Per valutare la qualità della vita in un luogo, sia esso una nazione o una singola città, si sommano e si incrociano diversi criteri, che vanno dal tasso di istruzione a quelli di occupazione o di criminalità, dal reddito pro-capite all’aspettativa di vita, dalla qualità dell’aria e dell’acqua all’efficienza dei trasporti: ma alla fine le graduatorie che ne risultano vedono nelle primissime posizioni sempre gli stessi nomi. Ora, è evidente che queste valutazioni possono essere considerate “oggettive” solo fino ad un certo punto, perché il peso e la rilevanza dei vari parametri dipendono da chi le graduatorie le stila, e qui entrano in gioco un sacco di interessi, (dagli operatori turistici alle compagnie di bandiera, agli enti promozionali, persino alle pressioni politiche, ecc…); ma soprattutto perché sono espresse a partire da un particolare punto di vista (nella fattispecie, quello del modello culturale “occidentale”).
Al netto di tutte le obiezioni “politicamente corrette”, dobbiamo comunque ammettere che offrono un quadro abbastanza realistico della situazione, senz’altro più attendibile di quello che possiamo trarne soggettivamente da visite in genere frettolose (e compiute magari in condizioni non ideali di salute o di compagnia, o disturbate da inconvenienti di varia natura). Anche se poi il quadro di cui conserviamo il ricordo, e che trasmettiamo ad altri nel racconto delle nostre esperienze, è proprio quest’ultimo.
Verrebbe però da chiedersi a chi e a cosa servano queste graduatorie. Io credo rispondano alla sempre crescente necessità del mondo moderno di sterilizzare, amalgamare e ricondurre tutto entro tassonomie matematiche (per ogni singolo fattore di valutazione è assegnato un punteggio, e il risultato è una sommatoria), oggi si direbbe algoritmiche, tali da consentire la pianificazione e il controllo di ogni attività: e naturalmente, per ricaduta, a influenzare ad esempio le nostre scelte di viaggio. Ma non possiamo negare che siano anche specchi nei quali si riflette in definitiva la natura umana più profonda: perché seppure di norma pensiamo di essere attratti da ciò che trasmette emozioni forti, dal “sublime” romantico per intenderci, in realtà quel sublime lo apprezziamo solo come gli spettatori di lucreziana memoria che dalla riva assistono a un naufragio. Non è più tempo di avventurieri, ma di turisti. Per questo finiamo poi per preferire in genere mete “sicure”, che garantiscano un certo livello di ordine, di tranquillità e di razionalità; per questo difficilmente prendiamo in considerazione Haiti o Mogadiscio, che di emozioni ne riservano a bizzeffe; e per questo, tra l’altro, ci indispettiamo e recriminiamo quando ai primi posti nelle graduatorie di merito non troviamo menzionata alcuna città italiana.
Al di là di tutto ciò, comunque, ciascuno di noi, in base al suo carattere e alle sue esperienze, elabora più o meno consapevolmente un suo sistema di valutazione, i cui criteri potranno mutare col trascorrere dell’età e con l’accumulo delle occasioni di incontro e di confronto, oltre che degli acciacchi, ma che sostanzialmente lo accompagnerà per tutta la vita.
Io, ad esempio, sono sempre stato propenso almeno in teoria alle esperienze più tranquille: anche se di fatto più per sbadataggine e superficialità che per averle veramente cercate, ho poi finito per viverne sin troppe del primo tipo. E ho adottato per le mie valutazioni della qualità della vita e dei livelli di civiltà (si, sono politicamente molto scorretto) alcuni peculiarissimi criteri, meno freddi di quelli numerici e in qualche caso altrettanto o più significativi. Sono criteri diciamo così “turistici”, desunti in genere da soggiorni brevi, ma che un’idea di massima la possono dare.
Vediamoli. Se c’è qualcosa che parrebbe non offrire elementi per una gerarchizzazione, questa sono gli aeroporti e in genere tutti i non-luoghi, dagli autogrill ai grandi magazzini. In linea di massima differiscono solo per le dimensioni, e anche se oltre un certo livello la “quantità” diventa necessariamente “qualità” la funzione di transito veloce cui assolvono (a meno di rimanerci intrappolati come Tom Hanks in The Terminal) li rende in qualche modo ai nostri occhi identici. Ma se con gli occhi non seguiamo soltanto le indicazioni per l’uscita o quelle per l’imbarco le cose non stanno proprio così.
Gli aeroporti, ad esempio, sono il tramite per eccellenza e il simbolo stesso della globalizzazione seriale. Eppure anche già al loro interno qualche sfumatura di differenza la si può cogliere, a partire dalla maggiore o minore pulizia delle toilettes, e prima ancora, dalla facilità di reperirle. Quello delle toilettes è un mio chiodo fisso. Il grado di civiltà di un paese lo puoi già intendere alzando gli occhi in qualsiasi via o piazza, ma persino in prossimità di spiagge o scogliere deserte, come accade nel Devon, o nei villaggi più sperduti: se scorgi subito l’indicazione con l’omino e la damina stilizzati il livello è molto alto.
A Vienna poi, perché lì sono sbarcato più recentemente e proprio lì voglio portarvi, nella segnaletica compare anche un terzo pittogramma, quello che indica il terzo sesso (lo riferisco per informazione, non perché abbia a mio giudizio una particolare rilevanza: in realtà non ho capito bene a che serva, le sezioni interne essendo sempre due).
Per raggiungere le toilettes, o subito dopo, ci sono le scale mobili. Un altro modo per percepire al volo la qualità della vita di un luogo è scendere o salire le scale mobili. Capisco che un integralista dell’efficienza fisica possa disdegnarle, ma uno psicologo sociale in pectore come me, soprattutto se parecchio avanti con gli anni, non può farsi di questi problemi: e poi ormai sono molti gli snodi in cui le scale normali nemmeno esistono.
Comunque: arrivando da una giornata trascorsa a Milano, dove avevo rischiato più di una volta di essere travolto da gente che le saliva o scendeva di corsa, neanche avesse la polizia alle calcagna, e sembrava non aver ancora introiettata l’idea che sono quelle a doversi muovere, ho trovato all’aeroporto austriaco (così come poi ovunque nella città) una grande compostezza; nessuno che smaniasse per farsi largo o ti guardasse storto se ingombravi col bagaglio o non ti tenevi rigorosamente appiccicato alla fiancata scorrevole destra. Ne ho immediatamente ricavato l’impressione di una vita meno frenetica, più rilassata e ordinata. Mi sono anche dato una spiegazione del fatto che le scale siano quasi verticali, cosa che in un primo momento mi aveva lasciato perplesso: con quella inclinazione a salirle di corsa ti becchi un infarto, se le scendi a precipizio rischi seriamente di volare di sotto (l’altra spiegazione, più banale, sarebbe che stratificate ad imbuto fino a trenta o cinquanta metri sottoterra occupano molto meno spazio). Mi hanno ricordato l’equivalente inglese delle nostre strade statali e provinciali: piste a doppio scorrimento ma a carreggiata unica, larghe giusto poco più di un’auto e chiuse lateralmente non da cunette ma da muretti a secco, senza alcuna indicazione di limiti di velocità: quelli li impone il buon senso – che sembra funzionare, e si capisce il perché.
Dall’aeroporto le prime scale danno accesso direttamente alle linee ferroviarie, scendendo ancora conducono a quelle della metropolitana. E qui, per le une e per le altre, nuova sorpresa. Non ci sono i tornelli, si accede liberamente a qualsiasi linea. Posso tranquillamente riporre il biglietto acquistato on line. Tutto procede sulla fiducia. La sensazione immediata è che tutti abbiano in tasca, come me, il loro documento di viaggio. Penso comunque che poi, una volta sul treno, ci sarà un controllo. Macché. Non ne ho visto uno in quattro giorni, trascorsi in buona parte a saltare da un vagone all’altro. Anche qui, mi è tornata in mente la scena di quella volta che a Torino, salito su un tram, sono andato immediatamente a obliterare il biglietto. Il click dell’obliteratrice ha richiamato l’attenzione sorpresa e infastidita di tutti gli altri passeggeri: mi guardavano in tralice come fossi un marziano, non con derisione, ma con una malcelata ostilità. Stavo infrangendo una norma consuetudinaria.
Mi chiedo come sia possibile che quella società si regga sulla fiducia, come ci si sia arrivati e se per l’avvenire questo rapporto potrà continuare. Gli austriaci non sono nemmeno luterani o calvinisti, sono cattolici come noi, non si può far risalire alla matrice religiosa il senso del dovere civico: forse li hanno educati a bastonate, o forse semplicemente hanno introiettato un forte senso di responsabilità nei confronti della cosa pubblica perché almeno in passato sono stati bene amministrati. Non credo comunque si tratti di indole, la causa è senz’altro esterna, è culturale, è storica. Probabilmente è la somma di tanti fattori tutti molti lontani dalla mentalità vigente dalle nostre parti, e va al di là della nostra capacità di comprensione.
Intanto, percorrendo sulla linea di superficie il tratto che separa lo scalo aeroportuale da Vienna, sono già immerso nell’Art Nouveau. La rete ferroviaria viennese, oltre ad assicurare un servizio puntuale al secondo, una estrema pulizia e una informazione precisa sulle fermate, costituisce di per sé un’opera architettonica di grande pregio. L’ha curata in ogni dettaglio un architetto “secessionista”, Otto Wagner, che per un ventennio fu sovrintendente alle costruzioni ferroviarie, uniformando nello stile e nei colori stazioni, ponti, ringhiere, tutto ciò insomma che offre un impatto visivo immediato. Può piacere o meno, ma è indubbiamente simbolo della volontà di armonizzare arte e vita quotidiana, di far entrare la prima come elemento costante nella seconda, educando un gusto alla bellezza che deve poi esprimersi in ogni aspetto della quotidianità. Gli integralisti della concezione dell’arte come provocazione non saranno d’accordo, ma per me è una forma alta e dignitosa di resistenza alla pervasione del grigiore e del piattume indotti dalla modernità, senza peraltro sacrificare nulla dell’efficienza.
La ferrovia offre un’anteprima, volutamente pensata e proposta con estrema discrezione, di quel che troverai a breve in città. Non vuole provocare uno shock, ma consentire un pre-riscaldamento delicato, una prima dolce assuefazione al bello diffuso.
Quando accedo alle linee metropolitane ho dunque già inforcato senza accorgermene occhiali diversi. Mi si è abbassata la pressione da viaggio, non stringo più spasmodicamente il manico retrattile del trolley. Appena riemerso dal sottosuolo, poi, con una semplice occhiata buttata in giro durante i quattro passi che mi separavano dall’albergo (perché la copertura offerta dalla rete sotterranea è davvero capillare, non c’è una meta in città che disti più di centocinquanta metri da una stazione), sono confermato nella percezione di un’atmosfera piacevolmente rilassata, desumibile già dalla camminata dei passanti, e ho un primo contatto con spazi verdi diffusi, con strade molto ampie, percorse da un traffico estremamente scorrevole e disciplinato. Tutte cose che concorrono alla sensazione di una estrema “respirabilità”, favorita anche dall’altezza uniforme di costruzioni che si succedono compatte e che non superano mai il quarto o il quinto piano.
Quest’ultima caratteristica soddisfa un’altra mia sindrome particolare: ho bisogno di vedere il cielo senza tenere troppo il naso per aria. Se poi quei palazzi sono anche belli, se mostrano una coerenza architettonica senza stranezze eccessive, se testimoniano una concezione urbanistica che ha resistito alle sirene della iper modernità, si compie la quadratura del cerchio.
Non è la prima volta che visito Vienna, ma l’ultima risale a oltre trent’anni fa, e allora per vari motivi non avevo avuto modo di riflettere su queste cose. C’ero arrivato in macchina, e nei giorni successivi me l’ero percorsa tutta a piedi (all’epoca avevo un’autonomia di quaranta-cinquanta chilometri al giorno, e soprattutto avevo una concezione piuttosto penitenziale del turismo), per cui non avevo mai usato la metropolitana. Le volte precedenti guidavo gite scolastiche, per le quali facevo valere i miei convincimenti odeporici e non avevo nemmeno il tempo di guardarmi attorno o per aria.
Una volta completata la sistemazione logistica mi muovo per un primo approccio esplorativo. So di avere il cielo aperto sopra di me, respiro tranquillo e mi dedico a ciò che mi circonda. Non posso non apprezzare l’eleganza raffinata, mai cafona, dei negozi, la perfetta manutenzione di bellissimi palazzi risalenti a un secolo e mezzo fa, la pulizia di strade e marciapiedi, che non si capisce da chi e quando venga effettuata, la cura delle diffuse aree verdi. Come mi disse una volta Franco Vallosio, reduce da un lungo viaggio in Svizzera: “Vai a sapere quanto sfruttamento c’è dietro tanta pulizia e tanto ordine: ma almeno là l’ordine c’è, mentre da noi c’è solo lo sfruttamento”.
Solo dopo un po’ comincio ad avere la percezione di un’assenza, e mi accorgo che nel panorama manca una componente ormai diffusa in tutte le altre grandi città, da Londra a Parigi e a Milano (ma anche in quelle piccole). Non ci sono in giro homeless. Non ne incontrerò nemmeno nelle escursioni serali. Visti i precedenti (mi riferisco a quanto accadde più di ottant’anni fa) verrebbe da pensar male: ma l’atmosfera non è affatto quella. Non credo li abbiano fatti sparire, penso semplicemente che ci siano luoghi che la notte li ospitano, ma anche di giorno. Questi luoghi esistono anche da noi, e in gran parte d’Europa, ma semplicemente qui funzionano, e chi ne ha bisogno viene convinto con una certa fermezza ad utilizzarli. Può sembrare una concezione che sacrifica al decoro urbano la libertà individuale, da noi senz’altro verrebbe considerata tale, ma in realtà è solo lo smascheramento di un libertarismo peloso, quello per il quale ciascuno può fare ciò che gli pare, dalle nostre parti molto praticato.
Potrei andare avanti per pagine ad elencare i fattori che concorrono alle mie valutazioni, ma credo che quanto ho scritto finora basti a rendere l’idea. In pratica il criterio è molto banale: quando si parla di qualità della vita i numeri non bastano, anche se non guastano: ti dicono quali possibilità sono offerte, non necessariamente quanto e come e con quali esiti vengono colte. Questo è poi affar tuo scoprirlo. E in tal senso nella qualità della vita faccio rientrare anche un altro fattore, difficilmente computabile: la consapevolezza del sostrato storico sul quale si cammina.
Nei pochi giorni che avevo a disposizione ho fatto il pieno di Secessione e di Klimt e di Schiele, ma soprattutto sono riuscito a intravvedere i fantasmi dell’epoca d’oro della città, di quella fetta iniziale del Novecento nella quale Vienna esprimeva, prima come capitale di un impero fondato sulla giustapposizione tra culture diverse, e non sullo scontro, e poi come sopravvissuta nostalgica di tanta grandezza, il meglio della cultura europea: molto più di Parigi, a mio giudizio, perché nella capitale francese erano soprattutto gli stranieri, esuli volontari (come gli anglosassoni) o meno (come italiani, tedeschi o spagnoli), ad esprimerla.
Come per tutti gli altri aspetti, a Vienna anche la vita culturale risulta più discreta. Quando si parla di cultura pre e post primo conflitto mondiale la gran parte delle figure (e dei movimenti) di riferimento nella letteratura (da Karl Kraus, a Schnitzler, a Zweig, a Musil) nella filosofia (da Carnap a Wittgenstein e a Freud), nella musica (da Mahler, a Schönberg, a Berg, a Webern), nelle scienze (da Mach a von Mises, a Gödel), oltre a quelle naturalmente che ho già citate per l’arte, arrivano da lì: ma non sono mai state strombazzate quanto ad esempio il futurismo italiano o il surrealismo francese (provate a chiedere in giro chi conosce la Secessione Viennese, l’Art Nouveau, lo Jugendstil o l’opera architettonica e urbanistica di Otto Wagner) e anche all’epoca non si sono mai esibite in manifesti o manifestazioni spettacolari, ma nella realizzazione di opere. Ancora oggi rimangono essenzialmente patrimonio locale, anche se non mancano di concedersi ogni tanto in prestito allo spaccio dilagante di mostre e convegni e ricorrenze anniversarie.
Qui credo comunque di aver perfettamente capito a cosa si riferiva Benjamin quando parlava di “aura”. Se entri al museo del Belvedere dopo aver attraversato mezza città ti trovi in assoluta continuità con quanto hai visto o percepito sino a quel momento, scendi solo più in profondità. Fuori da quel contesto, dell’opera di Klimt o di Schiele puoi solo ammirare la bellezza esteriore, se ti piace il genere, puoi contemplarla stupito o perplesso, ma non puoi assolutamente comprenderla. E lo stesso vale per i romanzi di Musil e i memoires di Zweig, o per la musica di Mahler e di Berg. Persino la logica di Gödel ha la sua naturale dimora e intelligibilità in quel luogo e in quel tempo.
Più in generale, stante che il contesto storico cui faccio riferimento non va oltre gli anni Trenta del secolo scorso, anche la storia dell’Impero asburgico si distingue per l’essersi mossa quasi in sordina, senza eccessi e senza infamie particolari. In fondo è l’unica istituzione politica dell’Europa occidentale, a parte la Svizzera, a non essersi ritagliata appendici coloniali fuori del continente. Certo, l’Africa e l’Asia degli Asburgo erano nei Balcani, ma il sistema amministrativo consentiva a ben nove diversi popoli soggetti larghe autonomie, e il controllo veniva esercitato con mano leggera. Teniamo presente che nell’ultimo secolo di esistenza l’amministrazione imperiale è stata osteggiata all’interno non da rivendicazioni sociali (non erano tali neppure quelle del 1848) , ma da un montante spirito nazionalistico, quasi sempre alimentato da interessi politici ed economici esterni. In questo senso il modello imperiale asburgico può essere considerato l’ultimo tentativo di tenere assieme almeno una parte di quell’Europa che avrebbe finito nel giro di un trentennio e di due spaventosi conflitti successivi per suicidarsi. Ora, visti i recenti fallimenti degli sforzi per avviare una nuova riunificazione, varrebbe forse la pena di andarsi a rivedere come funzionavano al suo interno le cose, almeno per trarne una qualche ispirazione. Da quello che è il ricordo lasciato in Italia, nelle regioni rimaste sotto il suo diretto dominio fino al 1866, e per quello che è accaduto nei Balcani dopo la disgregazione, direi che ci sarebbe molto da imparare.
Non deve sorprendere allora che prima di rientrare abbia dedicato mezza giornata alla ricerca di una grande carta geopolitica, possibilmente d’epoca, dell’impero austro-ungarico, da affiancare nel mio studio a quella dell’Europa antecedente il 1848. Non l’ho trovata, e quando ho chiesto a un negoziante antiquario particolarmente fornito se dipendesse dal fatto che agli austriaci non interessa il loro passato, mi sono sentito rispondere che, al contrario, come quel tipo di carte gli arrivano spariscono in un baleno. Anche questo significa qualcosa, e non può essere tabellizzato in alcuna graduatoria.
Tirando tutte le somme (in senso figurato, s’intende: ma in fondo anche quelle concrete, delle spese sostenute) si è trattato di una esperienza decisamente positiva. Mi rimane il rimpianto per la carta: nello studio avrebbe ben figurato, e avendola costantemente sotto gli occhi avrei potuto ogni tanto staccare e volare con la mente oltre le Alpi. In Italia mi sarà difficilissimo, se non impossibile, rintracciarne una. Dovrò limitarmi a vedere ogni possibile film ambientato a Vienna, come già faccio per quelli girati in Islanda (ma di questa una bella carta d’antan la possiedo), e gioire ogni volta che mi sembrerà di riconoscere un luogo che ho frequentato, e di poter entrare di soppiatto nell’azione. È l’unico modo, alla mia età, per illudersi di viaggiare ancora da protagonisti.
Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).
Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.
Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.
Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.
Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.
Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….
Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.
Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.
Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.
In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r),o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.
Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.
Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.
Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.
In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).
Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.
Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.
Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.
Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.
Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).
Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.
Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.
L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.
Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.
Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?
Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.
Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.
Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.
Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.
Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?
Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.
Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?
Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.
Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.
Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.
P.S.
1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.
2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.
3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.
di Nicola Parodi, da un colloquio con Paolo Repetto, 18 ottobre 2025
Sono abbastanza vecchio da aver prestato servizio di leva obbligatorio (quello pre-riforma, quindici mesi di naia), e abbastanza poco raccomandato da averlo prestato come soldato semplice, non dietro il tavolo di un ufficio ma secondo il modello old style, marcia o crepa: e per di più in un reparto dell’artiglieria someggiata (muli e mortai). Tutto sommato, al netto dei residui quasi solo linguistici del nonnismo (nel frattempo era arrivata la contestazione sessantottina), delle prevaricazioni e dell’imbecillità diffusa nelle gerarchie di comando (cose che peraltro non sono affatto scomparse, si sono soltanto ulteriormente diffuse in altri ambiti della società), di quella esperienza ho un ricordo positivo: tanta fatica, disagi, a volte arrabbiature, ma anche tanto sano cameratismo, tanta reciproca solidarietà, un po’ di avventura: la consiglierei oggi ai nostri nipoti (naturalmente in tempi di pace), per evitare loro la ricerca di prove fisiche a volte insensate, di rischi fini a se stessi, di guerriglie urbane.
Comunque: oggi le chiacchiere con un amico convalescente hanno fatto riemergere un ricordo vecchio di oltre mezzo secolo. Sono ai campi estivi, ormai quasi in chiusura, con la 8a batteria del Gruppo artiglieria da montagna Pinerolo. Abbiamo trascorso diversi giorni sulle Dolomiti Friulane senza incontrare un paese e nutrendoci solo delle famigerate razioni K, e stasera ci siamo accampati presso una diga della val Tramontina. A me e ad un commilitone è toccato il primo turno di guardia. Ci aggiriamo così fra le tende che ospitano un piccolo plotone di artiglieri, mentre poco più in là sonnecchiano le file dei muli.
Nelle tende sparse aspettano il sonno giovanotti ventenni robusti e di sani appetiti, che conversano pacatamente, anche per via della stanchezza cumulata durante la marcia del giorno precedente. Quel che ci sorprende (ma neanche poi tanto) è che l’unico argomento di conversazione sia il cibo. Non che ci aspettassimo disquisizioni filosofiche, ma da ragazzi di quell’età sarebbe lecito attendersi qualche struggente riferimento al sesso, alle donne, ai motori. Invece si parla esclusivamente di pesto, magari associato alle trenette o alle trofie, di torte pasqualine, di lardo (circa la metà dei soldati proviene dalla Liguria).
Siamo stupiti ma, ripeto, non troppo: in fondo anche nella nostra testa (e per il nostro fisico) la priorità è quella. Rimarchiamo la cosa, ci scherziamo sopra, senza tuttavia avventurarci in considerazioni più generali. Ciò che invece vado a fare ora.
