Possiedo otto annate complete di Linus, più diversi numeri sparsi, e, come l’ex-ministro Scaiola a riguardo dei suoi attici romani, non lo sapevo. Non sto scherzando, non ricordavo assolutamente di averli. Il fatto è che si trovavano nella parte inferiore della scaffalatura a soffitto posta in una camera di sgombero, che nei ripiani a vista ospita buona parte dei miei fumetti mentre in basso è chiusa da coppie di antine, ed è resa difficilmente accessibile da un armadio e da altro mobilio stipato lì contro. Le antine dello scaffale più nascosto non le aprivo da quel dì: pensavo celassero, come quelle accanto, le cianfrusaglie cumulate negli anni e delle quali non riesco mai a disfarmi, cavi elettrici, modem, pezzi del vecchio impianto hi-fi. Solo l’altro giorno, in un impeto di riordino (velocemente poi rientrato). mi sono fatto letteralmente strada spostando sedie, cornici, specchiere, mobiletti tibetani e altri elementi della barricata, e quando ho aperto sono rimasto di sasso. Perché non c’erano solo i Linus, che occupavano un intero metro di ripiano, ma innumerevoli altri albi, superfetazioni come Alter Linus, Pasqualinus, Natalinus, ecc …, o concorrenti come Eureka, oltre a diverse annate de Il Male.
Sulle prime mi sono chiesto da dove arrivasse tutta questa roba, visto che i Linus non li ho mai collezionati (e nemmeno Il Male: al più lo sequestravo ai miei studenti). Poi ho trovato su una copertina il nome di mio cugino, e allora m’è tornato in mente che me li aveva passati in occasione di uno sgombero sentimentale, con conseguente sfratto. Quindi oggi non so se sono miei o se li ho solo in affido. Ma non di questo volevo parlare.
Infatti il riordino l’ho rimandato ad altra occasione e mi sono naturalmente messo a sfogliare le riviste. Cinquant’anni fa Linus non lo collezionavo, ma lo leggevo volentieri. Bene, devo confessare che al primo assaggio quel piacere non si è affatto rinnovato. Le veloci reimmersioni in annate diverse, sparse tra il ‘68 e il ‘78, mi hanno lasciato in bocca un retrogusto di pretenziosità, e mi hanno fatto ricordare che quel sapore lo avvertivo già all’epoca. Si potrebbe obiettare che a sessant’anni di distanza, al di là del fisiologico cambiamento dei gusti personali e di quelli generazionali, è facile vedere cosa funzionasse e cosa no. Ma io non sto parlando col senno di poi, bensì dell’istinto, della sensazione a pelle di prima.
Intendiamoci, non voglio dissacrare Linus. Questi giochi non mi piacciono. La rivista aveva una sua ragione di essere, e lo dimostrano il successo e la durata. Sotto il profilo editoriale era ottimamente impostata. Curata nella grafica, di una eleganza sobria, lontana dal patinato ma anche dall’ostentatamente “povero”. Pure la scelta del formato era azzeccata, perché non penalizzava la leggibilità delle strisce e delle tavole. E infine, anche il prezzo era contenuto (maggiore comunque di quello di una coeva raccolta di Tex o di un albo de La storia del West). Senz’altro era qualcosa di completamente diverso da ciò che circolava fino ai primi anni Sessanta nelle edicole italiane (e che tuttavia non era affatto male: pensiamo a Il Vittorioso o a Il Giorno dei ragazzi).
Tutto ok, dunque: ma volevo solo dire che ho capito perché non mi convinceva del tutto e non ho mai pensato di collezionarla. Oggi mi è chiaro che a disturbarmi era la supponenza di fondo, peraltro avvertita anche da molti dei suoi fedelissimi lettori, come testimonia la rubrica della posta. Era uno snobismo in qualche misura apparentabile a quello delle “avanguardie”: la proposta di contenuti densi di messaggi che in realtà nessuno riesce a decifrare, col sottinteso che se non capisci è un problema tuo, significa che non sei abbastanza “avanti”. D’altro canto viaggiava in linea perfetta con quanto accadeva in quegli anni in tutti gli ambiti culturali (l’arte astratta e poi quella concettuale, il gruppo Sessantatre e le poesie di Sanguineti, il cinema di Antonioni e quello di Godard, la musica di Nono e di John Cage. il teatro di Beckett e quello di Tardieu, …).
L’idea del creatore di Linus, Giovanni Gandini, era tutt’altro che peregrina. Aveva intravisto una fascia di pubblico del tutto nuova ed estremamente composita, comprendente non solo chi si era nutrito dei fumetti del Corrierino e de L’avventuroso nei due o tre decenni precedenti e non intendeva cambiare dieta, ma anche la generazione cresciuta con Tex e con L’intrepido, quella che aveva avuto accesso agli studi superiori con la riforma della scuola media e stava facendo esplodere le università. C’ero dentro anch’io. Questa gente conosceva Salinger e Kerouac, i più informati avevano sentito parlare anche di Marcuse e di Adorno, nessuno aveva letto IlCapitale, ma proprio per questo ciascuno poteva millantarne la conoscenza senza tema di essere colto in castagna. Avevano bisogno di svagarsi con qualcosa che fosse in continuità con quell’impegno, o che addirittura lo sostituisse, e i Penauts e B.C. erano appunto la traduzione in strisce delle atmosfere che viveva e dei modi in cui sentiva di Holden Caufield. Ciò che più importava, poi, è che nel frattempo tutti erano stati legittimati a leggere fumetti dall’autorevole voce di Umberto Eco.
Le scelte di Gandini erano dettate da questi criteri, ma andavano anche un po’ oltre. Volevano offrire il meglio del fumetto “intelligente”. Qualcosa di radicalmente alternativo e assieme sofisticato. Quindi, al di là dell’ironia di Charlie Brown e dei sarcasmi preistorici di Johnny Hart, per i quali dobbiamo essergli indubbiamente grati, erano proposte strisce satiriche di impatto meno immediato, come quelle di Pogo o di Lil Abner, che volevano rivelare la complessità della società americana, le sue zone oscure e le sue arretratezze; oppure venivano riesumate le storie di eroi d’anteguerra, da Gordon a Rip Kirby, che gli appassionati italiani si erano perse per via della censura di regime. E assieme a quelle venivano anche azzardate le produzioni più avanzate in arrivo dalla Francia, da Feiffer a Copi. Tutto ciò fino a quando, nel 1972, la rivista venne acquistata dalla Rizzoli e la direzione passò a Oreste del Buono. A questo punto i contenuti si “politicizzarono” in maniera più chiara, ma erano veicolati piuttosto dalle rubriche, che si moltiplicavano, che dalle comic strip. Venne dato spazio a personaggi e ad autori destinati a diventare leggenda, da Corto Maltese a Valentina, fino ad Ada nella jungla, ma anche qui nell’intento di proporre sempre cose sopra le righe, in qualche modo “destrutturanti” anche nei confronti del fumetto.
Insomma. L’ho già fatta sin troppo lunga. Linus era una rivista che si autopercepiva elitaria (e lo era), si fregiava di un marchio di origine controllata come oggi i prodotti “bio”: ma sin qui niente da eccepire. All’epoca gli amanti del fumetto d’avventura classico non avevano che da scegliere, tra Tex, La storia del West e infinite altre testate, anche se poi, a farsi vedere in giro con Zagor o persino con un Albo Audacia (quelli di Blueberry e di Blake e Mortimer) sottobraccio un po’ si vergognavano. Il problema era che da un lato di questo elitarismo Linus voleva convincere anche i lettori, farli sentire partecipi, dall’altro rivendicava una superiore coscienza “di sinistra” (vedi ad esempio le rubriche sui libri, sul cinema, persino il piccolissimo spazio dedicato allo sport). Voleva educare all’antagonismo, alla scorrettezza politica, e ha invece creato in nome del “pensiero debole” un nuovo canone, una nuova ortodossia, sia pure terribilmente confusa. In fondo discendono di lì, per li rami, il “politicamente corretto”, la cancel culture, l’ipersensibilità wake che imperversa dagli anni Novanta. Linus è stata sì una rivista all’avanguardia, ma di quel radicalismo “chic” che non è un’invenzione delle destre, ma una realtà che ha fatto partire per la tangente le sinistre.
Detto questo, uno immagina che mi accinga a un falò autunnale di tutto questo ben di Dio. Niente affatto. Ho riposto tutti i numeri già esaminati sul loro ripiano, ordinati per date d’uscita e, anzi, sto programmando per la brutta stagione una rilettura o almeno una risfogliatura integrale. Adesso che mi è chiaro da cosa originava il fastidio a pelle, e che non ho più il timore di essere io quello grossolano, che non arriva a capire certe sottigliezze, penso di poter godere di tutte le parti che comunque si salvavano.
Mi dico che anche Linus è un pezzo della nostra storia, e quindi va riletto con la mente sgombra da pregiudizi: ma soprattutto, mi aspetto di divertirmi un sacco.
Negli interventi postati su questo sito compare sempre più spesso il richiamo alla “verità”. Non è un caso. È un’insistenza voluta. Questo non perché si stia abbracciando un qualche credo fondamentalista, o si vogliano rincorrere le “offerte culturali” del mese, che traboccano non di sconti ma di concetti dati per scontati, primo tra tutti, guarda caso, quello di post-verità. La nostra è semmai è una controfferta: vorremmo difendere l’idea che una convivenza civile non possa prescindere da una quota sia pur minima di verità condivisa, intesa quest’ultima non come scolpita su marmo in lettere maiuscole – “LA VERITÀ” sulle origini e sui destini del mondo – ma come lo sforzo di comprendere e descrivere nella maniera più oggettiva possibile l’andamento delle cose nel mondo. Se rifiutiamo che i nostri rapporti con ciò e con chi ci circonda debbano e possano essere improntati a questa idea, allora apriamo la porta appunto alla post-verità: cioè al nuovo fondamentalismo relativista.
Ci sembra dunque più che opportuno riproporre il saggio scritto da Beppe Rinaldi sette anni orsono sul fenomeno della post-verità e pubblicato sul sito “Finestre rotte”il 5 aprile 2018. In tempi di intelligenza artificiale e di rincitrullimento di quella naturale sette anni equivalgono a secoli, ma nel saggio c’era già tutto il necessario per capire quella che oggi appare una inarrestabile deriva. E soprattutto c’era – e c’è ancora, e vale anzi più che mai –, proprio per la profondità e la lucidità e l’accuratezza che sempre distinguono le riflessioni di Rinaldi, l’esempio concreto di come a tale deriva si possa malgrado tutto opporre una dignitosa resistenza. Senza sventolare o bruciare bandiere, senza scandire slogan insulsi, senza inscenare pietose pantomime per le strade o nelle aule parlamentari: semplicemente perseverando nella volontà di conoscere, e quindi di pensare con la propria testa, e insistendo a credere nella possibilità di condividere e di confrontare delle idee, anziché delle ideologie (o peggio, delle imposture o delle stronzate).
Leggetevi allora queste pagine con la calma e l’attenzione che meritano: magari non accederete all’empireo della Verità, ma ne uscirete senz’altro vaccinati contro la post-verità.
Paolo Repetto
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1. Da qualche tempo[1] le fake-news sono all’ordine del giorno. La loro diffusione sta preoccupando alquanto il mondo della informazione e quello della politica, i governi e perfino le grandi multinazionali dei social media. C’è solo da essere soddisfatti poiché, finalmente, il grande pubblico sembra abbia compreso che le fake sono una cosa seria e che possono rappresentare un enorme pericolo. Si sta diffondendo, a quanto pare, la consapevolezza che, in una società minimamente civile, non possiamo fare a meno della verità. Una modica quantità di verità sembra sempre più costituire un bene primario cui non possiamo rinunciare. Non resta che sperare che non sia già stato ampiamente superato il punto di non ritorno. In realtà, il caso delle fake-news è solo uno degli aspetti – forse quello più appariscente ma non certo il più importante – di un fenomeno assai più generale e cioè della diffusione della menzogna, e di una serie di suoi nuovi derivati, nelle interazioni sociali, nello spazio pubblico della comunicazione e, soprattutto, nell’ambito della politica nazionale e internazionale. Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a essere segnalato intorno agli anni Novanta del secolo scorso e che è cresciuto progressivamente fino ai nostri giorni.
2.In campo culturale, e particolarmente in campo filosofico, l’allarme circa la diffusione di prodotti menzogneri è vecchio ormai di almeno due o tre decenni. Tra l’inizio degli anni Novanta e il nuovo secolo avevano cominciato a comparire varie reazioni critiche nei confronti della diffusione di certi prodotti subculturali, strettamente legati all’affermazione presso il grande pubblico del postmodernismo.[2] Nel 1997 Sokal e Bricmont pubblicarono un loro famoso saggio contro le imposture intellettuali[3](fashionable nonsense)in cui furono messe alla berlina le disinvolture argomentative di alcuni famosi intellettuali postmoderni per lo più francesi (Lacan, Kristeva, Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio) e in cui si faceva un resoconto dettagliato della cosiddetta burla di Sokal che aveva contribuito a smascherare un certo ambiente postmoderno nordamericano.
Sokal e Bricmont erano entrambi professori di fisica, rispettivamente a New York e a Lovanio. Ecco il resoconto della burla, attraverso la penna dei diretti protagonisti: «[…] uno di noi, Sokal, decise di tentare un esperimento non ortodosso […]: sottopose a una rivista culturale americana alla moda, Social Text, una parodia del genere di articoli che abbiamo visto proliferare negli ultimi anni, per vedere se l’avrebbero pubblicata. L’articolo, intitolato «Trasgredire le frontiere, verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica», è pieno di assurdità e di palesi non sequitur. Inoltre propone una forma estrema di relativismo cognitivo: dopo aver messo in ridicolo il “dogma” superato secondo cui “esista un mondo esterno, le cui proprietà sono indipendenti da ogni essere umano in quanto individuo, e in definitiva dall’umanità intera”, afferma categoricamente che “la ‘realtà’ fisica, non meno che la ‘realtà’ sociale, è in fin dei conti una costruzione sociale e linguistica”. Attraverso una serie di salti logici sbalorditivi, arriva alla conclusione che “il π di Euclide e la G di Newton, un tempo considerati costanti ed universali, vengono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità […]”. Il resto dell’ articolo è dello stesso tono. Ciò nonostante l’articolo fu pubblicato in un numero speciale di Social Text […]. La beffa fu immediatamente svelata dallo stesso Sokal, suscitando un diluvio di reazioni […]».[4] Tutto ciò avveniva nel 1996. Possiamo considerare da parte nostra che, in generale, stupidaggini alla moda ci siano sempre state ma è abbastanza significativo il fatto che il loro primo massiccio sdoganamento e il loro primo debutto nei circoli della cultura alta sia avvenuto proprio all’interno del mondo stesso degli intellettuali, il quale deve, evidentemente, aver subito qualche trasformazione profonda.
3. L’allarme circa la diffusione di contenuti menzogneri non ha riguardato solo il campo della produzione intellettuale. Nel 2005 il filosofo nordamericano Harry Frankfurt pubblicò un libretto intitolato Bullshit, ovverossia, tradotto in italiano, Stronzate.[5] Così esordiva l’Autore: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. […] non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro, o di quale funzione svolgano. […] In altre parole, non abbiamo una teoria».[6]Il contenuto del libretto era già comparso come articolo nel 1986, tuttavia il successo di pubblico si ebbe nel 2005, quando l’articolo fu pubblicato nella veste di libro, in un contesto dove ormai l’attenzione al problema era piuttosto alta. Con il suo intervento Frankfurt intendeva richiamare l’attenzione su un certo nuovo tipo di contenuti fasulli, poco seri, decisamente fastidiosi e invadenti, che avevano preso a diffondersi sempre più nell’ambito comunicativo e che minacciavano di sommergere qualsiasi altra espressione. Va detto che il libretto di Frankfurt era più che altro un pamphlet dal tono ironico e dissacrante e quindi non presentava, in effetti, alcuna teoria approfondita sul fenomeno in oggetto. Esso ebbe tuttavia il merito colpire nel segno.
Secondo Frankfurt, cercando di ricavare una definizione sintetica dalla sua trattazione,[7] il bullshit sarebbe all’incirca un prodotto linguistico grezzo e sommario che fornisce una rappresentazione non adeguata, insignificante o futile della realtà. Il carattere distintivo del bullshit sarebbe costituito proprio dalla sua totale mancanza di aderenza nei confronti della realtà. All’alba del nuovo secolo, Frankfurt suonava dunque un campanello di allarme, evidenziando un fenomeno di degrado del discorso pubblico che tutti avevano ormai sotto il naso. In effetti, già allora era ben presente la sensazione di essere sommersi da una marea di insulsaggini incontrollate e incontrollabili. Quella di Frankfurt poteva sembrare una boutade, invece gli sviluppi successivi avrebbero finito per superare ogni pessimistica immaginazione.
4. Più o meno nello stesso periodo, cominciava a emergere la sensazione che si stesse diffondendo, presso il vasto pubblico, un atteggiamento di sempre maggior tolleranza verso la menzogna. Il grido di allarme in proposito fu lanciato da Ralph Keyes, nel suo volume Post-Truth Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, uscito nel 2004. Lo studio di Keyes ha segnato, a quanto pare,la prima comparsa del termine post-truth nella titolazione di un libro. Keyes si occupava del fenomeno – com’era allora percepito – della sempre maggior diffusione della menzogna nella vita quotidiana e nella sfera pubblica. L’Autore contrapponeva la situazione tradizionale, nella quale verità e menzogna erano chiaramente contrapposte e in cui la menzogna era per lo più esecrata e andava incontro alla pubblica disapprovazione, a una nuova situazione in cui tra verità e menzogna erano collocate infinite sfumature, in cui la menzogna stava diventando un comportamento sempre più diffuso e sempre meno censurato dalla disapprovazione sociale. Si era dunque di fronte, secondo l’Autore, a un netto cambiamento di segno che coinvolgeva in profondità le relazioni interpersonali e la comunicazione sociale. L’epoca della postverità (post-truth era) sarebbe dunque – secondo l’Autore – una nuova epoca in cui le relazioni interpersonali sarebbero state sempre più caratterizzate dallo sdoganamento della menzogna, accompagnato strettamente dalla diffusione della disonestà. Anche Keyes non produceva alcuna elaborata teoria in merito, tuttavia nel suo libro, dallo stile peraltro piuttosto giornalistico, l’Autore snocciolava una casistica impressionante di fatti e fatterelli che testimoniavano di una sempre maggior indifferenza nei confronti della verità ormai diffusa in tutti i settori della società contemporanea.
