessere da quelle risorse interne che ora ha il tempo di esplorare e gli riempiono i giorni: la meticolosità nei particolari (quando pulisce), la concentrazione sull’efficienza (quando aggiusta), l’attenzione a ciò che lo circonda (quando guida con prudente sicurezza e si guarda attorno ai semafori, o fotografa le piante del parco), la moderazione nei rapporti (quando recupera bambini dispersi senza far piazzate alle madri e senza attendersi riconoscenza, o quando rivede dopo anni la sorella): e poi la pazienza, la discrezione, la comprensione …. Non è un automa ben programmato, ha le sue piccole inoffensive passioni (la musica anni Sessanta, la fotografia analogica) che lo legano a un’epoca presumibilmente meno riservata e che coltiva persino nel rispetto (non maniacale) per una strumentazione obsoleta (il mangianastri). In definitiva, un amore misurato e non esibito per il prossimo, che si traduce in urbanità, e per il proprio lavoro, che si traduce nel piacere di farlo bene, indipendentemente dal fatto che gli altri lo riconoscano.

Giorni perfetti 05

Hirayama è il vero anarchico conservatore, come lo erano Orwell e Camus e altri prima di loro che non si sono mai definiti tali, e a differenza di quella torma di imbecilli che rincorrono l’effetto spiazzante dell’apparente contraddizione interna senza avere la minima idea di cosa implichi il termine anarchia e di cosa valga la pena davvero conservare. È un anarchico perché ha ripreso il controllo della sua vita, sottraendolo ai veri poteri forti, quelli del condizionamento quotidiano, e perché mette questa libertà al servizio degli altri, senza sacrificarsi e senza pretendere ad una esemplarità, ma traendone un delicato piacere. È un conservatore, e non un reazionario, perché ha scelto i valori che vale la pena difendere e rispetta le proprie scelte con responsabilità e coerenza, senza farle pesare sugli altri.

Tutto qui: ma sufficiente a farci apparire Hirayama come un alieno. E infatti lo è, anche se sullo sfondo patinato (ma anche freddo) sapientemente fotografato da Wenders il contrasto risulta meno violento. Figuratevelo in un contesto italiano, cessi compresi, dove l’unico suo corrispettivo sino ad oggi espresso veste i panni e le pelli di Mauro Corona. Ora, io non so in che misura Hirayama rispecchi delle caratteristiche del sentire giapponese, la storia mi racconterebbe altro: ma almeno, piazzato lì, come modello per una auspicabile transizione psicologica riesce credibile. In fondo sembra volerci suggerire soltanto che per cambiare davvero registro non sono necessarie grandi rivoluzioni, basta poco: è sufficiente rinunciare senza troppi rimpianti a ciò che non è indispensabile (e che non comprende i film di Wenders e le canzoni di Patti Smith).

In realtà non è poco, è quel tanto sufficiente a rendere questa transizione impensabile: ma potremmo intanto cominciare a scaricarci degli alibi che accampiamo per non cambiare: “non sapevo” e “sapevo, ma non potevo farci nulla”. E ad assumerci almeno la responsabilità di tener puliti i nostri servizi, visto che quelli pubblici qui non ci sono, e di usare quelli, anziché i bordi delle strade. Sarebbe già qualcosa.

Giorni perfetti 06

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

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A spasso con Pietro

A spasso con Pietro copertinaa cura del C.A.I. di Ovada, 30 novembre 2014
Questa pubblicazione è stata curata da: Giorgio Bello, Angelo Cardona, Diego Cartasegna e Paolo Repetto.
Impaginazione a cura dei Viandanti delle Nebbie.

Si ringraziano per la collaborazione: tutti  gli amici della sezione CAI di Ovada, il Comune di Ovada, Mauro e Claudia Cavalleri.

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Introduzione

A spasso con Pietro Dipinti (1)Sono già trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Pietro Jannon. Scomparsa è in questo caso il termine più appropriato, perché Pietro improvvisamente si è eclissato alla vista degli amici e ha compiuto l’ultimo tratto del suo percorso in solitudine. Come, del resto, aveva sempre fatto: spariva a metà di una escursione o di un’ascesa, e te lo ritrovavi poi alla meta. Oppure non dava notizie per due mesi, e rivelava al ritorno di essere stato in Alaska. Ma la sua ricerca di solitudine non era misantropia: tutt’altro. Aveva solo un altissimo senso della discrezione, la praticava nei confronti degli altri e la chiedeva per sé. Alla fine ha voluto rimanere nel cuore e nella memoria di tutti coloro che avevano goduto della sua amicizia come il grande, inossidabile Pietro. Testardo com’era, è riuscito anche in questo. Ognuno di noi ha condiviso con lui alcune delle esperienze alpinistiche o escursionistiche più belle, o semplicemente splendide salite al Tobbio in qualsiasi stagione e da qualsiasi versante, e quelle si porta dentro. O ha in casa qualche sua opera, che lo dice lì, ancora presente.
Questa mostra e questo opuscolo vorrebbero contribuire, attraverso le immagini e le testimonianze degli amici, non solo a conservarne la memoria in chi lo ha conosciuto, ma anche ad accendere la curiosità nei suoi confronti in chi, più giovane, non ha avuto questa fortuna. Pietro è stato un’ottima persona, prima ancora che un singolare personaggio: un modello umano del quale i nostri ragazzi hanno oggi più che mai bisogno.

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Ci risiamo!

A spasso con Pietro08Ci risiamo. L’ho perso un’altra volta. Rallento e mi volto a cercarlo, ma già imma­gino cosa sta facendo: è parecchio indietro, si è fermato a scat­tare una foto. In una setti­mana ha fatto andare tre dozzine di rullini, ha fotografato ogni albero della Foresta Nera, ogni fontana, ogni casolare. Una volta a casa, se met­terà in fila tutte le dia scattate potrà ri­fare il per­corso per intero.
Poso lo zaino, mi siedo su un ceppo e accendo una sigaretta, mentre lo guardo cammi­nare a ritroso, fermarsi ancora, catturare un altro scorcio. La sta prendendo comoda. Siamo fuori di un’ora e mezza rispetto alla ta­bella concor­data, e la cosa si ripete immancabil­mente da otto giorni. E’ il primo trekking che facciamo assieme, ma credo sarà anche l’ultimo.
Adesso è nuovamente uscito dal sentiero. E’ scomparso nel bosco.
Quando rispunta sono alla terza sigaretta. Mi vede e fa cenno col brac­cio. Non ri­spondo. Continuo a fumare e a guardarlo. Non so se essere più irritato o sconfortato. Quasi due ore di ritardo dopo sole quattro di marcia.
Avanza tranquillo, si ferma, traffica con la Nikon, sostituisce il rul­lino. Se mi capita tra le mani, quella macchina, finisce in orbita. Final­mente mi rag­giunge, scarica lo zaino e siede lì vicino. Dev’essere foderato d’amianto, perché il mio sguardo non lo ustiona.
– C’era una piattaforma su un albero, laggiù. Penso la usino per os­ser­vare gli uccelli. Sono salito a scattare un paio di foto.
– Potevi aspettare un altro po’, magari avvistavi qualche tordo – ri­spondo acido.
Nemmeno se ne accorge. Inossidabile.
– No, c’era una vista magnifica, il bosco da sopra, le cime degli alberi.
Schiaccio con cura la cicca, ma non accenno ad alzarmi. Mi accorgo con sor­presa che la rabbia è già sbollita. Sto pensando a quanto deve essere bello que­sto bosco, visto da sopra. Io la piattaforma non l’avevo notata. Guar­davo avanti, e quando buttavo lo sguardo ai lati del sentiero i tronchi mi sembravano più o meno tutti uguali. Siamo in ritardo di due ore, ma su cosa? Mica abbiamo un appuntamento. Dobbiamo solo arrivare alla Ga­sthaus, che non si muove, è là da decenni, ci aspetta. Cambia niente ar­ri­vare alle cinque, alle sette o alle otto. E’ una giornata splendida, limpida, calma.
Osservo Pietro. Sta scartocciando una barretta di cioccolato. E’ tran­quillo e sod­di­sfatto, mi sta ancora raccontando della piattaforma. E mentre parla capisco finalmente la differenza. Pietro si muove come un uomo li­bero, come chi ha nes­suno che lo aspetti, e sce­glie quando e cosa vedere e chi incontrare. Io mi muovo sempre per arrivare in qualche posto. La parte più importante dello sposta­mento per me è la meta, non il viaggio. Per lui è esattamente il contrario.
E questo fa la differenza tra il viaggiatore e uno che cammina.