Si tratta di una gerarchia naturale di priorità. La prima preoccupazione di qualsiasi essere vivente è la propria sicurezza, e in quel frangente in rischio era contenuto, fatta salva l’eventualità di un calcio di mulo. Subito dopo viene la necessità di nutrirsi adeguatamente e abbondantemente: il miraggio era quindi in quel caso una bella tavola imbandita. Solo quando sono soddisfatti i primi due istinti si passa al resto. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza possiamo dire che, almeno dalle nostre parti, questi istinti prioritari sono sufficientemente garantiti: momentaneamente nessuno corre il rischio di essere sbattuto in trincea, e nessuno – tranne casi estremi – conosce i morsi della fame. A quell’epoca, e in quella situazione, invece, non lo erano affatto. O almeno, non del tutto. Il servizio militare era obbligatorio, il rancio e, peggio ancora, le razioni K (confezionate in scatole metalliche, per durare anni nei magazzini, e contenenti, fra l’altro, delle gallette così dure che solo i muli riuscivano a rosicchiarle. Per mangiarle bisognava bollirle!), non seguivano le indicazioni del dietologo ma quelle dei marescialli di fureria: quindi facevano schifo. Soprattutto durante le esercitazioni e i campi esterni era normale dover tirare la cinta fino all’ultimo buco. Per questo le chiacchiere sotto le tende giravano tutte attorno allo stesso argomento: era un modo per condividere un bisogno primario impellente, creando socializzazione, ma anche per esorcizzarlo, scaricarlo, scherzandoci magari sopra.
Ora, per non tirarla troppo in lungo e per trarne un paio di considerazioni magari elementari ma pienamente fondate, il fatto è che noi siamo condizionati molto più di quanto vorremmo credere dai nostri istinti. La storia della “umanizzazione” è quella del progressivo controllo sulla nostra istintualità, dell’emancipazione dal dominio biologico: ma è una storia ben lontana dall’essere arrivata a compimento. E anzi, è una storia periodicamente smentita dai fatti, dalle necessità, dalla ricaduta nella precarietà e nella barbarie. Per questo le vicende umane andrebbero lette con minor presunzione: non possiamo hegelianamente spiegarle come vicende “dello spirito”. C’è altro che si muove, e che ci muove, dentro di noi. Questo non significa che siamo delle “bestie”, ma che siamo comunque degli animali, ufficialmente pensanti, ma spesso anche no (basta guardarci attorno): e voler negare questo dato significa metterci in condizione di non capire o di male interpretare le reazioni altrui, di relazionarci sulla base di convenzioni estremamente fragili, diverse nei tempi e nelle svariate aree culturali, e pretendere che le risposte che otteniamo siano sempre conseguenti. Significa negare il nostro sostrato naturale e il condizionamento da esso esercitato. Anzi, ci siamo talmente convinti del potere dell’intelligenza culturale sull’istinto naturale da attribuire la prima anche ai nostri cugini più o meno prossimi, con zampe, ali e piume, e siamo finiti ad adottare nei loro confronti comportamenti stupidamente esasperati.
Mio padre, che il militare lo aveva fatto durante l’ultima guerra, mi raccontava come sul fronte greco/albanese alcuni suoi commilitoni, comandati di pattuglia, stanchi ed affamati, avessero preso a sparare contro i loro stessi compagni in fila per il rancio giù nella vallata. È probabile che la sera, nelle loro tende quei pochi fortunati che ne disponevano, quei ragazzi ragionassero di giacigli caldi, di mura sicure, di volti amici, e cercassero di scacciare dalla mente le immagini dei corpi straziati di morti e di feriti che impedivano loro di chiudere occhio. A volte magari lo facevano nella maniera più stupida, reagivano inconsultamente, ma si trattava appunto di una reazione sfuggita al controllo che chi non ha vissuto quei momenti non è in grado di valutare né di giudicare.
Oggi, alla loro stessa età, i ragazzi stazionano la sera non sotto le tende, tremando di paura o rosi dalla fame, ma nei dehors spuntati come funghi, sorseggiando l’apericena: e quando non si inchiodano al loro iPhone sproloquiano del nulla, annichiliti dal deserto di senso e di idealità che li circonda. Si badi bene: non sto dicendo che siano degli idioti, o abbiano meno risorse mentali delle generazioni che li hanno preceduti. Dico che ogni generazione reagisce in base agli stimoli, negativi o positivi, che arrivano dall’ambiente, e sono questi stimoli a determinare l’ordine delle priorità. Può sembrare un ossimoro, e può sembrare in contraddizione con quanto detto sinora, ma esistono anche “priorità secondarie”, apparentemente solo “culturali”, in realtà dettate anch’esse da un input biologico. In questo caso ad agire è una somma confusa di stimoli, da quello riproduttivo a quello del dominio, tradotti e ricondizionati dal nostro cervello per essere compatibili con i modelli in costante evoluzione della socialità, ma pur sempre basilari per indirizzare i nostri comportamenti.
Insomma, anche là dove non intervengono la fame o il rischio fisico noi reagiamo in primo luogo a bisogni originari, per quanto mascherati e rimossi, e faremmo bene a non dimenticarlo mai, quando parliamo di educazione, di politica, di socialità, di tutto ciò che consideriamo erroneamente di assoluta pertinenza “culturale”, e quindi passibile di un controllo quasi completo. Il pensiero risponde prima di tutto alle istanze della biologia.
Ovvero, come dicevano gli antichi, la lingua batte dove il dente duole.
par le non auteur Giuseppe Rinaldi, non date 28 settembre 2025
1. Appena finite[1] le vacanze estive, capita che uno si senta in dovere di fare il punto su come ha trascorso il tempo, sulle eventuali esperienze e su ciò che ha imparato o disimparato. A questo scopo sono impaziente di raccontare ai miei dieci lettori il mio incontro, del tutto casuale, con alcuni esponenti di un nuovo movimento politico culturale che si chiama NNCBV. Ho scritto “alcuni” per ossequio abitudinario alla grammatica convenzionale, ma avrei dovuto scrivere “alcun*”, poiché si tratta di un movimento a composizione prevalentemente non binaria[2] e fluida. Il che è senz’altro un segno dei tempi attuali. La loro è certo una sigla un po’ pesantina, peraltro anche poco pronunciabile. Si tratta ovviamente di un acronimo e, come mi è stato spiegato, sta per «Noi non ce la beviamo!». Si tratta di un motto di sfida contro il tecno-sistema, sempre più onnipervasivo e invadente, che vorrebbe proditoriamente imporre un ordine unico e arbitrario a tutta la realtà.
2. Si tratta di un movimento nato e sviluppatosi proprio nel nostro Paese, soprattutto negli ambiti metropolitani, seppure esplicitamente ricalcato sul modello della woke culture nordamericana. Quella che, ahimè, ha dato una mano indiretta a far vincere le elezioni a Trump. Ma il pericolo rappresentato da Trump, come vedremo, non è certo la preoccupazione principale di costoro. Il movimento sta già cominciando ad avere un certo seguito anche all’estero. Per ora si sta diffondendo principalmente nei Paesi limitrofi della UE ma, si sa, le cose sul Web viaggiano velocemente.
I miei dieci lettori potrebbero eccepire, a questo punto, di non averne mai sentito parlare. Anch’io non ne avevo mai sentito parlare, fino al giorno prima. In effetti, si tratta di un movimento piuttosto riservato, che evita accuratamente le comparsate pubbliche nelle piazze, tipo pride e similari. Questo perché i loro leader tendono ad avere un atteggiamento un tantino underground e, anche se non l’ammetterebbero mai, piuttosto elitario. Sono organizzati soprattutto sul Web, dove cercano di costituire, quasi esclusivamente tramite i social media, delle micro reti di solidarietà e di intervento rapido. Agiscono dunque assai riservatamente e, per accorgersi della loro presenza, bisogna aspettare di essere oggetti, ahimè, della loro attenzione o dei loro interventi provocatori, che sono sempre repentini e furtivi ma tali che lasciano il segno. Oppure bisogna che gli algoritmi dei social facciano qualche deraglio e vi consegnino, magari per errore, qualche spezzone delle loro conversazioni, dei loro documenti o dei loro filmati.
3. L’acronimo che hanno scelto, «Noi non ce la beviamo!», non si riferisce a bevande varie, come Estaté, birra, aranciate o limonate, bensì sta a indicare una posizione risoluta, una contrapposizione senza quartiere, contro certi orientamenti di costume e culturali che oggi vanno per la maggiore e che, in forma tacita, nella odierna società di massa, sono ormai più o meno condivisi da tutti. Il loro campo d’intervento si colloca principalmente a livello linguistico, niente di meno che contro la testualità dominante. Questa viene messa sotto accusa in quanto pura espressione arbitraria di un potere occulto che pervade ormai tutte le società post – industriali. L’obiettivo preciso del movimento è, infatti, quello di colpire la diffusa e onnipervasiva catalogazione dei generi testuali (come, ad esempio, saggio, articolo, lettera, romanzo, sonetto, monografia, tesi, poesia, ma anche generi minori, come la barzelletta, il proverbio, l’aforisma e, certamente, anche il necrologio – genere peraltro assai sottovalutato).
4. Non dovrebbe proprio stupire questa specifica attenzione per le questioni attinenti il linguaggio e la testualità. Sono ormai decenni che, soprattutto nell’ambito della filosofia continentale e in particolare del post-strutturalismo, è stata riservata una notevole attenzione proprio al linguaggio e ai suoi rapporti con le strutture di potere del tecno-sistema. Sul piano teorico queste tematiche sono state sviluppate soprattutto da Michel Foucault[3], il cui pensiero ha avuto ampia diffusione sulle due sponde dell’Atlantico. Sul piano pratico, sono ormai più di tre decenni che gli States (e di riverso anche l’Europa) sono percorsi in lungo e in largo dalle parole d’ordine del politically correct e, successivamente, del decisamente più avanzato crazily correct che, del precedente, è una versione potenziata, come si esprime Luca Ricolfi[4]. Anche se il crazily non sarebbe condiviso dai protagonisti stessi. È risaputo che la correctness ha progressivamente investito tutti i settori o quasi del linguaggio comune. L’uso di determinate qualificazioni o aggettivi, la denominazione di certe categorie di persone o di certe professioni, l’uso dei pronomi personali, o quant’altro. La persuasione di fondo è che attraverso il linguaggio, in modo silente e impercettibile, siano trasmessi e imposti certi rapporti di potere, e che ciò sia determinato principalmente: a) dalle strutture socio tecniche impersonali; b) dai gestori occulti della globalizzazione; c) dal capitalismo finanziario e d) dal potere maschile patriarcale. Forse è questo spiccato anti patriarcalismo che spiega il relativamente alto tasso di partecipazione dei fluidi a questo movimento.
5. Sembrava a un certo punto che la correctness avesse esaurito quasi ogni possibile obiettivo nel campo del linguaggio, avesse cioè raggiunto una specie di copertura totale. Sembrava cioè ormai essersi volta verso l’esaurimento. Pressoché tutto era stato smascherato, tutto era stato attaccato e demolito. O, per lo meno, tutti erano stati messi sul chi vive intorno alle insidie del linguaggio, come del resto recita anche il noto slogan “Stay Woke”. Ebbene, ci eravamo del tutto sbagliati. Sembrava, appunto. Non avevamo capito che il lavoro più importante restava ancora tutto da fare. Dobbiamo proprio al gruppo NNCBV (“Noi non ce la beviamo!”) di avere individuato un nuovo e forse risolutivo campo d’intervento. Come già anticipato, si tratta nientemeno che del campo della testualità.
Immagino che i miei dieci lettori stiano strabuzzando gli occhi. Cosa c’è che non va nella testualità? La testualità è dappertutto. Come faremmo se non ci fosse? È appena il caso di ricordare che, anche per diversi illustri filosofi, la testualità è stata riconosciuta come fondamentale. Un vero e proprio a priori. Ad esempio, per Jacques Derrida[5] «Non c’è nulla all’infuori del testo»[6]. In altri termini, il testo per Derrida è l’elemento ontologico che costituisce la realtà intera. In altri termini, noi stessi siamo testo. Se proprio tutto è testo, allora, dal punto di vista di NNCBV, il nemico sarebbe veramente dappertutto. Avercela con la testualità in fondo è come avercela col mondo intero. Se poi proprio noi siamo testo, a rigor di logica dovremmo avercela anche con noi stessi, ovvero con la nostra profonda natura testuale.
6. Posso confermare che il Movimento NNCBV si rende ben conto della portata radicale e globale delle proprie posizioni. Tuttavia gli esponenti del movimento non sembrano particolarmente attratti dall’aspetto metafisico della questione. Essi adottano, infatti, una teoria materialista dei fenomeni linguistici. Confessano candidamente di avere avuto trascorsi marxisti e di mantenere tuttora una forte ispirazione marxista. Ho sentito più d’uno di loro dichiarare fieramente: «Io sono marxista!». Questo nonostante abbiano “superato”, o del tutto ignorato, alcuni elementi fondamentali del marxismo, come, ad esempio, la classica suddivisione tra struttura e sovrastruttura.
Così sostengono che la testualità è oggi la minaccia per eccellenza, in quanto si trova effettivamente “alla radice” delle disuguaglianze (che loro chiamano “differenze”) che caratterizzano e governano la società post-industriale. La quale società si riduce poi a un mostruoso tecno-sistema. In particolare, secondo loro, sarebbe la vigente configurazione classificatoria della testualità a costituire una trama oppressiva che è utilizzata per giustificare e mantenere gli attuali rapporti di potere. Di qui, lo slogan «Noi non ce la beviamo!». Se è vero che – proprio come sostiene Derrida – non c’è nulla al di fuori del testo, allora è possibile che il nuovo movimento, sporgendosi anche ben oltre Marx, abbia finalmente individuato l’obiettivo risolutivo, che permetterà di intaccare gli attuali rapporti di potere a tutti i livelli. Un movimento totale dunque.
«Vasto programma!» verrebbe da dire a quelli come noi, proni invece da tempo a qualsiasi conformismo testuale e ormai abituati a rinunciare a ogni opposizione. Alle mie modeste e imbarazzate obiezioni sulla fattibilità di un simile totale intervento trasformativo, mi è stato risposto che si tratta di procedere per tappe e di confidare sul fatto che, se si dispone di una strategia corretta, e avendo tempo e energie da investire, allora «una tappa tira l’altra».
7. La prima tappa sarà dunque proprio quella di liberare il testo dalle gabbie della testualità. Si tratta di identificare quelle che sono comunemente considerate come le strutture oggettive della testualità e di mostrare come queste siano soltanto dei dispositivi autoritari al servizio del tecno-sistema imperante. È questa un’azione sistematica di smascheramento, che mette chiaramente in connessione le teorie NNCBV con le famose filosofie del sospetto. Il Movimento crede fermamente nel potere dello smascheramento. Poiché il potere della testualità si basa meramente sulla illusione – qui c’è senz’altro un richiamo a Jean Baudrillard[7] e al segno come merce – il suo smascheramento coinciderà con la sua immediata evaporazione. In realtà, il precursore vero di questa prospettiva – come sanno anche i liceali – è stato Ludwig Feuerbach[8]. Se si pensa poi ad alcune avanguardie artistiche del primo Novecento, si potrebbe anche ritenere che non ci sia granché di nuovo ma, in effetti, vedremo che non è proprio così.
8. La seconda tappa, decisamente più radicale, consisterà nel liberare il testo dalle costrizioni grammaticali, soprattutto dalle strutture sintattiche e ortografiche, da sempre percepite, più o meno da tutti, come un vincolo, una limitazione, e poi tipicamente tecnocratiche, patriarcali e maschiliste. Tutto ciò, oltretutto, darà modo di moltiplicare le capacità espressive e creative di ciascuno di noi. Quelle capacità che abbiamo dovuto progressivamente reprimere nel corso della nostra formazione personale, sui banchi di scuola e attraverso i media. Ciò avrà anche, cosa di non minor importanza, l’effetto di imbrogliare sistematicamente le AI che lavorano soprattutto con modelli linguistici LLM, a previsione probabilistica.
9. La terza fase, la fase finale, sarà la liberazione del testo da ogni tipo di rigidità, in modo da assicurare la più completa fluidità testuale e fluidità comunicativa. Ma perché mai proprio lafluidità dovrebbe diventare l’obiettivo finale? Occorre ricordare che la fluidità – solo ora stiamo cominciando a capirlo pienamente – è una delle fondamentali implicazioni delle numerose filosofie della differenza che hanno caratterizzato per lo meno gli ultimi due secoli. Qui, a sentir queste parole, confesso di avere accusato qualche defaillance, poiché mi sono ricordato, con un profondo gulp, dei miei ripetuti, ma vani, tentativi di leggere Deleuze[9]. Non sono mai riuscito ad andare oltre le venti pagine. Limiti miei.
10. Mi spiegano così che è ormai diventato sempre più chiaro che ci sono differenze buone e differenze cattive. Le differenze dicotomiche non sono vere differenze. Sono imposte dal sistema, fanno parte di un ordine estraneo che è sovrapposto alla realtà, la quale invece è, di per sé, continua e non facit saltus. Si tratta allora di andare oltre la dicotomia, per considerare spettri sempre più ampi di gradazioni di differenze, e ciò – se perseguito rigorosamente – alla fine non potrà che portare alla fluidità totale. Il discreto, in altri termini, si trasformerà in continuo. Ogni elemento del testo (le lettere, le maiuscole, gli spazi, le interpunzioni) sarà, così, libero di fluire a caso, senza alcuna preventiva prevedibilità. Ciò permetterà di produrre sequenze sempre nuove di elementi, massimamente eterogenei ma continui, che interagiranno gli uni con gli altri, mossi soprattutto non dal caso bensì dal desiderio. A questo punto, le differenze fluide si manifesteranno principalmente in base al ritmo, all’accentazione e alla musicalità. Solo la fluidità assoluta permetterà di sfuggire, una volta per tutte, all’ordine deterministico imposto dal sistema, dalla ragione strumentale, dai vincoli della tecnica e del potere maschile. E qui, la maggior parte del lavoro sarà stato fatto.
Va oltretutto ricordato – per chi se ne fosse scordato – che, intanto, è già in avanzata realizzazione un progetto del tutto analogo nel campo della sessualità, che è un altro baluardo del tecno-potere. Al mondo binary della forzatura, degli incasellamenti contro natura, si sta opponendo il nuovo mondo delle infinite gradazioni, rispondente al diritto di ciascuno di modulare all’infinito – e “infinito” è davvero termine impegnativo – senza pregiudizi, la propria identità sessuale. Certo, occorrerà un’infinità di diversi pronomi personali, e un controllo sulla corretta applicazione degli stessi, ma la cosa non è giudicata impossibile.
11. Si tratta di teorie indubbiamente ardimentose, e tuttavia decisamente affascinanti. L’esposizione fattane dai loro militanti è decisamente sciolta e senz’altro fluida. Si tratterebbe, insomma, di smuovere finalmente tutto ciò che era stato immobilizzato dalla logica deterministica del sistema governato dalla ragione strumentale dicotomica. Quella stessa ragione in ultima analisi generatrice del tecno-sistema. Non nascondo che si tratti di concezioni alquanto complesse, che richiedono una notevole capacità di comprensione profonda e di meditazione.
Tuttavia gli esponenti del Movimento, al di là delle loro propensioni underground, ritengono che il nucleo del loro messaggio sia veramente a disposizione di tutti. Si tratta di mettere da parte il pregiudizio intellettualistico, che è sempre dicotomico e sempre in agguato, e di lasciarsi guidare soprattutto dal desiderio. Concetto peraltro già citato. Mentre l’intelletto è una pura sovrastruttura, il desiderio costituisce la struttura profonda e basilare, rizomatica, di ogni soggetto. Quelli del movimento parlano, infatti, proprio di un soggetto desiderante. Il soggetto desiderante è ovunque ormai pesantemente inibito dai processi dicotomici. Si tratta di risvegliarlo, di richiamarlo alla luce. Per fare ciò bisogna procedere dall’interno, lasciare che il desiderio si manifesti. Bisogna sapersi ascoltare. La cosa importante è che ciascuno si liberi delle sovrastrutture dicotomiche normative e impari a seguire il proprio desiderio. Si tratta di mettere da parte ogni intellettualismo e di procedere seguendo la propria intuizione.
12. Di fronte a questo profluvio di teoria, in attesa di approfondire il quadro complessivo, ho pensato bene, nel mio piccolo, di concentrarmi sulla prima tappa prevista dal Movimento. Intorno alla quale cercherò di dire qualcosa di più preciso. Cosa significa liberare il testo dalle gabbie della testualità? Vediamo intanto come vien da loro descritta l’attuale situazione di oppressione. Oggi, principalmente in Occidente, la testualità è imprigionata in una logica di potere che la costringe in una serie di categorie dicotomiche del tutto artificiali. Si tratta dell’articolazione cognitiva del potere classificatorio, ben nota fin dagli studi di Durkheim e Mauss[10]. Classificazioni che riducono i gradi di libertà di chi scrive, costringendo anche chi legge ad avere a che fare per lo più con merce preconfezionata e del tutto prevedibile. Tanto che perfino i modelli LLM riescono a produrre testi perfettamente canonici. Merce imposta, sempre accompagnata da qualche tetra categorizzazione testuale.
13. Ma vediamo in pratica. L’oppressione comincia fin dalla prima infanzia. Ai bambini piccoli vien detto «Scrivi i pensierini», escludendo già, con ciò, che si possano scrivere dei versi liberi, o ci si possa mettere a cantare, o si possa più semplicemente picchiare sul banco con la matita, come farebbe ogni piccolo della specie umana, se fosse spinto soltanto dal puro desiderio. Ogni “pensierino”, poi, è fin dall’inizio strutturalmente determinato, deve cominciare con la lettera maiuscola e finire con un punto a capo. Vien detto loro poi di fare il riassunto dei pensierini. Il riassunto dovrebbe individuare un contenuto prefissato che addirittura si troverebbe già nel testo da riassumere. Ma in ogni testo, come vedremo, c’è sempre un’infinità di contenuti. A rigor di logica, se si riflette bene, anche solo seguendo Derrida, il riassunto è impossibile. Non c’è fuori testo. Anche la composizione del famoso tema prevede un sacco di limitazioni e poi, soprattutto, implica l’imposizione esterna di un enunciato. Il tema poi, notoriamente, risale alla Ratio Studiorum gesuitica, autentico supplizio della mente e del corpo. Qualunque tema, poi, presuppone un destinatario che è, in realtà, un’ipertrofica struttura giudicante cui ci si abitua a sottoporsi. La scuola, da questo punto di vista, svolge la funzione della principale agenzia di controllo e imposizione. Qualcuno la chiama dispositivo della testualità dominante.