5. Il termine post-truth ha poi avuto sempre più diffusione, segno evidente della sua capacità di individuare e contraddistinguere un nuovo fenomeno. Prova ne è che l’Oxford English Dictionary ha deciso di eleggere post-truth come “parola dell’anno” del 2016. Consultando qualche autorevole dizionario possiamo vedere meglio il significato attuale del termine, per come si sta consolidando. Il Collins, alla voce post-truth, recita: «Di, o relativo a, una cultura in cui il ricorso alle emozioni tende a prevalere a discapito dei fatti e delle argomentazioni logiche». Secondo gli Oxford Dictionaries: «Denotante, o relativo a, circostanze in cui i fatti oggettivi, nella configurazione della pubblica opinione, sono meno influenti degli appelli alle emozioni e alle credenze personali». Il Cambridge Dictionary riporta: «Relativo a una situazione in cui le persone sono più propense ad accettare una argomentazione basata sulle proprie emozioni o credenze piuttosto che una basata sui fatti». Tutte le definizioni, come si può ben vedere, segnalano una sorta di antitesi tra un approccio emotivo del tutto soggettivistico e il riconoscimento oggettivo dei fatti. Pongono cioè una contrapposizione tra un atteggiamento di realismo e la mancanza di realismo o l’irrealismo.
Su Wikipedia[8] si può trovare un tentativo di sintesi che costituisce quasi una definizione organica: «Il termine post-verità, […] indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali».[9] La definizione pare del tutto pertinente, anche se, a nostro giudizio, avrebbe bisogno di un’estensione di campo, in aderenza a un fatto ora più che mai evidente: la postverità non concerne solo le discussioni, com’è suggerito, ma coinvolge ormai ogni tipo di comunicazione che sia scambiata nel mondo sociale, e quindi, indirettamente, le stesse relazioni sociali che ne derivano.
6. Il prefisso post davanti a truth ha, più o meno, il significato di un oltre.[10] Si noti che il termine post-truth è considerato nel mondo anglosassone come un aggettivo. La traduzione in italiano con “postverità” lo trasforma in un sostantivo, rendendolo così un concetto astratto. A nostro giudizio poteva andar meglio una traduzione con il costrutto oltre – vero, che può essere usato sia come aggettivo sia come sostantivo, e che porta con sé una vaga assonanza nicciana che non guasta. Pur non intendendo produrre alcuna innovazione terminologica, proverò in questo scritto a usare ogni tanto questo termine, cercando così di esplorare la possibilità di un suo uso efficace.
Sul piano del contenuto, il concetto sta a sottolineare una sorta di oltre passa mento della istanza della verità nella sfera delle comunicazioni e delle relazioni sociali, fino al punto dal determinarne la sua totale perdita di importanza. Nel mondo della postverità, o dell’oltre-vero, la verità sembra essere diventata, insomma, una cosa superflua, una cosa che non è alla nostra portata o una questione che non ci riguarda più. Il termine oltre-vero non si riferisce dunque a particolari contenuti falsi (per i quali esistono già altri termini, come i già citati fake-news o bullshit) ma a una particolare modalità di considerare le questioni di verità che pare si stia instaurando presso il vasto pubblico. Il che può configurarsi come un atteggiamento pratico, soprattutto da parte del grande pubblico oppure come una disposizione teorica, soprattutto da parte degli intellettuali, degli opinion leader e simili.
7. La sensazione dunque è che con l’oltre-vero non ci troviamo più di fronte alla nozione tradizionale della menzogna[11] bensì di fronte a qualcosa di costitutivamente diverso. Secondo Frankfurt – è questa una delle sue argomentazioni più costanti – le stronzate (bullshit)non sarebbero propriamente menzogne. La menzogna classica implica per lo più che chi la proferisce abbia la nozione di quale sia la verità e implica un’esplicita intenzione di occultare la verità. Afferma infatti a un certo punto Frankfurt: «È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Ebbene, produrre stronzate non richiede questa convinzione».[12] La stronzata, come definita da Frankfurt, è invece semplicemente indifferente alla verità e proprio in ciò sta la sua principale inadeguatezza nei confronti della realtà. In ciò sta anche la spiegazione della sua estrema diffusione, della relativa tolleranza con cui è accolta e, in fin dei conti, del suo grande successo. Frankfurt ci ha fornito qui la chiave per una conclusione di qualche rilievo: in una post-truth era che sia giunta a piena maturazione non ci sarebbero più menzogne, ci sarebbero solo stronzate. Nella postverità non c’è più tendenzialmente il caso classico di chi, conoscendo la verità, la neghi consapevolmente per scopi disonesti. Nella post truth era nessuno più pretende di conoscere la verità, semplicemente non c’è più alcun commitment per la verità. Forse proprio per questo i mentitori – anche quelli classici – sono sempre più frequentemente assimilati a simpatici intrattenitori, cioè a bullshit artist.[13]
8. L’atteggiamento di crescente irrilevanza verso la verità non poteva non influenzare il mondo dell’informazione. Parallelamente alle imposture intellettuali e al bullshit, sono salite all’attenzione del pubblico le fake-news, di cui abbiamo già accennato. La definizione di fake-news è decisamente più circoscritta e meno controversa. Recita Wikipedia:[14] «Il termine inglese fake-news (in italiano notizie false) indica notizie redatte con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, rese pubbliche con il deliberato intento di disinformare o diffondere bufale attraverso i mezzi di informazione. Tradizionalmente a veicolare le fake news sono i grandi media, ovvero le televisioni e le più importanti testate giornalistiche. Tuttavia con l’avvento di Internet, soprattutto per mezzo dei media sociali, aumentando in generale la diffusione delle notizie, è aumentata proporzionalmente per logica conseguenza anche la diffusione di notizie false».
Se le fake sembra abbiano avuto la loro lontana origine nel campo della più classica produzione di menzogne, è chiaro che il passaggio delle fake-news dagli ambiti più tradizionali dei grandi media a quelli della rete sta creando le condizioni per una sovrapposizione sempre più ampia tra le fake e il bullshit, fino a una sorta di vera e propria transizione dalla menzogna classica verso il bullshit. Anche i mezzi di informazione – indipendentemente da casi di ricorso a menzogne classiche – sembrano sempre meno sensibili alla verità e sempre più propensi a diffondere contenuti dal basso valore veritativo che siano però dotati di una forte attrattiva per il pubblico. Strettamente connesso alle fake-news è il mondo delle bufale, delle dicerie, dei rumor che spesso costituiscono il contenuto delle fake stesse. Anche in questo caso si tratta di fenomeni che pur essendo sempre esistiti, hanno assunto una loro visibilità ed efficacia in conseguenza dello sviluppo della rete. In Susstein 2009 si trova uno studio sui loro meccanismi di diffusione. Su argomenti analoghi e sulla psicosociologia delle credenze si può consultare Bronner 2003.
9. Infine, la diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità non poteva che coinvolgere in maniera rilevante anche e soprattutto il mondo della politica. Almeno dal 2010 è in uso, nei paesi anglosassoni, il termine post-truth politics. Anche in questo caso la traduzione comporta qualche difficoltà. Alla lettera potrebbe andare bene politica post veritiera, oppure, se vogliamo, possiamo usare la nostra locuzione politica oltre-vera. Sulla scorta di Ferraris 2017, che usa postverità come sostantivo e postruista come aggettivo, potrebbe andar bene politica postruista.
Citiamo da Wikipedia anglofona: «La post-truth politics (denominata anche post-factual politicse post-reality politics) è una cultura politica in cui il dibattito è largamente caratterizzato da appelli alle emozioni del tutto disconnessi dai dettagli effettivi delle varie politiche, e dalla continua ripetizione delle parole d’ordine, le cui confutazioni fattuali sono del tutto ignorate. La post-truth politics è differente dalla tradizionale contestazione e falsificazione della verità in quanto consiste nel trattare la verità come una cosa di secondaria importanza. Sebbene questo fenomeno sia stato descritto come un problema nuovo, c’è la possibilità che esso faccia parte da tempo della vita politica, ma che sia stato poco visibile prima dell’avvento di internet e dei suoi relativi cambiamenti sociali».
La politica postruista (o oltre-vera) è dunque una politica che, seguendo l’andazzo generale, è diventata indifferente alle questioni di verità, non tiene conto dei fatti, non tiene conto della realtà delle cose. Una politica, insomma, che fa a meno della verità. La politica postruista costituisce così la curvatura che la politica assume quando questa sia collocata entro il quadro della postverità, sia sul piano pratico sia su quello teorico. Poiché la politica postruista è una politica che si sviluppa sul terreno della postverità, essa tende a fare liberamente largo uso di imposture, fake e bullshit. Come casi esemplari di politica postruista sono state spesso citate la campagna per la brexit e quella per la prima elezione di Trump alla Casa Bianca nel 2016. La campagna condotta, con successo, da Trump nel 2024 non fa che confermare l’esemplarità del caso.
10. Come si vede dalla rassegna che abbiamo presentato, siamo in presenza, a quanto pare, di fenomeni nuovi, per molti versi inaspettati, che stanno assumendo un peso di rilievo nella vita delle nostre società. Si tratta di fenomeni di non facile definizione e che sembrano tuttavia avere per lo meno qualche somiglianza di famiglia.[15]Oltretutto, la terminologia relativa a questo campo è ancora in fase di formazione, vi si possono trovare usi e definizioni alquanto sovrapponibili ma anche alquanto diversificati. Quel che è certo comunque è che tutte queste novità linguistiche e concettuali segnalano, direttamente o indirettamente, la consistenza e la pervasività del fenomeno che stiamo cercando di circoscrivere e rappresentare.
Volendo utilizzare una metafora intuitiva, tanto per stipulare con il lettore una convenzione provvisoria, propongo di immaginare un gigantesco iceberg che galleggia in mare: le imposture intellettuali (fashionable nonsense), le fake-news e la politica postruista sarebbero l’equivalente della punta dell’iceberg. Sarebbero cioè la parte più visibile che corrisponde a ciò che il vasto pubblico ha cominciato appena a scorgere. Il bullshit, data la genericità della sua definizione, costituirebbe l’iceberg nella sua totalità, che notoriamente è molto più grande della parte emersa e, proprio per questo, molto più pericoloso. La postverità, o il mondo dell’oltre-vero, sarebbe il mare dove galleggia tranquillamente il bullshit, sia per la parte emersa che per quella sommersa. Secondo questa immagine, le imposture intellettuali, le fake-news e la politica postruista si potrebbero considerare come tipi specifici di bullshit, cioè per così dire specie di stronzate specializzate, avendo tutte in comune la caratteristica minimale di non prendere sul serio la verità e la realtà.[16] Va da sé che, in questo quadro, viene a essere sempre più trascurabile la menzogna classica, la quale – pur non essendo certamente sparita – sembra divenuta meno importante, perché nel mare dell’oltre-vero – come s’è detto – nessuno più pretende di sapere una qualche verità e di volerla intenzionalmente celare.
Dopo avere delineato sommariamente, in termini descrittivi, i fenomeni che ci interessano e le relative nomenclature, cercheremo, in quel che segue, di esplorare alcuni aspetti dell’inquietante paesaggio glaciale di fronte al quale ci troviamo e con il quale ci dovremo sempre più confrontare nel prossimo futuro.
11. Se la posterità (o l’oltre-vero) è il mare che tiene a galla il bullshite tutto il resto, è il caso allora di comprendere meglio di che cosa si tratti. La postverità, in estrema sintesi, può essere ricondotta al consolidamento e alla diffusione presso il vasto pubblico di una convinzione, di ordine pratico e teorico, secondo cui in molte situazioni la verità è trascurabile. Questa convinzione implica che ci possono essere tante verità, che possiamo fare a meno di una nozione condivisa di verità e che, quindi, non abbiamo più alcun interesse a fare sforzi e a impiegare risorse per accertare la verità e per dire la verità. In altre parole, ormai ci sono soltanto dei punti di vista, collocati tutti sullo stesso piano, che ciascuno accoglie o rifiuta in base a disposizioni e scelte del tutto personali, o anche in base al momento. Il tutto però – si badi bene – è supportato da un’ulteriore sottile connotazione di ordine morale, secondo la quale è inevitabile, o addirittura giusto, che sia così e secondo la quale, così facendo, possiamo cavarcela tranquillamente o, addirittura, vivere decisamente meglio di prima. Meglio di quando ci trovavamo sotto l’assillo della verità. Insomma, la condizione della postverità può essere vissuta come un fatto positivo o addirittura come una liberazione. Si badi bene che chi pratica e condivide l’oltre-vero non necessariamente deve esserne compiutamente consapevole. Basta fare quello che fanno tutti, quel che è considerato del tutto normale. Provando ad addentrarci ulteriormente nei meandri della postverità, per comodità di analisi, distingueremo ora un ambito pratico e un ambito teorico, anche se nella realtà i due aspetti sono strettamente intrecciati e correlati.
11.1. Per quel che concerne l’ambito pratico, sembra dunque assodato che in molte situazioni, la verità non sia più considerata come un imperativo capace di qualificare il nostro comportamento e di dirigere le nostre scelte. Si tratta di un mero fatto, sotto gli occhi di tutti. Affermava Keyes già nel 2004: «Anche se ci sono sempre stati dei mentitori, le menzogne di solito sono state dette con esitazione, un pizzico di ansietà, un po’ di colpa, una qualche vergogna, almeno qualche imbarazzo. Ora, intelligenti come siamo, abbiamo tirato fuori degli stratagemmi per manomettere la verità tanto che possiamo dissimulare senza sentirci in colpa. Questo lo chiamo post-vero. Noi viviamo in una era post-vera (post-truth era). La postverità esiste in una zona grigia dell’etica. Ci permette di dissimulare senza che ci dobbiamo considerare disonesti. Quando il nostro comportamento confligge con i nostri valori, la cosa più facile che possiamo fare è di rivedere i nostri valori. Pochi di noi sono disposti a pensare di se stessi di essere immorali e tanto meno attribuire ad altri qualcosa di simile, così ricorriamo ad approcci alternativi alla moralità. Si pensi a questi approcci come a una sorta di alt ethics [etica alternativa]. Questo termine si riferisce a sistemi etici nei quali dissimulare è considerato positivo, non necessariamente sbagliato, a volte non effettivamente “disonesto” nel senso negativo della parola. Anche se noi raccontiamo più menzogne che mai, nessuno vuole essere considerato un mentitore».[17]
Insomma, è come se noi, in pratica, tenessimo costantemente spalancata una zona grigia entro la quale la definizione di vero e falso è tenuta continuamente in sospensione, tanto che la questione della verità non ha più alcuna rilevanza agli effetti delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. Siamo sempre più ambigui e ci aspettiamo continuamente di trovarci di fronte all’ambiguità. L’indifferenza verso la verità, nel suo lato pratico, pare così avere perso il carattere minaccioso della figura del mentitore, di colui che conoscendo una verità la celava per ingannare. Pare anzi assumere una connotazione positiva, poiché pare capace di oliare adeguatamente la macchina delle relazioni sociali. Non badare troppo alla verità risparmia un sacco di fastidi e permette di essere sempre perfettamente adeguati.
11.2. Si noti che un atteggiamento oltre-vero nell’ambito pratico è possibile solo in un contesto nel quale sia indebolita la nozione stessa della autenticità individuale. Il problema di fronte a cui si trovano costantemente gli individui oltre-veri non è più quello di presentarsi agli altri nella propria autenticità quanto quello di apparire in modo adeguato alla situazione in cui si trovano. Nello sforzo di essere aderenti a ciascuna situazione, i singoli individui sono sempre più disincentivati allo sforzo di definire una propria autenticità personale stabile e permanente. Ciò ingenera identità fluttuanti che curano soltanto la rappresentazione contestuale da mettere in scena. Insomma, sempre meno autentici e sempre più teatranti. Solo in una simile prospettiva la menzogna può essere derubricata a peccato veniale o anche considerata come una sottile arte di buona condotta, come nel caso del già citato bullshit artist. Con la postverità cade l’interesse per una definizione stabile del self e quindi un interesse per l’autenticità della rappresentazione di sé presso gli altri. Poiché si deve mettere in scena una rappresentazione adeguata e poiché il contesto muta velocemente, allora il bullshit può rappresentare uno strumento di lavoro del tutto ammissibile, anzi una materia prima indispensabile – nello spirito rortyano di essere ironici, tolleranti e socievoli.[18]
11.3. La diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità oltre al suo lato pratico ha naturalmente anche il suo lato teorico. La perdita di importanza della verità in campo pratico è del tutto parallela con la convinzione che la verità non esista, e viceversa. Non ci stiamo occupando qui della questione filosofica della negazione della verità, vecchia quanto la filosofia occidentale.[19] Ci occupiamo piuttosto di un fatto conclamato ed esplicito, cioè della convinzione oggi diffusa ovunque – dagli intellettuali ai politici, fino alle casalinghe – secondo cui in fin dei conti non c’è alcuna questione di verità di cui valga la pena di occuparsi.