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A spasso con Pietro Dipinti (2)

DI SPALLE E CON LO ZAINO

Pietro Jannon 2Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe pia­ciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capi­tato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nem­meno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare me­sto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non na­scondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.
È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associa­zione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivi­sto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.
Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritro­vammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per tra­sferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermea­bilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “spor­tiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potes­sero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comun­que zavorra e fu­gavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore.  Si par­tiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il ver­sante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi tre­cento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.
Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allar­gato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifu­gio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che mante­neva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.
Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché vo­glia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.
Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradi­cia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro vi­aggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la cami­cia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mor­dere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?
Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi tratte­nere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ri­dere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).
E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ri­cordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo ab­biamo sempre vi­sto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era imman­cabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.
Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparente­mente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferi­mento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggeri­vano le tracce improv­vise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta que­sta inafferrabilità era en­trata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente roc­ciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho an­che pensato che la coltivasse voluta­mente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.
Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trek­king. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invi­diavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sa­pesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come per­so­nag­gio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue av­ven­ture. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ri­torno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi but­tava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabil­mente alla se­rata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, per­ché do­veva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.
Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo la­voro arti­stico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un arti­sta vero.
Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un inte­resse particolare, quando sapeva che quell’opera sa­rebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una conce­zione genuina, così come minima­lista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune crea­zioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evi­denti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anzi­ché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che ve­devo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cu­muli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li ri­pren­deva, li rigirava e rimirava, poi diceva: però, magari ritoccando, ag­giun­gendo…: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimet­terci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mo­stra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … gra­zie!” Non mi lasciò nem­meno il tempo di rispondergli: prego.
Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in af­fanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: Ve­dessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita. E sarebbe stato or­goglioso, come se la figlia fosse sua.
Paolo Repetto, 2014

A spasso con Pietro09

A PIETRO

A spasso con Pietro10Quando penso a Pietro non posso fare a meno di ricordare l’inverno del 2000. Da parecchi fine settimana con il solito gruppo di amici del CAI di Ovada si or­ganizzavano gite domenicali, solitamente sull’appennino li­gure, comunque non lontano da Ovada, onde evitare, il mattino, il viaggio di avvicinamento. È noioso viaggiare la mattina presto nella cattiva sta­gione, specialmente se sei con la tua macchina, con ancora un po’ di sonno addosso, e i compagni appena saliti sono già riaddormentati, e tu, tra l’incazzatura della mancanza di compa­gnia e tutte le idee che circolano per la testa in queste occasioni, navighi per raggiun­gere la meta. Una volta arri­vato doverli svegliare ad uno ad uno e sen­tirti dire che hai posteggiato nel posto sbagliato, in quanto c’era un posteggio più vicino, là dietro l’angolo, che ci hai messo troppo tempo, che prendevi le curve troppo ve­loci, che la macchina è rumorosa e il riscaldamento non era sufficiente, op­pure era troppo alto, e altro ancora.
Un venerdì sera di metà gennaio come sempre ho raggiunto la sede del CAI per incontrare Beppe, la Susy, Angelo, Rinaldo, Rolando, ecc… Come sem­pre cer­cavo di arrivare tardi, per essere sicuro che ci fossero già tutti, aves­sero già de­ciso la meta, che a me sarebbe andata sicuramente bene, l’ora e il luogo della partenza: così potevo salutare e dirigermi al bar per il solito tarocco.
Quella sera, dopo aver concordato la salita al Tobbio per la domenica suc­ces­siva, motivata dal fatto che il tempo sarebbe stato buono, che il per­corso era ancora innevato, probabile la vista dei laghi del Gorzente, e forse anche del mare, arriva Pietro.  Saluta e chiede cosa abbiamo deciso per il week end.
“È Tobbio”, risponde qualcuno di noi, “è un pezzo che non andiamo”.
“Ah, bellissimo”, commenta. “Però il tempo sarà meraviglioso, ho sen­tito il meteo poco fa”.
“Appunto”, rispondo io, “così ci godiamo la vista dal Tobbio”.
“Si, però, la riviera… Portovenere dovrebbe essere bellissima, l’aria lim­pida ti­pica del periodo invernale, la chiesa di San Pietro con la isole di Palmaria e del Tino, i corbezzoli maturi, il profumo del timo…”
“Hai ragione”, ribatto, “però c’è da sbattersi”.
“Ma no” dice lui, “in macchina sino a Sestri Levante, in treno sino a La Spe­zia, pullman sino a Portovenere, tutto in coincidenza. Si, si deve par­tire un po’ pre­sto, però … Poi a piedi tutte le Cinque Terre. Di buona lena in 7 ore fac­ciamo tutto.”
Qualcuno di noi osa lamentare il disagio do­vuto alla lontananza e ai tempi di trasferi­mento, nonché il ritorno con la stanchezza accu­mulata.
“Ma no” taglia corto, “sarà una passeg­giata. Allora ci vediamo domenica mat­tina alle 6.00. Carlo, se siamo più di cinque vieni con la macchina”.
Ci guardiamo negli occhi, tutti, uno ad uno, con uno sguardo che va dall’incredulo al sorpreso. Tutti rispondiamo contemporanea­mente “Va bene”. Altri sguardi allibiti. Con quale facilità ci siamo fatti convincere.
Macché Tobbio: gita semplice, percorso breve, con ritorno nel primo pomerig­gio, ah.
Inutile dire che fu veramente uno spetta­colo, ci divertimmo un sacco, il cielo terso con il mare calmo sotto il nostro avido sguardo. Erano tre mesi e più che il cielo di Ovada quando era al meglio risultava grigio. Arri­vammo a casa stra­volti ma soddisfatti. Ancora una volta aveva vinto, negli sguardi si poteva co­gliere la gratitudine per Pietro. Averlo come compagno e seguirlo voleva dire essere avanti. Nei confronti di tutto. Scelte, esperienze, viva­cità e anche racco­gli­mento. Erano tipiche durante i trekking le sue fughe per restare solo e go­dere la natura come a lui piaceva. Nessuno, se non pro­vando, senza riuscirci, ad interpre­tare i quadri che dipingeva, sapeva esatta­mente cosa vedeva e cosa cer­cava. Avremmo voluto imparare da lui, ma era troppo avanti: non eravamo buoni discepoli, solo ottimi compagni. Grazie, Pietro.
Carlo Risso