14. Crescendo, le limitazioni testuali si moltiplicano, con una sempre maggiore imposizione di regole sempre più assurde e arbitrarie. Così si viene progressivamente costretti nelle stretture dei generi testuali più ufficiali: diario, lettera, telegramma (ora per fortuna un poco in disuso), articolo di giornale, relazione, tesina, saggio breve, SMS, saggio bibliografico, saggio critico, articolo di storia, articolo di attualità, tesi di laurea triennale, tesi di laurea quinquennale, catalogo delle navi, manuale della lavatrice, racconto, sonetto, romanzo. Chi più ne ha, più ne metta. E questa è solo una parte minima delle possibili articolazioni dei generi testuali. Ma questo bestiario dei generi testuali è costituito da un cumulo di prescrizioni arbitrarie.
L’articolo di giornale per esser tale deve avere un certo numero di battute, ma nessuno sa dire davvero quante. Il saggio breve, che si usava all’esame di Stato, doveva avere caratteristiche così vincolanti che erano lesive della libertà di chiunque. Si dovevano mette anche le note a piè di pagina. Meno male che ci ha pensato la ministra Fedeli a sopprimere un tale abominio nel 2019. La tesi di laurea triennale, poi, secondo Vera Gheno[11], potrebbe avere come minimo 15 pagine e come massimo 70. Chi lo ha detto? E se mi volessi laureare con una tesina di 14 pagine? O di 71? Ci sono dei saggi in Montaigne[12] – che pure di saggi se ne intendeva – che sono lunghi una pagina e mezza. Se andate poi a consultare i numerosi manuali di scrittura, che continuano a essere pubblicati a un ritmo incalzante, troverete una miriade di prescrizioni, peraltro spesso in disaccordo tra loro, che costituiscono altrettante intimidazioni nei confronti di chi si appresti anche solo a compilare una lista della spesa, la qual lista poi è forse il più negletto dei generi testuali, seppure tra i più indispensabili. Chiunque legga anche uno solo di questi manuali non può che sentirsi intimidito. Convinzione del movimento NNCBV è che questo sconcio debba finire. Si tratta allora di condurre un attacco al cuore dei generi testuali.
15. Sì, va bene, ma come si fa? Noi, che abbiamo avuto i nostri peccati di gioventù, di primo acchito saremmo tentati, sull’onda di un’antica simpatia per Feyerabend[13], di dire che «Anything goes!», qualsiasi cosa va bene. Sarebbe sufficiente una negazione estemporanea delle regole, ogniqualvolta si venga in contatto con esse. Solo alla fine di ciascuna intensa giornata di disseminazione della contestazione, il militante dedito alla causa NNCBV, potrebbe fare il bilancio del caos testuale che è riuscito a seminare. Si potrebbero fare anche delle gare. Pur accettando pienamente la prospettiva feyerabendiana, il Movimento crede tuttavia particolarmente in paio di specifiche strategie che andrò a illustrare.
16. Uno dei metodi proposti dal movimento NNCBV è il détournement, ossia la diversione. Non si tratta certo di una novità, poiché notoriamente è il recupero di un vecchio metodo lettrista e situazionista. La novità è che ora sarà applicato sistematicamente proprio ai generi testuali. Sono certo che i miei dieci lettori avranno piacere di avere qualche esempio. Potete finalmente mettere in versi, con pieno valore legale, il verbale della riunione di condominio. Potete conferire un risvolto poetico anche ai latrati rivolti alla luna, del vostro cane, dopo una accurata registrazione, masterizzazione e relativa diffusione su Facebook. Potete ordinare una pubblicità alla radio locale che usi lo stesso idioma delle lettere circolari dell’Agenzia delle entrate. Oppure un verbale della Polizia potrebbe cantare in musica: «Lei andava a cento all’ora per trovar la bimba sua!». Si potrà – finalmente – avere un trattato sul modello standard della fisica delle particelle scritto interamente in versi dialettali, e per giunta, finalmente, senza formule matematiche. Il principio generale del détournement è il seguente: poiché tutto è sempre collocato in un contesto (e ogni contesto è sempre vincolante e normativo, cioè autoritario), allora la mutazione inattesa del contesto, il cambiamento repentino del gioco linguistico, come direbbe Lyotard[14], rende palese la dipendenza dal contesto e, nello stesso tempo, produce espressioni del tuttonuove, nello spirito della fluidità creativa.
17. Ma non basta. Poiché abbiamo citato Derrida, tra i metodi di NNCBV non poteva mancare anche la decostruzione. Per definizione, secondo i decostruzionisti, un testo qualsiasi (si ricordi che, per Derrida, tutto è testo!) non dice mai quel che apparentemente sembra voler dire. Dice sempre altro. Un testo in sé non è mai quel che sembra, è sempre qualcos’altro. Dietro al testo, sempre il sospetto ci cova. Attraverso la déconstruction si tratta di spremere il testo e fargli tirar fuori quello che proditoriamente nasconde. Trasferito questo concetto nel campo dei generi testuali, avremo dei risultati sorprendenti. Un genere testuale non è mai quello che si presenta come tale. Un saggio bibliografico potrebbe essere in realtà – à la Bourdieu – un episodio dello scontro di potere tra fazioni accademiche. Un vocabolario della pronuncia, come il DOP, sarà decostruito e interpretato come un dispositivo (Gestell) heideggeriano. Un apparato cioè che è espressione della tecnica e che consegue dal nascondimento dell’essere. Coloro che sono costretti all’uso del DOP scontano, per intanto, di non essere di madre lingua tedesca – cosa gravissima – e, poi, non possono che palesare così la loro condizione di deiezione e il loro oblio dell’essere. La famosa lista della spesa va interpretata, in realtà, come una denuncia dell’impoverimento del ceto medio, oppure della pericolosa tendenza verso l’obesità di una fascia sempre più ampia della popolazione. Un saggio, qualunque sia il suo contenuto, non può che essere una potente espressione della vana gloria, inevitabile da parte dell’autore: poiché scrivere un vero saggio è impossibile, chi dichiara di averne scritto uno, per di più nell’incipit, non può che essere in perfetta malafede. L’autore, autoproclamatosi tale, poi non sa, non solo che il saggio è impossibile, ma non sa neppure che ormai, da decenni, è stata dichiarata anche la mort de l’auteur[15]. Ma la casistica è infinita, poiché ovunque ci sia genere testuale, lì non può esserci che decostruzione. Per questo non si può mai fare un riassunto: i significati del testo sono in realtà infiniti. Non c’è fuori testo.
18. Un bambino sfortunato crede di star facendo un tema in classe, in realtà la sua è la denuncia di una violenza subita in famiglia. Senza decostruzione, la sua denuncia non sarebbe neanche recepita. La sequenza degli SMS sul telefonino è in realtà qualcosa di ben diverso da quel che comunemente si pensa. Si tratta, infatti, di un vero e proprio testo narrativo, di grande spessore e complessità, da fare invidia a cose come I fratelli Karamazov – si sa che la prosaica vita vera, con i suoi dettagli minimalisti ma autentici, è in grado di fare impallidire la migliore fiction. Gli scontrini del supermercato, opportunamente raccolti e trattati, costituiscono dei realistici saggi di scienza economica. In ogni caso, è la univocità della forma testuale che deve essere messa in gioco. Deve essere smascherata nella sua impossibilità. Attraverso il détournement e la deconstruction si tratta allora di rompere i confini presuntuosamente certi della testualità, mostrare coram populo le strutture di potere ovunque nascoste del pensiero unico. Solo lo smascheramento può dissolvere l’illusione costantemente messa e mantenuta in scena dal tecno-sistema.
19. Ecco che, allora, nessuno degli ingenui beoti che usano allegramente e spensieratamente le consuete classificazioni dei generi testuali, quelli dei vari manuali su “come si scrive”, può più sentirsi veramente al sicuro. Non appena si pubblica qualcosa, ci si espone continuamente agli attacchi di guerriglia linguistica dei NNCBV. Mi permetto di ricordare che uno dei primi a parlare di agonismo linguistico è stato proprio Lyotard. Ci si espone anche perché, in effetti, un qualsiasi tentativo di definizione dei generi testuali – agli occhi del Movimento – non può che rivelare l’impossibilità oggettiva di portare a termine la consegna. Questo per il motivo banale, appena visto, che ogni testo non è mai quello che dice di essere. E gli esponenti del Movimento NNCBV si impegnano a farlo notare con i loro interventi estemporanei, a sorpresa, talvolta anche necessariamente cattivi. Ma un po’ di guerriglia violenta è indispensabile, se vuoi davvero cambiare la situazione e salvare la libertà di espressione di tutti noi.
20. In queste operazioni di guerriglia linguistica, i NNCBV fanno grande uso di un espediente che ha una lunga storia filosofica alle spalle: l’ironia. Non certo quella di Socrate, che non credeva neanche alla scrittura, bensì preferibilmente quella di Rorty[16]. L’ironia rortiana non è quella dell’ingenuo che cerca la verità, come Socrate, bensì quella di chi ha capito com’è fatto davvero il mondo. Di chi si è finalmente pacificato col problema della verità, ammettendo che esistono mille verità, che ciascuno ha la sua verità, per cui possiamo benissimo stare in un mondo di tante verità che si equivalgono, oppure anche del tutto senza verità. Questo però è possibile purché ci mostriamo sempre bene educati e tolleranti. E pratichiamo la solidarietà. Non dovrebbe sfuggire al lettore la stretta parentela con l’ironismo rortiano del rifiuto delle dicotomie e delle classificazioni da parte del Movimento. Nonché la parentela stretta tra le mille verità e le infinite differenze fluide che costituiscono il mondo. Del resto, saper stare agevolmente senza punti fermi è la vera profonda caratteristica del postmoderno.
21. Credi di avere scritto un articolo di giornale? Sei un illuso, perché hai sbarellato sulla lunghezza, manca la descrizione completa di un fatto e c’è in mezzo una figura retorica inappropriata, inaccettabile in un articolo del genere. Il titolo poi non va bene. E poi il giornale su cui scrivi non è veramente un giornale. Come fai a sapere che un giornale è proprio un giornale? Insomma, scrivere un articolo di giornale vero è impossibile. Credi di avere scritto un racconto? Ma cosa è davvero un racconto, che requisito deve avere per esser tale secondo le regole? Nessun racconto sarà mai davvero esaustivo dei precetti testuali. Credi di avere scritto un saggio? Povero illuso. Il tuo saggio ha in realtà la stessa struttura sequenziale (cioè, tanti orrendi capoversi numerati!) della lista della spesa. Credi di star facendo della satira? Niente di più sbagliato, la tua non è satira, hai solo prodotto una elementare serissima descrizione di persone e comportamenti che hai appena incontrato nel piatto mondo ordinario. Hai tenuto una relazione? Ma come facciamo a sapere che si trattava proprio di una relazione, quando hai speso metà del tempo a divagare sul significato di un solo concetto? Perché ci sia una relazione, ci dovrebbe essere un contenuto, ma si dimostra facilmente che, essendo i contenuti infiniti, non ci può essere alcun contenuto prevalente. Dunque o hai relazionato su tutto, cosa impossibile, oppure su niente, cosa del tutto inutile. E poi, qual è il pubblico minimo perché si possa dire di avere “tenuto una relazione”? Su quest’ultimo punto ci viene in mente il famoso argomento del sorite, ben noto ai liceali di un tempo.
Insomma, di fronte alle solerti, puntuali, acute e ironiche (seppur non sempre bene educate, solidali e tolleranti) contestazioni di NNCBV, qualunque definizione darai del tuo testo sarà considerata pretestuosa, imperfetta, inattendibile e, dunque, prova ultimativa che i generi testuali sono soltanto imposizioni arbitrare del potere e del patriarcato. Se tu dovessi perseverare nelle tue ingenue convinzioni, saresti additato al pubblico ludibrio come servo del potere. Servo così stupido da essere perfino inconsapevole. Così la derisione collettiva (altrimenti detta gogna testuale) incombe sugli ingenui praticanti delle dicotomie testuali e delle loro varie pretese impossibili classificazioni autoritarie. Colpiscine uno, per educarne cento!
22. Ai miei dieci lettori verrà tuttavia da domandarsi: «Che fine farà allora il contenuto testuale?». È abbastanza chiaro che le provocazioni del Movimento mettono in primo piano l’elemento formale ed evitano di concentrarsi sul contenuto del testo. É questa una questione davvero non secondaria. Secondo NNCBV, prima di pensare al contenuto eventuale, si tratta di vedere sempre se la forma è autentica. Ma poiché nessuna forma può essere davvero autentica, per definizione, allora a considerare il contenuto non si arriverà mai. E questa è senz’altro una conseguenza consapevolmente voluta dal Movimento. Liberare il testo dalla sua forma significa anche liberarsi dalla schiavitù del contenuto. Diciamolo pure: «Il contenuto è una roba da vecchi!». Una roba da Boomer. In effetti, il contenuto non è certo la principale preoccupazione del Movimento. Il Movimento, a quanto ci è parso di capire, è di fatto del tutto indifferente rispetto ai contenuti. Liberati finalmente dalla forma, i contenuti divenuti privi di forma saranno abbandonati al loro destino. Al loro posto, si lascerà spazio a una benevola e gratuita ironia rortiana nei confronti di qualsiasi contenuto. Del resto, la fluidità espressiva, mossa dal desiderio, produrrà contenuti fluidi sempre nuovi e sarà così del tutto inutile soffermarsi su qualsiasi contenuto particolare. I contenuti di ieri, oggi sono già scaduti, da dimenticare o da buttare.
23. Dopo queste lunghe argomentazioni e spiegazioni, son rimasto quasi senza parole. Di stucco. E ho fatto un altro paio di gulp. Devo dire che, per quanto provocatoriamente radicale, il Movimento sembra possedere una base teorica alquanto lucida e consapevole, ben più di altri movimenti similari. Una base teorica difficilmente attaccabile. Impossibile da attaccare. Anche perché attaccare le loro teorie significherebbe attaccare, più o meno, tutta la filosofia continentale degli ultimi secoli. Naturalmente, poi, è innegabile che la loro pratica sia un’immediata conseguenza della teoria. Qui, veramente, la filosofia si capovolge e diventa pratica per trasformare finalmente il mondo.
24. Tuttavia devo ancora riferire di un piccolo dettaglio di costume che forse getta qualche ombra sulla lucidità della teoria e, soprattutto, sulla pratica del movimento NNCBV. Visto che la realtà, come dice Derrida, è interamente testuale, “Non c’è fuori testo”, ne consegue che l’impegno dei militanti fluidi è piuttosto pesante e questo fatto – si ammetterà – genera un certo stress psicologico. Oltretutto, la loro negazione pratica dei generi testuali crea un serio disturbo alla loro stessa vita sociale – che, al di fuori del gruppo di riferimento, è praticamente inesistente.
Allora, forse proprio per questo stress, accade che, a ogni fine stagione, quando altrove sarebbe il momento dei saldi, i militanti del gruppo celebrino, ahimè, la loro settimana del testo. Si tratta di una specie di rito carnevalesco che ricorda ai militanti, in forma decisamente orgiastica, l’altro lato del mondo, l’altra faccia della luna. Nientemeno che la testualità proibita. Questo forse per mantenere una qualche consapevolezza di quanto viene combattuto e represso tutti gli altri giorni. Freud avrebbe forse parlato di un ritorno del represso. L’antropologia culturale, su questo costume, avrebbe notevoli materiali su cui indagare.
25. Si tratta di un rituale da loro chiamato festa della testualità totemica, dove i militanti – in collegamento webcam – indossano ciascuno la maschera di uno dei generi testuali tanto esecrati, tanto considerati come impossibili. E così mascherati, si danno a produrre, tra lazzi e schiamazzi, coriandoli e trombette, in forma esagerata e compulsiva, barzellette, temi in classe, articoli di giornale, poesie, saggi e saggi brevi, tesi triennali, iscrizioni sepolcrali, necrologi e quant’altro. Fanno anche i riassunti! Insomma, una specie di ebbro mondo alla rovescia, dove Penelope disfa la tela che ha appena tessuto, dove potrete vedere (se sarete stati fortunati ad avere l’accesso, attraverso Facebook e i social media) i duri militanti, ora mascherati come satiri, diventare i più ortodossi cultori delle distinzioni tra i generi testuali. Li vedrete cioè intenti a tracciare e mantenere enfaticamente le prima tanto odiate distinzioni dicotomiche. Ma questo accade solo per pochi giorni. Tornando alla normalità della vita reale, il mondo illusorio “totemico” appena creato si dissolve e quegli stessi video e materiali prodotti saranno accuratamente riposti e conservati per il carnevale della stagione successiva. Quindi – un avviso ai miei dieci lettori – dovete stare bene attenti. Se su qualche social vi imbatterete in qualche esponente NNCBV, dovrete per prima cosa cercare di capire se si tratta del normale periodo di attività oppure di quello dei saldi di fine stagione. Personalmente, mi hanno fatto venire in mente gli australiani descritti da Durkheim[17], i quali per tutto l’anno si proibiscono di mangiare l’animale totemico, ma poi, nel giorno della festa, ne fanno una scorpacciata.
26. Comunque – nessuno è perfetto – lunga vita a Noi non ce la beviamo! Si tratta senz’altro di un Movimento nostrano che non ha nulla da invidiare alla cancel culture, a Me Too, a BLM, a Stay Woke o al più noto onnicomprensivo politically correct, o anche magari crazily correct. Resta un piccolo problema, ma solo per me, umile cronista di un incontro casuale durante una vacanza estiva. Dopo le sollecitazioni del Movimento, non oso proprio più asserire cosa sia questa cosa che ho appena scritto per i miei dieci lettori. E quindi mi trovo in estrema difficoltà, anche soltanto a trovare un titolo. Satira? Barzelletta? Manuale della lavatrice? Cronaca filosofica? Diario di viaggio? Articolo di giornale? Batracomiomachia? Trattato di morale? Non-fiction? Paradosso? Racconto di fantascienza? Flusso di coscienza? Saggio à la Montaigne? Saggio di linguistica? Racconto breve? Sogno di una notte di mezza estate? Così, spinto dal dubbio, mi è venuto in mente che, per schivare le giuste rampogne del Movimento NNCBV, non mi restava che nascondermi dietro a una nota tattica surrealista[18]. Tanto per riuscire a essere politically correct almeno una volta.
Note
[1] Se “questo non è un saggio”, ne deriva che anche l’autore non è un autore. La cosa non è del tutto impossibile. Abbiamo ben presente la sofisticata problematica relativa alla morte dell’autore (a partire da Roland Barthes, 1984,“La mort de l’auteur”, LesÉditionsduSeuil, Paris. Tr. it.: “La morte dell’autore”, in Barthes, Roland (a cura di), Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino, 1988). Infatti, il non autore di questo non saggio non ci ha messo proprio niente di suo. Si è limitato a guardarsi intorno, a osservare qualche personaggio ridicolo dei nostri tempi e a rubacchiare qualche spunto, qua e là, nella letteratura che va per la maggiore e che sta friggendo le menti delle vecchie e nuove generazioni. Nella stesura di questo non saggio il non autore non si è servito di alcuno strumento di AI, ovvero di intelligenza artificiale. Anche perché, qualora lo avesse fatto, si sarebbe trattato piuttosto di IA, ovvero di Ignoranza Artificiale. Pubblicato su Finestre rotteil 31 agosto 2025.
[2]Non binary è un neologismo che si sta diffondendo sempre più, e sta a contraddistinguere coloro che rifiutano di stare nella strettoia delle dicotomie e delle classificazioni.
[3] Michel Foucault (1926-1984). Qualificato come filosofo e (ahimè) sociologo francese.
[4] Cfr.: 2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.
[5] Jacques Derrida (1930-2004), filosofo francese post strutturalista, inventore del decostruzionismo.
[6] La frase che molti citano suona come “Non c’è fuori-testo” e si trova alla pag. 219 in: 1967, Derrida, Jacques, De la grammatologie, LesÉditions de Minuit, Paris. Tr. it.: Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1998.
[7] Ci si riferisce a Jean Baudrillard (1929-2007), sociologo, filosofo, politologo e saggista francese.
[8] Ludwig Feuerbach (1804-1872), filosofo della sinistra hegeliana.
[9] Mi riferisco al filosofo francese post – strutturalista Gilles Deleuze (1925-1995).
[10] Mi riferisco ovviamente al noto saggio: 1903 Durkheim, Émile&Mauss, Marcel, “De quelquesformesprimitives de classification”, in L’annéesociologique, n. 6, 1903. Tr. it.: “Alcune forme primitive di classificazione”, in Durkheim, Émile&Mauss, Marcel (a cura di), Sociologia e antropologia, Melita, La Spezia, 1981.
[11] Nota esperta di linguistica, peraltro aperta a molte innovazioni, come la “schwa”. Dice la Gheno: «In alcuni atenei [la lunghezza ndr] è di 20 pagine, con una tolleranza di più o meno 5 pagine; ma di solito, se non è diversamente specificato, la lunghezza attesa è compresa tra le 35 e le 70 pagine». Cfr.: 2019, Gheno, Vera, La tesi di laurea, Zanichelli, Bologna (pag. 8). Questo mio non saggio ammonta in tutto a circa 39 000 battute. A 2000 battute per pagina, potrei già prendere, da qualche parte, una non laurea triennale!
[12] Michel de Montaigne (1533-1592). Celebre autore dei Saggi. Cfr.: 1986 De Montaigne, Michel, Saggi (a cura di Virginio Enrico), Mondadori, Milano. [1580-1588]. C’è una traduzione nuova da Bompiani.
[13] Mi riferisco a Paul Feyerabend (1919-1994), noto epistemologo che ha sostenuto l’anarchismo metodologico. La sua posizione è davvero sottile, poiché l’anarchismo metodologico rende del tutto superflua l’epistemologia stessa.
[14] Francois Lyotard (1924-1998) filosofo francese post-strutturalista, considerato come il principale esponente del postmodernismo filosofico.
[16] Il riferimento va a Richard Rorty (19341-2007), filosofo neo pragmatista americano, assai vicino al postmodernismo.
[17] Mi riferisco a: 1942 Durkheim, Émile, Lesformesélémentaires de la vie religieuse. Le systémetotémique en Australie, Alcan, Paris. Tr. it.: Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton, Roma, 1973.
[18] Mi riferisco a René Magritte (1898-1967) e alla lettura anti fondazionale e relativista che Michel Foucault ha fatto della di lui opera titolata “Ceci n’est pas une pipe”.