11.4. Questa idea strampalata,[20] per quanto se ne sa, ha presumibilmente avuto origine nell’ambito dei movimenti radicali degli anni Sessanta. Fu proprio in quell’ambito che cominciarono a diffondersi, a livello di massa, sull’onda della popolarità delle filosofie del sospetto,[21] due orientamenti strettamente imparentati con l’oltre-vero, e cioè il relativismo[22]e, soprattutto, il politically correct.[23] Si trattava, in origine, dell’applicazione di un egualitarismo radicale al linguaggio, alle relazioni sociali e ai fenomeni culturali. Siccome la verità era generalmente considerata come un’imposizione del potere (come ad es. in Michel Foucault) allora non restava che considerare come altamente sospetta e pericolosa qualunque pretesa veritativa e riconoscere radicalmente la pluralità dei punti di vista. Ciò trovava ampie applicazioni soprattutto nel campo del discorso, ma anche nei campi relativi ai rapporti tra i sessi o alle questioni etniche. Ben presto però tutte le nozioni cardine elaborate dalla modernità, come la razionalità, la logica, le grammatiche e le enciclopedie, la scienza, la tecnologia, gli apparati giuridici e istituzionali, furono sottoposte a una critica erosiva, spesso vandalica, che mirava a smascherare il potere ovunque nascosto, a imporre la neutralità terminologica e a riconoscere la molteplicità dei punti di vista.
11.5. Proprio a partire dal relativismo e dal politically correct, nel volgere di pochi anni, ha preso forma e si è diffusa presso il vasto pubblico, anche e soprattutto come una moda, la filosofia postmoderna che ha costituito una specie di pastiche sincretico – di carattere cinico, anarcoide e antimoderno – di tutte le filosofie che nell’ambito dei movimenti si erano connotate contro. Il postmoderno si è scagliato contro tutti i sistemi consolidati di verità e ha proclamato la fine delle grandi narrazioni. Al posto del pensiero forte (quello che pretenderebbe di veicolare una qualche verità) è stato esaltato il pensiero debole ed è stato dato l’addio alla verità.[24]
Sui rapporti tra il postmoderno e la postverità (o oltre-vero) è stato scritto alquanto e ci sarebbe molto da dire.[25] Abbiamo già citato le imposture intellettuali e la burla di Sokal che era diretta proprio contro la filosofia postmoderna. Per brevità, mi limiterò a un breve montaggio di alcuni passi di Maurizio Ferraris, che è intervenuto ancora recentemente sulla questione nel suo libretto intitolato Postverità e altri enigmi.[26] L’Autore sottolinea il peso che ha avuto il postmodernismo nello screditamento della verità anche e soprattutto a livello del grande pubblico. Si domanda Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto, dalla filosofia. […] La postverità è un frutto, magari degenere, del postmoderno».[27] E continua: «[…] quella che si chiama «postverità» non è che la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni»».[28] E ancora: «[…] la postverità è l’inflazione, la diffusione e la liberalizzazione del postmoderno fuori dalle aule universitarie e dalle biblioteche, e che ha come esito l’assolutismo della ragione del più forte».[29] Più precisamente: «L’ultima fase [del postmoderno ndr] […] corrisponde alla popolarizzazione delle idee postmoderne, che escono dalle accademie e, con l’aiuto decisivo dei media, si trasformano dapprima nel populismo (in cui esiste ancora un rapporto verticale tra governanti e governati garantito dalla televisione) e poi nella postverità (in cui il rapporto diviene orizzontale, visto che governanti e governati si servono dei medesimi social media)».[30] E ancora, tanto per finire: «[…] la continuità fra postmoderno, populismo e postverità è diretta».[31]
11.6. Se questa piccola ricostruzione ha qualche fondamento, allora l’antipatia per la verità, che sta con ogni evidenza alle origini della post-truth era, è dunque storicamente connessa, in forma ovviamente del tutto scorretta, all’antipatia per il potere, per tutte le limitazioni e per i vincoli di ogni sorta. Essa corrisponde a un momento intenso di autoesaltazione dei soggetti i quali pare abbiano preso a considerare se stessi come il centro del mondo. In filosofia – come bene ha spiegato Ferraris – questo atteggiamento è tipicamente costituito e supportato dalle filosofie trascendentali, attraverso l’idea cioè che il soggetto strutturi il mondo attraverso gli schemi della sua mente.[32] Più ampiamente, a livello culturale, questo atteggiamento è stato tipico di tutti i romanticismi. In proposito, così ha sintetizzato Isaiah Berlin: «I fondamenti essenziali del Romanticismo sono i seguenti: la volontà, il fatto che non esiste una struttura delle cose, che ci è possibile plasmare le cose a nostro piacimento – esse pervengono all’essere soltanto per effetto della nostra attività plasmatrice –, e di conseguenza l’opposizione a qualunque concezione che cerchi di rappresentare la realtà come dotata di una forma suscettibile di essere studiata, descritta, appresa, comunicata ad altri, e sotto ogni altro aspetto trattata in un modo scientifico».[33] Insomma, secondo Berlin, anche quando i romantici sembrano profondamente immersi in quel che fanno, essi sono pervicacemente fuori dal mondo, assolutamente indisponibili a venire a patti con la realtà. Si noti che il romanticismo è stato forse la prima forma culturale prodotta da intellettuali a essere ampiamente popolarizzata e ad avere guadagnato una specie di vita autonoma. Molto prima del postmoderno.
12. Perché proprio ora? Si tratta di fenomeni decisamente nuovi oppure si tratta solo di nuove modalità di presentazione di fenomeni vecchi come il mondo? Secondo diversi studiosi, la caduta dell’autorità veritativa cui stiamo assistendo sarebbe stata resa possibile, ingigantita e moltiplicata, da una nuova base materiale (per dirla con Marx) prima sconosciuta, costituita dalle nuove tecnologie dell’informazione. In altri termini, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione costituirebbe una condizione sufficiente, seppure non necessaria, dell’oltre-vero. In effetti, a guardare bene, le tappe temporali dell’allarme circa la diffusione della famiglia delle nuove menzogne sono all’incirca le stesse che hanno segnato la diffusione delle nuove tecnologie.
Le nuove tecnologie, seguendo Ferraris,[34] hanno agito, a quanto pare, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, la rivoluzione delle nuove tecnologie ha messo a disposizione di ogni singolo individuo la possibilità di memorizzare, elaborare e diffondere una quantità enorme d’informazione. Ancora nel caso dei primi media, l’informazione era distribuita a senso unico da centri e agenzie specializzate verso il pubblico. Oggi ogni singolo è diventato un’agenzia di produzione e diffusione. In secondo luogo, nello stesso tempo, è aumentato decisamente il ruolo della informazione nella costituzione intrinseca del mondo sociale.[35] In particolare si è reso sempre più tangibile il ruolo delle iscrizioni e dei documenti nella vita quotidiana e nella strutturazione stessa delle istituzioni. Ferraris, per concettualizzare queste trasformazioni, ha parlato di una rivoluzione documediale.
Secondo Ferraris: «[…] la rivoluzione documediale è l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui ogni ricettore di informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di informazioni e di idee».[36] La documedialità ormai diffusa sta così permettendo una strutturazione completamente nuova dello spazio comunicativo, rendendo così possibile – sebbene non sia una conseguenza necessaria – anche il mondo della postverità. Così ha sintetizzato Ferraris con una formula davvero icastica: «L’ideologia che anima la postverità è l’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso) ma da sole».[37]
Le nuove tecnologie sembra dunque abbiano così reso possibile – magari anche solo come effetto secondario – una indifferenza di massa nei confronti della verità e della realtà.
13. Il carattere peculiare della nuova situazione è chela verità, da fatto pubblico e sempre soggetto a qualche tipo di controllo autoritativo – qual era stata finora prevalentemente – tende sempre più a diventare un fatto privato che tuttavia è costantemente ed egotisticamente sbandierato in pubblico da chiunque. Ciascuno è diventato imprenditore della propria verità. Questa nuova situazione contrasta profondamente con un’imposizione che si è sempre accompagnata alla nozione tradizionale della verità e cioè con l’obbligo morale di dire la verità o, per lo meno, di tener conto della verità. I greci avevano elaborato in proposito il concetto della parresia,[38] su cui ha riflettuto l’ultimo Foucault. Socrate non può evitare di dire la verità ai suoi concittadini. Oggi Socrate avrebbe il suo blog e, a parte i suoi follower, sarebbe perfettamente ignorato da tutti. Al posto della parresia pubblica, divenuta impossibile, abbiamo oggi l’impulso a pubblicare i nostri preziosi punti di vista, anche se già svalutati in partenza dalla loro convivenza con i punti di vista di milioni di altri soggetti.
Volendo usare una semplificazione, è come se l’indebolimento e la crisi delle grandi narrazioni collettive – fenomeno che è stato ampiamente sottolineato proprio dal postmodernismo – avesse lasciato il posto a una moltitudine di micro narrazioni private riguardanti i campi più disparati e che ciascuno ora è in grado, per quel che può, di costruire, di mantenere e diffondere a suo uso e consumo. Ognuno prende per veri i propri deliri e li mette in rete, alla ricerca di qualcun altro disposto a condividerli, con la probabilità, sorprendentemente alta, di trovare un gran numero di follower. Analizzare e smentire ciascuno di questi infiniti deliri sarebbe ormai un compito improbo per qualsiasi autorità che abbia in mentre di provvedere a qualche tipo di controllo e certificazione. Il volume enorme di pretese verità e narrazioni che si rendono ogni giorno disponibili non fa altro che produrre una sorte di meccanismo di inflazione. Troppe verità in giro non possono che andare soggette a una svalutazione. Così la zona grigia tra il vero e il falso si è dilatata mostruosamente, come aveva già suggerito Keyes.
14. Questa trasformazione non resta confinata ai singoli individui. La postverità tende sempre più a caratterizzare lo spazio comunicativo e il fatto più rilevante è che si appresta inavvertitamente a prendere il posto dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica in Occidente – secondo il classico studio di Habermas[39]– è nata con la libertà di pensiero e con la diffusione dei primi mezzi di comunicazione, come le gazzette e i servizi postali, e dei primi luoghi di incontro, come caffè e teatri.[40] I singoli soggetti s’informavano, s’incontravano, discutevano e alla fine opinavano, esprimevano cioè un’opinione più o meno meditata intorno a importanti questioni pubbliche. L’opinione pubblica (che pure non sempre aveva ragione) contribuiva comunque – nel sistema democratico – all’elaborazione di credenze condivise, all’identificazione del bene comune e alla formazione della volontà generale. Sappiamo bene che la nozione dell’opinione pubblica habermasiana è stata sottoposta a molte critiche. Spesso ne sono stati identificati i limiti. Lo stesso Habermas aveva parlato, quando ancora il fenomeno era poco avvertito, di una crisi della opinione pubblica. Molti studi relativi alle trasformazioni delle democrazie contemporanee si sono focalizzati sulle trasformazioni o sui limiti della opinione pubblica. Tuttavia resta pur sempre il fatto che una opinione pubblica matura costituisce uno dei pilastri essenziali delle democrazie.
Accade così che, al posto della vecchia opinione pubblica, plurale e variegata, fatta di molteplici incontri faccia a faccia che avvenivano ancora in spazi fisici e grazie a oggetti fisici, oggi si va sostituendo il mare della nostra metafora, ossia un unico spazio virtuale indifferenziato, di dimensioni globali, dove ogni individuo – divenuto centro di elaborazione e diffusione di informazione – rovescia i suoi contenuti e valuta i contenuti altrui con risposte che si mantengono – come si è detto – per lo più a livello espressivo ed emotivo, e che non hanno mai alcuna validazione, alcun confronto effettivo con la realtà. Uno spazio in continua ebollizione, dove tuttavia non si giunge mai ad alcuna conclusione, alcun accordo, dove anzi si scatenano sovrapposizioni continue, dove c’è continua concorrenza o dove ci si ignora bellamente. Si tratta di uno spazio in cui gli universali della comunicazione[41] sono costantemente violati o stravolti. Si tratta tuttavia di uno spazio che è in grado di condizionare in modo imprevedibile le risposte, le scelte e i comportamenti di un pubblico enorme. In questa alterazione radicale delle caratteristiche della tradizionale opinione pubblica sta proprio la radice dei fenomeni più eclatanti della postverità e cioè della invasione delle imposture intellettuali, delle fake-news e della politica postruista.
15. Il mondo della postverità – è il caso di ricordarlo esplicitamente –è decisamente antitetico ai fondamenti del processo politico democratico. La nozione roussoviana della democrazia implicava che i cittadini dovessero stabilire un’agenda comune, dovessero entrare in un confronto razionale tra loro e che, alla fine, dovessero giungere a deliberare intorno al bene comune. E che la deliberazione della maggioranza dovesse essere accettata dalle minoranze, poiché tutti sarebbero stati tenuti a sottomettersi alla regola della maggioranza. Per fare questo occorreva comunque che si condividessero gli universali della comunicazione, ad esempio l’esigenza di argomentare, di fornire delle prove, di non fraintendere, di non screditare l’interlocutore. Nella post-truth era non c’è più nulla di tutto questo. Nessuno è più tenuto ad argomentare, ad ascoltare, a confutare o a consentire, non ci sono più universali comuni che sottintendano alla comunicazione. Non si cerca più una verità comune perché si è già convinti che una verità comune non c’è, e che non è neppure così importante che ce ne sia una. I criteri di scelta di ciascuno sono imperscrutabili e comunque del tutto fluidi. Gelosamente privati. O al più condivisi momentaneamente in ambiti ristretti. I gruppi dei follower si fanno e si disfanno con grande rapidità, non discutono esaurientemente di nulla, non deliberano su nulla, al più usano una logica binaria del tipo like–dislike. L’unica cosa implicita che è sempre presente è la richiesta a tutto il mondo del riconoscimento del proprio punto di vista, del proprio ego. Questa nuova situazione non può che spingere i sistemi democratici verso il populismo.[42]
16. Abbiamo rilevato come le nuove tecnologie dell’informazione abbiano costituito per lo meno la condizione sufficiente – seppure non necessaria – per lo sviluppo del mondo dell’oltre–vero. Tuttavia è assai problematico individuare quale sia esattamente la connessione tra i due fenomeni e su questo punto anche tra gli studiosi sussistono molte divergenze. Per capire meglio la questione dobbiamo approfondire la questione del rapporto tra tecnologia e cultura.
16.1. Sugli effetti culturali delle tecnologie, il riferimento più tradizionale va a McLuhan e alla scuola di Toronto. Secondo questo orientamento, le tecnologie della comunicazione sono delle vere e proprie estensioni del self e gli esseri umani tendono a costruire il proprio self in funzione delle tecnologie comunicative di cui dispongono, nella loro società e nella loro epoca storica. Gli studiosi della scuola di Toronto hanno distinto all’incirca tre fasi fondamentali nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia. La prima fase sarebbe quella dell’oralità primaria. È questa la condizione delle società che non conoscono la scrittura e che devono organizzare tutto il loro patrimonio culturale intorno all’oralità. Esempio tipico di questa condizione è la cultura omerica, cui corrispondeva un ben preciso tipo di organizzazione del self. A questa prima fase segue la seconda, che corrisponde all’introduzione della scrittura e – dopo molti secoli – all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Secondo McLuhan la modernità sarebbe stata possibile solo grazie all’invenzione della stampa, a partire dalla quale si sono sviluppati la Riforma e il pensiero scientifico moderno. Questa seconda fase, assai lunga e variamente definita, sarebbe culminata con lo sviluppo dell’individualità moderna, cioè con il self del cosiddetto uomo gutemberghiano. Si tratta di un self articolato e complesso che è strutturato in forma argomentativa, dotato di un ordine rigoroso, esattamente come un libro stampato.
Solo nella seconda metà del Novecento alcune invenzioni (il telefono, la radio, la televisione) avrebbero spodestato il libro stampato e avrebbero reso possibile la formazione del self per altre vie, recuperando gli aspetti visivi e auditivi della comunicazione. Si sarebbe così giunti alla cosiddetta terza fase, che comporterebbe un indebolimento del carattere gutemberghiano del self e a una sorta di recupero di funzionalità tipiche dell’antica oralità prescritturale. Questa fase è stata definita come oralità secondaria o oralità di ritorno. McLuhan ha caratterizzato questa come la fase del villaggio globale, reso appunto possibile dai media, il cui prototipi erano la radio e la televisione. Nell’ambito della scuola di Toronto naturalmente gli ultimi sviluppi legati alla rete e ai social media sono stati considerati come una conferma della interpretazione di McLuhan.
16.2. Non mancano ai giorni nostri studi specifici sugli effetti a vasto raggio delle nuove tecnologie sul self e sulla cultura. In molti casi i risultati sono effettivamente allarmanti. Un caso è quello di Nicholas Carr che ha pubblicato nel 2010 uno studio dal titolo Internet ci rende stupidi?[43]L’Autore ha ripreso le tesi di McLuhan e le ha messe a confronto con i più recenti risultati delle neuroscienze. Ebbene, le tesi dello studioso canadese sono uscite decisamente corroborate e meglio chiarite nei dettagli applicativi. Nello studio di Carr si mostra, con dovizia di basi empiriche, come il nostro cervello sia eminentemente plastico e come le nuove tecnologie siano in grado di cambiare profondamente – in termini fisici – le nostre stesse connessioni e strutture cerebrali e il nostro apparato cognitivo. In particolare, poi, gli studi di Dehaene[44] sulla lettura – ripresi da Carr – hanno mostrato in maniera inequivocabile come gli alfabetizzati abbiano dovuto costruire, nel loro sviluppo, delle particolari strutture cerebrali per essere messi in grado di leggere correntemente. Ha affermato Carr: «La Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è la più potente arrivata dopo il libro».[45] L’autore ha lanciato di conseguenza un allarme rispetto alla dipendenza che s’instaura nei confronti delle nuove tecnologie e rispetto all’obsolescenza degli strumenti della cultura – come il libro – cui è stato legato lo sviluppo degli ultimi secoli. Tutto ciò costituirebbe una minaccia molto seria per il pensiero articolato e complesso.