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ORIZZONTI

A spasso con Pietro18Dice che va in Equador, ma poi depista e prende la corriera per Sil­vano d’Orba. Si prenota per un pellegrinaggio a Lourdes, poi segue i cante­rini della S.O.M.S a Riva Trigoso. A Vicenza si confonde con gli al­pini al raduno nazio­nale, partecipa ad una gara non competitiva e rag­giunge Bolzano, dove, per via della barba, lo scambiano per Messner e gli propongono un ottomila in apnea. A Francoforte, con un sorriso selvaggio, seduce una hostess della Lufthansa, che gli trova un posto sull’ala di un DC9 per un volo a Lisbona, poi Amsterdam e, finalmente, Quito. Qui, in canoa, scende le rapide del Napo, incontra gli in­dios che gli of­frono ba­nane e da lui impa­rano a dire “Ciao”. A Riobamba prende il trenino della Cordigliera Real (quello del caffè che suona la samba) e cono­sce tanti riobam­biti. Gli offrono la testa di un ne­mico surgelata, col lea­sing; rifiuta cor­tese­mente, insegna a dire “Ciao a tutti” e scende a Guayaquil.
Intanto prende appunti, e con un gruppo di stranieri d’assalto si im­barca per le Galapagos dove non mangia zuppa di tarta­ruga. Qui insegna dire “Arrive­derci”. Ri­torna sul continente, mangia ba­nane, mar­cia, perde chili, si brucia la barba, prende an­cora appunti.
Infine, dopo oltre un mese, capita, dome­nica otto, in Bunkerplatz Cere­seto, dove sono esposti i quadri sulla ricerca dell’oro. Si sente male, si adagia sulla pan­china e sospira: “Indios è meglio”. Per­ché lui arriva con la testa piena di cose, case, casini, sensazioni, suggestioni, graffiti, graffia­ture, affreschi, rinfre­schi, burra­sche, bonacce, imbarchi, approdi, decolli, atterraggi, albe, tramonti, conchi­glie, muretti, orizzonti.  Lui è uno di quelli che partono e tornano. Poi, solo, perfettamente solo come sa stare, lavora di segno e di materia. E poi trovi tutto appeso in galleria. Io penso siano ancora meglio dei B.O.T.

C. Pola

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A spasso con Pietro15Pietro Jannon potrebbe essere definito, con un riferimento di carattere lettera­rio, il pit­tore delle isole. Uno di quegli stravaganti personaggi dei ro­manzi di Conrad, che innamo­rato dei mari in bonaccia e delle brevi esili terre che qua e là vi galleggiano come immobili relitti di un naufragio, passano la loro vita vagabonda spostandosi di spiaggia in spiaggia, irretiti ogni volta di più, e ogni volta di più prigionieri, di un gioco di luci e di orizzonti altrove irreperibili. Erano, quelli di Conrad, personaggi alla ricerca della smemoratezza, i quali, lasciatisi alle spalle una civiltà non congeniale, solo sui mari e tra isole del Sud, a contatto con gli aspetti più elementari e violenti di una natura incontaminata dell’uomo, sembravano riacquistare il senso della propria esistenza. Che era un’esistenza vissuta epidermicamente, rinunciataria, talvolta fallimentare e consapevolmente condotta al di fuori di quegli schemi e imposizioni, e soprattuitto impegni, che le società costituite comportano. Ma al contrario di essi, dei vagabondi conradiani, Piero Jannon, pur manifestando anch’egli la vocazione a itinerari insulari e marini, non muove dalla stessa necessità di dimenticanza e di fuga: va anzi alla ricerca della nostra più antica memoria, là dove la civiltà mediterranea conobbe il punto più alto e irripertibile della propria espressione; dove ancora oggi, a distanza di millenni, le pietre e i colori ce ne conservano testimonianza, e l’aria e il paesaggio ce ne tramandano il clima. Il suo è infatti un viaggio che si ripete puntualmente sui mari greci dell’Egeo, tra Patmos e Samos, tra Rodi e Creta: e se, materialmente parlando, rispetta i ritmi lenti della vecchie navi a vapore o il respiro sonnolento delle risacche deserte, la sua cadenza vera, interiore, è sincronizzata su qualcosa di più di quanto l’occhio non consenta di abbracciare: procede all’indietro, verso le origini di ciò che fummo e che ancora oggi, grazie ad allora, siamo.  Alla scoperta, cioè, della nostra stessa identità. Su queste terre battute e inaridite dal sole, sprofondate in un silenzio da tragedia consumata, già crocevia di popoli e campi di battaglia, terre finalmente restituite alla quiete della stanchezza e del destino compiuto: su queste terre, Piero Jannon, ritornato alle radici della storia, sembra potercene interpretare – attraverso le immagini di superficie – le pieghe più riposte e segrete.

A spasso con Pietro Dipinti (8)

Non a caso, soffermando lo sguardo sui pastelli che oggi ci offre, proviamo la curiosa sensazione come di un incontro già avvenuto altrove e in altre epoche. Perché, dietro i rossi cremisi delle sue sabbie, o dietro il grigio scuro delle sue acque, noi riascoltiamo vicende di intelligenza e di poesia, di amore e di morte, che sono parte di noi.

A spasso con Pietro Dipinti (4)A due anni di distanza dalla sua ultima mostra ovadese, Piero Jannon torna dunque a riconfermare la propria validità di pittore che, superando i limiti di un calligrafismo fine a se stesso, riesce a penetrare la sostanza medesima della materia. Il suo linguaggio, da allora, ha acquistato in essenzialità e, contemporaneamente, in spessore. Le sue isole desolate, i suoi mari cupi, le sue brucianti visioni, vengono a restituire anche a noi – insieme alla percezione fisica delle canicole e dei tramonti – il significato più vasto e più impalpabile del tempo: il significato, vale a dire, del nostro dramma quotidiano; la consapevolezza di ciò che è destinato a finire e di ciò che è destinato a sopravviverci. La supremazia di una natura che, in uno splendore di luci e di ombre, già racchiude in sé la compiutezza degli eventi stabiliti.