1. Ci sono[2] dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti, ma che non vengono mai esplicitamente portati all’attenzione e fatti oggetto di analisi. Perciò restano conoscenza implicita, senza alcuna riflessione[3]. Questi fenomeni corrispondono un po’ a ciò che Raffaele Simone ha chiamato fenomeni vaghi[4]. Solo in particolari occasioni, in seguito a qualche evento critico, pubblico o privato, ci si rende conto – “si prende coscienza”, si diceva una volta – dell’esistenza di qualcosa di nuovo, anche se magari di assai vecchio nella sostanza. Solo a questo punto, il fenomeno vago può essere circoscritto, diventa familiare, può avere una sua denominazione, può essere analizzato, magari anche compreso nella sua portata.
2. Un caso tipico è quello dell’attuale deriva culturale della sinistra italiana[5]. Intendo qui la sinistra come categoria sociologica, la gente della sinistra o il popolo della sinistra. Si tratta di un fenomeno da tempo collocato sotto gli occhi di tutti, pur non avendo mai avuto alcuna ufficializzazione. Fenomeno vago, appunto. Deriva culturale non vuol dire semplicemente che si perdono le elezioni, come peraltro avviene da un pezzo. Non sto parlando neanche di un eventuale tradimento dei principi e valori della sinistra da parte dei suoi dirigenti, oppure di un abbandono da parte dei partiti della sinistra del proprio popolo. Questi sono fatti che, in qualche misura, sono stati ampiamente rilevati e commentati, come ha fatto, ad esempio, Luca Ricolfi[6]. Io stesso, nel mio piccolo, ho scritto noiosi articoli e saggi in merito, anche se a un certo punto mi sono stancato, visti gli scarsi riscontri. Deriva culturale qui fa piuttosto riferimento alla evaporazione inesorabile della cultura politica della sinistra, come era diffusa e radicata in gran parte del Paese. Sto parlando proprio di un degrado della materia prima, cioè di un degrado intrinseco allo stesso popolo della sinistra. In breve: non siamo più quello che eravamo una volta.
3. Vorrei trattare qui, insomma, della condizione materiale e morale del popolo della sinistra. È una questione intorno alla quale ho sempre creduto, magari a torto, di saperne abbastanza. Sono infatti cresciuto in un ambiente di sinistra, in mezzo a tanti altri come me, in mezzo ai cosiddetti compagni. La qualifica di “compagni” in realtà non ha mai significato un granché, poiché, anche tra i compagni, quelle che emergevano erano sempre le differenze: teorie, ideologie, punti di vista, “sensibilità”, programmi politici e così via. Anche differenze di atteggiamento. Differenze che spesso portavano a rotture, frammentazioni, troncatura di amicizie di rapporti. C’erano anche le invidie e le antipatie personali. C’erano poi anche i furbetti che riuscivano sempre a farsi trovare nel posto giusto, nonostante i tempi cangianti e le incertezze del momento. Tuttavia, al di là della sempre difficile navigazione, al di là dei diversi schieramenti e contrasti, restava sempre la vaga percezione che tutte quelle persone avessero un quid comune, magari davvero assai tenue, capace tuttavia di accomunare, di distinguere dal resto. Di fare la differenza. Si trattava dell’individuazione di un noi collettivo. Un lievissimo comune sentire che si poteva appena avvertire e nel quale si poteva tuttavia confidare. Che magari sarebbe senz’altro emerso, nell’analisi di un fatto politico, nazionale o internazionale, oppure in un momento critico dello scontro politico, in una campagna elettorale importante. Ma sarebbe emerso anche discutendo di libri, oppure discutendo di cinema. Oppure in occasione di una raccolta di firme per qualche iniziativa. Anche la scelta circa la modalità di passare il fine settimana, o di fare le vacanze estive, poteva avere un implicito sottofondo comune. Anche certi hobby avevano un che di distintivo.
4. Su questi vaghi elementi, invero assai indefiniti, superficiali, occasionali ed evanescenti, si basava un senso del noi, un sentimento identitario che derivava da una scelta compiuta, implicita ma anche consapevole, di far parte e di voler continuare a far parte di un certo Mondo[7]. Un Mondo sentito, più intuito che ragionato, ma che per questo non era meno reale[8]. Anche perché gli altri “mondi” erano considerati negativi fuori ogni discussione, erano considerati come dei perfetti disvalori. E, bene o male, questo senso del noi era davvero diffuso. Percepito e condiviso da un numero davvero ampio di persone. Quando c’era qualche iniziativa comune, quelle iniziative davvero basilari, qualificanti, quelle cui non si poteva mancare, ci guardavamo intorno soddisfatti: eravamo comunque in tanti. Magari anche intimamente diversi, ma tanti. Naturalmente qui si sta parlando soprattutto dei tempi andati, del fantastico Mondo dei Boomer[9] e della loro cultura politica. Costoro hanno una descrizione sociologica abbastanza precisa. Sono i nati tra il 1946 e il 1964 e sono stati così chiamati in riferimento al boom demografico (baby boom) indotto dalla fine della guerra[10]. Si tratta oggi della generazione più anziana ancora vivente, che si è particolarmente distinta per una sua specifica cultura politica e per uno straordinario coinvolgimento attivo nelle vicende politiche nazionali e internazionali. Le culture politiche precedenti sono ormai in gran parte trapassate, ahimè, con i loro stessi portatori fisici, e quelle successive, come dirò, costituiscono, proprio sul piano della cultura politica, un notevole punto interrogativo.
5. Premetto qui due righe di teoria sulle questioni generazionali. La nozione sociologica di generazione è incentrata intorno all’esperienza collettiva di un gruppo di età[11]. In questo senso, gli appartenenti a una generazione, accanto al possesso di analoghe caratteristiche di tipo anagrafico, economico e sociale, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati da quella esperienza stessa. Si fa dunque riferimento a qualche tipo di esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo chi l’ha compiuta. Esperienze che abbiano avuto un profondo carattere formativo ed educativo. Si suppone che queste modifiche rimangano in qualche misura come permanenti, sia pure in forma compatibile con lo svolgersi della vita ulteriore. Anzi, queste modifiche dovrebbero costituire un background capace di determinare un comune modo di reagire di quella generazione alle più diverse occorrenze della vita pubblica e privata.
6. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché hanno condiviso una qualche comune esperienza, hanno anche avuto modo di sviluppare una loro auto rappresentazione (una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una loro propria memoria collettiva). Esse, inoltre, proprio in quanto entità bene individuabili, grazie alle caratteristiche che hanno maturato, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle narrazioni di altri soggetti (altre generazioni, i media, la letteratura o talune ideologie). Le generazioni dunque sono dei costrutti sociali, ma sono ben lungi dall’essere arbitrarie, poiché sono un prodotto preciso della storia, dell’azione collettiva e della memoria collettiva.
Se è vera la nostra ipotesi, che sia cioè in corso, o sia addirittura in fase avanzata, una progressiva deriva culturale del popolo della sinistra, allora questa deriva culturale dovrebbe, come minimo, essere fatta risalire indietro nel tempo, a cominciare proprio dai Boomer e dovrebbe coinvolgere progressivamente anche le generazioni successive. Naturalmente si tratta, in questa ricognizione, di prendere in considerazione anche le eventuali continuità o discontinuità nella trasmissione culturale tra le generazioni.
7. Un dato di fatto, per intanto, è che il senso del noi dei Boomer aveva ancora un carattere trans generazionale. C’erano gli anziani (tecnicamente ora definiti come Silents[12]) da cui si poteva sempre imparare qualcosa. C’era una tensione spasmodica nel tentativo di trovare tra loro delle figure guida, dei riferimenti di valore. Dei Maestri[13]. C’erano poi i più giovani di noi, ai quali ci sembrava di avere qualcosa di importante da trasmettere. C’era poi chi aveva all’attivo esperienze significative e magari esemplari da proporre. Quelli della Resistenza, quelli della nuova sinistra dei primi anni Sessanta, come ad esempio quelli dei Quaderni Rossi. C’era il mondo degli intellettuali, ampio, variegato e diffuso anche a livello locale, ma c’erano anche quelli del sindacato e c’era il vasto mondo del lavoro. E poi c’eravamo noi, gli studenti, che eravamo affacciati su questo Mondo. C’erano quelli del volontariato. C’erano poi gli iscritti e i militanti di numerose organizzazioni single issue. Oppure anche soltanto quelli che non sono mai riusciti a prendere una tessera, nemmeno una volta. Quelli, cioè, impietosamente definiti come cani sciolti. Erano sciolti ma avevano un tasso elevato di coinvolgimento e di partecipazione politica.
8. La sinistra, dunque, aveva allora un profilo nettamente pluri generazionale. La cultura politica, le conoscenze, i principi e i valori, le esperienze si cumulavano e si trasmettevano. E la sinistra pareva comunque in crescita. A un certo punto però è subentrata quella che può essere definita come una rottura generazionale. Non mi riferisco tanto alla Generazione X, ancora legata ai postumi del Sessantotto e alle complesse problematiche del riflusso, e peraltro ancora estranea alle nuove tecnologie, bensì soprattutto alla Generazione Y, quelli che sono detti anche Millenial. È quella la generazione che ha, di fatto, accantonato il patrimonio delle generazioni precedenti. Sono coloro che hanno cercato, attivamente e consapevolmente, di costruire una cultura politica completamente diversa, che doveva essere nuova e alternativa. Una politica che fosse antipolitica, di movimento, caratterizzata da un attivismo pragmatico e anti ideologico. Il che finiva per concretizzarsi in cose strane, come il non partito, il non statuto, il mandato imperativo e, soprattutto, il rifiuto della distinzione tra destra e sinistra. La politica, per intenderci, del Vaffa, che poi ha avuto la sua più rilevante espressione nel movimento di Grillo. Il Vaffa non si riferiva soltanto ai santuari del potere, ma anche all’intera cultura della sinistra precedente. Non a caso, come manifestazione estrema del nuovo che avanzava, c’era l’infrastruttura della rete e la famosa piattaforma di Casaleggio, che ebbe poi degli sviluppi tragicomici[14]. Sono loro i veri e definitivi sciolti dal giuramento. Direi, sciolti da ogni giuramento. Con loro la deriva stava cominciando a divenire tangibile. Tutto questo mentre il PD cercava di raccattare confusamente le frattaglie della vecchia destra (la DC) e della vecchia sinistra (il PCI), in una nuova cultura politica detta “democratica” che, in realtà, non è mai nata.
9. Abbiamo allora cominciato a capire che i più giovani, tra quelli delle generazioni successive, non avevano più quell’impercettibile senso del noi di cui s’è detto. Se ne infischiavano del senso del noi, del magico quid che a lungo aveva unito le nostre generazioni e le altre precedenti. Non consideravano la cultura cumulativa delle generazioni, guardavano principalmente al presente. Il passato e il futuro cominciavano a cadere fuori dal campo di attenzione. Era anche quello un fenomeno vago che avrebbe dovuto allarmare, ma che è stato digerito senza troppo scompiglio. Ma non è di questi esiti che intendo occuparmi. M’interessa inseguire che fine ha fatto quel senso del noi che era così diffuso tra i Boomer, che ci ha segnato abbastanza profondamente e che, bene o male, ha caratterizzato una intera stagione politica del nostro Paese. L’ultima stagione che ha visto di fatto, nel bene o nel male, una forte politicizzazione della sinistra.
10. Dicevo che non siamo più quelli di una volta. C’è oggi, sotto il naso di tutti, un fenomeno emergente, proprio tra i vecchi “compagni”, quelli per lo meno che, compatibilmente con l’età, sono ancora attivi, che ancora leggono, scrivono, discutono, partecipano, ciascuno a suo modo. E forse anche tra coloro della Generazione X – i cosiddetti quarantenni – che stanno faticosamente prendendo in mano quel che resta della politica. Questo fenomeno è il senso di estraneità (cioè l’esatto opposto del senso del noi) che emerge subito, ogni qualvolta si cominci appena ad accennare a qualche tipo di questione che abbia, anche solo vagamente, a che fare con la politica e la cultura, vuoi locale, nazionale o internazionale. In altri termini, non ci si capisce proprio più. Il magico quid è evaporato. È andato a ramengo. Quello che una volta era stato per noi Boomer il “Mondo della sinistra” è diventato un mondo di estranei. Determinando così, appunto, la prospettiva demartiniana della fine di un Mondo. Tralascio qui, per motivi di spazio, le implicazioni psicopatologiche che De Martino attribuiva alla sua “fine del mondo”. Sarebbe interessante, in proposito, trattare ampiamente della nozione di de-storicizzazione. Chi fosse interessato, può ricorrere al mio saggio già citato nella nota n. 7.
11. La cultura politica delle fasce più anziane, come i Boomer, è oggi decisamente cambiata. Lo scambio politico tipico, quando c’è, è configurato come una serie di chiacchiere superficiali[15] unite a una mitragliata di slogan sempre più brevi, emozionalmente carichi e dal carattere intransigente. L’impressione è che i pochi Boomer che sono rimasti attivi sulla scena della cultura politica della sinistra credano per lo più di esser giunti a conclusioni definitive. Solo che queste conclusione sono tutte diverse, non coincidono proprio. E queste conclusioni le buttano fuori, le eruttano così come viene, senza alcuna voglia di esaminare e discutere le conclusioni altrui. Certezze ormai consolidate, ma anche fossilizzate e incancrenite. Al posto di qualsiasi attitudine alla riflessione e alla discussione, sembra essersi sostituito l’impulso a produrre una espressione qualsiasi, urgente e necessaria. Alla stregua della classica parresia[16]. È come se le complesse articolazioni della vecchia cultura politica avessero lasciato il posto a poche enunciazioni schematiche. Le antiche disparità di opinione sono ricondotte a poche stanche formule dogmatiche, del tutto rituali. Ciò rende gli attuali consessi dei Boomer ormai sempre più carichi di posizioni schematiche, di noiose ripetizioni e di quel senso di estraneità reciproca di cui si diceva.
12. Questa deriva incombente verso la fossilizzazione non facilita il rapporto con le altre generazioni, anzi lo rende quasi impossibile. La cultura politica dei Boomer sopravvissuti appare oggi, agli occhi delle generazioni successive, del tutto fuori luogo. Notoriamente, la qualifica di Boomer è sempre più usata in forma spregiativa. Essa è salita alla ribalta, e ha fatto il giro del mondo, in una data precisa. Si tratta del novembre 2019, quando il famoso motto “OK Boomer!” è stato usato, nel Parlamento neozelandese, come qualificazione negativa, da una deputata venticinquenne contro un altro deputato, peraltro della Generazione X. Il gergo dispregiativo anti Boomer, dicono le cronache, era tuttavia già in circolazione sui media da almeno una decina di anni.
Così, dopo esser stati a lungo ignorati, i Boomer da almeno un decennio stanno cominciando a divenire – come generazione – oggetto di attenzione da parte delle altre nuove generazioni, che tendono sempre più a considerarli come un blocco residuale dotato di alcuni tratti comuni eminentemente negativi e inopportuni. In altri termini, i Boomer, da soggetti di una complessa e articolata cultura politica quali erano, diventano ora principalmente oggetti di contumelie e invettive. Qui non si tratta solo più di una rottura generazionale, un mancato passaggio della cultura politica cumulata, bensì di un conflitto generazionale che si sta facendo sempre più palese e aperto. I Millenials e la Generazione Z sembrano sempre più infastiditi anche solo dalla presenza dei Boomer[17]. Il conflitto è ovunque sempre più evidente. Non c’è, a sinistra, una sola formazione politico culturale che sia in grado di costituire uno spazio comune di discorso tra i Boomer e le successive generazioni.
13. Nell’ambito della sinistra, ci troviamo dunque di fronte a un fenomeno di estraneità generalizzata, oppure, se vogliamo, a una doppia estraneità. Anzitutto quella ormai ricorrente entro la generazione dei Boomer ancora in attività e poi, secondariamente, anche e soprattutto, quella tra i Boomer e le generazioni successive. Quest’ultima sta prendendo l’aspetto non solo di una rottura ma anche di un vero e proprio conflitto. La prospettiva di un conflitto delle generazioni più giovani contro i Boomer emerge in maniera abbastanza chiara e preoccupante nel lucido e corrosivo OK Millenials! di Brice Couturier[18]. Emerge anche, in forma assai preoccupante, in termini sociali ed economici, dall’analisi di Luca Ricolfi contenuta ne La società signorile di massa[19].
14. Il mio intento tuttavia è quello di caratterizzare soprattutto la deriva dal lato dei Boomer. Facciamo un esempio. Non amo parlare in pubblico delle mie esperienze personali, poiché credo che, in fin dei conti, siano del tutto irrilevanti. Ma questa volta, farò una piccola eccezione. Ho avuto modo di provare il senso di estraneità intra generazionale di cui sto parlando, qualche tempo fa, nel corso di una conversazione con una persona della mia stessa generazione, appartenente in qualche modo a quel Mondo comune, politico e culturale, di cui sto descrivendo e lamentando il progressivo e forse definitivo deterioramento. Stavamo discutendo dei fatti di Gaza, di Netanyahu e quant’altro. In quel contesto, essendomi pronunciato su alcune questioni, peraltro di dettaglio, mi sono sentito rivolgere l’epiteto di antisemita. La cosa mi ha dato un qualche fastidio, anche perché, alla mia età e con la mia storia alle spalle, quella era davvero la mia prima volta nei panni dell’antisemita.
15. Mi sono reso conto in quel frangente, in termini esistenziali più che intellettuali, della perfetta inutilità della discussione che stavo facendo. È proprio così, più o meno con una specie di intuizione, che i fenomeni vaghi diventano fatti reali. Il comune percorso generazionale e il senso del noi, il magico quid, non erano più sufficienti a trovare uno straccio di terreno di discorso comune, peraltro su una questione a proposito della quale ormai c’è una storiografia consolidata e una bibliografia enorme, oltre a innumerevoli prese di posizione di studiosi, intellettuali e opinion leader. Una questione oltretutto che, per quelli della mia generazione, esiste da sempre, fin da quando eravamo bambini. Insomma, mi trovavo esattamente come se il mio interlocutore, Boomer anch’esso, fosse un estraneo qualsiasi incontrato per caso, in treno o al bar. Esattamente come se il famoso quid non fosse mai esistito.
16. Ho citato questo fatterello perché mi pare emblematico e perfettamente generalizzabile. Nel campo di discorso della sinistra, soprattutto dal lato dei Boomer – ma la cosa vale certamente a maggior ragione anche per le generazioni successive – ormai, al posto di una esperienza formativa e costitutiva comune, al posto di una cultura politica cumulativa, ci sono solo più innumerevoli questioni divisive, che vengono “risolte” apostrofando l’altro come un nemico, rovesciandogli addosso le più improbabili accuse, utilizzando l’insulto e lo screditamento morale. Siamo diventati tanti piccoli fondamentalisti che, invece di studiare le questioni e di argomentare, si beano di aggiungere delle reazioni, come se fossimo costantemente su Facebook. O in un talk show permanente. Il termine reazione è perfetto, per qualificare questa modalità deteriorata e residuale di rapporto.
17. Si dice, in sede di psicologia sociale, che i social media avrebbero avuto l’effetto di produrre, nei loro utenti, un pensiero schematico e semplificato, oltre ad averli abituati ad avere reazioni emotive amplificate e di pancia. Ma i Boomer dovrebbero essere oggi quelli meno contagiati di tutti. Sono ormai gli unici, tra i rimasti ancor vivi, ad avere passato ben più di mezza vita senza computer, senza smartphone e senza social media. In più, il Movimento del Sessantotto aveva avuto, come sua caratteristica, l’impiego massiccio della parola scritta, dalle scritte sui muri fino all’interminabile serie degli opuscoli politici e degli articoli e saggi pubblicati nelle riviste. Passando attraverso una miriade di ciclostilati e fotocopie. Fino ai malloppi dei vari Maestri della teoria che circolavano come non mai. Ho esaminato in dettaglio questo aspetto della cultura dei Boomer nel mio saggio: Un Sessantotto gutemberghiano[20]. Tutto questo curricolo formativo è silenziosamente caduto nel dimenticatoio. Come non fosse mai esistito.
18. Era ovviamente da un bel po’ che questo senso di estraneità aveva pieno effetto, che era ormai onnipresente e si infilava più o meno in tutte le questioni. Più o meno in tutti i rapporti interpersonali. Ma sembravano sempre estraneità di volta in volta particolari, specifiche e occasionali. Estraneità di cui si prendeva magari atto, ma magari come “contraddizioni in seno al popolo”, per usare un frasario un po’ datato. Ora sembra proprio il caso di prender atto che sta sopravvenendo una estraneità generalizzata.
Bisogna riconoscere che, ben oltre alla questione palestinese, in effetti, veniamo da stagioni divisive davvero straordinarie. Vediamone alcune, a mo’ di esempio. La sarabanda delle scissioni avvenute intorno al PD e all’ineffabile Renzi. Il conflitto contro tutti del movimento del Vaffa, nato proprio entro la Generazione Y. Il senso di estraneità reciproca con i No-Vax, nato intorno alle discussioni sulla questione delle vaccinazioni. E più in generale intorno alla valutazione della scienza e della tecnologia. Oppure sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina. Uno degli argomenti più divisivi è ancora oggi costituito dalle cause della guerra tra Russia e Ucraina. La NATO poi è in assoluto uno degli argomenti più divisivi. La definizione di cosa sia il regime di Putin è un’altra questione altamente divisiva. Più o meno come era stata divisiva la questione intorno alla vera natura della Unione Sovietica, negli anni Venti e Trenta. Per non parlare delle questioni relative alla pace e alla guerra, con tutti gli annessi e connessi, tra cui la questione delle spese militari. Tutte le volte che parlo della democrazia, quella sostanziale, non quella formale, vedo intorno a me sguardi di pena e commiserazione. Per la maggior parte dei Boomer la democrazia era sempre stata “borghese” e sempre lo sarà! Meglio poi non parlare di magistratura, di legge elettorale, di regolamentazione dei partiti e dei sindacati. Mi dicono che anche nel movimento femminista ci sono oggi delle profonde spaccature.
19. Non parliamo poi ancora di Jobs Act e di questioni legate al mondo del lavoro e al ruolo del sindacato. Il recente Referendum del giugno 2025 ha visto profonde divisioni interne alla sinistra, come una valanga che nessuno più riesce a fermare[21]. Sulle questioni ambientali ci sono poi innumerevoli dissidi, come sulla cosiddetta democrazia diretta e sui beni comuni. Non parliamo poi dei diritti civili e del politically correct. Anche sulla immigrazione siamo riusciti a creare nemici e fronti contrapposti. Possiamo aggiungere anche le ricorrenze del calendario civile, con punte estreme il 25 aprile. Non parliamo poi dell’Europa. Non parliamo poi ancora dell’America e dell’Occidente, sempre colpevoli, secondo alcuni, di qualsiasi nefandezza. Si riesce anche a litigare, in campo filosofico, in maniera piuttosto irriducibile, sui principali filosofi degli ultimi tre o quattro secoli.