16.3. Non tutti gli studiosi concordano con le teorie della scuola di Toronto. In effetti, se non ci si vuol impegnare con una teoria complessa come quella di McLuhan, per tutta la famiglia di fenomeni connessi all’oltre-vero è disponibile una spiegazione più elementare, la quale insiste sulla sproporzione che è venuta a determinarsi tra la potenza estrema dello strumento reso disponibile dal progresso tecnologico e i limiti (l’animalità, la stupidità o l’imbecillità) dell’utilizzatore medio. Un po’ come nel caso della bomba atomica.
Ferraris, ad esempio, non concorda con le tesi della scuola di Toronto. Secondo Ferraris non sussisterebbe il fenomeno del ritorno a una qualche sorta di oralità secondaria e la nostra civiltà continua a essere, a pieno titolo, una civiltà della scrittura. Pochi anni fa l’Autore aveva scritto un libro per mostrare che il telefonino – data la sua capacità di fondere insieme testo, suono e immagini – costituisce uno sviluppo della fase gutemberghiana, una sua compiuta realizzazione e non certo la sua crisi.[46] Ferraris quindi è stato indotto ad attribuire l’avvento della postverità soprattutto al cattivo influsso di una cattiva filosofia e cioè – come abbiamo già visto – alla filosofia postmoderna. L’avvento della post-truth era sarebbe stato determinato da una scelta colpevole, sia da parte di certi intellettuali sia da parte del grande pubblico che si è lasciato abbindolare. Il tutto non può che tradursi in una condanna morale. Un giudizio assai tranchant nei confronti della tendenza diffusa a sottovalutare le questioni di verità è stato in effetti dato da Ferraris, tra il serio e il faceto, in termini di accusa di imbecillità. Dice Ferraris: «Definisco […] categorialmente o transcategorialmente, l’imbecillità come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è una colpa».[47] Sembra tuttavia che l’indignazione morale non possa esser sufficiente a contrastare quello che pare stia diventando un vero e proprio fenomeno di massa. Anche se Ferraris pare sostenere che l’imbecillità umana sia una costante e che, talvolta, possa giocare anche un ruolo positivo nello sviluppo dello spirito umano.
Anche Umberto Eco aveva sostenuto qualcosa di simile. È il caso di ricordare la sua famosa affermazione: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».[48]Secondo Eco, dunque, la stessa potenza delle nuove tecnologie stava rendendo possibile la riproduzione e diffusione ovunque della spazzatura subculturale. Alle origini del fenomeno ci sarebbe sempre il contrasto tra la potenza dello strumento e la costitutiva stupidità umana che sarebbe da considerarsi, sul piano storico, più o meno come un elemento invariante.
16.4. Altri studiosi hanno segnalato, in forme diverse, sempre a partire dagli anni Novanta, la realtà di un progressivo degrado culturale a livello di massa, che costituirebbe una netta inversione di tendenza rispetto al periodo precedente. Il linguista Tullio De Mauro ha spesso richiamato l’attenzione sull’analfabetismo funzionale di una parte rilevantissima della popolazione italiana, a cui l’istruzione di massa, promossa in tutta la seconda metà del Novecento, pare non abbia posto gran che rimedio.[49] Le statistiche in questo senso sono, in effetti, sempre più preoccupanti e, in termini funzionali, non si nota alcun miglioramento.
Va segnalato anche – quasi profetico nel nostro contesto – il grido di allarme di Sartori nel suo famoso libretto Homo Videns che è del 1997.[50] Sartori fin da allora si era particolarmente interessato al destino dell’homo politicus, che egli vedeva lentamente trasformarsi in homo videns, una specie di bambino mai cresciuto che non è più in grado di ragionare. Seguendo in un certo qual modo McLuhan, Sartori ha messo l’accento sulla differenza fondamentale tra vedere e pensare e sul «[…] prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza capire».[51] Afferma Sartori: “[…] tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensibilis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e cancella i concetti: ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire. […] L’idea, scriveva Kant è «un concetto necessario della ragione al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto adeguato”».[52]
Va segnalato che il sottotitolo del libro di Sartori era Televisione e post-pensiero. Il post-pensiero cui accenna Sartori sembra del tutto analogo alla post-verità di cui abbiamo lungamente discusso. Così si esprime, infatti, Sartori, riferendosi al nuovo tipo umano derivante dalla prevalenza dell’immagine sul pensiero: «Il loro non è un genuino anti-pensiero, un attacco dimostrato o dimostrabile al pensare logico-razionale; è più semplicemente una perdita di pensiero, una banale caduta nella incapacità di articolare idee chiare e distinte».[53]Anche in questo caso possiamo parlare di una sopravvenuta irrilevanza del pensiero logico – razionale in una situazione in cui le immagini paiono esaurire il nostro rapporto con la realtà. Sartori si mostrava ben consapevole del fatto che la politica democratica era strettamente legata al pensiero argomentativo e che la progressiva prevalenza di media non-argomentativi avrebbero determinato un grave pericolo per la democrazia.
Anche il linguista Raffaele Simone in diversi suoi scritti ha ripreso, in un certo senso, alcuni aspetti delle tesi di McLuhan. Egli tuttavia – più che sviluppare un’articolata teoria dell’oralità secondaria – si è limitato a costatare, attraverso osservazioni empiriche del fenomeno linguistico, che i nuovi media e la rete inibiscono certi modelli culturali dove la testualità è ricca a favore di certi altri ove la testualità è più superficiale ed elementare. Il che rappresenta un ovvio indebolimento dell’uomo gutemberghiano. Si è limitato inoltre a far notare che sussiste il rischio di un grave impoverimento del pensiero. Non a caso il sottotitolo del suo libro del 2000 suona: «Forme di sapere che stiamo perdendo». Darò qualche spazio, nel prossimo paragrafo, alle tesi di Simone, non perché le ritenga del tutto risolutive, ma poiché mi paiono descrivere in maniera appropriata alcuni dati di fatto difficilmente confutabili e oltremodo preoccupanti cui ci troviamo di fronte.
17. Nel suo studio intitolato La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo[54]Simone ha condotto, dal punto di vista del linguista, un’interessante analisi sul fenomeno del cambiamento del self in relazione alle mutazioni dello spazio comunicativo. Poiché il self è in gran parte un costrutto linguistico, è del tutto lecito pensare che il tipo di linguaggio che usiamo e in cui siamo costantemente immersi contribuisca alla strutturazione dello stesso self.
17.1. Come premessa, è di grande interesse una sua nota metodologica relativa alla possibilità di individuare e circoscrivere dei fenomeni che sono per loro natura sfuggenti e che hanno attinenza con le lente trasformazioni culturali e sociali. L’Autore li ha chiamati fenomeni vaghi. Afferma Simone in proposito: «[…] il mondo del simbolico è ricco di quelli che […] ho suggerito di chiamare “fenomeni vaghi” […]. Si tratta di fenomeni di cui tutti avvertiamo la presenza, che ci colpiscono a volte con un’evidenza quasi insopportabile, contro i quali possiamo reagire perfino con fastidio, perché ci irritano o semplicemente ci disorientano – ma che non si lasciano ridurre a cifre, tabelle e trend, non affiorano sotto forma di dati palpabili e obiettivi. Spesso non si lasciano neanche indicare con un nome preciso – anzi, quando li trattiamo in questo modo, si limitano a sparire silenziosamente».[55] È evidente che molti dei fenomeni che abbiamo descritto a proposito della postverità sembrano possedere proprio le caratteristiche dei fenomeni vaghi.
17.2. Simone, nel suo studio, ha cercato dunque di individuare e circoscrivere un fenomeno vago come il cambiamento che sta avvenendo nella struttura del self delle giovani generazioni. Basandosi su osservazioni empiriche sul mondo giovanile e sul confronto tra le generazioni, ha introdotto un’interessante distinzione tra culture proposizionali e culture non proposizionali. Egli osserva che: «[…] negli ultimi decenni del secolo XX, le generazioni giovani hanno adottato usanze comunicative totalmente diverse da quelle dei loro genitori (e più ancora dei loro nonni)».[56] Per comprendere adeguatamente queste trasformazioni: «Distinguerò […] due modelli di uso del linguaggio: uno che chiamerò proposizionale, l’altro che chiamerò non-proposizionale.[…] La pratica proposizionale è tipica di chi ritiene che l’esperienza, se è rilevante, debba essere espressa in parole – anzi, più propriamente, in parole organizzate in proposizioni – e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto più sono interrelate tra di loro, formano cioè testi in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo di struttura».[57] Simone sta parlando qui di scrittura. È il caso di ricordare che per definizione: «Nella teoria della letteratura, un testo è qualsiasi oggetto che può essere «letto»».[58] Questo significa che il carattere testuale dell’uso proposizionale non può che derivare dalla familiarità con il testo scritto. L’uso proposizionale del linguaggio è dunque tipicamente gutemberghiano. Afferma Simone che: «[…] l’atteggiamento proposizionale rispetta massime tacite come «sii analitico, sii referenziale, sii strutturato, sii gerarchico». Questi requisiti sono strettamente collegati tra loro, anzi possono essere visti come facce della stessa realtà».[59] Queste massime sono chiamate dall’Autore Massime della Lucidità. Si evoca qui il criterio cartesiano del chiaro e distinto.
17.3. All’inverso, secondo Simone, le caratteristiche dell’atteggiamento non – proposizionale sarebbero le seguenti:«[…] a) è generico, perché non scompone il contenuto del pensiero in elementi distinti, ma si limita ad evocarlo globalmente, lasciandolo inanalizzato e indistinto; b) è vago dal punto di vista referenziale, in quanto non designa individui, ma solo categorie generali indifferenziate; c) per conseguenza non dà nomi alle cose, ma allude, usando “parole generali”, entro le quali si può includere quello che si vuole, così facendo conto su una conoscenza globale condivisa, nella quale i singoli oggetti non hanno nome, e quindi non è necessario nemmeno indicarli specificatamente; d) rifiuta la struttura, sia quella gerarchica dei componenti, sia quella sintattica e testuale, oppure usa strutture estremamente semplici; non usa gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore il compito di crearsene una».[60] La conseguenza è che: «Questo orientamento si ispira quindi a una sorta di generale Massima di Fusione. Per effetto di questa, tutto si presenta in una massa indistinta, tutto è in tutto, e analizzare, gerarchizzare e strutturare è inutile o illecito. L’analisi sciupa la percezione e la ricchezza dell’esperienza. […] È costante l’allusione ai rischi del classificare, del distinguere, del separare – proprio le operazioni che […] stanno alla base dell’atteggiamento proposizionale».[61] La Massima di Fusione insomma è quella che governa le conversazioni quotidiane in ambiti familiari, o al più quella che sta alla base di certe esperienze e filosofie di orientamento irrazionalistico, come ad esempio il romanticismo o la gnosi. Per certi aspetti può richiamare il globalismo della visione del mondo infantile.
Dunque le culture non proposizionali non è che mettano da parte il linguaggio scritto, non è che tornino alla oralità primaria. Semplicemente non usano le migliori potenzialità del testo scritto e si limitano a usare la scrittura in termini riduttivi accanto e insieme ad altri elementi mediali. Insomma, quello che Sartori chiamava pensiero è qui ridotto alle sue forme più elementari.
17.4. Questa differenza nell’uso linguistico, secondo Simone, struttura diversamente il self, genera diversi orientamenti culturali e ha un valore decisamente generale: «Non c’è dubbio che quella che chiamiamo globalmente civiltà occidentale (termine generico, che include non solo determinazioni politiche come il concetto di democrazia, di persona, di libertà personale, ma anche determinazioni discorsive come quelle di ragione, di discorso, di analisi, di scienza, di spirito critico, e così via) sia di tipo proposizionale».[62] Come si può ben comprendere, quelle citate da Simone sono le caratteristiche della civiltà occidentale che sono culminate nella classica visione della modernità. È abbastanza ovvio concludere che l’indifferenza alla verità, di cui ci siamo a lungo occupati in questo stesso articolo, possa trovarsi agevolmente dalla parte della cultura della Grande Fusione piuttosto che dalla parte della cultura della Lucidità. Si noti che le caratteristiche della cultura proposizionale, che sono anche quelle della modernità, sono quelle stesse caratteristiche delle grandi narrazioni (tra cui la scienza) di cui il postmoderno ha dichiarato l’oltrepassamento. Quasi tutte le definizioni della postverità insistono – come s’è ben visto – sulla dominante emotiva che tende a sostituire l’attenzione per la verità e per la realtà. Anche nel caso del populismo – espressione politica per eccellenza dell’oltre-vero – sembra essere presente una dominante decisamente emotiva, oltre a una chiara tendenza a non fare i conti con la realtà. Anche il bullshit artist è un intrattenitore di successo proprio grazie ai meccanismi non proposizionali della Grande Fusione.
Trattandosi di fenomeni vaghi, nell’ accezione di Simone, occorre ovviamente guardarsi dall’istituzione di relazioni causali univoche e dirette tra le nuove tecnologie e le diverse manifestazioni della postverità. Le nuove tecnologie con ogni probabilità rappresentano soltanto la condizione sufficiente che ha reso possibile la diffusione della cultura della Grande Fusione e della postverità. Le nuove tecnologie, di per sé, possono ugualmente alimentare entrambi gli usi del linguaggio, entrambe le culture, sia quella della Lucidità sia quella della Grande Fusione. Perché allora a livello di massa pare stia di gran lunga prevalendo la Fusione sulla Lucidità?
Le ragioni generali di questo trend non sono difficili da spiegare. La testualità articolata e complessa (e tutte le sue implicazioni, tra cui il pensiero argomentativo e la razionalità) non è spontanea, deve essere conseguita attraverso una disciplina. È un greve fardello che si sovrappone – per dirla con Recalcati – all’anarchia del desiderio. Abbiamo visto che secondo Dehaene per accedere alla lettura occorre costruire e mantenere dei veri e propri circuiti cerebrali che hanno anche dei risvolti fisici. In termini foucaultiani, la testualità poi è sempre stata considerata come espressione del potere. Rappresenta una sottomissione. La Grande Fusione da questo punto di vista rappresenta invece la liberazione dal fardello del testo. Lo svincolamento dal potere nascosto associato alla scrittura e alle grandi narrazioni. I postmoderni, in molte delle loro manifestazioni, hanno solo e sempre predicato la Grande Fusione contro la Lucidità.
Le nuove tecnologie non sono dunque soltanto veicolo di modernità, permettono anche di sfuggire facilmente al fardello della modernità e permettono indubbiamente di liberare il desiderio. Insomma, invece di alfabetizzarsi e disciplinare il self, invece di strutturare il self come un testo organico e rigoroso, invece di diventare compiutamente uomini del libro,si può passare il tempo a contemplare suoni e immagini. Si può diventare molto social. Si può aspirare a diventare bullshitter professionali. Mentre l’interazione con il libro lascia le sue tracce e ci cambia profondamente, l’interazione con le nuove tecnologie più che altro non fa che rispecchiare quel che già siamo. Secondo la legge di Dember, ciascuno di noi tende a scegliere gli stimoli che hanno il nostro stesso livello di complessità interna.[63] Parafrasando Ferraris, se siamo imbecilli, useremo le tecnologie da imbecilli. Ha senz’altro ragione Ferraris quando ci ricorda che il telefonino è una macchina per scrivere[64] e quindi rappresenta uno sviluppo nobile della scrittura e della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, di fatto, è prevalentemente utilizzato per produrre e scambiare il bullshit che ci invade da ogni parte. La tecnologia è accondiscendente ai nostri peggiori difetti, ci permette anche questo suo uso degradato, ma se così facciamo, in effetti, è solo colpa nostra.
17.5. Cerchiamo, avviandoci a concludere, di riprendere le fila del nostro discorso. Abbiamo preso il via da una serie disparata di fenomeni connessi alla svalutazione della verità che si sono progressivamente imposti alla nostra attenzione, che all’incirca sono emersi tutti nello stesso periodo e che possiedono indubbiamente una certa somiglianza di famiglia. Di qui la nostra metafora dell’iceberg. Secondariamente abbiamo osservato come tutti questi fenomeni siano connessi alle nuove tecnologie, se non altro in termini di condizioni sufficienti. Senza le nuove tecnologie questi fenomeni non sarebbero diventati così tangibili e preoccupanti. In terzo luogo ci siamo domandati se i nostri fenomeni, nella loro relazione con le nuove tecnologie, non costituissero altrettante facce diverse di uno stesso fenomeno unitario ben definibile e spiegabile. Siamo andati in altre parole in cerca di una teoria.
Abbiamo qui incontrato una gamma di spiegazioni non del tutto univoche. La teoria più semplice consiste nell’invocare una sproporzione tra la potenza degli strumenti oggi resi disponibili e l’insipienza umana. Nel caso della postverità ci troveremmo così semplicemente di fronte all’espressione dell’imbecillità umana elevata alla nona potenza. Il pericolo in questo caso è che la maggioranza così caratterizzata finisca per prendere il potere (se non lo ha già fatto). La teoria più complessa postula invece che le nuove tecnologie stiano per così dire agendo dall’interno, stiano producendo cioè una serie di trasformazioni profonde a livello culturale e soprattutto a livello del self. In tal caso, sarebbero queste trasformazioni profonde a rendere possibili i fenomeni ben visibili di cui ci siamo occupati, dalla politica postruista alle fake news, fino ai populismi. Di queste trasformazioni profonde avremmo poca consapevolezza poiché – con il linguaggio di Simone – esse costituirebbero dei fenomeni vaghi, molto evidenti nelle loro manifestazioni particolari ma costitutivamente alquanto sfuggenti. Il pericolo qui è quello di una minaccia che si accumula dentro di noi, di una lenta trasformazione dei nostri simili, fino a renderli irriconoscibili, più o meno come nel film L’invasione degli ultracorpi.