Marcello Venturi, Maggio 1978

A spasso con Pietro Dipinti (6)

Ovada, 27 Ottobre

Non sarà mai! Non sarà mai che di Jannon (tanto aperto quanto misterioso nella sua splendida prigione di meridiani e paralleli), dall’infinita serie di arrivi e partenze, non sarà mai che si veda qualcosa di quel “tirato giù” a cui tanti arti­sti si adattano…. No, il mattino si è chiuso con la gioia di un incontro cordiale, un po’ scherzoso, in Piazza Assunta: ho palpeggiato la tua spalla sinistra e tu, di colpo, ti sei volto a destra e con  naturalezza, mi hai salutato come niente fosse. Tutto qui? Eh no, c’è  ben altro! Il discorso è andato lungo di ricordi, richiami, progetti – di mostre fatte e da farsi…. Per l’appunto: un concertino di battute e affollate immagini di cose e casi da chiacchierare fino a mezzanotte…. e – at­torno a noi – la gente che va e viene tra il “Piaso” e via Cairoli, a fare incrocio con la strada dei Borghi e la “tua” Strada; rondine di lunghi percorsi che non conta né stagioni, né anni: sempre irrequieto, inaspettato, sempre nuovo.
Ed ecco che – come si voleva dimostrare – chi c’era c’è.
C. Pola

A spasso con Pietro Dipinti (9)

LE VIE DI PIETRO

Sono convinto che i due si siano incrociati, da qualche parte. Per tipi come loro il mondo non è poi così grande. Magari si sono urtati nella calca di un suk, o si sono scambiati uno sguardo distratto, mentre stavano foto­grafando da sedici an­golazioni diverse uno stupa; oppure hanno viaggiato schiena contro schiena, im­mersi nella lettura e nei progetti di nuovi itine­rari, su un trenino delle Ande, stipato all’inverosimile di umanità varia, pol­lame e ortaggi. Insomma, opportu­nità di in­contrarsi ne hanno avute, in un trentennio di vagabondaggi paralleli su e giù per i cinque continenti. E comunque, se anche si fossero “fisicamente” man­cati, era inevitabile che prima o poi la loro prossimità spirituale si manife­stasse.
L’occasione arriva adesso, attraverso una serie di opere nelle quali Pietro Jan­non fonde la sua esperienza della varietà e dell’unicità del mondo con le sug­ge­stioni derivate dalla lettura di Bruce Chatwin. Il che non signi­fica, e meno che mai in questo caso, rileggere alla luce della pro­pria sensibi­lità le emozioni altrui, ma al contrario pescare dal proprio ba­gaglio sensazioni, stupori, nostalgie e smar­rimenti, e ravvivarli e riordi­narli nel confronto con un itinerario che viene sentito, pur nella sua diver­sità, come fortemente affine. Certo, un bagaglio oc­corre averlo, meglio se ha la forma e le dimensioni di uno zaino, e meglio an­cora se zeppo di giac­che a vento fradice, di calzini sudati e di scarponi pieni di polvere: e in quanto a scar­poni e giacche a vento e calzini e zaini non c’è dub­bio, Pietro ne ha consu­mati più di chiunque altro, Chatwin compreso. I dipinti di Jan­non non costitui­scono dunque un omaggio né un tributo (e questo, per chi ha con lui una certa con­suetudine è scontato), non ha nulla a che vedere con la forma di devozione po­stuma praticata nei confronti del grande viag­gia­tore in­glese da troppi orfani dell’avventura.  Pietro non è orfano né de­voto di nessuno: l’avventura l’ha sempre vissuta in proprio, con le sue formida­bili gambe, sulle sue spalle infaticabili e con la sua (durissima?) te­sta. Nel suo rapportarsi a Chat­win non c’è alcun sospetto di subalterna ri­verenza (subal­terno, Pietro?!): c’è in­vece un’attestazione di simpatia (in­tesa quest’ultima, letteralmente, come affi­nità del sentire), il saluto ad un coe­ta­neo riconosciuto come tale non solo per ra­gioni anagrafiche, ma per l’identità delle scelte, delle esperienze e soprattutto dell’interpretazione di quella metafora della vita che è il viaggio.
Il viaggio, appunto, il perenne movimento, la curiosità e il rispetto per il diverso: sono le stigmate di un’elezione, di un’irrequietudine che nel loro caso ha saputo positivamente disciplinarsi, come molla alla cono­scenza, invece di inaci­dirsi a pretesto per la fuga o per l’arroccamento. È una con­dizione, questa, che può talvolta trovare espressione anche in forme sti­molanti, e i libri di Chatwin e i dipinti di Jannon sono lì a testi­mo­niarlo, ma non può essere trasmessa, e meno che mai acquisita. Perché muo­versi, es­sere irrequieti, provare una curio­sità intelli­gente sono condi­zioni necessa­rie, ma non sono ancora sufficienti per individuare un per­corso originale, naturalmente proprio e al tempo stesso iscritto nella memo­ria più recondita della specie. Ciascuno a suo modo, Chatwin e Jannon hanno rin­tracciato i segni di questo percorso, l’hanno intrapreso e lungo esso si sono incon­trati. En­trambi hanno infatti seguito le loro “vie dei canti”, quei tracciati invisi­bili e pur così evidenti (almeno per chi ha occhi e orecchi per riconoscerli, e cuore e gambe per affrontarli) che cor­rono il globo in lungo e in largo, e se intersecano le rotte turistiche e commer­ciali è solo per lasciarle subito, e lungo i quali si muo­vono da sem­pre i depositari di un nomadi­smo ancestrale, istintivo e non condizio­nato da mode o necessità.
A spasso con Pietro Dipinti (10)Pietro Jannon appartiene a pieno titolo a questa categoria di nomadi, impre­vedibili, schivi, fieramente gelosi della propria indipendenza. Puoi incon­trarlo sul Tobbio, tra le rovine dell’Acropoli o sulla via di Katmandu e non ti dirà mai “sono venuto sin qui”, ma “stavo passando di qui”, e già solleverà lo zaino, di­retto da un’altra parte. Il suo viaggio è sempre in corso: non contempla punti d’arrivo, così come non suppone luoghi da cui fuggire. Non ne ha biso­gno, e non perché si so­stanzi dello spostamento in sé, ma perché in quest’ottica ogni luogo è altrettanto significativo nel rag­giungerlo come nel lasciarlo.
Nel corso dei suoi viaggi Jannon raccoglie immagini (tante!) e ricordi, di cui peral­tro fa partecipi solo pochi eletti, e con parsimonia: ma riporta soprattutto frammenti di segni, flash di colori o di profili, e anche di odori, o di suoni. Li cova nella memoria, li seleziona, lascia dapprima che reagi­scano al contatto con gli agenti esterni o interni più disparati (letture, im­magini, reminiscenze di altri viaggi già fatti o aspettative per quelli in pro­gramma) e poi ne leviga ogni connotazione spaziale e temporale, sino a tra­durli in simboli. Solo a questo punto li riversa infine sulla carta, sul le­gno o sulla tela. Quel che ne sortisce sono emozioni essenziali, rarefatte ma profonde, sedimentate e tuttavia mai fredde; perché i segni ritornano in se­rie di approssimazioni, appena leggermente variate, che producono un ef­fetto di mobilità, un percorso, appunto. Nessuna delle sue opere vuole chiudere in sé, fermare per intero il ricordo; tutte si iscrivono in sequenze, e pur riuscendo autoconclusiva ognuna già allude alle varia­bili e alle pos­sibilità altrove esplorate. Come i suoi piedi, anche la pittura di Jannon non può mai essere in quiete; rifiuta la staticità del reportage, i divani dell’introspezione e gli specchi dell’autocompiacimento, per esprimere in­vece una primordiale meraviglia al cospetto del mondo, e la voglia di rin­novarla costan­temente. Per questo, appena la mostra chiuderà i battenti, o forse anche prima, non perdete tempo a cercare Pietro. Sarà già altrove, lungo le vie dei canti, con uno zaino da duecento litri stipato di magliette, calze e suggestioni.
Paolo Repetto, 1998

A spasso con Pietro Dipinti (11)