Insomma, ci ritroviamo divisi su tutto. Ripeto, su tutte queste questioni è del tutto legittimo esistano punti di vista diversi. Meno comprensibile è che non ci siano più chiavi interpretative minimamente condivise e che ormai nessuno abbia più voglia di dibattere, di studiare, e che le opposte fazioni si affrontino a colpi di insulti, condanne moralistiche e interdizioni perpetue. Ovviamente tutte queste questioni divisive rendono impossibile la formulazione di un qualsiasi programma elettorale progressista di sinistra. Tutto ciò, ovviamente, si è tradotto e si tradurrà in pessimi risultati elettorali. Il 2027 non è poi così lontano. Ma questo sembra non importare a nessuno. Gli effetti concreti della deriva culturale si sono visti nel 2022, quando la sinistra disunita ha fatto vincere la destra.
20. E qui vengo alla questione dell’Occidente senza pensiero, nella sua versione più idiosincrasica. Nel particulare cioè delle nostre vite e dei nostri rapporti quotidiani. Se appena si cerca di approfondire qualcuna delle questioni in gioco, ci si troverà di fronte sempre e soltanto a pezzi di ragionamenti, talvolta di senso comune, talvolta provenienti da epoche passate, talvolta raccattati sui social o presso qualche sito di riferimento di nicchia. Tutte le posizioni, anche le più strampalate, hanno oggi il loro sito di riferimento che coordina i loro adepti. Le analisi (che riguardano magari questioni di grande complessità) sono spesso ridotte all’osso. Spesso si tratta di semplificazioni difficilmente accettabili e del tutto inutili. Al posto dell’approfondimento, abbiamo le ripetizioni martellanti. Le poche e vecchie cause motrici della storia e della società, ossificate, vengono invocate per spiegare le conseguenze più varie, per proporre politiche del tutto improbabili. Scattano sempre gli stessi modelli esplicativi. Colpa dei padroni, degli americani, delle banche, della UE, della finanza internazionale, dei rigurgiti neofascisti, del neoliberismo, del patriarcato, dell’antisemitismo[22], degli immigrati[23] e di quant’altro.
21. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? Io mi do la seguente spiegazione. Finché c’erano le ideologie[24], nel Mondo di cui ci stiamo occupando, c’erano anche le agenzie di produzione ideologica, c’erano gli intellettuali di riferimento, c’erano innumerevoli corpi intermedi che si occupavano intensamente della produzione delle idee. E le idee che circolavano avevano un carattere decisamente professionale. E di idee in circolazione ce ne erano assai. Alcune erano sicuramente pessime, ma alcune decisamente illuminanti, capaci di dar senso alla nostra vita e alla nostra storia. C’era di che scegliere. Tra gli intellettuali c’erano – come dice Aldo Schiavone nel suo saggio – i Maestri, coloro che erano in grado di analizzare le grandi questioni e di operare le grandi sintesi prospettiche che davano senso alle nostre vite e al nostro impegno nella storia. Nonostante le differenze di analisi e di opinione, si aveva l’impressione di una qualche omogeneità, per lo meno nei presupposti di metodo, che consentivano un qualche dibattito civile. Le nuove interpretazioni, quando c’erano, venivano soppesate, i dibattiti procedevano con un certo ordine. Tutti avevano l’impressione di occuparsi all’incirca delle stesse questioni, quelle all’ordine del giorno, che erano perciò considerate da tutti come le più importanti. Magari ci si divideva, ma c’era la consapevolezza che le questioni erano quelle. In genere, ci si divideva per delle ragioni. Se non si era d’accordo con qualcuno o qualcosa, si sapeva sempre spiegare perché. Questo anche perché investivamo tempo e denaro per informarci, per studiare.
22. Bastava leggere qualche rivista o qualche libro ben scelto, per tenersi aggiornati sugli sviluppi dei dibattiti nazionali e internazionali. Magari c’erano dei benemeriti che ogni tanto si peritavano di fare delle sintesi ad usum delphini. Magari anche ricche di copiosi riferimenti storici e con repertori bibliografici che avrebbero ammazzato chiunque. Oppure bastava frequentare le numerose e diffuse conferenze in cui si faceva il punto delle principali questioni. Si poteva dibattere con i relatori, fare delle domande. Ma poi, come ho già accennato[25], c’era un sacco di gente che scriveva. Lettere, articoli di giornale, saggi di vario genere, inchieste, denunce, relazioni a convegni, documenti politici. Habermas avrebbe detto che c’era qualcosa che somigliava al suo modello della opinione pubblica democratica. Al modello del Diskurs. Oggi, a sinistra, non ci sono più dibattiti, non c’è più opinione pubblica, ci sono solo risse da stadio.
23. Con la fine delle ideologie, questo universo culturale comune, questo universo pubblico di discorso, è progressivamente venuto meno. Non sto qui a esaminare in dettaglio perché e come questo sia avvenuto. Sarebbe troppo lungo. Di fatto gli intellettuali pubblici sono diventati dei chiacchieroni televisivi, le riviste hanno chiuso, le case editrici hanno cominciato a sfornare paccottiglia per le nuove generazioni dalla bocca troppo buona. Perfino i corsi scolastici e gli esami sono stati drasticamente semplificati. Oggi si può pigliare una laurea triennale con una tesina di 25 pagine. Così, è accaduto che ciascuno dei Boomer, neanche più tanto giovani, si è trovato a dover ricominciare a camminare con le proprie gambe. Gestire in proprio (cioè da soli) la ricerca delle informazioni e la loro interpretazione. Gestire in proprio la costruzione e il mantenimento di uno straccio di visione del mondo. Tanto per sapere cosa si vive a fare.
24. Di fronte al venir meno di un comune universo di discorso, i più “deboli” (mi sia permesso questo aggettivo, che nell’intenzione vuol essere di grande simpatia) si sono subito persi per strada. Magari anche sommersi dalle accidentalità e dalle incombenze, sempre più difficili, della vita quotidiana. Un riflusso lento e progressivo che in generale ha significato comunque un impoverimento della partecipazione. I più tenaci, sempre più pochi, hanno invece cercato di concentrarsi sulle questioni più commestibili, quelle più alla loro portata, lasciando da parte gli aspetti più ostici, quelli che avrebbero richiesto competenze e linguaggi specializzati. Direi che – contro Lyotard[26] e la schiera dei post-marxisti postmoderni – sia sopravvenuta un’incapacità generalizzata di produrre grandi narrazioni che fossero appena decenti[27], la qual cosa ha assicurato il proliferare delle piccole narrazioni, particolaristiche e identitarie, come quelle della cultura woke. O quelle dei tanti cespugli della sinistra minoritaria nostrana.
25. Avvenne così che, da quella che era sempre stata una galassia, si è dato luogo alla formazione di tanti piccoli micro sistemi – “giochi linguistici” di tipo pragmatico, direbbe il solito Lyotard – sempre più isolati e incomunicabili, sempre più concentrati a cuocere nel proprio brodo. Le idiosincrasie individuali e il progredire delle età anagrafiche hanno fatto il resto. Gruppi di irriducibili, sempre meno numerosi, entro cui ormai si perpetuavano pochi spezzoni di cultura politica, sempre più ripetitivi, sempre meno efficaci a cogliere nel segno i processi e i cambiamenti sociali, e le grandi vicende internazionali. Sempre meno efficaci a indicare prospettive credibili per affrontare la grande trasformazione tecnologica ed economica di fronte alla quale ci troviamo. Ciò ha prodotto anche l’allontanamento dal pensiero scientifico, dalle scienze economico sociali in particolare. Dalle scienze umane. E l’allontanamento dalla filosofia e dai valori dell’umanesimo. Umanesimo, oltre a democrazia, è un’altra parola che suscita ilarità e compassione nel mio circondario, tutte le volte che la pronuncio. Con l’aggravante del fatto che il pensiero politico ha comunque fondamentali risvolti filosofici. La filosofia è nata con la polis, ma la polis non sta in piedi senza una qualche passabile filosofia politica condivisa.
26. Coltivare in proprio anche solo qualche spezzone di discorso approfondito diventava sempre più oneroso, sempre meno remunerativo. E così è venuto il momento in cui ci siamo arresi. Siamo diventati tutti ritualisti nel senso di R. K. Merton. Coloro cioè che, essendo ormai del tutto impossibilitati nei mezzi, continuano inutilmente a vagheggiare i vecchi fini. Si pensi, ad esempio, al degrado subito dal dibattito nel campo delle scienze dell’educazione. Che pure è un campo che coinvolge innumerevoli professionisti, dotati di un certo livello di istruzione, nelle scuole di ogni livello. La qualità scadente della istruzione che trasmettiamo alle giovani generazioni è allarmante, ma nessuno si preoccupa. Neanche le giovani generazioni stesse. Tutti contenti.
27. All’appartenenza viva a un Mondo – la cultura politica della sinistra funzionava proprio come un Mondo demartiniano – con tutte le sue variegate sfaccettature, è così succeduta la coltivazione di costellazioni di identità rituali, rigide, impermeabili a ogni cambiamento. Lasch parlerebbe di Io minimo[28]. Che queste identità siano confinate in piccoli gruppi di irriducibili (destinati a sciogliersi solo con la sopravvenuta inabilità dei singoli appartenenti) oppure confinate entro la soggettività di singoli cani sciolti. Finché c’era un Mondo, era facile partecipare, discutere, scegliere tra le diverse alternative, magari anche cambiare posizione, ingenuamente anche infinite volte. Venuto meno il Mondo, l’economia del cambiamento non poteva più funzionare. Cambiare prospettiva da soli[29] era diventato sempre più oneroso, sempre più difficile. Non restava che rinchiudersi in una sorta di Fortezza dei Tartari. Ormai si costruiscono solo più cinte difensive, fortificazioni per difendere quelle quattro idee in croce che qualcuno ancora conserva gelosamente. Cimeli di un passato che una volta era stato vivo ma che ora è poco più che ridotto a un fossile museale. In generale, possiamo dire che alle elaborazioni complesse delle analisi e dei punti di vista che erano propri di un Mondo, è subentrato il fai da te individualizzato e, soprattutto, disperato. È subentrata la presunzione autoreferenziale di albergare e mantenere un residuo di cultura politica senza un autentico confronto, senza elaborazione, senza pubblico discorso, ma semplicemente sventolando una bandierina.
28. Se qualcuno poi cerca faticosamente di mantenere qualche standard culturale appena un po’ più elevato, magari affine a quei Maestri cui pure si era ispirato in passato, oppure se cerca di armeggiare con qualche forma di pensiero meno semplicistico, un po’ più articolato, oppure se cerca di tenersi aggiornato al panorama culturale internazionale, ebbene costui sollecita e suscita, nel circondario, l’incredulità e poi le immediate diffidenze. E talvolta aperte ostilità. Financo aggressività. L’Io minimo, oggi così diffuso, non può che produrre il rancore contro i diversi. Perché l’appiattimento cui siamo soggetti è una cosa che si deve consumare tutti insieme. Chi non si appiattisce come tutti, è decisamente un provocatore. Mal comune, mezzo gaudio. Sono reazioni in fin dei conti comprensibili, sebbene non giustificabili. Non si hanno ormai più gli strumenti per capire ciò che appena si distanzia dal senso comune. Costui sta dalla mia parte oppure è contro di me? Devo dargli ragione o devo dargli torto? Nel dubbio, è sempre meglio tenersi alla larga, meglio bannare senza esitazione. L’Io minimo è implacabile.
29. Quando vengono progressivamente meno i criteri di valutazione in termini di cultura politica, cioè criteri legati a un comune universo di discorso, a un universo di principi e valori, a un’enciclopedia di concetti condivisi, a un Mondo, come si diceva poc’anzi, allora si fa strada con prepotenza la logica realistica dell’amico/ nemico. Quella che è piaciuta tanto a certi nostri marxisti post-marxisti. Che hanno mollato Karl per avere in cambio l’altro Carl. Non contano più le idee, bensì i rapporti tra le persone. Si passa, ahimè, come dice Lyotard, dalla semantica alla pragmatica. La tendenza allora è quella a costituire piccole consorterie di sodali, che discutono di niente al proprio interno, ma che sono convinti di avere alcune comuni idee–bandiera, alcuni vessilli simbolici da sventolare, qualche vecchia canzone da ascoltare, qualche rito periodico da compiere. Qualche causa assurda da sostenere. Appunto, cose come i “giochi linguistici” e le “piccole narrazioni” di Lyotard. Da brandire contro tutto il resto del mondo. Soprattutto da brandire contro i concorrenti interni alla sinistra stessa. Il che avviene oggi ancora esattamente come nella vecchia Unione sovietica. Il capitalismo poteva anche aspettare, ma quello che dovevi combattere, e far fuori subito, era il tuo immediato concorrente interno. Al di sotto degli striminziti e spesso assurdi vessilli simbolici, se si va a ben guardare, spesso ci sono soltanto piccoli interessi di bottega. Occupare qualche posto nella pletora di piccole organizzazioni che non contano più nulla, piazzare gente della tua lobby negli incarichi e organismi dirigenti, far venire qualcuno dei tuoi a tenere una conferenza da fuori, o a presentare un libro, mandare qualche post su Facebook per intrattenere la tua cerchia, rilasciare qualche intervista a nome della tua organizzazione, fare delle cene per raccogliere fondi, farsi invitare a tenere qualche pubblico dibattito. In tutto questo attivismo da amico/ nemico, accade così inevitabilmente che il famoso merito, tanto blaterato in teoria quanto sempre ignorato in pratica, vada a farsi benedire e si generi quella caratteristica selezione degli incapaci, così tipica ormai ad ogni livello delle organizzazioni superstiti del popolo della sinistra. Deriva culturale e selezione degli incapaci sono un miscuglio tossico che caratterizza sempre più il panorama tardo della fine di questo Mondo.
30. Spero di avere adeguatamente motivato che un Occidente senza pensiero[30], l’argomento del mio precedente saggio, non è solo un vezzo intellettualistico. O un argomento salottiero di moda. È piuttosto qualcosa che ha riguardato da vicino le nostre vite, quel che eravamo e quel che siamo purtroppo diventati. E che determina oggi la chiusura delle nostre prospettive e delle nostre speranze rispetto al futuro. Per noi e per quelli che verranno (anche se a costoro la cosa sembra davvero poco importare!). Si tratta di una deiezione nella quale siamo scivolati, senza neppure accorgercene. Senza neppure gridare. Senza neppure invocare aiuto. Semplicemente perché stavamo precipitando tutti nella stessa direzione, e ci sembrava allora una cosa del tutto normale.
In questo saggio mi sono occupato soprattutto del Mondo che ho conosciuto meglio, quello dei Boomer di ieri e di oggi. Se questo è però il quadro della deriva della cultura politica nell’ambito dei Boomer – cioè, quella generazione ancor vivente che nel contesto della propria formazione ha avuto le maggiori iniezioni di cultura politica – ci si può seriamente domandare allora quale sia la situazione presso le generazioni successive. Su questo argomento ho avuto qui solo il modo di fornire qualche flash estemporaneo. Magari tornerò sull’argomento. Qualche tempo fa mi sono ampiamente occupato della questione[31] e posso dire che, in merito, è ormai disponibile una vasta letteratura e che questa non è delle più confortanti. Peraltro, basta guardarsi intorno.
OPERE CITATE
1983 Anderson, Benedict, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
2021 Couturier, Brice, OK Millenials! Puritanisme, victimization, identitarism, censure. L’enquête d’un baby-boomer sur les mytes de la génération “woke”, Éditions de l’Observatoire, Paris.
1984 Lasch, Christopher, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.
1979 Lyotard, Jean-François, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
1952 Mannheim, Karl, The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London. [1923]
2000 Putnam, Robert D., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York. Tr. it.: Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna, 2004.
2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.
2019 Ricolfi, Luca, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.
2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.
1969 Riesman, David & Glazer, Nathan & Denney, Reuel, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven and London. Tr. it.: La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999. [1950]
2012 Rinaldi, Giuseppe, “La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino”, in Anima e Terra, n. 2, ottobre, pp. 133-157.
2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.
[2] Recentemente ho scritto un saggio di analisi intitolato Occidente senza pensiero. In quel saggio, in dialogo ideale con Aldo Schiavone (Cfr. Schiavone 2025), mi occupavo di una questione un poco astrusa, cioè del destino culturale dell’Occidente, nella attuale tormentata fase storica. Devo dire che il mio saggio, tranne lodevoli eccezioni e qualche latrato fuori luogo, non ha suscitato grandi reazioni, né positive né negative. Il saggio che qui presento, tratta esattamente e pervicacemente gli stessi argomenti dell’altro, non più però dal punto di vista generale, bensì dal punto di vista idiografico, cioè particolare. Diciamo che qui mi occupo del lato particolaredel vuoto di pensiero dell’Occidente, quello che ci riguarda da vicino e ci tocca direttamente come individualità storiche. Mi aspetto pertanto almeno qualche reazione negativa, ma staremo a vedere. Preciso, dati i tempi, che nella stesura di questo testo non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.
[5] Userò il termine “sinistra” in senso ampio, senza alcuna distinzione interna, riferendomi soprattutto agli elementi basilari della cultura politica sinistrese. Circoscrivo per semplicità il discorso alla sinistra italiana. Quanto al termine deriva, così recita il Passerini Tosi: «Andare alla deriva = Detto di nave che non si può più governare ed è trascinata dalle correnti. […] In senso figurato […] lasciarsi trascinare senza reagire. Esser come in completa balia degli eventi».
[7] Uso qui il concetto di Mondo, che ha avuto una rispettabile tradizione filosofica, a cominciare da Kant e Schopenhauer per continuare con Dilthey e Husserl, e che, specificatamente nel campo storico sociale, culmina con uno dei miei Maestri virtuali, Ernesto de Martino. Sulla nozione di “mondo” in Ernesto De Martino si può vedere il mio saggio Rinaldi 2012. Il saggio è stato da poco rivisto e ripubblicato sul mio blog: Finestre rotte: La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012).
[8] Su questo punto, il riferimento ovvio è Comunità immaginate di Benedict Anderson. Cfr. Anderson 1983.
[9] Uso questo termine, anziché termini similari, solo perché è più preciso e permette così il raffronto con le altre generazioni. Sociologicamente, i Boomer sono coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 61 e 79 anni. La generazione successiva è la cosiddetta Generazione X, che comprende i nati tra il 1965 e il 1979. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 46 e 60 anni. Sono costoro a rappresentare il contingente più ampio dell’attuale personale politico. La generazione successiva è quella dei Millenial (detti anche Generazione Y) che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1994 e che, nel 1925, hanno una età compresa tra 31 e 45 anni. Costoro – vista la gerontocrazia tipica del nostro Paese – si apprestano a costituire la schiera new entry nell’ambito del personale politico. La generazione successiva è la Generazione Z, nata tra il 1995 e il 2012. Oggi nel 2025 hanno un’età compresa tra 13 e 30 anni. Data la loro età, sono ancora in gran parte coinvolti nei processi di formazione. Sono coloro cui dovrebbero essere rivolte formidabili e obbligatorie iniziative di formazione alla cultura civica e alla vita politica. Sarebbe questo il solo investimento che potrebbe provare a invertire la deriva di cui stiamo parlando. Ma nessuna forza politica nostrana ha all’ordine del giorno qualcosa di simile.
[10] Il boom demografico vale soprattutto per gli Stati Uniti. Un po’ meno per l’Italia.
[11] Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.
[12] Sociologicamente così è stata denominata la generazione dei nati prima del 1946, tra il 1928 e il 1945.
[13] Sembra strano oggi, ma queste figure guida c’erano, erano numerose e distribuite anche a livello locale. Le si poteva incontrare, si poteva discutere con loro, si potevano ascoltare le loro conferenze o leggere i loro articoli sulle riviste. Oggi, a destra e a sinistra, tutti credono di saperne abbastanza e di non aver alcun bisogno di figure guida. Chi si presentasse come figura guida sarebbe perfettamente ignorato. Ovviamente, fanno eccezione i leader populisti.
[14] Tutto ciò è ormai caduto nel dimenticatoio. Il danno arrecato è stato grave, ma costoro uno straccio di analisi e di autocritica non la faranno mai. Scurdammoce o’ passato!
[15] Non posso non evocare qui il mondo della chiacchiera come descritto da alcuni filosofi esistenzialisti.
[16] La parresia è l’impulso irrefrenabile a dire pubblicamente quella che si ritiene essere la verità, a qualsiasi costo.
[17] La mia impressione è che le radici ultime di questa conflittualità siano assai profonde. Non ho spazio qui per entrare in argomento. Altrove ho parlato di mutazione antropologica. Cronologicamente, i primi a rilevare qualcosa di simile a questa mutazione sono stati David Riesman (1909-2002) e Marshall McLuhan (1911-1980). A seguire poi molti altri studiosi, come ad esempio Cristopher Lasch (1932-1994). Si tratta di una diversa strutturazione dell’Io dovuta a processi sociali e soprattutto culturali. Riesman, nel suo The Lonely Crowd, contrappone il tipo psicologico degli inner-directed a quello degli other-directed. Ho trattato diffusamente di questa problematica nel mio saggio David Riesman e l’individuo ben socializzato, peraltro mai pubblicato su Città Futura. Cfr. Finestre rotte: David Riesman e l’individuo ben socializzato. Si veda eventualmente Riesman 1969 [1950].
[22] Oggi anche l’ONU è da taluni considerato come antisemita. Mi sento dunque in buona compagnia.
[23] In occasione del Referendum 2025, è accaduto spesso di sentire rudi militanti della “rivolta” landiniana sostenere che la presenza, nel pacchetto dei Referendum, della questione della cittadinanza agli immigrati avrebbe alimentato l’assenteismo elettorale e fatto perdere voti ai referendum sul lavoro. Un chiaro invito a non ripetere più l’errore di simili connubi contro natura.
[24] Assumo qui – seguendo l’opinione corrente – che ci sia stata effettivamente una fine delle ideologie, anche se la questione è davvero assai discutibile e controversa. È senz’altro riscontrabile che siano finite giustamente alcune ideologie decisamente dannose e financo perverse. Insieme a loro sono state buttate ideologie invece del tutto indispensabili, come l’umanesimo, la democrazia, l’eguaglianza oppure il cosmopolitismo Non ho spazio qui per trattare questa problematica.
[26] Cfr. Lyotard 1979. Lyotard è un filosofo post-strutturalista e postmodernista.
[27] Il problema non è se le narrazioni siano piccole o grandi, bensì se siano giuste o sbagliate. Siccome Lyotard è un relativista, guarda soltanto alla dimensione delle narrazioni (grandi o piccole) e non al loro contenuto.
Democrazia: (dal greco dèmokratia, da dèmos, popolo e kràtos, autorità) Autogoverno del popolo. Preponderanza del potere popolare in un qualunque governo, o controllo di questo governo da parte del popolo.