Possiamo in estrema sintesi scegliere tra due macro alternative: a) quel che succede oggi alla verità è soprattutto frutto della costitutiva imbecillità umana oggi esaltata dalla potenza delle nuove tecnologie, oppure b) quel che sta succedendo oggi alla verità è frutto di una mutazione antropologica, effetto delle nuove tecnologie stesse, che ci sta cambiando profondamente in peggio, a nostra insaputa, anzi, con il nostro concorso. Dalla padella nella brace. Può darsi che l’avvento della documedialità – siamo appena all’inizio -possa costituire la base materiale per una nuova maturazione individuale, la possibilità davvero per tutti di un salto nella terra della testualità più ricca, e quindi la possibilità effettiva di realizzazione di una vera modernità, per la quale però – come s’è visto – occorrerebbe rimettere al centro la verità. Le potenzialità forse ci sarebbero. Oppure può darsi – come sembra piuttosto stia accadendo, quale che ne sia la spiegazione – che il mare dell’oltre-vero finisca per seppellire definitivamente la verità e la modernità, annegandoci nel bullshit e consegnandoci a un nuovo medioevo populista.
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2009Vattimo, Gianni Addio alla verità, Meltemi, Roma.
Note
[1] Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nell’aprile del 2018. Poiché l’argomento non ha cessato di essere di estrema attualità, ho avuto l’occasione di apportarvi diversi aggiornamenti. La versione che qui presento è un ulteriore aggiornamento realizzato nel giugno 2025, in seguito all’interesse a ripubblicarlo manifestato dagli amici del blog Viandanti delle nebbie. Preciso di non avere usato, nella redazione del testo, alcuno strumento di intelligenza artificiale.
[2] Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo cominciarono a comparire diversi contributi critici contro il relativismo e contro il postmodernismo che era stato la prospettiva filosofica imperante nei due decenni precedenti. Si vedano, ad esempio, Jervis 2005, Boghossian 2006 e Marconi 2007.
[3] Cfr. Sokal & Bricmont 1997. Nella versione francese compare la dizione impostures intellectuelles, mentre nella versione in inglese nel titolo compare la dizione fashionable nonsense, traducibile con stupidaggini alla moda o sciocchezze di moda.
[5] Il termine bullshit – altresì rendibile con svariati sinonimi, come balle, fesserie, cazzate, puttanate – viene comunemente tradotto in italiano con stronzate. Il libretto è stato pubblicato in italiano col titolo di Stronzate. Un saggio filosofico. Cfr. Frankfurt 2005.
[8]Si noti che la stessa Wikipedia, per certi aspetti, potrebbe essere un prodotto della postverità. La qualità delle definizioni di Wikipedia è assai variegata e un attento controllo è sempre necessario.
[9] Si veda Wikipedia in italiano, alla voce rispettiva. Wikipedia in inglese fornisce la stessa definizione.
[10] Così spiegano gli Oxford Dictionaries: «The compound word post-truth exemplifies an expansion in the meaning of the prefix post- that has become increasingly prominent in recent years. Rather than simply referring to the time after a specified situation or event – as in post-war or post-match – the prefixin post-truth has a meaning more like ‘belonging to a time in which the specified concept has become unimportant or irrelevant’». Cfr. https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016.
[11] Sulla nozione logica e filosofica di menzogna, vedi D’Agostini 2012.
[13] Cfr. Frankfurt 2005: 51. Bullshit artist potrebbe essere reso con il nostro termine contaballe.Una sorta di contaballe specialista e professionale.
[14] La citazione contiene un mio piccolo aggiustamento, visto il carattere cooperativo di Wikipedia.
[15] La nozione di somiglianza di famiglia risale al filosofo Ludwig Wittgenstein.
[16] So bene che non tutti gli studiosi concorderebbero con queste mie semplificazioni. Solo per brevità seguo la definizione di Frankfurt, per il quale bullshit è una categoria generale. Secondo Ferraris, ad esempio, il bullshit costituirebbe una categoria più specifica, assieme a numerose altre. Si veda Ferraris 2017, prima dissertazione.
[17] Cfr. Keyes 2005: Post-Truthfulness. La traduzione è nostra.
[18] L’allusione ovviamente va al filosofo nord americano Richard Rorty, neopragmatista e postmoderno.
[20] Per una confutazione della tesi VNE secondo cuila verità non esiste si veda D’Agostini 2002.
[21] Paul Ricoeur ha definito come filosofie del sospetto le filosofie di Marx, Nietzsche e Freud. Si tratta di filosofie che condividono l’ipotesi che oltre alle apparenze esista un’altra verità più autentica. Questo modo di pensare ormai popolarizzato ha favorito, nell’era della rete, la proliferazione delle cosiddette verità alternative che spesso non sono altro che bullshit.
[22] So bene che esistono diversi tipi di relativismo. Qui non posso che semplificare per brevità.
[23] È curioso che il politically correct abbia conosciuto una ampia diffusione all’inizio degli anni Novanta.
Anni fa l’amministrazione comunale di Gavi decise di collocare nella piazza centrale della cittadina una scultura di Arnaldo Pomodoro. Erano i tempi dei vitelli grassi, per cui lo stanziamento coprì, oltre al costo della statua (un monolite cilindrico in bronzo, alto tre metri) anche una cerimonia di presentazione intitolata “Perché una statua in piazza”, cui parteciparono Umberto Eco e altre personalità della cultura, alessandrina e non. In realtà più che di presentazione l’incontro risultò essere giustificatorio, perché si tenne qualche settimana dopo l’inaugurazione ufficiale, a seguito delle perplessità manifestate nel frattempo dai cittadini.
Il problema nasceva, oltre che dall’enigmaticità dell’opera, che aveva le fattezze di un grande fallo rugoso, dalla scelta del luogo di collocazione: era infatti piazzata al centro del quadrivio nel quale convergono le arterie principali d’ingresso e di uscita da Gavi, e creava negli automobilisti un effetto di sorpresa e di curiosità che li distraeva dalla guida; tanto che nel giro di tre mesi si contarono nella piazza una ventina di incidenti causati dalle mancate precedenze. Al termine dei tre mesi, e a dispetto dalla dotta ed entusiasta perorazione di Eco, la statua venne rimossa. Non so che fine abbia fatto, non so se per l’arte sia stata una sconfitta, ma so per certo che a Gavi nessuno oggi la rimpiange (e sul web non è assolutamente ricordata).
Credo allo stesso modo che nessuno in Alessandria lamentasse sino ad oggi l’assenza di una statua dedicata al pontefice Pio V Ghisleri. Già esistono in città e nei suoi dintorni chiese a lui dedicate, addirittura un complesso monumentale a Bosco Marengo, per cui il nome dell’illustre conterraneo non rischia di cadere nell’oblio: e sono d’accordo sul fatto che questo non debba accadere. Ma per motivi un po’ diversi da quelli che hanno evidentemente animato gli ideatori di questo ritardato omaggio.
Devo sgombrare però preventivamente il campo da equivoci. Non sono contrario per principio alla statuaria commemorativa, ai monumenti insomma, e ho anzi zero stima per quelli che li abbattono o li imbrattano, anche se in qualche caso (che non è certo quello della cancel culture, ma ad esempio quello della caduta di una dittatura) posso comprendere perché arrivino a farlo. Le statue, ma anche i busti, i bassorilievi o le lapidi non mi fanno né caldo né freddo, a meno che siano orribilmente brutte o eccezionalmente belle. So che in genere sono dedicate a personaggi che meriterebbero ben altro, ma penso che la loro presenza, se accompagnata da una solida conoscenza storica e da una corretta informazione, possa comunque giovare alla manutenzione della memoria. Questo almeno valeva sino a qualche tempo fa, e di quanto poi giusto dispensiere di glorie o d’infamia sia il tempo lo testimoniano i nomignoli irridenti coi quali sono state ribattezzate in genere le sculture celebrative di illustri nullità o di insigni farabutti.
Oggi direi che la statuaria di questo tipo ha ben poco senso, anche se non celebra più despoti spietati o militari con licenza di massacro, ma uomini di spettacolo o “eroi” dello sport (e ultimamente anche i “migliori amici dell’uomo”): nel frattempo è infatti mutata radicalmente la finalità. Ciò che una volta negli intenti doveva proporre o celebrare modelli esemplari a fini patriottici o di memoria culturale, è scaduto oggi a suppellettile dell’arredo urbano, con finalità meramente turistiche (o in qualche caso, come quello di cui sto parlando, per “marcare” politicamente il territorio). Per questo la decisione di inaugurare a giorni in una piazzetta della città l’ennesima statua di papa Ghisleri non mi entusiasma. E i motivi della mia freddezza sono più d’uno.
Il primo è di ordine pratico: se proprio si aspira alla manutenzione della memoria, con la somma stanziata (150 mila euro: non da privati, ma almeno in parte da un ente pubblico) si sarebbero ad esempio potuti disboscare e risanare un po’ di tetti della Cittadella, o sistemare alcuni locali della caserma Valfrè, per tenere in piedi il complesso e ricavarne spazi utili per mostre, convegni, iniziative le più svariate, o per futuri probabili lazzaretti o centri vaccinali, prendendo due piccioni con una fava.
Il secondo riguarda il contraddittorio e oggi più che mai ambiguo rapporto tra verità, storia e memoria. So che è diventato quasi un chiodo fisso nei miei interventi, una monomania, ma in questo caso la distanza tra la prima e la terza riesce così evidente, e così disinvoltamente e artatamente giocata, da non consentirmi di passarci sopra.
L’altro motivo è infine di opportunità. Non che faccia grande differenza dedicare una statua a Francesco o a Giovanni XXIII o a Paolo VI, ma con tutti quelli che c’erano proprio un personaggio controverso come Pio V dovevano andare a scegliere? Capisco che fosse alessandrino, e che di glorie da celebrare da queste parti ne siano circolate poche, ma almeno fosse “vera gloria”, almeno offrisse una sola ragione in positivo per essere ricordato.
Proviamo invece a vedere cosa ha saputo combinare quest’uomo nel breve tempo del suo pontificato (è rimasto sul soglio per soli sei, anni). Gli va riconosciuto senz’altro di non essere rimasto con le mani in mano e di avere dato un impulso decisivo alla Controriforma. Cosa che sotto il profilo morale è molto dubbio si possa considerare un merito, ma sotto quello professionale, dell’efficienza organizzativa, lo è senz’altro.
Purtroppo quell’efficienza è costata cara a un sacco di gente. Si è esercitata infatti sia contro gli oppositori interni, eretici o dissidenti di varia natura, sia contro quelli esterni, in primis ebrei e mussulmani, e ha escogitato nuove modalità di controllo e di censura e di indottrinamento.
La carriera di Pio V si svolge infatti tutta all’insegna dell’Inquisizione.
Nel 1542, a meno di quarant’anni, è nominato commissario della Santa Inquisizione a Pavia, ma fa sentire la sua mano anche nei dintorni, ad esempio a Parma. Visti gli ottimi risultati ottenuti, nel 1550 è inquisitore a Como e a Bergamo, e l’anno successivo diventa commissario generale dell’Inquisizione romana. Nel 1556 ricopre l’incarico di inquisitore generale a Milano e in Lombardia e due anni dopo tocca il vertice, diventando Grande Inquisitore presso la sede romana. Ricoprirà quella carica per otto anni, fino alla elezione a pontefice.
Anche in questo ruolo il buon Ghisleri non perde il suo tempo. Durante il suo pontificato vengono processati e mandati a morte gli umanisti Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario, oltre al letterato Niccolò Franco. E questi sono naturalmente solo i più famosi. Già in precedenza si era però distinto come difensore della fede in qualità di capo del Sant’Uffizio, facendo massacrare nel giugno 1561 centinaia di valdesi a Guardia Piemontese, in Calabria, dopo aver mandato al rogo la loro guida spirituale, Gian Luigi Pascale. Qualche altro migliaio li fa cacciare in prigione e li costringe, non certo con le prediche, ad abiurare. Chi rifiuta viene scannato o bruciato vivo. Il numero totale delle vittime è incerto, ma è stimato dagli storici da un minimo di 600 a un massimo di 6.000. Queste cose quando le hanno fatte, e tuttora le fanno, altri, sono definite genocidio. Nel caso di Pio V a quanto pare sono considerate prove di santità, e sono oggetto di reverente memoria.
Non da parte degli ebrei, comunque: non è particolarmente tenero neppure con loro. Intanto li fa rinchiudere a Roma nel ghetto istituito per l’ occasione, sul modello veneziano, dopo averli obbligati a vendere tutte le loro proprietà: poi li costringe a subire una pressante campagna di indottrinamento. Infine ne sancisce l’espulsione dallo Stato Pontificio, ad esclusione di coloro che accettano di risiedere nei ghetti cittadini.
Le pulizie le fa però anche in casa. Mette in riga i vari ordini religiosi, sopprimendone alcuni (tra cui quello degli Umiliati, presente sino quel momento anche in Alessandria), cancellando varie congregazioni eremitiche e costringendo gli adepti a rientrare nei ranghi associandosi agli ordini riconosciuti (preferibilmente a quello domenicano, dal quale lui stesso proviene).
Infine istituisce l’Indice dei Libri Proibiti, ovvero l’elenco dei testi sottoposti alla censura ecclesiastica, dal quale mancano magari inizialmente le opere dell’Aretino, ma non quelle di Copernico e di Keplero, e di lì a poco quelle di Galilei.
Mi fermo qui, ma direi che i meriti per vedersi dedicata una statua se li è guadagnati abbondantemente, e anche se in vita aveva già provveduto a non lesinare la propria immagine a pittori e scultori, un ritratto in più non guasta. Anche nel caso alessandrino penso che l’errore stia soprattutto nella scelta della collocazione. Anziché piazzare la statua di fronte al carcere si sarebbe potuto, con uno spostamento di pochi metri, collocarla dentro le sue mura. Sarebbe stata una sede più consona al personaggio, che magari anche lì avrebbe potuto operare miracoli.
Invece abbiamo assistito (si, perché c’ero anch’io, volevo vedere a che livello si poteva scendere, e sono stato ampiamente accontentato) ad una farsesca cerimonia di disvelamento dell’opera, con tanto di onorevoli e presidenti di banche e alti prelati che si sono succeduti a cantare per un’ora le lodi del celebrando, edificatore di ospedali (altro che la sanità attuale!) e di scuole (altro che la pubblica istruzione!) e di alleanze continentali anti-barbariche (altro che l’Unione Europea!), senza fare il minimo accenno al suo tutt’altro che trascurabile curriculum di “disinfestatore” e di costruttore di ghetti. Una perfetta “lectio magistralis” di ipocrisia e di post-verità, un po’ guastata ad essere sinceri dalla “rivelazione” della pochezza dell’opera: l’ultimo simulacro di Pio V ha la postura e l’espressione di un cercatore di funghi che abbia appena adocchiato un porcino.
Peccato. Fosse ancora vivo Umberto Eco si sarebbe data l’occasione di mettere in piedi un bell’evento, non al teatro comunale perché ancora non si sono trovati i soldi per risanarlo, e nemmeno alla Cittadella o alla Valfré, ma insomma, uno spazio si poteva trovarlo. Eco con l’Inquisizione ci sarebbe andato a nozze. E magari avrebbe giocato sul fatto che una statua prospiciente da un lato l’ospedale e dall’altro il carcere una qualche inquietudine può suscitarla, e suffragato questa inquietudine con gli incidenti nei quali i passanti impegnati a toccarsi o a fare altri gesti scaramantici senz’altro incorreranno. Forse tra due o tre mesi, alla chetichella, il Grande Inquisitore sarebbe stato indotto a migrare.
Non voglio però chiudere così questo intervento, senza qualche estemporanea (e desolante) notazione. Si dà il caso che qualche giorno avanti l’inaugurazione della statua sia capitato proprio nel complesso monumentale di Bosco Marengo, e abbia visitato la chiesa voluta dal santo e a lui intitolata. Ho potuto visitare la cripta, dove per secoli un gran numero di domenicani sono stati sepolti, si dice in posizione seduta, così che potessero idealmente continuare a svolgere il loro lavoro: ma ho anche visto l’enorme monumento funebre, quasi un mausoleo, che Pio V si era fatto erigere nel transetto (e nel quale non riposa la sua salma, che sta invece a Roma, in Santa Maria Maggiore, in un altro monumento altrettanto offensivamente sfarzoso). Già quello è testimonianza sufficiente di una vanità e di una megalomania spropositate, e consente di prendere immediatamente le misure al personaggio, senza neppure disturbarsi a ricostruirne la storia.
Infine. Durante la cerimonia alessandrina di “svelamento” guardavo la piccola folla dei celebranti, tutti bardati negli smilzi completi blu elettrico, stile Di Maio o agente Tecnocasa, con la giacchetta che non arriva al sedere e il pantalone stretto alla caviglia, abbinati a calzature improbabili e ad ancora più improbabili fenotipie, che anziché trasmettere una immagine di solennità sacrale davano l’idea di buzzurri col vestito della festa; ho pensato che erano un campione perfettamente rappresentativo di chi ci amministra, di chi rastrella i nostri soldi, di chi dovrebbe garantirci l’informazione, di chi vigila sulla nostra sicurezza e sulla nostra salute, e ho avuto più che mai netta la percezione dello sfascio, ma quel che è peggio soprattutto quella della mia assoluta impotenza. Mi sono infatti chiesto se valesse la pena provare a guastare un po’ la festa, intervenendo ad aggiungere la parte di storia che avevano dimenticato, o che nemmeno conoscono, perché dubito che per questa occasione qualcuno si sia dato pena di andarsela a vedere: ma ho dovuto rispondermi che no, che sarebbe stato del tutto inutile, che avrei anzi contribuito allo squallido spettacolo messo in piedi, aggiungendogli un po’ di sale, senza intaccare minimamente le coscienze.