ORIZZONTI

A spasso con Pietro Dipinti (12)Gli itinerari hanno sempre oriz­zonti. Brevi o ampi, sono il confine imma­gina­rio che si muove con noi. Le li­nee sono dunque il termine ed il pro­lunga­mento, ad un tempo, delle proie­zioni fantastiche, dei desideri, delle ambizioni. Spesso, tracce ap­pena percepibili tra cielo e terra, tra cielo e mare. Il mondo sensi­bile e il mondo celeste trovano l’effimera e mute­vole unione nel segno trac­ciato.
Jannon nel suo procedere scopre sempre nuovi orizzonti, cancella con­fini e al­tri ne costruisce. Nella sua opera più recente il segno non divide, non lacera, ma unisce due sistemi che, veritiera immaginazione, sono ele­menti dalla co­mune origine. I co­lori hanno il compito di accorparsi. Svani­sce la rappresenta­zione e ri­mane il profondo desiderio di repli­care il segno, di ripetere eterna­mente l’essenza che il ricordo tramanda. Oriz­zonti mobili spingono la mano di Jannon a lavorare per piani, per acco­stamenti. Nella ricerca dell’idea il se­gno va mutando, il desiderio si ap­paga e si ricrea.
Un peregrinare dolce e soffe­rente è la ragione di tutto, del tutto.
Vittorio Baretto

A spasso con Pietro Dipinti (5)

Nazca. Cinquemila anni. Forse più. Un uomo con le sue mani volta pie­tre nel deserto per tracciare linee interminabili e disegni fantastici che mai potrà ve­dere. Perché? Pietro non lo sa, come non lo sa nessuno.“Bisogna solo guardare”, mi dice. Come oggi io guardo senza chie­dermi nulla i suoi tratti e il suo modo “intuitivo” di tracciarli fantasti­cando quello che mi pare.
Angelo Maria Cardona

A spasso con Pietro20

DECLINO, CADUTA E NOSTALGIA DEL REGIME DEI DIVIETI

A spasso con Pietro Dipinti (20)In un’opera di Pietro Jannon, una delle più recenti, appartenente al ci­clo dei “divieti”, è possibile leggere la perfetta metafora della nostra attu­ale con­di­zione. Probabilmente la metafora non è del tutto consapevole, ma proprio que­sto è il bello e il mistero dell’arte: la capacità di dire parole non pronun­ciate e di trasmettere idee non pensate.
La composizione è rettan­go­lare, si estende in orizzontale e si presenta come un assieme unitario, ma a ben guar­dare risulta articolata in tre sezioni. La tec­nica è quella del col­lage su una su­perficie piana di materiali diversi, legno, car­tone e soprat­tutto vec­chi segnali direzionali o divieti di caccia e di raccolta, quelli bian­chi, di latta, con simboli o scritte in nero, che si trovavano una volta in­chiodati ai tronchi degli alberi o appesi a solitari paletti nelle campagne, quasi sempre sghembi e ricamati da rose di pallini. Le frecce, appena visi­bili, occu­pano il riquadro centrale, in un gioco di sovrapposizioni con altri brandelli di la­miera arrugginita e di cartone ruvido. I divieti, o quel che ne rimane, com­paiono invece nelle due sezioni laterali, anch’essi soffocati da strati irrego­lari di altri mate­riali, e consentono stentatamente di risalire all’autorità ema­nante: a sinistra la provincia di Ge­nova, a destra la Regione Piemonte. Nel riquadro di sinistra, in basso, mime­tizzata in un mosaico di vecchi fo­gli stampati o manoscritti, quasi ci sfugge la riproduzione di una rudimen­tale porticina lignea, chiusa, che reca stampigliata in lettere da im­ballaggio la scritta “nomade”. La tonalità domi­nante del trit­tico va dal gri­gio sporco all’ocra. L’insieme è, per chi vuol an­dare al di là dell’impatto visivo, deso­lante e ed inquietante.
È desolante perché questa rottamazione di ogni palinatura, questa disca­ri­ca aperta di regole e di segnali, è l’unico panorama spirituale (ma anche mate­riale) che questi anni ci offrono. È inquietante perché, al di là del casuale riferi­mento geografico, ma certamente con la sua complicità, sentiamo che ci ri­guarda molto da vicino. Nella rugosa terra di nessuno del pannello di centro, da quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la rug­gine, sbiadi­scono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggeri­menti, alle indicazioni, agli obblighi si stempe­rano, nella monocromia grigia­stra e marron­cina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la rug­gine, sbiadi­scono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggeri­menti, alle indicazioni, agli obblighi si stempe­rano, nella monocromia grigia­stra e marron­cina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è valsa più nemmeno la spesa di impal­linarli, sono chimicamente scaduti dal pe­rentorio al patetico. Ma la loro estin­zione non prelude ad una nuova e con­sape­vole li­bertà, non è il segno di una maturità raggiunta. È solo il simbolo di una scon­fitta. Anzi, di una duplice sconfitta.
A spasso con Pietro Dipinti (13)La prima riguarda lo sforzo di edificazione di un sistema normativo uni­ver­sali­stico di diritti e di doveri (in contrapposizione a quello particola­ristico e consue­tudi­nario), e di un corredo etico, di imperativi e finalità ( in sostitu­zione di quello morale e religioso), prodotto nei secoli della moder­nità dalla cultura laica occidentale, e mirante in ultima analisi a uniformare a livello globale i com­porta­menti. Questa potrebbe in apparenza sembrare addirittura una vittoria, dal momento che tale sistema è nato e si è svilup­pato in funzione degli interessi dei gruppi o delle classi dominanti, e la sua sudditanza al po­tere non è in discus­sione: ma in realtà ci troviamo di fronte soltanto alla rimo­zione dell’impalcatura che è servita ad innalzare il pa­lazzo della cultura e del mercato (soprattutto del mercato) globali. L’impalcatura nascondeva l’oscenità architettonica e struttu­rale di quel la­ger immenso che si estende ormai su tutto il pianeta, ma in qual­che modo garantiva anche ai detenuti delle sicurezze, a volte delle vie di fuga. Ga­ran­tiva il riconoscimento della indivi­dualità, se non altro esortando all’assunzione di una responsabilità indivi­du­ale, o sanzionandola.
L’obsolescenza dei divieti testimonia invece la rag­giunta perfezione del si­stema di controllo: non è più necessario vietare, quando si è in grado di persua­dere, e non vale la pena sanzionare i singoli, badare ai miliardesimi, quando i conti si fanno all’ingrosso. La mia spiacevole sensazione è quella di aver combat­tuto con­tro qualcosa che oggi vorrei difen­dere, perché an­che una gabbia, quando il modello è quello della libera volpe in libero pol­laio, può offrire un rifu­gio a chi volpe non vuole essere: e che sia ormai troppo tardi anche per barri­carsi su que­ste posizioni di retroguardia.
L’altra sconfitta concerne le alternative. E questa è più cocente ancora, in­tanto perché ce la siamo costruita con le nostre mani, e poi perché ha az­ze­rato le speranze, ha tagliato le gambe ad ogni idealità. Per quanto sia duro ammetterlo, nessuno dei sistemi di pensiero antagonisti al modello capitali­stico è stato in grado di andare oltre la critica e di offrire alternative economi­che, politiche e so­ciali credibili. Un peccato d’origine le ha viziate tutte, e prime tra le altre quelle più marcatamente umanistiche: una pervi­cace presun­zione di ecceziona­lità e di uniformità della natura umana, dalla quale è di­sceso l’illusorio convinci­mento della origine sociale di ogni squili­brio. Oggi dobbiamo accet­tare, a denti stretti, l’idea che l’uomo è un animale sociale per convenienza, egoi­sta per istinto naturale; che i rischi della democrazia totali­taria non sono mi­nori di quelli del totalitarismo espli­cito; e soprattutto, che quelle istituzioni che bene o male costituivano un avversario visibile, un obiettivo contro il quale dirigere gli sforzi, non rappresentano più nulla, sono soltanto detriti lasciati dal capitale sul suo percorso di autonomizzazione.A spasso con Pietro Dipinti (14)
Questo si può leggere nell’opera di Jannon. Naturalmente è possibile leg­gervi qualunque altra cosa, magari di segno opposto, ed è probabile che lo stesso autore trovi una simile interpretazione fuorviante e forzata; ma è fuor di dubbio che qualcosa quei brandelli di segnaletica corrosi e sbiaditi ci vo­gliono comunicare, che una storia, o la fine di una storia, la vogliano raccon­tare. Io l’ho intesa così, come una storia malinconica. Perché quando viene meno, non­ché la volontà, anche ogni opportunità di tra(n)sgredire; quando non ci sono più luoghi, della terra e dello spirito, nei quali cercare un altrove ed un oltre; quando ogni illusorio nomadismo si spegne sulla soglia di una la­trina maleodo­rante (e segregazionista ): allora non rimane che l’immota so­spensione del limbo. E non è il caso di sgomi­tare: ci siamo già dentro
Paolo Repetto, 2000