E dai, proviamoci ancora. Torniamo un’altra volta su tema della democrazia. Non che su questo sito l’argomento sia mai stato trascurato, direi anzi che praticamente sin dall’inizio non si è parlato d’altro, da tutte le angolazioni e in tutte le declinazioni possibili: ma siamo ormai talmente abituati a sparare noi stessi addosso alla democrazia, o a vederla bersaglio di ogni possibile critica o attacco, che rischiamo di perdere di vista la formula fondante, il significato originario del termine. Ben venga dunque una riflessione pacata ed essenziale come quella proposta di seguito da Giuseppe Schepis. Giuseppe è una delle persone più limpide e intellettualmente oneste che io conosca: il che non significa affatto ingenue, al contrario: significa capaci di affrontare un tema così controverso con umiltà e coraggio, non proponendo e giustificando delle risposte già confezionate, ma ponendosi delle domande. Che è poi l’unico, semplice metodo della conoscenza. (p.r.)
È convinzione comune che la democrazia sia il migliore dei governi possibili, ma occorre chiedersi se una qualche democrazia pienamente compiuta sia mai stata costruita; dobbiamo interrogarci circa la sua reale attuazione passata, lo stato di salute delle democrazie presenti e gli sviluppi futuri che si possono intravvedere a partire da eventi quali le ultime elezioni statunitensi, che hanno riportato al potere Donald Trump e quella squadra per certi versi sgangherata e per altri inquietante che forma il suo governo.
Partiamo dal principio di funzionamento che dovrebbe caratterizzare un sistema democratico: in un tale sistema tutti i cittadini che formano la comunità democratica in analisi partecipano al governo dell’entità statale. Ogni cittadino partecipa alle decisioni e all’indirizzo politico del governo della comunità o direttamente (come nelle democrazie arcaiche formate da pochi cittadini riconosciuti tali, o come nei referendum popolari che vengono correntemente utilizzati in molte democrazie moderne) o indirettamente, eleggendo propri rappresentanti che porteranno la voce degli elettori in parlamenti e governi di varia forma e natura.
Un dato di fatto che mi sento di dare per scontato, ma che sovente non viene preso in considerazione nei piatti dibattiti politici odierni, è che in una società complessa gli interessi dei singoli cittadini non sempre coincidono e quindi l’indirizzo politico e le scelte di governo della comunità dovrebbero tenere conto e mediare tra tutti gli interessi, differenti e sovente contrastanti, di cui i singoli cittadini sono portatori. Un sistema simile privilegerà, teoricamente, i gruppi di cittadini più numerosi – che potranno avere più peso diretto nelle scelte simil-referendarie o avere più rappresentanti per le proprie istanze nei sistemi rappresentativi. Tutti, comunque, dovrebbero avere la possibilità di far sentire la propria voce e di avere una qualche tangibile rappresentanza.
Qui nasce un primo problema: perché una società si possa definire evoluta, forse umana in contrapposizione alle brutali leggi di natura, ci sono delle condizioni e delle regole pre-democratiche che dovrebbero rappresentare le basi intangibili sulle quali costruire ogni forma di sistema democratico ipotizzabile. Tra queste condizioni vedrei innanzi tutto la salvaguardia dei diritti della persona, da considerare inalienabili, quali dignità, riparo dalla violenza fisica e psicologica, minime condizioni di assistenza sempre garantite (in una società degna queste sarebbero da garantire anche per chi – pur umano – non fa parte della comunità stessa), regole che evitino le potenziali degenerazioni o involuzioni che il gioco democratico può potenzialmente (anche praticamente se prendiamo in analisi ciò che ci sta accadendo attorno) presentare.
Il gioco democratico non deve mai trasformarsi nella dittatura della maggioranza, che potrebbe facilmente ridurre o eliminare totalmente i diritti pre-democratici appena menzionati, a discapito di minoranze anche sostanziose e in ultima analisi di tutti. Faccio solo un cenno a sistemi elettorali a mio avviso pericolosi, che in nome della governabilità trasformano nei parlamenti e nei governi minoranze organizzate in maggioranze assolute – che sovente si sentono investite di un mandato divino illimitato.
Voglio aprire una piccola parentesi: tra le condizioni sopra elencate ve ne sono alcune che prevedono norme comportamentali senza richiedere la gestione di beni o servizi, altre che invece prevedono che una parte di ciò che la comunità produce – in termini di beni o di lavoro – venga dedicata al mantenimento di uno stato sociale minimo che permetta di preservare la dignità di ogni cittadino, mettendolo al riparo dai rovesci del fato. Perché ciò possa essere realizzato, ogni appartenente alla comunità dovrà partecipare al supporto materiale dello Stato, ogni cittadino dovrà generare attivamente il benessere giustamente preteso e nessuno dovrà evitare di condividere una parte di suoi beni prodotti – materiali o immateriali che siano – con la comunità tutta. I problemi di fedeltà fiscale, ben noti nel nostro paese, sono uno degli ostacoli principali alla creazione di un sistema democratico compiuto, al pari peraltro della mancanza di senso civico, senso civico che dovrebbe spingere ogni cittadino a condividere oneri e responsabilità – senza approfittare mai impropriamente dei diritti acquisiti.
Un sistema democratico che dovesse essere privo di questi prerequisiti non sarebbe in grado – a mio avviso – di costruire una democrazia compiuta; il semplice atto di mettere una croce sul nome di un candidato abbandonando la scheda in un’urna non è una condizione sufficiente per poter parlare di democrazia.
Dunque, perché un sistema democratico funzioni i cittadini che decidono – con metodi diretti o indiretti – del governo della comunità, devono poterlo fare scientemente e con responsabilità: ciò presuppone che tutti siano a conoscenza delle regole fondanti della comunità e che le condividano, che siano coscienti e siano tenuti a preservare – innanzitutto – il bene comune; i partecipanti alla comunità dovrebbero avere chiari anche quali siano i propri interessi e come questi vadano salvaguardati senza ledere quelli altrui. La formula è elementare, la sua applicazione pratica ha sempre recato difetti e vizi tali da rendere quasi utopica la costruzione di una democrazia compiuta.
Molte elezioni che hanno designato i rappresentanti del popolo svoltesi di recente sembrano contraddire il fatto che chi ha esercitato il suo diritto di voto abbia effettiva coscienza di quali siano i propri interessi, né di quali siano i reali problemi della comunità – se non del pianeta – che andrebbero affrontati e risolti; la vittoria elettorale di Donald Trump è solo l’esempio più evidente e emblematico di ciò: masse appartenenti alle classi lavoratrici, escluse non solo dalla redistribuzione ma sovente anche dalla creazione della ricchezza, hanno deciso di affidare il loro futuro ad un miliardario rappresentante degli interessi di una ridottissima élite di super-ricchi, che da subito ha iniziato a legiferare contro gli interessi della maggior parte dei suoi elettori. Si potrebbe obiettare che anche i naturali rappresentanti di quelle classi lavoratrici hanno tradito sistematicamente i propri elettori, facendosi portavoce di interessi corporativi e a volte anche in maniera più semplice e volgare degli interessi propri; ciò non giustifica comunque – a mio avviso – il fatto che i consensi vadano in alternativa a chi ha, anche anticipatamente in fase di campagna elettorale, dichiarato che avrebbe fatto a pezzi quel poco di stato sociale presente negli USA (vedi la timida ma pur presente riforma Obama in favore di un’assistenza sanitaria diffusa).
La spiegazione più logica di quanto accaduto potrebbe risiedere nel fatto che i populisti, imperanti non solo negli Stati Uniti, fanno efficacemente leva sulle paure e sul senso di abbandono; la paura di perdere quel benessere che ha comunque caratterizzato i paesi occidentali a favore di masse di immigrati che premono alle frontiere e il senso di abbandono di lavoratori dei più tradizionali settori produttivi che hanno visto – nel corso degli anni – sparire i loro posti di lavoro a causa di delocalizzazioni, competizione insostenibile da parte di colossi emergenti quali Cina e India, finanziarizzazione dell’economia dalle svolte economiche del governo Thatcher a seguire. La perdita di centralità del lavoro e del suo potere associativo, la sua precarizzazione, la trasformazione dei cittadini in consumatori effimeri sulla quale ha puntato il Mercato – trasformando radicalmente anche aspirazioni e bisogni degli umani, l’abbandono della cultura come valore e come riscatto sociale a vantaggio di evanescenti carriere basate su intuizioni miracolose o speculazioni prive di scrupoli, tutte queste cose hanno certamente contribuito a costruire il mondo non idilliaco nel quale ci troviamo a vivere. Tutto questo, comunque, potrebbe spiegare un astensionismo non condivisibile (se non partecipi al gioco elettorale altri decideranno anche per te) ma comprensibile con la delusione; risulta comunque incomprensibile come affidarsi a chi è stato, negli anni, attore di tutti i cambiamenti sopra elencati (il grande Capitale, gli interessi di élite corporative) possa essere presa in considerazione come possibile soluzione: una forte dose di inconsapevolezza – o dabbenaggine – deve per forza esserci. Quanto detto, rende evidente il fatto che non possiamo certamente parlare di democrazia compiuta quando i cittadini si fanno rappresentare da chi conculca i loro interessi.
A questo punto: che fare? Continuando a volare basso vengono in mente due ricette classicamente contrapposte: la prima, conservatrice, prevederebbe una democrazia ristretta, cui ammettere solo un limitato gruppo di individui illuminati; costoro sapranno operare le migliori scelte per sé stessi e per la comunità tutta! Resta il non trascurabile problema di come individuare questi aristocratici, immaginando che ogni potenziale categoria perorerà la propria causa: dovranno essere classicamente i più facoltosi, benedetti dal divino in quanto esseri superiori come nella migliore tradizione Puritana? Dovranno essere i più colti, e in questo caso i seguaci della cultura umanistica o quelli della cultura scientifica? Ed infine: chi avrebbe la capacità di insignire costoro in assenza di un’autorità divina onnisciente e condivisa? In ultimo: questa soluzione non sembra molto diversa da ciò che sta già accadendo: élite economiche in grado di manipolare folle disorientate stanno già sedendo, direttamente o tramite loro rappresentanti, sugli scranni più alti di governi e parlamenti, soggiogando a loro vantaggio i logori strumenti della democrazia orfani di cittadini coscienti.
La seconda possibilità, progressista per evitare di dare brutali connotazioni politiche, prevederebbe proprio l’edificazione della democrazia a partire dalla costruzione di cittadini coscienti, quanto più colti possibile, educati in maniera rigida al senso civico e alla difesa del bene comune; la scuola dovrebbe essere lo strumento principe per questa costruzione, una società coesa a trama fitta il sostrato ideale per la sua crescita – società capace di premiare i comportamenti positivi e reprimere quelli devianti e asociali. Mentre scrivo la scuola mi evoca senza fraintendimenti sensazioni positive, sempre ricordando gli insegnanti capaci e relegando nell’ombra quelli non in grado di trasmettere né nozioni né visioni del mondo; i restanti punti dell’elenco suonano sinistramente familiari e rievocano coercizione e irregimentamento già tentati in passato con esiti che conosciamo. Mi vengono in mente vetuste platee costrette all’ascolto di Tchaikovsky che – una volta libere – sarebbero corse ai concerti di Al Bano: per questo particolare esempio uno dei miei spiritelli, quello più antidemocratico, cadrebbe nella considerazione che almeno una volta – costretti o no – ascoltavano Tchaikovsky, mentre ora degradano naturalmente verso lo stato energetico inferiore e le musichette fastidiose che popolano le nostre emittenti radio.
Dismettendo i panni del giullare, che indosso sempre in maniera sgraziata, è chiaro che ci sono terze o quarte vie più edificanti, che la tenace costruzione culturale che alcuni docenti ancora praticano e l’esempio che possiamo tutti fornire nelle nostre attività quotidiane – le più disparate – appaiono i soli argini che possono rallentare la discesa verso il caos; le reti di amicizie, i tentativi di analisi della realtà e i timidi abbozzi di soluzioni condivise possono migliorare il clima generale, o quantomeno il clima nel quale ci troviamo personalmente a vivere. Resta il fatto che il sistema, che non ha bisogno di essere eterodiretto da nessuno e che tende naturalmente – seguendo il secondo principio della termodinamica – verso l’aumento di entropia, pare virare decisamente verso la creazione di imperi poco democratici, con l’obiettivo di massimizzare i profitti nel breve e medio periodo ignorando le conseguenze a lungo termine delle scelte odierne. I cittadini di ogni paese appaiono sempre più disposti a cadere vittime di sirene quali il populismo, il rifiuto del pensiero scientifico, il nazionalismo, la delega all’uomo forte che deresponsabilizza e affida il futuro a personalità malate di mitomania e sempre rappresentanti di oligarchie autoreferenziali e decisamente poco democratiche.
Le scelte operate da personaggi come Elon Musk appaiono irrazionali in un’ottica di lungo periodo: le crisi ecologiche, climatiche, sociali, che potrebbero travolgere anche gli imperi di questi ricchissimi e i loro eredi, non vengono nemmeno prese in considerazione come potenziali problemi. Probabilmente ciò che guida queste scelte ha a che fare con un senso di onnipotenza derivante dall’immenso potere economico: la fideistica certezza che la ricchezza salverà certamente loro – unita magari a un positivismo insensato, che immagina futuribili soluzioni dell’ultimo minuto affidate alla tecnica che certamente rovesceranno le sorti del pianeta in senso positivo. Purtroppo pare che costoro stiano acquistando sempre più potere e autonomia, e che siano destinati a guidare – in un futuro non lontano – entità statali che poco avranno a che fare con ciò che chiamiamo democrazia, modificando progressivamente cultura e senso comune su un piano inclinato che già ci vede acquistare velocità verso il baratro.
Ciò che mi resta, al termine delle mie usuali ottimistiche considerazioni, è un desiderio insoddisfatto di partecipazione politica, per poter incidere e cambiare lo stato delle cose; insoddisfazione molto probabilmente colpevole – perché non ho mai aderito a nessuna organizzazione per tentare di dare il mio contributo – o forse meritevole, dato che non vorrei mai far parte di un club che accetti tra i suoi membri uno come me!
Lo sapevo: quest’ultimo passaggio smaschera il marxista che è ancora in me!
Possiedo otto annate complete di Linus, più diversi numeri sparsi, e, come l’ex-ministro Scaiola a riguardo dei suoi attici romani, non lo sapevo. Non sto scherzando, non ricordavo assolutamente di averli. Il fatto è che si trovavano nella parte inferiore della scaffalatura a soffitto posta in una camera di sgombero, che nei ripiani a vista ospita buona parte dei miei fumetti mentre in basso è chiusa da coppie di antine, ed è resa difficilmente accessibile da un armadio e da altro mobilio stipato lì contro. Le antine dello scaffale più nascosto non le aprivo da quel dì: pensavo celassero, come quelle accanto, le cianfrusaglie cumulate negli anni e delle quali non riesco mai a disfarmi, cavi elettrici, modem, pezzi del vecchio impianto hi-fi. Solo l’altro giorno, in un impeto di riordino (velocemente poi rientrato). mi sono fatto letteralmente strada spostando sedie, cornici, specchiere, mobiletti tibetani e altri elementi della barricata, e quando ho aperto sono rimasto di sasso. Perché non c’erano solo i Linus, che occupavano un intero metro di ripiano, ma innumerevoli altri albi, superfetazioni come Alter Linus, Pasqualinus, Natalinus, ecc …, o concorrenti come Eureka, oltre a diverse annate de Il Male.
Sulle prime mi sono chiesto da dove arrivasse tutta questa roba, visto che i Linus non li ho mai collezionati (e nemmeno Il Male: al più lo sequestravo ai miei studenti). Poi ho trovato su una copertina il nome di mio cugino, e allora m’è tornato in mente che me li aveva passati in occasione di uno sgombero sentimentale, con conseguente sfratto. Quindi oggi non so se sono miei o se li ho solo in affido. Ma non di questo volevo parlare.
Infatti il riordino l’ho rimandato ad altra occasione e mi sono naturalmente messo a sfogliare le riviste. Cinquant’anni fa Linus non lo collezionavo, ma lo leggevo volentieri. Bene, devo confessare che al primo assaggio quel piacere non si è affatto rinnovato. Le veloci reimmersioni in annate diverse, sparse tra il ‘68 e il ‘78, mi hanno lasciato in bocca un retrogusto di pretenziosità, e mi hanno fatto ricordare che quel sapore lo avvertivo già all’epoca. Si potrebbe obiettare che a sessant’anni di distanza, al di là del fisiologico cambiamento dei gusti personali e di quelli generazionali, è facile vedere cosa funzionasse e cosa no. Ma io non sto parlando col senno di poi, bensì dell’istinto, della sensazione a pelle di prima.
Intendiamoci, non voglio dissacrare Linus. Questi giochi non mi piacciono. La rivista aveva una sua ragione di essere, e lo dimostrano il successo e la durata. Sotto il profilo editoriale era ottimamente impostata. Curata nella grafica, di una eleganza sobria, lontana dal patinato ma anche dall’ostentatamente “povero”. Pure la scelta del formato era azzeccata, perché non penalizzava la leggibilità delle strisce e delle tavole. E infine, anche il prezzo era contenuto (maggiore comunque di quello di una coeva raccolta di Tex o di un albo de La storia del West). Senz’altro era qualcosa di completamente diverso da ciò che circolava fino ai primi anni Sessanta nelle edicole italiane (e che tuttavia non era affatto male: pensiamo a Il Vittorioso o a Il Giorno dei ragazzi).
Tutto ok, dunque: ma volevo solo dire che ho capito perché non mi convinceva del tutto e non ho mai pensato di collezionarla. Oggi mi è chiaro che a disturbarmi era la supponenza di fondo, peraltro avvertita anche da molti dei suoi fedelissimi lettori, come testimonia la rubrica della posta. Era uno snobismo in qualche misura apparentabile a quello delle “avanguardie”: la proposta di contenuti densi di messaggi che in realtà nessuno riesce a decifrare, col sottinteso che se non capisci è un problema tuo, significa che non sei abbastanza “avanti”. D’altro canto viaggiava in linea perfetta con quanto accadeva in quegli anni in tutti gli ambiti culturali (l’arte astratta e poi quella concettuale, il gruppo Sessantatre e le poesie di Sanguineti, il cinema di Antonioni e quello di Godard, la musica di Nono e di John Cage. il teatro di Beckett e quello di Tardieu, …).
L’idea del creatore di Linus, Giovanni Gandini, era tutt’altro che peregrina. Aveva intravisto una fascia di pubblico del tutto nuova ed estremamente composita, comprendente non solo chi si era nutrito dei fumetti del Corrierino e de L’avventuroso nei due o tre decenni precedenti e non intendeva cambiare dieta, ma anche la generazione cresciuta con Tex e con L’intrepido, quella che aveva avuto accesso agli studi superiori con la riforma della scuola media e stava facendo esplodere le università. C’ero dentro anch’io. Questa gente conosceva Salinger e Kerouac, i più informati avevano sentito parlare anche di Marcuse e di Adorno, nessuno aveva letto IlCapitale, ma proprio per questo ciascuno poteva millantarne la conoscenza senza tema di essere colto in castagna. Avevano bisogno di svagarsi con qualcosa che fosse in continuità con quell’impegno, o che addirittura lo sostituisse, e i Penauts e B.C. erano appunto la traduzione in strisce delle atmosfere che viveva e dei modi in cui sentiva di Holden Caufield. Ciò che più importava, poi, è che nel frattempo tutti erano stati legittimati a leggere fumetti dall’autorevole voce di Umberto Eco.
Le scelte di Gandini erano dettate da questi criteri, ma andavano anche un po’ oltre. Volevano offrire il meglio del fumetto “intelligente”. Qualcosa di radicalmente alternativo e assieme sofisticato. Quindi, al di là dell’ironia di Charlie Brown e dei sarcasmi preistorici di Johnny Hart, per i quali dobbiamo essergli indubbiamente grati, erano proposte strisce satiriche di impatto meno immediato, come quelle di Pogo o di Lil Abner, che volevano rivelare la complessità della società americana, le sue zone oscure e le sue arretratezze; oppure venivano riesumate le storie di eroi d’anteguerra, da Gordon a Rip Kirby, che gli appassionati italiani si erano perse per via della censura di regime. E assieme a quelle venivano anche azzardate le produzioni più avanzate in arrivo dalla Francia, da Feiffer a Copi. Tutto ciò fino a quando, nel 1972, la rivista venne acquistata dalla Rizzoli e la direzione passò a Oreste del Buono. A questo punto i contenuti si “politicizzarono” in maniera più chiara, ma erano veicolati piuttosto dalle rubriche, che si moltiplicavano, che dalle comic strip. Venne dato spazio a personaggi e ad autori destinati a diventare leggenda, da Corto Maltese a Valentina, fino ad Ada nella jungla, ma anche qui nell’intento di proporre sempre cose sopra le righe, in qualche modo “destrutturanti” anche nei confronti del fumetto.
Insomma. L’ho già fatta sin troppo lunga. Linus era una rivista che si autopercepiva elitaria (e lo era), si fregiava di un marchio di origine controllata come oggi i prodotti “bio”: ma sin qui niente da eccepire. All’epoca gli amanti del fumetto d’avventura classico non avevano che da scegliere, tra Tex, La storia del West e infinite altre testate, anche se poi, a farsi vedere in giro con Zagor o persino con un Albo Audacia (quelli di Blueberry e di Blake e Mortimer) sottobraccio un po’ si vergognavano. Il problema era che da un lato di questo elitarismo Linus voleva convincere anche i lettori, farli sentire partecipi, dall’altro rivendicava una superiore coscienza “di sinistra” (vedi ad esempio le rubriche sui libri, sul cinema, persino il piccolissimo spazio dedicato allo sport). Voleva educare all’antagonismo, alla scorrettezza politica, e ha invece creato in nome del “pensiero debole” un nuovo canone, una nuova ortodossia, sia pure terribilmente confusa. In fondo discendono di lì, per li rami, il “politicamente corretto”, la cancel culture, l’ipersensibilità wake che imperversa dagli anni Novanta. Linus è stata sì una rivista all’avanguardia, ma di quel radicalismo “chic” che non è un’invenzione delle destre, ma una realtà che ha fatto partire per la tangente le sinistre.
Detto questo, uno immagina che mi accinga a un falò autunnale di tutto questo ben di Dio. Niente affatto. Ho riposto tutti i numeri già esaminati sul loro ripiano, ordinati per date d’uscita e, anzi, sto programmando per la brutta stagione una rilettura o almeno una risfogliatura integrale. Adesso che mi è chiaro da cosa originava il fastidio a pelle, e che non ho più il timore di essere io quello grossolano, che non arriva a capire certe sottigliezze, penso di poter godere di tutte le parti che comunque si salvavano.