La prima lettura de l’Emilio di Rousseau (portata avanti con molta fatica, perché avevo forse diciassette anni, e il libro è di una noia mortale: ma all’epoca divoravo qualunque cosa potesse aiutarmi a crescere) mi lasciò francamente deluso. Cercavo un’educazione alla libertà e avevo di fronte uno che la concepiva così: “Non deve voler fare altro che quel che vogliamo che faccia: non deve muovere un passo senza che noi l’abbiamo previsto: né aprir bocca senza che noi sappiamo quel che egli sarà per dire”. E che riteneva diseducativa prima dei vent’anni la lettura di qualsiasi altro libro che non fosse il Robinson Crusoe. Va da sé che ho cancellato Rousseau dall’elenco dei miei maestri (l’ho riletto solo per cercare conferme negative). Oggi, sessant’anni dopo, mi rendo conto che ho potuto sottrarmi alle seduzioni della sua falsa rivoluzione pedagogica perché avevo già in saccoccia la lettura di ben altro Emilio, maestro nostrano misconosciuto, e anzi, vilipeso, tanto dalla critica letteraria quanto dalla pedagogia più “innovativa”: l’Emilio Salgàri (accento sulla penultima sillaba) da Verona.
Nelle migliaia di pagine che ho scritto negli ultimi trent’anni il nome di Salgari compare però raramente, e solo di sponda. L’ho ingiustamente trascurato, forse perché continuo a darlo per scontato, mentre anche per i lettori più attempati non lo è più da un pezzo. Eppure, se volessi indicare il pilastro portante della mia educazione dovrei fare riferimento proprio a lui.
L’incontro con Salgari non ha celebrato il mio rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza: prima erano già venuti Kim e Capitani coraggiosi, e anche I ragazzi della via Paal. Ma a partire dagli otto-nove anni ho iniziato a ricevere da Genova, mittente un cugino di una decina d’anni più anziano, i primi tomi dell’inesauribile saga salgariana. La fornitura è andata poi avanti sino alla piena adolescenza. Erano volumetti in genere piuttosto consunti e gualciti (anche mio cugino li leggeva già di seconda mano, la gran parte erano stati pubblicati prima della guerra), edizioni povere, in brossura, stampate su carta grossolana e in caratteri piccolissimi, per economizzare sul numero di pagine. Ma avevano magnifiche copertine, e alcuni erano anche arricchiti da illustrazioni, dentro o fuori testo, che non potevano non farti sognare. Prima di approdare alle medie mi ero già ripassato per intero tutto il ciclo della jungla nera e quello dei corsari, nonché quello della prateria. E alla fine delle medie avevo collezionato (anche materialmente) più di cinquanta titoli, la maggior parte dei quali conservo tuttora, e ai quali voglio pagare qui un piccolo e purtroppo inadeguato tributo.
Niente paura: non intendo fare un’analisi critica delle trame o della scrittura, ma solo rievocare l’effetto che le letture salgariane potevano avere su un ragazzino di quell’età. E per farlo prescindo dai titoli e dai cicli più conosciuti, quelli che ho citato sopra. Salgari ha infatti scritto moltissimo altro (più di duecento tra racconti e romanzi) e ha spaziato con le sue storie in ogni angolo della terra e in ogni epoca della storia. Si va da Le figlie dei faraoni e Cartagine in fiamme a Le meraviglie del Duemila, passando per le guerre anglo-spagnole, la rivoluzione americana, la rivolta dei boxer, la guerra russo-giapponese, e saltando dai deserti africani alla steppa siberiana, al Siam e alla Cina, dall’Artide all’Antartide, dal Perù allo Yucatan e all’Alaska, dall’India alla Persia, e naturalmente solcando tutti i mari e gli oceani che ci stanno in mezzo.
Potrei già fermarmi qui. Qualche anno fa ho chiesto ad un allievo dell’istituto che dirigevo se sapeva dove si trovasse l’Atlante, e mi ha risposto “Probabilmente in biblioteca”. Aveva le sue brave ragioni, non dovevo fargli una domanda del genere, era come chiedergli dove si trovano Tomsk e Irkutsk, o lo Xi Jiang, ma a me sembrava naturale lo sapesse: sono i luoghi dove si svolgono le vicende de Sull’Atlante, de Gli orrori della Siberia e de La scimitarra di Budda. Sono convinto che pochissimi – o forse nessuno – tra gli studenti liceali di oggi possiedono conoscenze geografiche pari a quelle che avevo io all’uscita dalle elementari. A casa leggevo Una sfida al polo e Al Polo australe in velocipede, e a scuola andavo poi a rintracciare i luoghi delle vicende sul grande planisfero e sulla fantastica carta murale delle esplorazioni (quella che fa bella mostra di sé oggi al capanno) che hanno mitigato la mia noia per cinque anni. Per non parlare della storia. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere cosa i miei studenti sapessero della rivolta dei boxer che mi aveva tanto intrigato ne I sotterranei della morte, temendo di sentirmi rispondere che erano una razza canina o un intimo maschile di Calvin Klein.
Basterebbe questo, dicevo. In realtà, non basta. Perché queste conoscenze, che peraltro non avrei potuto attingere a nessuna altra fonte, perché in casa non c’erano atlanti o enciclopedie o libri di storia, e che ho poi imparato ad affinare leggendo Verne e London e Dumas (perché a scuola, persino alle superiori, si guardavano bene dal trasmettermele), non erano affatto fini a se stesse, non si riducevano a un arido sapere enciclopedico, ma si traducevano immediatamente in modelli etici e in progetti di vita. All’epoca, un dodicenne che avesse visto i film di John Ford, letto i libri di Salgari, frequentato una scuola elementare nella quale ti insegnavano la calligrafia e un oratorio dove ti inculcavano il rispetto, aveva già appreso i fondamentali. Quel che veniva dopo erano variazioni sul tema. E intanto, per l’immediato, quelle conoscenze erano adrenalina cerebrale, tracce e fondali per i giochi collettivi nel bosco o al fiume e per quelli solitari in soffitta, con i soldatini mutilati (anch’essi eredità del parente genovese).
Salgari sgrossava alcune coordinate etiche, le stesse d’altra parte che si ritrovavano nei film di Ford e nei fumetti dell’Intrepido e del Vittorioso (e si, anche in quelli di Tex). Mostrava un’umanità divisa in buoni e cattivi, in persone oneste e leali e in farabutti infidi e malvagi, aggiungendo però che quasi mai le etichette e le immagini ufficiali corrispondono alla realtà: tanto che i suoi eroi sono o diventano nella quasi totalità dei ribelli, dei proscritti, dei perseguitati. Diceva insomma quello che gli uomini hanno sempre saputo, ma che la cultura dell’ultimo secolo sdegnosamente rifiuta in nome di un buonismo deresponsabilizzante e di un relativismo mal declinato, e che solo timidamente qualcuno comincia oggi ad accettare: che cioè l’indole di ciascun individuo non è forgiata dall’ambiente o delle contingenze storiche, ma determinata dalla natura, e l’ambiente e le contingenze possono al più accentuarne i tratti. Che la consapevolezza di questo dato di fatto è pienamente compatibile con il desiderio di vivere una vita più responsabile e di battersi per realizzare una società più giusta (non certo perfetta), e ne è anzi la condizione imprescindibile, perché consente di attrezzarsi spiritualmente, con sano realismo, contro gli scacchi e le disillusioni, e di perseverare. Le esperienze e le conoscenze maturate nei successivi sessanta e passa anni mi hanno aiutato a cogliere anche le sfumature, a leggere la storia e la società con criteri meno grossolani, ma direi che la sostanza è rimasta quella. Del resto, le conseguenze della lettura “politicamente corretta” le abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.
Questo modo di pensare oggi non è affatto “mainstream”, collide decisamente con le tendenze della cultura dominante. Ne circola invece una versione stravolta, per la quale ciascuno si sente depositario di una sua “verità”, di una sua etica, di una sua memoria e di suoi diritti da opporre alle verità, ai diritti, alla memoria degli altri.
Salgari è stato naturalmente accusato dalla cancel culture di avere un approccio imperialista, quando basterebbe il ciclo della Malesia, l’eroe del quale è un asiatico mentre il perfido nemico è il colonizzatore inglese, a smentire questa accusa. Di essere razzista, mentre in realtà i protagonisti positivi dei suoi romanzi appartengono alle etnie più diverse, e spessissimo i loro antagonisti sono dei bianchi malvagi (vedi Le aquile della steppa, La favorita del Mahdi, La perla sanguinosa); e mentre ne I predoni del gran deserto il protagonista, un aeronauta che maneggia disinvoltamente tutte le tecnologie, sceglie alla fine di vivere con i tuareg del Sahara e di abbracciarne la cultura. Gli viene imputata anche la misoginia, senza considerare che in più di un’occasione sono le protagoniste femminili a condurre il gioco e a risolvere le situazioni (vedi Capitan Tempesta, o Jolanda, la figlia del corsaro Nero, o anche La scotennatrice).
Ora, questa mia difesa varrebbe tanto quanto le accuse che sono state mosse, se non si tenesse conto del clima intellettuale nel quale il veronese scriveva, e delle circostanze specifiche per cui lo faceva. Salgari scriveva all’epoca dei maggiori successi dell’imperialismo occidentale, celebrati con entusiasmo, salvo pochissime eccezioni, dal mondo della cultura, e in sostanza positivamente condivisi anche dai ceti popolari: e cercava di star dietro al gusto del pubblico, e di rispondere alle aspettative di chi finanziava le riviste sulle quali comparivano i suoi racconti. Scriveva cioè per sopravvivere, cosa che gli riusciva a stento, e quindi non ha senso attendersi da lui chissà quale spirito “alternativo”, anticapitalistico e anti-imperialistico. Oltretutto non sono sicuro che un Salgari meno anarcoide, più allineato agli odierni parametri della correttezza politica, mi sarebbe altrettanto piaciuto, e nemmeno mi interessa. So che mi ha raccontato un mondo tutt’altro che ideale, e che mi ha insegnato almeno che non bisogna mai arrendersi: io mi sono divertito, mi sono appassionato e ho continuato comunque a pensare con la mia testa.
Se invece la mettiamo sul piano della “qualità” letteraria il discorso certamente cambia. A cercare di rileggerlo oggi, infatti, fatta la tara alle suggestioni che una reimmersione nell’infanzia può evocare, Salgari riesce quasi indigeribile. E immagino lo sia tanto più per un nativo digitale, abituato a concentrarsi solo per lo spazio di un tweet. Non è Stevenson, e nemmeno Verne, non ha retto al tempo. D’altro canto, non ha mai ambito al Nobel, anche se come testimone dei temi della cultura popolare lo avrebbe meritato più di Dario Fo.
Anche sotto questo aspetto quindi le accuse che gli vengono rivolte dimostrano che non si è capito nulla dello spirito col quale scriveva e delle condizioni nelle quali lo faceva. Era pagato un tanto (in realtà, molto poco) a pagina, e questo spiega perché tirasse in lungo le vicende con ogni pretesto: così come si spiegano con la pubblicazione a puntate le molte incongruenze nelle quali cade. A volte era impegnato a scrivere due o tre storie contemporaneamente: è già molto non trovarne i protagonisti sballottati dall’una all’altra. Gli vengono imputate anche numerose imprecisioni o approssimazioni storiche (che volendo si possono trovare però persino in Tolstoj), la scarsa scorrevolezza, perché introduce continuamente lunghe dissertazioni di botanica, di zoologia, di geografia, di antropologia, e il ricorso massiccio al taglia e incolla, praticato pescando direttamente dalle enciclopedie dell’epoca, dai libri altrui o dal Giornale Illustrato dei Viaggi. La spiegazione è sempre la stessa, la necessità, il fiato degli editori costantemente sul collo (e del resto, la pratica del taglia e incolla è diffusissima negli ambienti culturali: con altri mezzi e con altro talento l’ha adottata anche Umberto Eco).
Chiarito ciò, la mia riconoscenza nei confronti di Salgari non muta di una virgola. Riguarda ciò che ha rappresentato, nella formazione mia e in quella di due o tre generazioni precedenti, non ciò che può rappresentare in assoluto nell’ambito della letteratura e della pedagogia. Riguarda il fascino che i suoi romanzi, a dispetto di tutti i loro limiti, esercitavano, il piacere immediato e i sogni e soprattutto la voglia di continuare a leggere, che sarebbe durata per tutta la vita, che riusciva a trasmettere. Per questo il mio tributo si ferma qui.
Piuttosto, vorrei aggiungere un paio di postille e di riflessioni che ho maturato proprio mentre stendevo questo pezzo.
• La prima riguarda José il peruviano, che all’epoca era uno dei miei romanzi preferiti (anche perché sembrava lo avessi letto solo io). Bene, ho scoperto ultimamente che si tratta di un’opera postuma, pubblicata dal figlio Nadir sviluppando una trama già abbozzata dal padre. Avevo intenzione di provare a rileggerla, ma questa scoperta mi ha frenato. Preferisco lasciare intatta, anche se molto sbiadita, l’impressione che ne avevo riportato all’epoca.
• Mentre leggevo Tra noi e la libertà, il racconto autobiografico di Sławomir Rawicz sulla fuga sua e di un gruppetto di compagni da un campo di lavoro sovietico in Siberia (ne è stato tratto anche un bel film, The Way Back, di Peter Weir), mi è parso che l’odissea dei fuggitivi ricordasse molto da vicino quella descritta ne Gli orrori della Siberia. Dubito che Rawicz abbia mai potuto leggere Salgari, ma in alcuni punti sembra che lui e gli altri cinque disperati abbiano seguito proprio lo stesso itinerario, incontrate le stesse difficoltà. Il che testimonia della preparazione del nostro, che la Siberia la conosceva solo sulle carte e dai giornali di viaggi. A meno che … L’unico precedente di narrazione di un’evasione dai gulag che io conosco è nelle Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, pubblicato nel 1899. Dal momento che il romanzo salgariano è stato pubblicato l’anno successivo, mi piace pensare che sia stato ispirato dalla conoscenza delle opere dell’anarchico russo.
• C’è una indubbia attenzione di Salgari nei confronti delle nuove tecnologie emergenti, anche se è rivolta più agli aspetti emozionali che a quelli funzionali. Al polo australe in velocipede e Una sfida al polo rispondono naturalmente alle suggestioni e alle curiosità create dalle ultime grandi imprese di esplorazione, quelle polari: ma ciò che le rende particolari è il fatto che questa sfida si gioca coi mezzi tecnici più avanzati dell’epoca, le biciclette e le automobili, in realtà del tutto inadatte a quegli ambienti naturali.
Allo stesso modo, nel dittico dell’aria (I figli dell’aria e Il re dell’aria), che ricalca per molti aspetti le storie di Verne aventi come protagonisti Nemo e il Nautilus, e più ancora le vicende di Robur il conquistatore, si introduce una fantastica macchina volante, lo Sparviero, con la quale i protagonisti sfuggono dapprima ad una esecuzione in Cina e poi alla detenzione in un lembo estremo della Siberia. A differenza di Verne, però, Salgari non sembra affatto interessato ai dettagli tecnici e alla verosimiglianza del mezzo. Lo Sparviero evoca piuttosto le immagini di draghi preistorici che popolano gli odierni racconti fantasy.
• Sui titoli e sulle copertine. Una parte della mia fascinazione per i romanzi salgariani va riconosciuta anche alle scelte dei titoli e alle copertine. Molte di queste ultime le ricordavo ancora, anche prima di riprendere in mano i volumi per scrivere queste righe. Non mi ero mai preoccupato però di verificare chi fossero gli illustratori. Ho trovato i nomi di Albertarelli, di D’Antona, di Della Valle e di altri maestri che avevo conosciuto negli stessi anni soprattutto attraverso i fumetti. Ho anche realizzato che lo stile delle immagini era esattamente lo stesso di quello dei manifesti cinematografici dell’epoca (e probabilmente erano gli stessi anche gli illustratori), il che contribuiva senz’altro a moltiplicare esponenzialmente le possibilità di fantasticare.
Quanto ai titoli, ne ho sperimentato la particolare forza evocatrice continuando a desiderare invano per anni Le selve ardenti, e fantasticandoci sopra. Quando finalmente sono arrivato a possederlo, ho atteso a lungo prima di leggerlo: un po’ perché avevo ormai parcheggiati in attesa un sacco di altri libri “più adulti”, ma soprattutto perché temevo che la storia si rivelasse non all’altezza di quelle che nel frattempo ero andato mentalmente costruendomi sollecitato da quel titolo straordinario. In effetti andò poi così, le aspettative furono un po’ deluse, ma il potere evocativo comunque rimane. Per rendersene conto è sufficiente fare il confronto con l’omologa titolazione di un altro libro che mi è rimasto carissimo, La foresta in fiamme, scritto da James Oliver Curwood. Questo mi dice di una foresta che brucia, l’altro di un mondo che può spaziare dalla fantasia di Dante a quella Tolkien, anche se il modello linguistico è in questo caso probabilmente D’Annunzio.
Con buona pace di Curwood, e dei non devoti di Salgari, almeno nei titoli non c’è confronto.
Ho avuto la percezione netta dello smottamento alla fine degli anni Settanta. Non che prima le cose andassero meglio, le tivù private erano nate a metà decennio e stavano già imponendo un nuovo “stile”, al quale la Rai era corsa immediatamente ad adeguarsi: ma tutto sommato la novità erano ancora i comici demenziali usciti del Bagaglino e un po’ di tette che davano fastidio a nessuno. Qualche avvisaglia c’era certamente già stata, ma all’epoca non avevo tempo da dedicare alla televisione, se non per gli incontri di boxe: quindi fui colto quasi alla sprovvista, e posso quasi citare anche la data della rivelazione.