A spasso con Pietro21

A spasso con Pietro Dipinti (16)Se dovessimo formulare una definizione di Pietro Jannon, diremmo che è un pittore mediterraneo; e non nel senso che la sua produzione trae alimento, in prevalenza, da un determinato paesaggio: ma nel senso che essa sembra racchiu­dere quasi naturalmente, di tale paesaggio, gli ele­menti più intimi e se­greti: quegli elementi contradditori e drammatici che soltanto una vocazione ed un’affinità riescono ad avvertire al di là dell’apparenza superficiale.  Eppure Jannon è un pittore del Nord, nato precisamente a Venasca, in provincia di Cu­neo (anno 1936), e vissuto tra le domestiche colline del Monferrato ovadese, che furono oggetto dei suoi primi tentativi fin dall’età di quindici anni.  Nato e vissuto, cioè, in un am­biente in cui i termini dello scontro non sussistono più, sussi­stono più, da quando l’uomo – sia pure attraverso anni di fatica – è riu­scito col lavoro a plasmare la materia a sua immagine e somiglianza. Ma forse fu proprio per questo, per questa insufficienza di contrasti, ch’egli si spinse a ricer­care altrove ciò che il suo temperamento di artista richiedeva per meglio esprimersi. E lo trovò lontano dalle pianure e dalle colline dei suoi luoghi di ori­gine, nelle isole: là dove – come lo stesso Jannon ricorda – le cose, so­spese tra terra e mare, tra mare e cielo, sembrano vivere più raccolte in se stesse, incon­taminate da fattori meccanici, e affidate nella loro vicenda, oggi come ieri, alla legge violenta delle stagioni.
Fu nel rapporto con gli scarni paesaggi di Lampedusa, di Stromboli o delle coste siciliane, dove le immagini e i colori appaiono evidenziati da un an­tico silenzio, che Jannon scoperse la parte più autentica di se stesso. Fu in que­sti elementi ridotti all’essenziale, pura forma priva di storia, impa­sto di atmo­sfera e di segni, che finalmente individuò una corrispon­denza al suo modo di es­sere e di sentire. Da allora egli ci viene propo­nendo, come variazioni sul tema, lo stesso discorso ininterrotto; dando­cene, ogni volta, un aspetto nuovo e diverso, più completo e profondo.
Marcello Venturi

A spasso con Pietro Dipinti (17)

RICORDO DI UN AMICO: PIETRO JANNON

A spasso con Pietro22Grande commozione nella sezione del CAI di Ovada per la scomparsa di Pietro Jannon, che ha avuto un ruolo determinante nella gestione della sede e dell’attività sociale negli ultimi vent’anni. Grande appassionato di ambienti naturali, pittore, fotografo, viaggiatore prima che il viaggio diventasse una moda, ti portava a scoprire l’Appennino con l’esperienza di chi ha visto il mondo: dall’Islanda alle Galapagos, dall’Alaska al Tibet.
La gita della domenica precedente, vista attraverso le sue “dia”, era un’altra gita, che faceva percorrere lo stesso itinerario scoprendo particolari che erano sfuggiti. Era totale l’impegno che metteva nel fare ogni cosa: partecipare ad una Marcialonga piuttosto che occuparsi dei lavori di ristrutturazione della sede, accompagnare gli amici nella sua Val di Susa o preparare quei magnifici “funghidipinosottolio”. Nulla era lasciato al caso. Le “Grandi Montagne” per Pietro non erano lontane, sulle Alpi o in qualche angolo del mondo da lui visitato. Erano quelle che poteva salire ogni giorno, appena un po’ di tempo libero glielo concedeva: il Tobbio, la Colma, che puoi vedere dalla finestra di casa e arrivarci sotto in mezz’ora. La sua presenza in sezione o alle gite sociali negli ultimi tempi s’era fatta sempre più rara, rendendo forse meno doloroso quel suo andarsene in punta di piedi.
Ma per chi lo ha conosciuto, il vuoto lasciato da un tipo “speciale” come Pietro rimarrà sempre incolmabile.
Alpennino, 2004

A spasso con Pietro26

A spasso con Pietro28Pietro Jannon era nato nel 1936 a Venasca, in Val Varaita. ed è approdato nell’ovadese nell’immediato dopoguerra, seguendo gli spostamenti della fami­glia. In Ovada ha frequentato le secondarie inferiori e un corso di disegno decorativo presso il maestro Resecco e ha successivamente lavorato come decora­tore per la Cristalvetro e come designer presso la LAI.
La sua attività artistica ha avuto inizio negli anni dell’adolescenza, quella alpi­nistica anche prima. Molto presto ha iniziato a viaggiare, accumulando col tempo un considerevole curriculum di globe-trotter: dalle Isole greche, dello Io­nio e dell’Egeo alla Palestina, dall’Alaska al Perù, con un salto alle Galapa­gos, dall’Islanda al ai parchi degli Stati Uniti, dalla Foresta Nera al Tibet. Il tutto debitamente documentato da migliaia di foto.
Negli anni settanta ha partecipato dapprima a mostre collettive di pittori ovadesi, ed ha tenuto la sua prima personale in Ovada (Dodecaneso – Grecia) nel 1978. Ad essa ne sono seguite altre nel 1985 (Orizzonti), nel 1998 (Le vie di Pietro) e nel 2000 (Divieti). Ha esposto anche a Brescia, sia in una personale che in diverse collettive, a Gardone e all’Arsenale di Iseo.
È stato una colonna del CAI di Ovada per decenni. Ha valicato il suo ul­timo colle nel marzo del 2005.

A spasso con Pietro31

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Concedersi una gamba a riposo

di Fabrizio Rinaldi, 29 maggio 2022

Sulla parete accanto alla scrivania ho una riproduzione della fotografia di Luigi Ghirri che vedete qui sopra. Sembra una delle infinite varianti del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, ma in essa chi guarda, anziché picchi e nubi, questa volta ha davanti a sé un oceano di persone che lo ascoltano (ho ingrandito l’immagine per verificarlo, ed effettivamente è così per gran parte di loro).