Mi dico che anche Linus è un pezzo della nostra storia, e quindi va riletto con la mente sgombra da pregiudizi: ma soprattutto, mi aspetto di divertirmi un sacco.
Pubblichiamo il saggio più recente di Beppe Rinaldi, già comparso nei giorni scorsi sia sul blog personale, Finestre rotte, sia su Città futura on line. Lo pubblichiamo perché riteniamo meriti, come tutti gli altri scritti di Rinaldi che abbiamo ripresi e quelli che vi invitiamo a leggere direttamente sul suo sito, la maggiore visibilità possibile. È difficile di questi tempi trovare analisi altrettanto puntuali ed esaurienti dell’attualità politica e delle derive del pensiero contemporaneo, e siamo quindi ben felici di poterle ospitare.Paolo Repetto
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1. Il titolo di questo saggio[1] fa riferimento a un recente libretto di Aldo Schiavone nel quale egli descrive e denuncia un ormai consumato degrado della vita intellettuale e morale dell’Occidente e, dunque, anche e soprattutto del primo Occidente, cioè dell’Europa. La nozione di un Occidente senza pensiero costituisce una sintesi assai evocativa di una situazione di vuoto culturale che si sarebbe instaurata, sulle sponde atlantiche, pressappoco con l’affievolirsi delle cosiddette ideologie, proprio quelle ideologie peraltro già in crisi che avevano avuto il loro ultimo momento di gloria nell’ambito della Guerra fredda.
2. Sulla cosiddetta fine delle ideologie sono state ormai scritte intere biblioteche[2]. Daniel Bell, già alla metà del secolo scorso, parlava di una «exhaustion of political ideas». Su questa “fine”, e su altre “fini”, la baldanzosa corrente filosofica postmodernista ha campato di rendita per alcuni decenni. Qualcuno ha anche provato a ipotizzare una fine della storia. Con la fine delle ideologie, comunque si valuti l’evento, ci si poteva attendere il luminoso inizio di una nuova prospettiva culturale, scevra di ideologismi, realistica, con i piedi ben piantati in terra, capace di guidarci con sicurezza nell’affrontare le difficili sfide che abbiamo di fronte. Invece, a quanto pare, l’ipotesi più probabile è che sia subentrato il vuoto. Un vuoto che non si può soltanto più considerare come un momentaneo smarrimento, una crisi di crescita. Si tratta piuttosto di un vuoto che si appresta a diventare un vuoto permanente, visto che il Muro è caduto nel 1989, quasi quarant’anni fa, 36 per la precisione.
3. Cosa vuol dire che siamo rimasti “senza pensiero”? È proprio vero? Perché non ce ne eravamo accorti prima? O non si tratta forse dell’ennesima moda denigrativa dell’Occidente, tanto popolare nella cultura woke e recentemente denunciata, ad esempio, da Federico Rampini[3]? Le assenze sono decisamente più difficili da rilevare delle presenze. I vuoti non parlano, non protestano, non hanno effetti causali diretti. Per cui occorre un certo tempo perché vengano identificati, perché venga loro attribuito uno status, per così dire, ontologico. Non è facile – soprattutto nel dominio culturale – rendersi conto del fatto che ci manca qualcosa. Che siamo sull’orlo di un buco nero. A parere di chi scrive l’avvertimento acuto della assenza di un pensiero dell’Occidente (e dell’Europa) si è avuto piuttosto tardi, in concomitanza con una serie di fenomeni che avrebbero dovuto avere una interpretazione univoca e una risposta altrettanto univoca da parte dell’Occidente. E invece non l’hanno avuta. Fenomeni come: 1) l’aggressione russa all’Ucraina; 2) la diffusione stessa della cultura woke entro e fuori degli USA; 3) la Brexit che in sostanza ha costituito una scissione dell’Unione Europea; 4) la prima vittoria di Donald Trump alle elezioni nel 2017, l’assalto al Campidoglio e la sua seconda elezione nel 2024; 5) l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele e la reazione sproporzionata dello “Stato degli ebrei” nei confronti del territorio di Gaza; 6) lo svuotamento dell’ONU e dei Tribunali internazionali (a seguito delle guerre di Ucraina e di Gaza); 7) in generale, poi, la estrema lentezza e riluttanza con cui si sta realizzando la unificazione europea. Se si vuol essere un poco più drastici, il blocco ormai pluridecennale del processo di unificazione europea. Se ne potrebbero citare altri.
Questi meri fatti hanno diviso profondamente il mondo della politica, gli intellettuali e l’opinione pubblica europea e hanno mostrato come, da tempo ormai, fosse diventato impossibile l’impiego di criteri comuni di interpretazione, di fronte a questioni che pure sono di enorme importanza, che pure toccano profondamente i valori e i principi fondamentali. Se di fronte a fatti di questa portata non hai una risposta tendenzialmente univoca, vuol dire che non sai tanto bene chi sei, che non hai propriamente un’identità. È lecito domandarsi se non ci sia un limite nella disomogeneità di pensiero che possa essere sopportato da una società, in termini di coesione e di funzionamento. Una società che peraltro è impegnata in un programma di unificazione politica.
4. Se si guarda alla fase storica precedente, quella della Guerra fredda, avevamo mezzo mondo mobilitato per la costruzione del socialismo, in qualcuna delle sue molteplici varianti (alcune delle quali davvero discutibili). Un altro mezzo mondo era alacremente impegnato nella costruzione delle società democratiche aperte e per resistere alla minaccia del socialismo o comunismo reale. Un “Terzo mondo” era poi impegnato nella costruzione di nuovi Stati nazione, per liberare i diversi Paesi dal colonialismo e dallo sfruttamento straniero. Non si può certo dire che mancassero ideologie, valori e finalità. Non mancava dunque il pensiero. Certo, c’erano dei conflitti e alcuni “pensieri” erano del tutto sbagliati, ma questo è il rischio che si corre sempre quando si è impegnati a fare la storia in qualche modo.
Con l’implosione dell’Unione Sovietica e con la fine della Guerra fredda, l’Occidente, che poteva considerarsi come il virtuale vincitore della lunga contesa, è invece entrato in una sorta di stato comatoso, in una sconcertante assenza di progettualità e di prospettive, in una stupida concentrazione sugli egoismi nazionali e sui particolarismi. Sono diventati così visibili, in un certo senso, i due Occidenti, uno dalla statualità muscolare e l’altro dalla statualità evanescente. L’Occidente europeo evanescente ha delegato all’altro, agli USA, una serie importante di responsabilità[4]collettive e questi – oggi possiamo affermarlo con totale certezza – si sono dimostrati assolutamente incapaci, assolutamente non all’altezza del compito. Con una “assenza di pensiero” forse ancora più plateale di quella diffusa in Europa. Basta nominare, uno in fila all’altro, i recenti Presidenti americani. Ve li trascrivo qui di seguito per comodità. Richard Nixon (1969-1974), Gerald Ford (1974-1977), Jimmy Carter (1977-1981), Ronald Reagan (1981-1989), George H. W. Bush (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), George W. Bush (2001-2009), Barack Obama (2009-2017), Donald Trump (2017-2021), Joe Biden (2021-2025) e Donald Trump (2025-). Messi così, uno in fila all’altro, che impressione vi fanno? Riuscite a identificare una qualche linea di pensiero?
5. Gli ultimi quarant’anni della nostra storia, nel primo e nel secondo Occidente, ci mettono drammaticamente di fronte a questo vuoto di prospettiva, vuoto di politica, vuoto di cultura, vuoto, appunto, di pensiero. Un vuoto che si sta facendo sempre più evidente nella misura in cui i problemi, abbandonati a se stessi, urgono per una soluzione e si incancreniscono sempre più. Nel proseguimento di questo saggio – che non va propriamente inteso come una recensione – prenderò in considerazione soprattutto la parte introduttiva e la parte conclusiva del libro di Schiavone, al solo scopo di meglio caratterizzare questo fenomeno, oggi per me divenuto evidentissimo, di un Occidente senza pensiero.
6. Così esordisce Schiavone nel suo libretto: «Nel quadro delle conoscenze e dei saperi che alimentano la vita pubblica delle nostre società […] si è aperto da qualche tempo, nell’indifferenza generale, un vuoto inquietante. Prodottosi quasi di colpo, ha per causa un fatto senza precedenti, con conseguenze che si stanno rivelando via via più disastrose: la scomparsa dalla scena d’Europa del grande pensiero sull’umano: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali»[5].
Va notata qui l’espressione “pensiero sull’umano”, una terminologia di cui sembra si sia persa decisamente l’abitudine. Vorrei ricordare che anche le atroci lacerazioni del Novecento vertevano comunque, bene o male, intorno a un qualche “pensiero sull’umano”. L’amaro tribunale della storia ha alfine decretato qualcosa di abbastanza preciso, intorno all’umano e al disumano. Qualcosa abbiamo dovuto forzatamente imparare. Oggi, per contro, l’umano e il disumano sono mescolati in una poltiglia inestricabile: Hamas, Trump, Putin, Netanyahu, cui possiamo aggiungere, fuori Occidente, gli ayatollah, i talebani e diverse varietà di islamisti. Ma anche Xi e Kim Jong-un. Eppure ci siamo così abituati che invocare l’umano oggi suscita senz’altro, presso il pubblico, ilarità e compassione.
Schiavone qui giustamente denuncia il progressivo venir meno della cultura umanistica nell’attuale contesto europeo, e più ampiamente nel contesto di quello che suole definirsi come Occidente. È implicito nel suo discorso che la cultura umanistica costituisca ancora una componente fondamentale nella definizione degli orientamenti di una società. Possiamo aggiungere che non assistiamo soltanto a un venir meno della prospettiva umanistica e alla proliferazione del cinico disincantato, stiamo assistendo a una promozione sfacciata dell’antiumanismo, in una varietà di forme che hanno sempre più successo o che comunque, invece di una condanna, suscitano solo benevola indifferenza[6]. Difendere l’umanismo oggi significa spesso fare la parte dell’anima bella che sogna i bei tempi andati. Significa essere malamente apostrofati dai truci realisti della politica che oggi abbondano più che mai. Questa tendenza antiumanistica si accompagna costantemente con lo screditamento della modernità, lo screditamento della tradizione stessa dell’Occidente e con l’implicito e conseguente screditamento della democrazia.
7. Schiavone chiama direttamente in causa le humanities: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali. Altre volte cita le discipline giuridiche, l’etica, l’economia. Chi scrive si è occupato di filosofia e scienze umane fin da quando era sui banchi di scuola. Ebbene, la filosofia occidentale, nella sua versione continentale, sta attraversando una crisi epocale dalla quale difficilmente riuscirà a riprendersi. Ho trattato ampiamente di questo argomento nel mio recente saggio Esiste la filosofia continentale?[7] L’aspetto interessante della questione è il fatto che, a partire dagli anni Settanta la filosofia continentale europea, soprattutto tedesca e francese (la french theory), ha completamente colonizzato le facoltà umanistiche americane, gettando le basi di quella cultura del piagnisteo politically correct, che si svilupperà poi nel movimento stay woke. In altri termini, stiamo importando in forma peggiorativa, come vuoto di pensiero, quello che abbiamo esportato oltre atlantico qualche decennio fa.
Per le scienze sociali è avvenuto un processo inverso. Le scienze sociali americane del primo Novecento, che avevano studiato per prime la nuova società di massa, sono state esportate in Europa, dove hanno avuto una diffusione straordinaria e hanno contribuito alla conoscenza e all’ammodernamento delle società europee, almeno quelle al di qua del Muro. Per decenni le scienze sociali nord americane furono le sole capaci di fare una dura concorrenza all’ortodossia marxista, che pretendeva il monopolio della conoscenza sociale. Esse diedero notevoli contributi ai processi di riforma delle società europee postbelliche. Negli anni Novanta tuttavia le scienze sociali americane caddero vittima dei social studies, del piagnisteo politically correct e lo stesso accadde, di converso in Europa. Con l’avvento del neo liberismo (la Tatcher sosteneva che “la società non esiste”) e con l’abbandono dei grandi progetti di riforma, le scienze sociali cominciarono a perdere qualsiasi ruolo e centralità. Contribuendo così a quel vuoto di pensiero di cui stiamo discutendo.
8. Una delle manifestazioni più tangibili di questo vuoto inquietante è – per Schiavone – la progressiva scomparsa dei Maestri. «Una volta c’erano tra noi i Maestri. Non in un’età ormai lontana, ma appena qualche decennio fa, ancora nel tardo Novecento. Guide da cui non si poteva prescindere e con cui ci siamo a lungo confrontati, fin quasi al passaggio del secolo. Spesso discussi e criticati, e non soltanto seguiti e imitati, ma comunque riconosciuti in grado di misurarsi con le grandi personalità del passato, e di aprire, attraverso quel dialogo, vie inesplorate per affrontare i problemi del presente nella continuità di una tradizione: quella stessa della modernità»[8].
La collocazione cronologica posta da Schiavone, “appena qualche decennio fa”, dell’avvento del vuoto di pensiero, è all’incirca quella che ho segnalato nella mia introduzione. Va poi ricordato che intellettuali e modernità hanno costituito, per secoli, un binomio inseparabile. Gli intellettuali, pur con molte contraddizioni, hanno costantemente svolto il ruolo di coscienza critica della modernità. Anche i conflitti del Novecento sono stati elaborati e consumati nell’ambito di un aspro dibattito intellettuale intorno alla modernità, o a quel che ne restava.
Ma è ora subentrata la postmodernità, la reazione contro la modernità che ha finito per scindere il ruolo stesso degli intellettuali nei confronti della società e della storia. Intellettuali e modernità sono due categorie che hanno subìto, negli scorsi decenni, un attacco violentissimo. Proprio ad opera della postmodernità che, in virtù di questo vandalismo di principio, ha mostrato alla fine la propria vacuità e inconsistenza. Senza l’apporto della modernità, senza il ruolo degli intellettuali, abbiamo perso progressivamente la capacità di pensare al nostro passato, al nostro presente, al nostro destino. Abbiamo rinunciato a domandarci chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Con chi ci accompagniamo.
9. Schiavone usa alcune pagine per elencare una nutrita schiera dei grandi Maestri cui faceva riferimento in apertura. «Era insomma la grande cultura formatasi nel cuore del ventesimo secolo che continuava a svolgere il proprio ruolo, e finiva con l’illuminare un’intera civiltà. […] Di comparabile a tanta ricchezza, oggi non rimane più nulla: ed è così che il buio è sceso senza preavviso sul cuore dell’Occidente. I primi risultati sono sotto gli occhi di tutti: un’America irriconoscibile, e un’Europa che tace o balbetta»[9].
Si noti che l’elenco dei Maestri citati, che qui non riporto e discuto per brevità, comprende posizioni culturali anche assai diverse e talvolta incompatibili. In omaggio dunque alla natura sempre conflittuale del pensiero. Per quel che riguarda invece il buio che ha colto il secondo Occidente, ci dovremmo soffermare a lungo sulla cultura woke, che è insieme causa e conseguenza della sparizione dei grandi Maestri e del rifiuto della modernità. Luca Ricolfi nel suo saggio sul Follemente corretto[10] ha esaurientemente descritto il fenomeno e ne ha tracciate alcune linee interpretative. Il politically correct e la cultura woke, con tutti i loro annessi e connessi, hanno gravemente minato la libertà di pensiero, uno dei principi cardine dell’Occidente.
10. Tuttavia Schiavone mette anche l’accento sul deterioramento qualitativo della produzione culturale. Ciò ovviamente mette in causa i meccanismi stessi della produzione e riproduzione dei saperi umanistici. Afferma Schiavone che: «[…] se si considerasse l’elenco dei docenti di una qualunque importante Facoltà umanistica in Francia, in Germania, in Italia qual era quaranta o cinquanta anni fa, e lo si mettesse a confronto con coloro che vi insegnano oggi, sarebbe arduo sottrarsi all’impressione di una distanza crescente e incolmabile, se appena si avesse una cognizione non superficiale delle materie prese in esame: filosofiche, storiche, giuridiche, sociologiche»[11].
Va osservato, da parte nostra, che l’appiattimento qualitativo riguarda non solo l’offerta culturale, ma anche il lato della domanda. Le capacità medie conseguite dagli studenti nelle nostre scuole sono in caduta libera. Lo stesso vale per le capacità medie dei cittadini di svolgere efficacemente i doveri loro prescritti dalla Costituzione. Anche su questo appiattimento ormai esiste una letteratura ampia e ben documentata.
11. Ciò vale perfino – ci permettiamo di aggiungere – nel campo dell’intelligenza. Secondo gli studiosi dell’effetto Flynn, nei Paesi occidentali anche l’intelligenza media avrebbe cessato di crescere. L’Effetto Flynn[12] era quel fenomeno, ben conosciuto dagli psicologi, per cui le prestazioni nei test di intelligenza tendevano a crescere col passare del tempo (3 punti ogni decennio). Questo fenomeno era stato rilevato sulla base dell’accumulo dei dati conseguenti alla pratica sistematica della somministrazione dei test di intelligenza diffusa in varie nazioni e istituzioni. Dall’inizio del nuovo secolo sono comparsi diversi studi che testimoniano di un arresto del fenomeno di crescita dei punteggi medi nei test di intelligenza. O, addirittura, sembrano avallare la presenza generalizzata di un effetto Flynn rovesciato. Col passare del tempo, le prestazioni individuali nei test di intelligenza non solo avrebbero cessato di crescere ma addirittura tenderebbero a diminuire. La cosa è tuttora controversa sul piano statistico, ma decisamente allarmante, se collegata ad altri sintomi di degrado del livello culturale medio delle nuove generazioni.
12. Eppure viviamo in un’epoca formidabile di progresso tecnico scientifico. Abbiamo fotografato i buchi neri, abbiamo scoperto il bosone di Higgs e intercettato le onde gravitazionali. L’intelligenza artificiale contribuisce a migliorare la nostra vita in un’enorme quantità di settori. Schiavone precisa che, a suo giudizio, il vuoto di pensiero incombente concerne proprio il contesto delle humanities, visto che, per quel che riguarda le scienze della natura, non pare proprio esserci alcuna crisi alle porte. Non abbiamo dunque a che fare con disturbi funzionali di base, visto che nel campo scientifico hard il prodotto è rimasto per ora del tutto competitivo. Abbiamo proprio a che fare col vuoto di pensiero sull’umano. Un autentico smarrimento. Come un gigante dotato di un’enorme muscolatura, ma col cervello di un moscerino.
Schiavone confronta l’epoca della prima Rivoluzione industriale, quando il passaggio d’epoca fu caratterizzato da un intenso lavorio culturale allo scopo di comprendere le trasformazioni che stavano avvenendo, con l’epoca nostra, un’epoca di grandi trasformazioni che avvengono in una totale mancanza di comprensione. «Ma questa volta dov’è il pensiero – filosofico, economico, sociale, politico, giuridico, etico: in una parola, l’indagine sulle società e sull’umano in trasformazione e sui loro nuovi caratteri – che dovrebbe fare da guida al passaggio d’epoca, orientandone direzione e conseguenze, come è accaduto con le grandi rivoluzioni della modernità?»[13]. Stiamo, in altri termini, vivendo una grande trasformazione con gli occhi completamente bendati.
13. Insiste Schiavone: «Quello che manca è in particolare una cultura – storica, filosofica, sociale – che si ponga il problema di una lettura d’insieme dei processi che si stanno sviluppando nel mondo, dei loro caratteri e delle loro tendenze, e che offra soluzioni innovative alla politica. Un pensiero che analizzi da vicino, con capacità teorica adeguata, il salto di qualità avvenuto nella struttura dell’economia capitalistica in seguito alla rivoluzione tecnologica, con il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali – il lavoro della classe operaia. Un passaggio, quest’ultimo, che ha posto fine a un intero tratto della modernità, ha provocato il crollo dei regimi comunisti, e ha portato alla nascita di uno specifico meccanismo unico di tecnica e di economia per la prima volta senza alternative nell’intero pianeta – sul quale tuttavia sappiamo pochissimo dal punto di vista della sua teoria e della sua critica»[14].
Qui torna uno dei problemi su cui Schiavone aveva già insistito, in passato, e cioè «il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali». Si tratta di un motivo ben presente nel suo Sinistra! Un manifesto del 2023[15]. La presenza del conflitto di classe aveva caratterizzato i due secoli precedenti della modernità e aveva monopolizzato i dibattiti intorno alla configurazione della società. Intorno alla società giusta. Ora quella centralità storica non c’è più e ciò imporrebbe lo sviluppo di un nuovo pensiero intorno al futuro stesso delle società occidentali. Un manifesto, appunto, per una nuova sinistra[16]. Ma la sinistra europea appare ammutolita e in difficoltà. Non parliamo poi dei Democratici americani. Sia le destre tradizionali, sia le sinistre, che bene o male avevano entrambe una qualche solida visione della società e della storia, sono oggi soppiantate dal non pensiero dei populismi organizzati, spesso inestricabilmente rossobruni, nazicomunisti nei loro fondamenti. A ogni consultazione elettorale questi registrano incrementi preoccupanti di consensi.
14. Così Schiavone sintetizza la situazione: «L’Occidente è rimasto in tal modo orfano della sua stessa intelligenza: che lo ha lasciato all’improvviso completamente solo, a metà strada di un cammino incompiuto. E ne è rimasta orfana in particolare la politica, sia progressista sia conservatrice. Una specie di nuovo “tradimento dei chierici”, consumato quando mettere in campo nuovo pensiero sarebbe stato indispensabile per concepire e realizzare scenari adeguati alle peculiarità della nuova realtà capitalistica e al suo rapporto con la tecnica e con la politica»[17]. In questi passi si evoca il tradimento dei chierici, uno smarrimento cioè della funzione intellettuale, un inchino del mondo della cultura a interessi totalmente estranei. Il riferimento ovviamente va a Julien Benda (1867-1956) e al suo noto Tradimento dei chierici (1927)[18]. E il tradimento dei chierici ha avuto effetti esiziali sulla politica: «E invece proprio nel momento cruciale del salto, il circuito delle conoscenze si è interrotto. E la politica è diventata cieca, senza concetti e categorie in grado di leggere oltre la superficie dei processi che ci coinvolgono, nei caratteri e nelle tendenze di lunga durata del mutamento»[19].
La debolezza della politica è senz’altro un effetto della debolezza del pensiero. Il problema è che, in un simile quadro, pare davvero impossibile che la politica riesca a porre un qualche rimedio alla stessa debolezza del pensiero. L’immagine che se ne trae è quella di un Occidente sempre più invischiato in un circolo vizioso autolesionistico. Invece di politica e cultura, come in Norberto Bobbio, avremo sempre più politica senza cultura.