Dell’accelerazione rovinosa mi accorsi assistendo a una delle prime puntate de Il processo del lunedì della gestione Biscardi, tra l’altro trasmessa su Rai3, l’emittente in forza alla sinistra. Ero allibito. Aldo Biscardi, che già di suo parlava un italiano a dir poco approssimativo e capiva una mazza di qualsivoglia argomento, aveva messo assieme una vera corte dei miracoli, nella quale tra pseudo-giornalisti ed ex-calciatori in bolletta gigioneggiavano personaggi assurdi come Maurizio Mosca, uno che su un campo di calcio non avrebbe avuto un ruolo nemmeno come raccattapalle. Non mi scandalizzava l’incompetenza, perché avendoci giocato sino a cinquant’anni sapevo benissimo che sul calcio non c’è nulla da sapere, da capire o da discutere, si tratta solo di mettere un pallone in rete o di non lasciarcelo finire, ma ero disgustato dalla beceraggine di tutto l’assieme, dai toni, dagli argomenti e dalle atmosfere da bettola d’angiporto, proposti su un medium nel quale un attimo primo erano passate notizie di guerre o di catastrofi, oppure rubriche di arte o di letteratura, o anche semplicemente qualche bel film o qualche documentario a tema storico. La cosa peggiore era che in quella trasmissione non circolava un filo di ironia, si prendevano tutti sul serio (come sogliono fare notoriamente gli imbecilli) e, ma questo l’ho scoperto dopo, venivano presi sul serio anche dalla sinistra più accorta, quella sempre un po’ più avanti, che plaudiva al fatto che finalmente si desse voce anche al più genuino “sentire popolare”, confondendo l’idiozia e la sguaiataggine con l’autenticità e la freschezza. In fondo, pensava, quei quattro bagonghi rompevano gli schemi seriosi e ingessati della televisione di regime, erano una ventata d’aria, magari puzzolente ma nuova.
Fu un tutt’uno: compresi allora che l’elogio di Franti tessuto da Umberto Eco e Fantozzi e il gossip confidenziale di Maurizio Costanzo non erano passati invano, c’era una logica che li legava, erano tanti cunei ribattuti nelle crepe della cultura occidentale aperte da due guerre e da tutto quel che c’era stato in mezzo. E compresi anche che quelle martellate non preludevano a una ripulitura e a un restauro (che non è una “restaurazione”, ma il riportare in vita quei motivi, quei colori, in definitiva quei valori originari che il tempo e le nequizie della storia hanno sporcato e deturpato), ma annunciavano la demolizione.
Da allora il degrado dell’etica, del gusto, del semplice buon senso non ha più avuto sosta: ogni volta che ho pensato si fosse toccato il fondo ho dovuto immediatamente ricredermi. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto di tutto: gabibbi chiamati a raddrizzare i torti e inviati “sul campo” bardati come mentecatti: filosofi di grido e indagatori della psiche ridotti a cumulare marchette nei talk show, senza il minimo pudore; intellettuali, artisti, politici, magistrati, sportivi, persino religiosi, in corsa a mendicare un passaggio televisivo per promuovere “eventi” o paccottiglia “d’ingegno”; uomini e donne di ogni età e condizione ansiosi di sputtanarsi in trasmissioni per cerebrolesi, in cambio di trenta secondi di visibilità.
I risultati li abbiamo di fronte: non è nemmeno più il caso di accendere la tivù per farsi un’idea del degrado. Basta girare per strada, origliare le conversazioni, quelle dal vivo e peggio quelle telefoniche, che vengono fatte condividere per un raggio di cinquanta metri, entrare in una scuola, sfogliare un quotidiano. Certamente però i media di massa rimangono il sensore più attendibile, non nel senso che ci raccontino il vero, ma, al contrario, perché del degrado sono il principale veicolo. Una trasmissione radiofonica come La Zanzara, ad esempio, giusto per fare riferimento alla manifestazione più recente di idiozia perversa nella quale mi sono imbattuto, dovrebbe essere usata come argomento di studio nelle facoltà di psicologia, di antropologia, di sociologia, per dare un taglio all’eterno dibattito sulla natura umana. Io non so se allo stato brado questa sia buona o cattiva, ma per certo è facilmente plasmabile da ogni input negativo, mentre non lo è altrettanto da quelli positivi. Se siamo stati modellati con la polvere, c’era qualcosa che non funzionava nell’impasto.
Comunque sia, credo valga la pena cercare di capire come milioni di anni di evoluzione ci abbiano regalato uno che si chiama come Paperino e ne ha la stessa consistenza cerebrale, ma si trova tra le mani le sorti del mondo. E che non ci è arrivato per via ereditaria, come accadeva un tempo, ma attraverso una ufficialmente libera competizione elettorale. È dura da spiegare, ma voglio provarci lo stesso, almeno a grandi linee e almeno per quanto riguarda la parte di cui sono stato un sempre più sconcertato spettatore.
Per parlare dell’oggi prendo spunto da un libro scritto sessanta anni fa, che fotografava la realtà sociale dell’epoca col teleobiettivo, ne coglieva gli sviluppi futuri e la incorniciava in una efficacissima definizione. Lo rispolvero non tanto per verificarne i riscontri, quanto piuttosto per constatare come nel frattempo l’interpretazione di quella (e quindi anche dell’attuale) realtà sia andata radicalmente cambiando. Devo dunque partire di lontano, sperando di non perdermi per strada.
Come è stata raccontata – Nel 1967 Guy Debord pubblicava La société du spectacle, (in italiano: La società dello spettacolo, De Donato, 1968, successivamente ritradotto e ristampato da Vallecchi, 1979, e ultimamente da Massari, 2002 e da Baldini-Castoldi, 2017). Debord era stato uno dei fondatori, dieci anni prima, dell’Internazionale Situazionista. (Per chi non conoscesse la vicenda del situazionismo, fornirò qualche riferimento in calce a questo intervento, allegando anche uno dei documenti di fondazione. Comunque anticipo che il situazionismo come inteso da Debord, da Asgen Jorn e da Raul Vaneigem aveva nulla a che vedere con i patetici sciamannati che da allora hanno nascosto dietro quella fortunata etichetta la propria presuntuosa inconsistenza).
Il libro arrivava al momento giusto – si era alla vigilia del Sessantotto. Conobbe anche una qualche notorietà (sia pure di seconda mano, perché era molto citato ma molto meno letto – in effetti era piuttosto noioso) e in particolare esercitò un forte influsso sul linguaggio immaginifico della contestazione. Debord vi sviluppava un’analisi della trasformazione che era in atto all’epoca nei rapporti sociali e nelle forme del dominio, ovvero della loro sempre più accentuata “spettacolarizzazione”: uno slittamento che aveva conosciuto un’accelerazione esponenziale con la comparsa della televisione, ma aveva preso avvio già nella prima metà del Novecento, con il cinema e con la radio. Non si limitava però a scandagliare il passato e il presente, profetizzava per questa trasformazione uno sbocco rivoluzionario: e lì la lucidità dell’analisi veniva meno, anche se non si può negare che in parte, almeno per quanto concerneva la deriva più immediata, quella precedente la rivoluzione informatica degli anni Novanta, i suoi pronostici fossero azzeccati.
Il testo di Debord si articola in una lunghissima sequenza di “tesi” (addirittura 221), e ha come modello formale quello del Manifesto del 1848. Esordisce così: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Enunciazione che rimane quanto mai vera oggi, anche se io farei risalire la tendenza a tradurre la vita in spettacolo molto più addietro, a tempi precedenti la cosiddetta “modernità”: direi piuttosto che il moderno “modo di produzione” l’ha solo spinta alle estreme conseguenze, ad un esito per il quale Debord può scrivere che “le necessità della produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come l’inversione della vita”.
Il nuovo manifesto prende l’avvio da dove Marx era arrivato, ovvero dall’alienazione prodotta dal capitalismo classico, che aveva indotto un passaggio di senso dell’esistenza “dall’essere all’avere”, e descrive l’ulteriore transizione ad un “capitalismo spettacolare”, quello che produce il passaggio “dall’avere all’apparire”. “La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”.
È accaduto insomma che la progressiva razionalizzazione dello sfruttamento, quella che il capitalismo moderno ha operato per esercitare un sempre maggiore controllo e mantenere gli sfruttati a margine del processo produttivo, nel ruolo di pura forza-lavoro, ha determinato una sovrabbondanza di beni (almeno nel mondo occidentale): ma questo non ha liberato né i popoli né gli individui dalla necessità, perché la sovrabbondanza è finalizzata al nuovo modello di accumulazione capitalistica, e non certo a venire incontro ai loro bisogni. Ha creato al contrario una necessità apparentemente meno immediata, ma più subdola, perché non potrà mai essere pienamente soddisfatta: la coazione al consumo. Il ciclo del controllo è stato quindi portato a compimento dal capitalismo contemporaneo sfruttando le masse non solo nella fase della produzione ma anche in quella del consumo, determinandone e falsificandone bisogni, aspettative, rapporti: penetrando insomma ogni aspetto dell’esistenza. (Come poi funzioni questa faccenda, perché insomma il capitale per accrescersi debba operare una sia pur molto contenuta redistribuzione, è apparentemente ovvio, ma i modi sono poi complessi da spiegare: ci hanno provato moltissimi economisti, arrivando a conclusioni diametralmente diverse. Io credo dipenda soprattutto da due fenomeni: la finanziarizzazione sempre più spinta – il prevalere del capitale finanziario su quello produttivo – e l’autonomizzazione della tecnica: cose di cui su questo sito si è già parlato, e sulle quali avrò ancora qui modo di tornare).
La totale dipendenza del produttore-consumatore è indotta dalla rappresentazione spettacolare che il capitale elabora di se stesso. I progressi tecnologici nel campo della produzione vanno infatti di conserva con quelli nella comunicazione – ma in questo caso sarebbe forse più corretto dire nella “persuasione”. Tanto meno un prodotto risponde ad una reale necessità, tanto più avrà bisogno di essere caricato di significati esterni che lo rendano desiderabile. I costi della sua promozione vengono naturalmente scaricati a valle, entrano quindi a far parte integrante del costo totale di produzione, mentre il marchio, la certificazione di qualità, promette al consumatore una ostentazione di esclusività e di capacità economiche. La comunicazione a questo punto non è più solo un mezzo, diventa un fine, e avviene in base a codici che sono elaborati tutti dall’offerente, e che vanno a ridisegnare le modalità dei rapporti tra gli individui. Nei paesi capitalisti si sta dunque configurando un modello sociale all’interno del quale gli individui sono ridotti a meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere. Queste immagini giustificano l’assetto di potere istituito e si sostituiscono completamente alla realtà. “Le nuove tecnologie della comunicazione spingono all’estremo il feticismo delle merci, la coazione al consumo, e soprattutto rimodulano il rapporto sociale fra gli individui, mediato dalle immagini”.
Il nuovo rapporto sociale è in realtà, secondo Debord, un non-rapporto. La messa in scena dello spettacolo presuppone, infatti, l’assenza di dialogo tra gli spettatori. Al consumatore non resta altro che ammirare, rimanendo nella passività assoluta, le immagini che altri hanno scelto per lui. L’individuo ha dunque esclusivamente il ruolo di “pubblico”, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. A parlare deve essere solo il potere. Gli individui risultano sempre più isolati nella folla atomizzata. “Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”.
In questo isolamento lo spettatore finisce per essere dominato dal flusso delle immagini, immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. O meglio: nel quale è vero ciò che chi governa lo spettacolo ha interesse a mostrare, mentre tutto ciò che non è stato creato o selezionato dal potere è falso, o non esiste.
Pertanto, nella misura in cui l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. Il consumatore non vive più esperienze dirette, ma si accontenta dei surrogati che lo spettacolo gli offre, e cerca di soddisfare quei bisogni, sia materiali che emozionali, che gli vengono artificialmente indotti. Diventa un consumatore di illusioni. Lo spettacolo è dunque il contrario della vita. Debord scrive “Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.
Molto all’ingrosso, questo è il succo della prima parte del saggio, quella dell’analisi: e direi che sin qui il discorso non fa una piega. D’altro canto, questa chiave di lettura della modernità e dei suoi esiti ultimi non arrivava del tutto nuova, e Debord stesso riconosce i suoi debiti. Si pone infatti come abbiamo visto in diretta continuità col marxismo (sia pure con un Marx liberato dai dogmatismi delle letture “ortodosse”, a partire da quella di Lenin), ma tra i suoi riferimenti vi sono anche Max Stirner, George Lucàks e i francofortesi (e io includerei Thornstein Weblen e Vance Packard, che tuttavia nel Sessantotto erano considerati “organici” al pensiero borghese, quindi poco spendibili – infatti non li cita mai). Il merito del libretto sta nell’aver raccolto e sistemato in una trama coerente tutti questi spunti, di averli attualizzati. E magari anche di avere intravisto le origini più remote del fenomeno, le cui prime avvisaglie fa risalire sino a Cervantes (e anche su questo tornerò).
Ciò che Debord metteva a fuoco sessant’anni fa oggi lo diamo per scontato, perché nella spettacolarizzazione viviamo immersi, è la nostra quotidianità: sul suo libro si è già depositata la patina del tempo, senza peraltro farne un piccolo classico del pensiero, ma al più un reperto documentale da esibire in occasione di future celebrazioni anniversarie o di festival del situazionismo. All’epoca invece l’analisi appariva, oltre che estremamente lucida, anche tempestiva, sviluppata in tempo utile per immaginare delle contromosse, per esorcizzare in qualche modo il fenomeno. Ed è proprio qui che Debord risulta datato: nell’idea che da questa coscienza potesse scaturire una qualche positiva reazione.
La seconda parte del nuovo manifesto è infatti dedicata alle strategie che Debord suggerisce per sottrarsi agli allettamenti della spettacolarizzazione. Non è il caso di elencarle tutte, ma direi che possono essere riassunte ed esemplificate nella pratica del détournement: ovvero del cambiamento di senso di tutto ciò che è espressione del potere, dell’inversione dei meccanismi della ricezione culturale, specialmente se legati alla comunicazione di massa, come la pubblicità o il fumetto, ma anche della modifica e della dissacrazione di oggetti estetici che da sempre orientano o dettano i canoni del gusto: “La libertà per esempio di trasformare la cattedrale di Chartres in luna-park, in labirinto, in campo di tiro, ecc.”.
Di primo acchito verrebbe da pensare che il suo invito sia stato raccolto. In fondo lo stravolgimento dei canoni estetici e dei messaggi, lo snaturamento di luoghi sacri o edifici storici, l’irrisione dei rituali, la falsificazione delle tradizioni, gli sberleffi alle istituzioni, tutto questo è già in atto da tempo. Il problema è che, appunto, lo “spiazzamento”, la “decostruzione”, il “disincanto” sono diventati la nuova normalità. Questa presunta “rivoluzione” continua ad essere gestita dal sistema stesso. Si può discutere se l’abbia anche innescata, senz’altro comunque se ne è appropriato, come è accaduto del resto per tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella inglese a quella francese, da quelle “nazionali” dell’Ottocento a quelle “sociali” del primo Novecento. È accaduto nel Sessantotto, quando la contestazione giovanile è stata pilotata a svecchiare il sistema e a reclutare nuove fasce di utenti al consumo; è accaduto l’altro ieri, col femminismo, continua ad accadere oggi coi vari movimenti di rivendicazione di identità sessuale.
Insomma, il rinnovato protagonismo auspicato da Debord si risolve in una provocazione sterile, totalmente autoreferenziale, quando non addirittura funzionale al sistema che professa di voler combattere. In linea con la presunzione di épater les bourgeois che dal Romanticismo in poi ha sempre animato ogni “avanguardia” intellettuale. D’altro canto il situazionismo nasce proprio nell’ambiente delle avanguardie artistiche, che con la prosa della realtà hanno in genere un rapporto piuttosto conflittuale, e alla spettacolarizzazione sono predisposte già di per sé. Debord non fa che riproporre in chiave più esplicitamente politica il “sabotaggio” predicato mezzo secolo prima dai surrealisti, da operarsi con gli spostamenti di senso e gli accostamenti paradossali. Ma un orinatoio esposto in un museo o i baffi sul volto della Gioconda non smuovono le coscienze: semmai le anestetizzano, irridono dei valori, decostruiscono dei codici, ma non ne propongono di alternativi. Debord sembra non aver capito che il sistema è un muro di spugna. Fagocita tutto quello che gli butti contro e te lo rigetta in forma di merce. Non a caso i surrealisti più famosi sono Magritte e Dalì, quelli che hanno disatteso i dettami “internazionalisti” di André Breton, mentre nessuno legge più le poesie di quest’ultimo. E non a caso le “avanguardie” del secolo scorso, dai futuristi appunto ai surrealisti, rivelano poi una inquietante consonanza coi totalitarismi.
Com’era –Il discorso a questo punto potrebbe sembrare chiuso: liquidati ormai tutti i sogni di una palingenesi che passi per la presa di coscienza collettiva, rimane solo l’illusione di un protagonismo individuale, sia pure effimero. E invece, proprio di qui potrebbe partire una riflessione non oziosa. Non so infatti se Debord fosse del tutto inconsapevole di quanto onnivoro sia il sistema: di quanto cioè egli stesso, con la fondazione del movimento situazionista, e tanto più con la pubblicazione del libro, si prestasse ad essere risucchiato nei meccanismi di quella rappresentazione sociale che voleva smascherare. Forse consapevole lo era, dal momento che già immediatamente dopo la contestazione sessantottina, durante la quale il movimento aveva conosciuto una particolare popolarità, disgustato dalla massa di aspiranti che professavano la loro adesione all’Internazionale senza averne minimamente capito il senso, dichiarò quest’ultima disciolta (definiva sprezzantemente i neo-adepti “i pro-situ”: lascio immaginare cosa potrebbe pensare degli odierni “post-situ”): ma rifiutava di accettarne le conseguenze, e si trastullava con l’idea che portando scompiglio nei modi della trasmissione culturale, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue” e di che trucchi e menzogne si nutra, si sarebbe aperta la strada ad un ribaltamento dell’assetto sociale.