Essendo restio ad espormi in qualsiasi uditorio, non riesco ad immaginarmi in una situazione del genere. Quel signore in doppiopetto invece sembra perfettamente a proprio agio nello stare di fronte a più di un milione di persone in quella piazza di Reggio Emilia nel 1983. e a parlare loro con sicurezza e tranquillità.

Ciò che più mi colpisce in questa immagine è proprio quella gamba accavallata in stato di riposo. Se non fosse convinto di ciò che sta dicendo, probabilmente non riuscirebbe a concedersi il lusso di riposare una gamba, issare il busto sul braccio sinistro e contemporaneamente dire parole sensate e giuste. È un equilibrio fra compostezza e misurata fierezza. Quell’uomo era Enrico Berlinguer.

Appartengo alla generazione che non lo ha votato semplicemente perché ero ancora minorenne quando morì, l’anno successivo a questo comizio. I miei, però, sì: credo che lo facessero non tanto per una convinzione politica, ma, come diceva Giorgio Gaber in una canzone, “perché Berlinguer era una brava persona”. Già allora si votava il leader di fans club più che il partito. Ne sono degli esempi Craxi, Bossi, Berlusconi, e più recentemente Renzi e Salvini.

A differenza di questi pifferai magici, Berlinguer non si limitava alle invettive contro gli avversari (pratica indispensabile oggi), ma esponeva il suo pensiero in maniera tale da conquistare la fiducia in ciò che proponeva. Nonostante parlasse forbito (lontanissimo dai canoni televisivi attuali), arrivava non solo al cuore, alla pancia, ma pure al cervello delle persone, e riusciva a traghettare il carrozzone del suo partito verso i successi elettorati.

Non sto a descrivere la sua figura politica ed umana perché in questi giorni, in occasione dei cento anni dalla nascita, lo si fa già ovunque e in tutte le salse. Però mi chiedo quale posizione assumerebbe rispetto alla guerra in Ucraina, al votare l’invio di armi per sostenerne la resistenza. In fondo, nel 1968 non temette di esporsi stigmatizzando la scelta dei sovietici di reprimere con i carri armati la effimera svolta democratica in Cecoslovacchia: ed erano tempi in cui certe posizioni all’interno del partito comunista erano ancora tutt’altro che maggioritarie.

Non lo sapremo mai, comunque, perché da quel palco Berlinguer non scese. Farlo avrebbe implicato comprendere davvero le mutazioni profonde dei valori e dei bisogni della folla che lo applaudiva. Non lo fece lui, così come non lo fecero i suoi eredi e coloro che lo assunsero come icona ideale di un certo modo di vedere la politica e l’uguaglianza sociale. La conseguenza è l’attuale evaporazione della sinistra, come la nebbia del dipinto di Friedrich.

Concedersi la gamba a riposo02

Il disarmo totale può essere considerato una “utopia”? Io dico di no. Tecnicamente oggi è possibile controllare il disarmo, mentre nel passato non era così. Io dico che esso diventerà una necessità, non solo per sopravvivere, ma anche per risolvere i problemi dell’umanità a cominciare da quelli dello sviluppo. Certo oggi il mondo sembra andare in un’altra direzione, ma io credo che questa che è stata una tipica utopia del movimento socialista ritorna oggi di grande attualità.
Enrico Berlinguer, da La Democrazia Elettronica,
intervista di Ferdinando Adornato, l’Unità, 18 dicembre 1983

Collezione di licheni bottone

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Giorni da asporto

di Vittorio Righini, 16 gennaio 2021

Ieri il meteo dava sole per oggi. Ho sentito il mio amico, medico, ultra-sessantenne anche lui, entrambi appassionati di fotografia, sia analogica che digitale. Ci siamo detti: usciamo, si va su verso Cimaferle, Moretti, Bric Berton; facciamo un po’ di foto, c’è il sole, due bei palmi di neve nei prati, nei boschi gli alberi sono nudi e i torrenti neri e freddi, si ottengono belle immagini, poi ci fermiamo in una delle poche trattorie sopravvissute (alla globalizzazione, ai McDonalds, ai pub, al Covid) e dopo un lauto pranzetto torniamo a casa. Che bello potersi sedere in un piccolo caldo accogliente locale di un paesino di mezza montagna, gustare ravioli di brasato, coniglio alla ligure, una bottiglia di barbera in due. Bello. Bello, bello.

Mi sveglio e il tempo è bigio. Il mondo sembra immobile alle 8 del mattino di una domenica di dicembre. Non l’eco di un’auto, non un rumore dalla città. Realizzo, con colpevole ritardo, che siamo entrati in zona arancione. Il che significa ristoranti chiusi, bar chiusi, gente chiusa. Perché, se anche uscisse, a parte far la spesa di domenica, dove cazzo andrebbe, la gente? Scrivo al mio amico, mi dice vieni, prendi un caffè a casa mia. Mi lavo, mi vesto, e mi fermo al mio baretto; il più scassato della città, ma io vado lì e non ci sono santi. Quando entro la mia vecchia amica barista dice oggi no, si sta fuori: asporto. Asporto? si gela. La guardo. Non c’è nessuno, mi passa un pezzo di focaccia, l’acqua in un bicchiere di carta. Mangio veloce, non c’è nemmeno il giornale per scorrere i titoli. Poi, un caffè. Sempre nel bicchierino di carta. Sempre guardandosi intorno, in attesa che arrivi un dipendente dello Stato di Polizia (scusate, ho inavvertitamente invertito due parole) per farti 400 euro di multa e altrettanti alla barista per un crimine immondo come quello appena commesso. Pago e esco con l’aria di uno che voleva comprare il latte fresco ma era terminato.

Arrivo dal mio amico. Suono il campanello, niente. Guardo il cellulare, c’è un messaggio che dice: quando arrivi telefonami, sto lavorando di sotto (ma se dovevo venirti a prendere per andare via cosa cazzo stavi lavorando di sotto? m’avessi detto: sono al cesso, scusa! ah, ok, questo ci sta; oppure, vieni, faccio colazione, entra, anche questo ci sta!); lo chiamo al cellulare e mi mostra i progressi ottenuti coi suoi lavori all’interno del garage. Ora, devo riconoscere che da quando ho scoperto che si può vivere anche senza lavorare (per lavorare, intendo il concetto uniformato del lavorare), sono restio a sentir parlare di lavoro. Quando uno mi descrive ho fatto questo, ho fatto quell’altro, in genere mi dispiaccio per lui, senza capire che invece lui ne va fiero. Ecco perché con me è meglio non parlare di lavoro. È come parlarmi dell’importanza delle blatte nel ciclo mondiale della natura. Della Regola benedettina gradisco l’ora (et labora poco).

Poi mi porta di sopra, mi offre un caffè. Diamo per scontato che la giornata è andata persa, perché il tempo non accenna a migliorare. I primi dieci minuti mi ascolta, parliamo di tutto, poi lo vedo pensieroso. Sua moglie è tornata a lavorare, come un topo nel formaggio. E anche lui si sente attratto, o in colpa, non so. Si assenta, e dopo un paio di frasi del genere … d’altra parte è così… mi liquida e torna a rosicchiare il formaggio. Io mi domando: ma non dovevamo uscire? quindi, anche se non siamo usciti, non potevamo prenderci il nostro tempo? no, per me è così, non per tutti, chi sono mai io per dire cosa fare e cosa (soprattutto) non fare?