15. Non seguiremo da vicino i vari capitoli nei quali Schiavone approfondisce la propria analisi. Dove si affrontano questioni come il degrado della politica, la globalizzazione, l’impatto delle nuove tecnologie, i problemi della democrazia, la situazione americana. Le conclusioni di Schiavone si aprono con un’affermazione davvero impegnativa: «Solo una rivoluzione intellettuale e morale dell’intera cultura europea di portata eguale alla trasformazione che stiamo vivendo potrà essere in grado di indirizzare per il meglio il cambiamento in cui siamo immersi. Perché lo ripetiamo: la tecnica dona potenza, non assicura salvezza. Stabilisce la direzione e l’irreversibilità del cammino, contribuendo a fissare la forma dell’umano attraverso l’aumento del suo controllo sulle proprie condizioni materiali di esistenza; non garantisce il buon esito dell’intero viaggio»[20].
La tecnica ci rende sempre più forti ma non può darci alcuna indicazione su come usare proficuamente questa stessa forza. Mentre i vari corifei della sinistra in senso lato invocano il disarmo, oppure gli ennesimi provvedimenti di tutela a favore di questi o quelli – quelli che non arrivano alla fine del mese – oppure ancora evocano il diritto alla rivolta e il ritorno alla lotta di classe, ebbene Schiavone va contro corrente e avverte che è necessaria principalmente una «rivoluzione intellettuale e morale», due rivoluzioni con cui nell’immediato «non si mangia». Due rivoluzioni senza cui non sapremmo neanche quale sia la meta verso cui andare. Non ci mancano i mezzi, ci mancano i fini. O forse ne abbiamo di troppi, e di confusi. Il che è come non averne neanche uno.
16. Sarebbe allora da fare una riflessione profonda intorno al significato di queste parole. Cosa significa «rivoluzione intellettuale e morale»? In estrema sintesi, così interpreto io, l’Occidente senza pensiero ha coltivato – ancora una volta – la fiducia nei meccanismi automatici. Come quando aveva creduto alle leggi marxiane della storia. Oggi si tratta della fiducia nelle leggi automatiche dei mercati, nella iniziativa individuale e nella concorrenza, nello slogan «Enrichissez vous!», nella fiducia del gocciolamento del benessere verso tutti gli strati della società. L’Occidente senza pensiero ha fatto di tutto per ridurre ai minimi termini lo Stato e le istituzioni, per dare mano libera alla vandalica deregulation. È stata questa una comune ubriacatura che ha coinvolto sia la destra sia la sinistra. Destre e sinistre che la capacità di pensare l’avevano forse persa da tempo. Così ci siamo ritrovati immersi nel populismo e stiamo così mettendo a repentaglio le stesse istituzioni democratiche. L’Occidente europeo ha pensato che bastasse «laissez faire, laissez passer». Che bastasse stare a guardare, e tutto si sarebbe aggiustato da sé.
17. Ora, a quanto pare, la storia ci sta presentando il conto, e non sappiamo cosa fare. Il fatto è che – di questo dobbiamo davvero convincerci – la società va pensata. La società è fatta proprio per essere pensata. Soprattutto le società altamente complesse come le nostre. Per le quali occorre un pensiero di pari complessità. Invece abbiamo creduto alle semplificazioni. Da noi, per stare a casa nostra, abbiamo creduto al pensiero semplice di Berlusconi, di Bossi, di Renzi, di Grillo, di Meloni, di Salvini. Mi spiace molto dirlo, ma anche quello di Schlein e di Landini, di fronte ai problemi che abbiamo davanti, è puro pensiero semplice[21].
In Europa, pensare di continuare a sopravvivere come uno Stato senza Stato (che non unifichi in sé le fondamentali prerogative di uno Stato) è puro pensiero semplice, come quello dei pacifinti che vogliono la pace e la sicurezza, non vogliono la NATO e non vogliono spendere una lira per comperare le cartucce. Pensiero semplice anche quello dei governi europei che vorrebbero, a fasi alterne, una politica estera di grande potenza, senza però cedere alcun potere a un Ministro degli esteri europeo di un Governo europeo. Purtroppo siamo guidati dal pensiero semplice e gli elettori, divenuti semplici anch’essi, non sembrano neanche più persuasi di dover andare ogni tanto a votare. Non vanno più a votare non perché siano delusi dalla politica ma perché sono divenuti incapaci di un qualsiasi pensiero effettivamente politico. Ricordo che gli esponenti del secondo partito di opposizione italiano andavano in parlamento agitando l’apriscatole. Non solo intellettuali senza pensiero dunque, ma anche elettori senza pensiero.
18. Già, ma allora, come possiamo fare per recuperare un pensiero alto, degno dell’Europa e dell’Occidente migliore? Davvero all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte? Schiavone si pone il problema, ma qui mi permetto di dubitare alquanto sulla fattibilità della sua proposta. Dice: «[…] almeno in Europa, per rimettere in moto la macchina del pensiero serve una scossa esterna al mondo delle idee, tanto forte da rendere possibile la ripresa del cammino interrotto. Un impulso che può venire soltanto dalla politica: da una politica che sappia spezzare con la forza di una decisione il vuoto di idee che la circonda. E questa non può consistere in altro se non in un passo avanti decisivo verso l’unificazione del continente»[22].
Qui Schiavone incorre purtroppo in una qualche circolarità di pensiero, visto che, nella introduzione ha sostenuto che proprio il vuoto di pensiero confina la politica alla mera amministrazione. Come farà una politica priva di pensiero a trovare da sé la forza di una decisione? Personalmente una risposta ce l’ho, ed è una risposta poco piacevole. Solo una colossale esternalità negativa, una grave catastrofe, potrà costringere i nostri maestri del pensiero semplice a prendere decisioni forti. A prendere finalmente le ovvie decisioni indispensabili. Non resta che sperare nella catastrofe.
19. Così l’Occidente si è cacciato in un circolo vizioso che lo condanna a rendimenti sempre più bassi. A continuare a rimandare e ad attendere, come se avessimo davanti un tempo infinito. Certo, è comodo fare l’ammuina. Schiavone avverte che: «Progresso tecnico e scadimento morale e sociale possono coesistere, entro certi limiti. Con la conseguente deriva verso un mondo in cui l’anomia sarà diventata la regola di un suprematismo capitalistico – tecnologico fuori controllo: segnato dal dominio di minoranze più o meno ristrette – arroccate nei privilegi derivanti dalla loro posizione rispetto al dispositivo tecnoeconomico globale – su moltitudini uniformate dalla comune sconfitta e dal patimento condiviso della sopraffazione»[23]. L’Amministrazione Trump è oggi un perfetto esempio di coesistenza di progresso tecnico e scadimento morale, intellettuale e sociale. Questo è forse il destino che ci aspetta.
Rincarando la dose, secondo Schiavone oggi ci troviamo in: «Una congiuntura in cui la capacità del pensiero sull’umano di padroneggiare e di orientare verso paradigmi di razionalità fondati sul bene comune quel potere di trasformazione del reale che stiamo acquisendo con tanta velocità appare drammaticamente ridotta, se non addirittura azzerata. Se non riusciremo a riequilibrare in corsa questo scompenso; se una parte di quella che chiamiamo la nostra civiltà continuerà a rimanere indietro rispetto all’altra, il prolungarsi del ritardo renderà realistiche ipotesi di futuro nelle quali l’aver cancellato la comune identità dell’umano diverrà il principale carattere di una costituzione materiale del pianeta fondata esclusivamente sulla discriminazione e sul dispotismo»[24].
Val la pena di aggiungere che non sarà certo demandando alla intelligenza artificiale la soluzione delle maggiori questioni – come qualcuno auspicherebbe – che risolveremo il nostro deficit di pensiero. Un imbecille con l’AI diventa un imbecille al quadrato. C’è già chi pensa di infilare l’intelligenza artificiale nelle scuole, così avremo finalmente il pensiero semplificato a disposizione di tutti, paziente, autorevole, efficiente e del tutto incontrollabile. Non sono tra gli scettici oppositori della AI, sono piuttosto tra gli scettici che dubitano della nostra capacità di controllare la AI, cui ci stiamo affidando con tanta disinvoltura e dabbenaggine. Anche qui è in gioco il vuoto del pensiero. Chi pensiero non ha, non può darselo artificialmente.
20. Schiavone manifesta tuttavia, nonostante tutto, un certo ottimismo: «[…] nonostante tutti gli ostacoli che si frappongono, credo che in questo frangente sia proprio dall’Europa che possa partire il primo e più forte segnale di risveglio; che sia da qui che si possa riannodare il filo spezzato del nostro pensiero»[25]. Schiavone entra qui nel merito di alcuni punti di forza restanti su cui l’Europa potrebbe basarsi per dare il via a una ripresa. In effetti, dopo il declino ormai palese e profondo della democrazia americana, del secondo Occidente, non resta che riporre qualche speranza nel primo Occidente. Effettivamente se il patrimonio di pensiero dell’Occidente non è rimasto da qualche parte in Europa, può allora esser tranquillamente dichiarato in via di estinzione. Basti pensare al trattamento inferto da Trump alle università americane per rendersi conto che da quelle parti non verrà più fuori alcunché, per un bel po’. Bisogna riconoscere che Alexandr Dugin, al di là del suo tono profetico ed esaltato, nei suoi scritti è andato vicino a una diagnosi ben precisa della capitolazione dell’Occidente di fronte all’Euroasiatismo. In un suo scritto[26] di qualche anno fa aveva individuato proprio in Trump il capofila inconsapevole della reazione dei popoli del Mondo contro l’Occidente, irrimediabilmente corrotto e pervertito.
Comprendiamo che Schiavone, nel suo ruolo di pubblico intellettuale, si sforzi di mostrare un volto tutto sommato ottimistico. Comprendiamo come si sia sentito in dovere di considerare la partita del pensiero dell’Occidente ancora come aperta. Di mostrare una strada praticabile per uscire dalla crisi. Di considerare come ancora non del tutto perduto il nostro patrimonio di pensiero, la nostra scala di valori e le nostre istituzioni. In questo senso, il suo saggio è un appello. Purtroppo la sua diagnosi è perfetta, ma una eventuale prognosi positiva è invece dipendente da una miriade di condizioni che, se considerate da vicino, non possono che risultare altamente improbabili.
21. Il lettore, compulsando attentamente il testo di Schiavone, potrà farsi un’idea di quanto realistiche siano le possibilità di successo di un programma di rinascita del pensiero europeo da lui intravisto e propugnato. Personalmente, siamo alquanto più pessimisti e il vuoto di pensiero dell’Occidente oggi ci sembra ormai decisamente irreparabile. Più che di un improbabile programma di rinascita, oggi ci pare quanto mai necessario un programma di resistenza. Un appello disperato che chiami alla resistenza le poche forze del pensiero d’Occidente sopravvissute, e non ancora del tutto stravolte. Una resistenza, appunto, intellettuale e morale. Una resistenza destinata tuttavia a diventare sempre più clandestina, sempre più confinata nei bantustan o nelle riserve indiane. Il trattamento inferto da Trump alle università americane è di una chiarezza esemplare. Una resistenza nella lucida consapevolezza che la guerra è stata ormai perduta, che i barbari sono alle porte e che domineranno per secoli. Si tratta allora di mettere da parte e conservare i codici, ricopiare e commentare i testi, trasmettere la tradizione, tenere acceso il lumicino in attesa di un’improbabile nuova alba. Proprio come i monaci irlandesi nei secoli bui della decadenza europea.
Opere citate
1960 Bell, Daniel, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo Edizioni, Milano, 1991.
1958 Benda, Julien, La trahison des clercs, Editions Grasset, Paris. [1927]
2021 Dugin, Alexandr, Contro il Grande reset. Manifesto del Grande risveglio, AGA Editrice.
2022 Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, Milano.
2024 Rampini, Federico, Grazie Occidente!, Mondadori, Milano.
2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.
2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino.
2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.
[1] Nella scrittura di questo saggio non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.
[2] La prima occorrenza della questione risale al 1960. Si veda Bell 1960.
[4] Tra queste responsabilità, attribuite di fatto dall’Europa agli USA, abbiamo la difesa (attraverso la NATO), il governo monetario e del commercio internazionale, la politica internazionale, il controllo degli Stati canaglia, il governo delle crisi internazionali derivanti da alcuni Paesi ex comunisti e dall’insorgente fondamentalismo islamico, compresa anche la lotta al terrorismo. Possiamo aggiungere la responsabilità della salvaguardia e della promozione delle organizzazioni internazionali. A uno sguardo retrospettivo, gli USA hanno fallito in tutti questi compiti. Marcatamente, in politica internazionale hanno fallito sulla questione israelo-palestinese, hanno fallito in Iraq e in Afghanistan. Solo per elencare le crisi più importanti. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, gli USA hanno dato un notevole contributo al loro indebolimento.
Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).
Ci sono arrivato per gradi, anche se gli indizi erano evidenti. A Bogliasco qualcuno lascia libri sulle panchine, nei luoghi di passaggio dei turisti che scendono dal treno. Nessun nome, nessun progetto organizzato di booksharing. Solo misteriose ed eterogenee proposte di lettura. Solo dopo un po’ ho capito che al centro di questa ragnatela organizzata di doni sta il negozio del vetraio. Appena fuori dal negozio, al coperto, è posto il punto di raccolta dei libri. Anonimi donatori scaricano lì le biblioteche del nonno defunto e se ne vanno. Lui raccoglie, mette a disposizione e distribuisce per il paese, attento soprattutto a farsi trovare da chi viene da fuori. L’ultima volta ho trovato un Pennac, ma anche libroni di storia, un tomone sulla storia del fumetto italiano, un Conrad. Con il vetraio ho parlato solo una volta. Sapevo già cosa mi avrebbe detto. Da allora mi sento un po’ complice della sua impresa. Quando penso a Bogliasco penso spesso a lui e alla sua instancabile missione, che ai miei occhi nobilita la comunità di cui fa parte. Tutto questo per riflettere sulla forza potente del dono, inteso in tutte le sue accezioni possibili. Dono può essere un libro, ma anche un’occhiata d’intesa, un sorriso, una parola non detta, una parola detta. Sempre più mi convinco che siamo come gli alberi: apparentemente separati, ma in realtà connessi da una sotterranea rete micorrizica che ci tiene costantemente in contatto e ci nutre – anche a nostra insaputa, anche a nostro dispetto – e che fa di noi comunque foresta, anche se ci pensiamo deserto. In questo tempo in cui la linea della sabbia sembra avanzare inesorabile, mi aggrappo a questo pensierobambino come un talismano. Sempre e comunque accanto a noi – silenziosi, invisibili, organizzati – sono in azione i vetrai di Bogliasco.
Giulia Nelli, Quando gli uomini avevano le radici (collant su tela)
di Paolo Repetto, 23 febbraio 2025
Nel programma pomeridiano di Paolo Mieli, Passato e Presente, David Bidussa ha parlato martedì scorso de Il “Mistero buffo” di Fo; la verità del giullare. L’ho intercettato a trasmissione già avviata, quindi non so se lo spunto fosse un qualche libro di Bidussa stesso o di altri, visto che nel corso del programma non se ne è fatto cenno (e nemmeno ne ho trovati in una successiva ricerca).
Comunque. Confesso di essermi sulle prime un po’ irritato (mi capita sempre quando sento nominare Dario Fo), perché conosco Bidussa da tempo, lo considero una persona seria e uno ottimo studioso, e temevo si fosse adeguato alla solita zuppa celebrativa: ma non ho tardato a capire che Fo gli sta simpatico quanto a me (e che questo sentimento è condiviso anche da Mieli), e la cosa non poteva che darmi conforto.
Al di là però delle simpatie e delle antipatie, che hanno motivazioni recondite e non fanno testo, ho apprezzato il modo sottile in cui Bidussa, senza lanciarsi in stroncature, ha ridimensionato il personaggio, sia come uomo che come intellettuale “impegnato”.
Ha fatto presente ad esempio come diversi altri ricercatori e autori abbiano studiato il linguaggio e la cultura popolare, traducendo poi i risultati del loro lavoro in strumenti per consentire una migliore conoscenza di quel mondo: cosa che non si può certamente dire per Fo, che ha invece utilizzato quei materiali in funzione prettamente autoreferenziale, mettendoli al servizio di una “verve” teatrale che gli consentiva di rimanere sempre, e letteralmente, al centro della scena. Ne ha fatto cioè spettacolo, puntando sugli effetti speciali della gigioneria: ma sul piano concreto della conoscenza della cultura popolare in realtà non ha trasmesso nulla. Anche il famoso gramelot non è una forma di linguaggio inventata dal popolo, nata come ribellione alla lingua ufficiale, come la si è gabellata, ma un “linguaggio scenico” affidato totalmente all’estro dell’attore, e come tale non codificabile e non trasferibile. E infatti, Fo non ha lasciato eredi, non ha creato una “scuola”, perché non aveva alcuna eredità da trasmettere.
Bidussa queste cose le ha dette in maniera certamente meno brusca di come le sto riportando io, ma la sostanza era questa. Ha anche aggiunto che ciò vale un po’ per tutto il lascito culturale sessantottesco: dobbiamo ammettere che in fondo ricordiamo solo i nomi di alcuni capi carismatici, quasi nulla dei movimenti che stavano alle loro spalle, e nulla del tutto dei loro programmi, sempre che ne avessero uno.
Quanto al Nobel, per quel che vale un riconoscimento del genere, e tanto più in letteratura, la spiegazione data da Bidussa mi è parsa senz’altro credibile: assegnando il premio a Fo si è voluto affermare che la letteratura non è solo quella inscrivibile nei “canoni” e nei generi tradizionali, ma vanno comprese in essa anche i frutti di altre modalità espressive, che non passano necessariamente solo per la pagina scritta, Cosa poi riaffermata qualche anno dopo, col conferimento del premio a Bob Dylan. Insomma, mi è parso un modo elegante e non ipocrita di rimettere ordine nelle cose.
A margine mi permetto però di aggiungere un paio di considerazioni molto personali.
Quanto Fo fosse convinto della sua centralità intellettuale e politica (pardon, sua e della moglie, Franca Rame, a sua volta assurta a icona del femminismo) l’ho constatato in occasione di una polemica da lui scatenata nei confronti de Il manifesto. Mi spiace non aver conservato quel testo, perché sarebbe stato sufficiente riportarlo integralmente per dare un’idea dello sbraco cui può indurre l’eccesso di autostima. L’accusa rivolta al quotidiano, e scagliata con toni di insopportabile supponenza, era di non aver riservato uno spazio adeguato, in uno speciale per il decennale o il ventennale del Sessantotto, al peso politico rivestito dalla sua militanza teatrale. Una rivendicazione che di per sé avrebbe potuto essere solo patetica, ma in questo caso riusciva disgustosa per la presunzione e l’arroganza messe in campo.
Mi rimane una domanda: è mai possibile che la sinistra abbia continuato costantemente ad aggrapparsi a riferimenti “culturali” fasulli come i De André, i Gaber, i Fo, oggi gli Zero Calcare, per non parlare di Grillo o di Gino Paoli, ad accreditare un significato e un valore politico ad espressioni che se vogliamo, con molta larghezza, possiamo definire “artistiche”, ma che non scuotono e non risvegliano le coscienze, e anzi, le aiutano ad addormentarsi nella convinzione di aver già appreso per una via facile e piacevole come va il mondo e come dovrebbe andare? Che non si sia mai resa conto di come questa sia una clamorosa legittimazione del ruolo di spettatori che il sistema, e tanto più quello moderno, ci riserva?
Lo so, è sempre stato così, già gli ateniesi andavano ad assistere alle tragedie di Euripide e alle commedie di Aristofane, e attraverso quelle si facevano un’idea: ma intanto non avevano praticamente altre fonti cui abbeverarsi, e comunque non hanno mai candidato qualcuno di costoro a cariche pubbliche o al ruolo di arconte. Che poi il bacino nel quale viene arruolata la classe politica odierna non offra granché di meglio, è un altro discorso: ciò che intendo io è che varrebbe almeno la pena di non legittimare in modo così spudorato la resa al trionfo della spettacolarizzazione.
Torniamo però al nostro. Rischiando consapevolmente una caduta di stile, perché può sembrare che mi diverta a “smitizzare” gratuitamente le icone della sinistra, e a farlo al riparo sia di una distanza temporale che della irrilevanza delle mie opinioni. Il problema in realtà, come dicevo sopra, non è che Fo mi stia simpatico o meno: il problema sta piuttosto nel fatto che attorno a figure come la sua ancora oggi la sinistra, dalla quale nella mia ingenuità mi attenderei almeno un po’ di trasparenza, costruisca invece narrazioni apologetiche degne delle vite dei santi padri medioevali o delle mitologie staliniane e maoiste del secolo scorso, applicando gli stessi modelli censori o panegirici.
Un esempio? La prima voce che mi compare sul monitor in una ricerca sul rapporto di Fo con la politica presenta un pezzo tratto dal blog The vision. Nella nota biografica si dice: figlio di un capostazione che durante la seconda guerra mondiale venne coinvolto nella Resistenza contro i nazifascisti. Esatto. Del fatto però che lo stesso Dario venne coinvolto, ma sul versante opposto, in quanto volontario nelle milizie repubblichine di Salò (le brigate Nere, per intenderci), e che abbia giustificato poi questa sua adesione dandone almeno cinque motivazioni diverse (non ultima, quella di aver agito come quinta colonna della resistenza), non una parola. Per la carità: aveva diciassette anni, e so per esperienza quanto si può essere ingenui a quell’età, o nel suo caso indottrinati sino al midollo (ma il padre non era nella Resistenza?), e se avesse semplicemente ammesso “si, ero stupido, credevo di lottare contro le plutocrazie” lo avrei capito e persino in parte giustificato: ma raccontare panzane per ripulirsi l’immagine, questo mi sembra testimoniare di una assoluta malafede. Così come tutta la successiva militanza politica, a ben guardare, conferma l’ansia continua di protagonismo scenico. Una recita ininterrotta, che lo ha visto tra le altre cose avallare la lettera che ha condannato a morte Calabresi e prestare la voce al video di Giulietto Chiesa (altro buono, ma senza nemmeno un briciolo di “genialità”, vera o presunta) nel quale si denunciava il “complotto” imperialista all’origine dell’11 settembre (dopo aver sostenuto in un primo momento che l’attacco era la giusta reazione dei poveri contro i ricchi d’Occidente).
Una coerenza comunque gli va riconosciuta: è rimasto un convinto odiatore degli ebrei per tutta la vita: temo si rammaricasse di non averne rastrellati abbastanza quando gli si era presentata l’occasione.
Ecco, adesso mi sento davvero in colpa: ma solo per aver dato troppo spazio a uno così, che mi rappresenta tutto ciò che non sopporto della società in cui vivo, e prima ancora di quella brancaleonesca armata di millantatori e opportunisti che stanno usurpando e sputtanando idealità alle quali rimango ostinatamente aggrappato: quelle che un tempo, pur a livelli diversi di comprensione e di convinzione, animavano una vera “sinistra”.