Rientro a casa e ritrovo le normali regole da rispettare: una carriola di legna per il camino, preparo tavola, cucino (queste due ultime incombenze mi piacciono). Mio figlio mi scrive un messaggio e mi dice che ieri sera l’hanno fermato (vive in Belgio) e non trovava la ricevuta della polizza dell’assicurazione. Gli fanno tre volte il palloncino. Risulta tre volte negativo (ma sarà mio figlio?). Alla fine, il poliziotto belga lo lascia andare a casa senza danni e senza curarsi della polizza apparentemente scaduta. Per non dimenticare, verifico gli assegni e constato di aver pagato regolarmente. Poi scrivo una mail alla mia assicurazione, che la leggerà domani, e chiedo gentilmente di ricevere una copia scansionata da inviargli.

Bene, penserete voi, è tutto finito, il problema è risolto. No, non è tutto finito. Mia moglie scatena una caccia al certificato di polizza, una ricerca che ci coinvolge, sgombriamo anche la gattona dal divano nel caso il foglio si fosse infilato sotto un cuscino. Mi chiedo perché. Perché? se hai un problema e non hai la soluzione, perché ti preoccupi? ma se hai un problema e hai la soluzione, perché ti preoccupi? così scrivono i cinesi.

Nel mentre mi scrive Paolo, al quale avevo detto che leggendo Lhasa di Hopkirk, che mi ha appena imprestato, avevo trovato quel riferimento a Savage Landor che lui ricordava ma non collocava. Ora ricorda il fatto, si lamenta del tempo che passa e della testa sempre più insicura. E mi scrive una frase che dà l’avvio a questo mio sfogo: soffro a non poter fare quasi nulla, ma soffro ancor più pensando che anche se potessi non saprei cosa fare, e che anche se lo sapessi non avrei voglia di farlo.

Allora mi scatta la rabbia: siamo gente libera? o siamo un branco di pecore in balia di lupi affamati? (considero i lupi uno degli animali più belli e intelligenti in natura, mi scuso con loro se li paragono a chi pretende di dirigere la nostra vita). Ai tempi del colera si stava peggio di ora? non lo so, non c’ero, ma almeno avevi delle certezze; della morte, per esempio. Ora non hai nemmeno la certezza del vaccino, per non parlare della cura. Oberati da vomitevoli forme di informazione a mezzo tv, whatsapp, giornali (Trump? facile prendersela con lui; con un po’ di buonsenso, si era capito fin da subito che era uno instabile di mente, quattro anni c’ha messo la Pelosi per definirlo così. Ma se un branco di idioti ha invaso il Parlamento USA è perché la stupidità, la volgarità, l’ignoranza, la violenza, il razzismo viaggiano sui social: facebook, twitter, instagram. Cancellano Trump? beh, comodo salire sul carro del vincitore e poi tenere aperti i profili dei leader iraniani, turchi, egiziani, etc. etc.). Non c’è più niente di vero, non c’è più nulla di serio, tutto è una bufala, tutto è una fake news, dal non fare il vaccino perché un team di scienziati irlandesi ne denuncia il pericolo (chi?), a un branco di parlatori televisivi tutti autorizzati dalle più alte cariche dello Stato a parlare di Covid, quasi tutti con laurea in medicina biologia, virologi e scienziati, tuttologi e arrivisti, che ci inoculano, una dopo l’altro, catastrofiche predizioni tipo Nostradamus col mal di denti, tutti pronti a terrorizzare, nessuno a dire… a dire cosa?

Beh, per esempio: ora, noi tuttologi, pubblicheremo un elenco completo dei morti di Covid; indicheremo età, patologie pregresse e in corso prima di morire (ci sono le cartelle cliniche per quello) e faremo un report preciso, per vedere quanti sono morti DI Covid e quanti sono morti COL Covid; poi, scopriremo perché molti medici di base, all’insorgere di dubbi su un paziente, invece di prescrivergli dell’eparina, utile a proteggere da trombi e fluidificare il sangue, prescrivevano tachipirina. Due poveri semplici medici di Pavia, lo ricordo bene, nella primavera 2020 furono lapidati verbalmente da uno dei Santoni Televisivi solo perché avevano detto che da quando usavano l’eparina avevano visto i casi di morte scendere a zero. Poi, noi tuttologi indagheremo sul perché uno dei nostri più stimati colleghi, Burioni, prima dice: possibilità che il virus arrivi in Italia dalla Cina? pari a zero… poi diventa uno dei numi tutelari televisivi. E perché Report dedica un’ora di programma (ricco di allarmanti accuse e sospetti) al Commissario Straordinario Arcuri e ai suoi maneggi con le mascherine cinesi? Ma, soprattutto, perché queste decisioni di chiudere a determinati orari, di non far più lavorare i ristoranti, i bar, e molti altri settori (dopo che gli hai fatto spendere migliaia di euro per sanificare in primavera)? Infine, perché si manda una economia e una società a puttane in questo modo? Non ne usciremo più, molti economicamente, molti psicologicamente. Le file davanti alle mense per i poveri nei vicoli di Napoli e altre grandi città, di persone che una volta avevano un reddito e anche contribuivano ai redditi delle famiglie dei loro collaboratori, mi hanno ulteriormente intristito. Io sono fortunato, davvero tanto fortunato.

Ormai siamo segnati, abbiamo un marchio sul polso, una croce, un simbolo, un numero. Siamo i rovinati del 2020. E loro discutono: Renzi rientra, no Renzi esce del tutto. Beh, direte voi, tu parli ma non sai cosa significa il Covid. Eh no, modestamente io il Covid lo nacqui… nel senso che l’ho fatto io, mio figlio, mia figlia. Per loro è stata una passeggiata, hanno trent’anni, io sessantacinque, è stata abbastanza dura ma non sono finito in ospedale, e ora sto abbastanza bene. Vivo in un’ambiente contiguo alla Sanità, e mi permetto di dire la mia: ci sono solo 5 strade da percorrere:

  • test rapido per tutti;
  • curare con i medicinali giusti, ormai dovrebbero aver capito tutti quali sono;
  • cercare di guarire;
  • Ma, subito, non tra un mese, riaprire tutte quelle attività che stanno morendo;
  • vaccinare il maggior numero di sani.

Oggi ho preso la scheda elettorale è l’ho buttata nel camino. Scelta stupida, diranno molti di voi. Dettata dalla rabbia, giustamente direte voi. Si, mi sento stupido. Stupido e codardo, insignificante e inutile. Hanno vinto loro, ma almeno non mi avranno più come loro complice (come diceva il simpatico tenente Lo Russo in Mediterraneo, nella scena finale). Ora vado a finire di leggere Lhasa di Hopkirk; finora ha raccontato di tutti quelli che hanno fallito nel tentativo di arrivare per primi, come stranieri, a Lhasa; ma sono sicuro che, prima della fine, dovrà per forza raccontare di qualcuno che è riuscito finalmente a vedere il Palazzo del Potala…

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Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano ​in una villa abbandonata …

di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.

Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!

Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).

E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.

Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.

La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.

La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.

Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.

Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.

Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.

Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.

E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.

La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.

Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.

E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).

Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.

Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.

No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).

Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).

Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…

Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.

Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.

In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.

Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.

E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black! 

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