Lungo tutto il saggio è fortissima la critica alla contemplazione: “Solo nell’attività l’uomo realizza se stesso, nel caso contrario non può esserci che alienazione”. Ma non è ben chiaro di quale attività si stia parlando: “Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di scuole, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente, ma simultaneamente.” Appunto, un gran casino. Ma non del tipo che Debord si sforzava di immaginare.
Se infatti l’analisi era centrata, non lo erano le prospettive future che l’autore ne inferiva. Certo, come abbiamo visto la “spettacolarizzazione” si è realizzata compiutamente, addirittura al di là di quanto ci si potesse attendere. Tutti sono diventati “produttori-consumatori”, in una filiera nella quale sotto molteplici spoglie il capitale tecno-finanziario gestisce i luoghi, i tempi e i mezzi di produzione delle merci, gli apparati per il loro spostamento, le cattedrali del loro consumo e i rituali per la loro consacrazione. E all’individuo continua ad essere riservato un ruolo passivo di contemplazione (quello dal quale il situazionismo avrebbe voluto riscattarlo), di consumatore delle merci e di una cultura e di una politica “spettacolarizzate”, ridotte a merce anch’esse.
Ma è accaduto anche qualcosa che Debord non aveva messo in conto. Non solo non c’è stata affatto quella reazione liberatoria che secondo il filosofo belga le masse e i singoli individui, una volta acquistata consapevolezza, avrebbero prodotto, ma al contrario le une e gli altri si sono totalmente integrati nella messa in scena, e hanno accolto l’invito all’azione e al ritorno al protagonismo in un senso esattamente contrario a quello da lui atteso. Hanno scelto di essere, ma non di essere consapevoli, quanto piuttosto di essere visibili. Di esserci, di essere riconosciuti (che è cosa ben diversa dall’essere conosciuti), e quindi di rappresentarsi. Si sono arresi ad un surrogato di protagonismo, ad una smodata e malata coazione ad apparire che rientra perfettamente nel disegno del sistema spettacolare.
Va detto onestamente che un detournement di questo tipo non era prevedibile. Nel ‘67 internet e gli smartphone e i social network erano di là da venire, la frontiera tecnologica più avanzata della comunicazione scritta erano la Lettera 22 e il ciclostile. Ma ora che abbiamo imparato a conoscere i media di ultima generazione, a usarli, ad avvertirne le dipendenze, dobbiamo prendere atto che hanno completamente stravolto il quadro. Con le nuove tecnologie l’inflazione multidimensionale di cui Debord parla si è tradotta in una polluzione multimediale, entro la quale tendenze, esperienze, “scuole” non si esprimono, ma si appiattiscono, si svuotano di senso e si perdono dentro un rumore di fondo indistinto.
Provo a riassumere. Nelle aspettative della sinistra movimentista la rete telematica avrebbe dovuto fornire a ciascuno un megafono, essere lo strumento di una partecipazione attiva all’esercizio della democrazia diretta, del controllo dal basso, della trasparenza, e consentire un libero accesso alla conoscenza. Nella realtà si è rivelata un ulteriore formidabile strumento di manipolazione e ha dato la stura al manifestarsi di un individualismo narcisistico e presuntuoso, che si nutre di like e dell’illusione di protagonismo, Se nella fase precedente non c’era alcun dialogo e gli occhi degli spettatori-consumatori erano puntati solo sul cinema messo in piedi dal sistema, ora l’isolamento è ancor più totale, perché il dialogo è in realtà solo un chiacchiericcio unidirezionale e l’attenzione si concentra soprattutto sulle immagini autoprodotte e su una patetica ricerca di “consenso”, che dia l’illusione di una qualche eco e di una qualche visibilità. Tutto ciò che transita sulla rete viene banalizzato, e anche i messaggi e gli inviti al risveglio lanciati in buona fede, persino quelli che sembrano momentaneamente conoscere un certo successo, sono risucchiati velocemente nel vuoto. Ne è riprova il caso delle proteste di massa dello scorso decennio, degli indignati e dei girotondini, delle primavere arabe e non, delle rivolte popolari che non si sono non mai tradotte in rivoluzioni durature, nonché dei passaggi nostrani di banchi di Sardine: milioni di persone hanno risposto simultaneamente, come si augurava Debord, agli appelli al cambiamento diffusi attraverso i network, ma una volta in piazza non sapevano più cosa dire e cosa fare, e nei casi più seri hanno finito per scatenare risposte ferocemente reazionarie.
Per capire come si sia arrivati a questa situazione è necessario comunque fare un passo indietro. Non è liquidabile come un rincoglionimento generalizzato (anche se ha tutte le caratteristiche), frutto di un qualche avvelenamento da piombo come si ipotizzava un tempo per la fine dell’impero romano, o dell’inquinamento atmosferico. Il fatto è che i nuovi media sono stati colonizzati immediatamente dal sistema, così come del resto era accaduto per quelli del passato, ma con effetti più diluiti e meno traumatici. Negli anni Novanta l’alleanza tra il neo-capitalismo digitale e quello finanziario ha prodotto un vero sconvolgimento, in primo luogo nell’economia, accelerando la globalizzazione e la concentrazione monopolistica. Le innovazioni portate dall’ industria high tech sono state sospinte ed enfatizzate con enormi iniezioni di capitali da una finanza in cerca costante di nuove opportunità di investimento. A loro volta le nuove tecnologie hanno velocizzato in maniera esponenziale le transazioni, creando di fatto un mercato finanziario unico, legittimandone le operazioni speculative più ardite e cancellando le regole e i contrappesi che sino a ieri lo avevano regolamentato. E soprattutto hanno “smaterializzato” il concetto stesso di capitale, un tempo legato ai frutti di imprese produttive, oggi a quelli di una attività puramente speculativa. La gran parte dei dirigenti delle grandi multinazionali non ha la minima idea di cosa producano le aziende di cui hanno il controllo, mentre è sintonizzata costantemente sugli algoritmi che ne monitorano le fluttuazioni di valore.
Gli effetti di questa trasformazione sono stati immediati. Intanto il ridimensionamento, in termini di occupati, degli apparati produttivi. In un mercato aperto e senza regole la competitività può essere mantenuta soltanto abbattendo i costi fissi di produzione: e dal momento che sulle altre componenti, materie prime ed energia, non ha il pieno controllo, il capitale interviene comprimendo l’occupazione, esternalizzando il più possibile le attività, spostandole in paesi nei quali il costo del lavoro è più basso o appaltandole ad aziende più piccole, nelle quali la forza contrattuale dei lavoratori è minima; o addirittura individualizzandole, tramite l’affidamento a lavoratori “indipendenti” che operano in regime di “libero mercato”. In quest’ultimo caso soprattutto, ma anche negli altri, sono appunto le tecnologie digitali a consentire un controllo costante e istantaneo.
Ma questa è una storia risaputa. Mi interessano piuttosto gli affetti sociali più eclatanti che questo terremoto economico ha prodotto.
Intanto la precarizzazione del lavoro, quindi il venir meno di quel riferimento fisso che nel bene o nel male informava le esistenze delle generazioni precedenti. Con conseguente insicurezza e perdita di ogni stimolo a progettarsi un futuro. Poi la dissoluzione di quei legami di solidarietà che il lavoro dipendente creava, e che diventavano anche occasioni di amicizie, di rapporti interpersonali effettivi, concreti. Quindi il progressivo isolamento dei singoli nel guscio individuale e il disinteresse nei confronti dei problemi collettivi.
Nel mentre procedeva a questa azione distruttiva l’alleanza tecno-finanziaria si premurava anche di fornirne una giustificazione. Il lavoro precarizzato e individualizzato è stato presentato come un’opportunità di democratizzazione dei nuovi modelli produttivi. In sostanza, il lavoratore verrebbe a godere di margini di libertà più ampi di quelli di cui godevano coloro che operavano nelle imprese fordiste.
A sostituire i rapporti sociali concreti maturati lavorando in azienda provvederebbe la stessa rete, ampliando a dismisura la possibilità di contatto con interlocutori sparsi in tutto il mondo, e consentendo di scegliere e selezionare entro uno spetto molto più ampio.
A questo tipo di rappresentazione fornito dal sistema corrisponde però una realtà molto diversa. L’autonomia di cui dovrebbero godere i nuovi produttori è smentita proprio dal controllo più stretto che le tecnologie digitali consentono, oltre che dalla dipendenza costante dai flussi verso i quali il capitale dirige i consumi. D’altra parte, l’isolamento degli individui non è affatto superabile attraverso un surrogato tecnologico di rapporto che di per sé, per quelli che sono gli aspetti essenziali della sua natura (velocità, appiattimento dei livelli, la modalità stessa della fruizione), prescinde da ogni effetto emozionale e al tempo stesso non si presta affatto a reggere un discorso ponderato e organizzato.
Ciò che effettivamente vediamo scaricato e circolante in rete sono piuttosto sfoghi insensati, urlati, patetici, quando va bene solo sterili; ed è tutto materiale funzionale allo spettacolo. Creano da un lato l’illusione di una appartenenza identitaria, di far parte di una comunità che sia pure solo virtualmente ti riconosce e sia pure solo attraverso gli emoji ti prende in considerazione, dall’altro quella di affermare una autonomia di pensiero e di giudizio all’interno del delirio di voci collettivo. Tutti si influenzano vicendevolmente, tutti parlano e straparlano, ma nessuno in realtà ascolta l’altro. Un brevissimo tour nell’inferno dei social ci offre una fotografia allucinante e allarmante della solitudine, del livore e dell’avvilimento che regnano in platea.
Ma non è tutto: utilizzando i dati forniti dalla coazione ad autorappresentarsi, il sistema è ormai in grado di andare oltre le proposte di consumo generalizzate, di elaborare per ciascuno delle risposte mirate. Non si fa a tempo ad esprimere un’opinione, una preferenza, un interesse o un dubbio che si è immediatamente inondati di offerte e proposte da parte del mercato (e di risposte o di insulti da parte degli altri utenti). È in fondo il modello Toyota, applicato ad ogni forma di produzione di merce.
Questo ci si doveva attendere. Il fatto che Debord non l’abbia previsto è comprensibile, mentre lo è molto meno l’ostinazione odierna della sinistra superstite a non prenderne atto.
Vorrei precisare che il difetto stava comunque già a monte, ben prima della comparsa dei social. Stava intanto nel continuare da parte della sinistra ad adottare criteri di analisi obsoleti; nel fare riferimento a categorie sociali, il proletariato in primis, assunte come se nulla fosse cambiato dai tempi della redazione del Capitale; nel continuare a leggere Marx come un profeta, e non come un economista che ragionava sui dati e sulla realtà del suo tempo; nel credere infine che il sistema sarebbe comunque rimasto ancorato al modello fordista. Debord almeno questo ultimo cambiamento lo aveva intuito.
C’era naturalmente anche l’abbaglio di fondo che ha condizionato tutti i messianismi, religiosi o secolari che fossero, e le utopie: il postulare una natura umana originariamente positiva, corrotta poi ed espulsa dall’Eden per la sua presunzione di dominio sulla natura, bisognosa soltanto di essere riscoperta e redenta. Paradossalmente, questa riappropriazione del sé dovrebbe passare attraverso un contradditorio iter di “rieducazione” alla libertà, di rifiuto di ogni condizionamento politico e sociale (che in occidente si esprime innanzitutto attraverso la critica della democrazia). Di fatto, si risolve nello scivolamento progressivo verso una centralità dei diritti individuali rispetto a quelli collettivi.
Com’è – È ora però di arrivare al dunque. Che non significa tirare delle conclusioni, perché la trasformazione sociale è velocissima e imprevedibile, e riserva ogni giorno nuove sorprese: si possono però fare almeno un paio di considerazioni.
Intanto penso di dover chiarire ulteriormente a cosa mi riferisco quando uso il termine “sistema”, perché dal significato che gli si dà dipende l’interpretazione di tutto quanto ho scritto finora. Io lo intendo come il risultato di un processo, sempre in divenire, messo in moto sin dai primordi dell’evoluzione della specie umana, quando quest’ultima si è trovata nella necessità di ricorrere al soccorso di tecniche per garantirsi la sopravvivenza (e per “tecniche” intendo tutto, secondo l’originale valenza etimologica, dall’uso di protesi e di strumenti materiali – per la difesa, per gli spostamenti, per la domesticazione della natura, ecc. – a quello di un pensiero e di un linguaggio complesso, e dei supporti – scrittura, stampa, ecc. – destinati a trasmetterlo). Col tempo quel supporto che era nato in funzione difensiva si è sviluppato in una direzione offensiva, ed è stato monopolizzato o comunque posto al proprio servizio da una piccola parte dell’umanità per soggiogare e sfruttare non solo la natura, ma la restante maggioranza di una popolazione o di intere altre popolazioni. Di qui la formazione delle classi sociali (sacerdoti, cavalieri, scribi, ecc.) e la sua cristallizzazione in dominanti e dominati, secondo un modello che ha continuato a funzionare così, pur con tutte le possibili varianti, per millenni. Poi sono arrivate la rivoluzione scientifica, e appresso quella industriale, e al seguito di questa quelle sociali, che hanno aperto in quel modello delle crepe.
Ma la rivoluzione profonda, quella che ha sparigliato del tutto le carte, è stata indotta dall’autonomizzazione della tecnica. Voglio dire che ad un certo punto il controllo di quest’ultima è sfuggito dalle mani delle stesse classi dominanti, perché si è innescato un meccanismo in base al quale l’innovazione tecnologica non è più governata in funzione della produzione o dell’accumulazione di capitale, ma è forzata da un processo “necessario” e autoreferenziale di accrescimento. Lo sviluppo della tecnica non è più finalizzato a scopi esterni, ma ad alimentare la capacità tecnica stessa. Un po’ quello che sembra destinato ad accadere in maniera eclatante con l’intelligenza artificiale, ma che già è accaduto ad esempio quasi tacitamente con la progressiva finanziarizzazione del capitale. Il sistema a questo punto non è più rappresentato dai colossi dell’industria o della finanza o del network, tutti protagonisti intercambiabili, e meno che mai dagli apparati politici al loro servizio: è come un enorme e complesso quadro elettrico dove si sono cumulati e intrecciati nel corso della storia innumerevoli fili di colore e diametro diverso, e interruttori e relè e inverter e altre apparecchiature e pulsantiere, che assorbe e distribuisce energia, ma del quale nessuno più è in grado né di individuare i dispositivi di accensione o di spegnimento né di ricordare le finalità del funzionamento.
Tutto questo ha potuto accadere per via della parcellizzazione e della specializzazione delle competenze e dei ruoli tecnici, a sua volta indotta dalle esigenze di strumenti e di modalità produttive (o accumulative) sempre più performanti. Per costruire una carriola erano sufficienti le competenze di mio nonno, per un’auto elettrica si assemblano quelle di migliaia di operatori, nessuno dei quali possiede un’idea complessiva del prodotto finale e a ciascuno dei quali si chiede solo di garantire e aumentare l’efficienza del proprio segmento. Ciascuno aggiunge un filo o un interruttore, e si preoccupa che all’interno di quello passi o si interrompa la corrente. La finalità unica del quadro pare ormai essere proprio quella di funzionare.
Il termine più adatto per definire questa situazione potrebbe essere “tecnocrazia”: ma anche qui, occorre intenderci sull’accezione in cui viene usato. Nel mio caso non mi riferisco a un “governo dei tecnici”, perché questa accezione suppone una “autonomia” di questi ultimi che di fatto non esiste, in quanto al momento è ancora il capitale finanziario a orientare e decidere le direzioni della ricerca e dello sviluppo, e i tecnici semmai rappresentano la componentistica più avanzata, ma sono essi stessi dei cavi o degli strumenti di trasmissione. Penso invece ad un “governo della tecnica”. Sono due cose decisamente diverse: un governo dei tecnici ha una dimensione ancora “umana”, è comunque uno strumento, che può essere piegato a finalità di sfruttamento o di egemonia, ma teoricamente potrebbe anche perseguire altre strade; un governo della tecnica, come dicevo sopra, prescinde da qualsiasi altra finalità che non sia la propria perpetuazione e il proprio sviluppo.
Può sembrare quindi prematuro definire quella attuale una “tecnocrazia”, perché ancora il processo non si è compiuto: ma siamo già molto avanti su questa strada, sulla via della totale autoreferenzialità tecnologica.
Su questo discorso si innesta quello della spettacolarizzazione. Il quadro-sistema è il teatro in cui tutti recitano una parte, alcuni da protagonisti, la maggioranza come semplici comparse, ma nessuno è insostituibile e nessuno ha davvero in mano la regia. A decidere su chi o su cosa puntare o spegnere i riflettori è il tecnico delle luci, come in questo caso potremmo definire la tecnica autoconsapevole, quello che fa sì che il tutto continui a funzionare, che le spie rimangano accese. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che oggi la scienza (e quindi la tecnica, che ne è l’applicazione) non guarda più a ciò che è utile fare, ma a tutto ciò che è possibile fare: che non è dunque più al servizio dell’uomo, ma di se stessa. Sembra stia parlando della saga di Terminator, ma se sostituiamo l’intelligenza artificiale guerriera che lì prende possesso del mondo in maniera violenta e crudele, e la sostituiamo con un’invadenza tecnologica strisciante, apparentemente ancora strumento e in realtà altrettanto determinata a diventare il fine, ci siamo già dentro. Fisicamente (io stesso ho già dovuto ricorrere a “ricambi” artificiali), ma soprattutto intellettualmente (la rete è già diventata un’indispensabile protesi della nostra memoria).
Non è un’immagine confortante, soprattutto se connessa a quella abusatissima (anche da me) di Kierkegaard, del teatro che sta andando in fiamme e degli spettatori che applaudono e se la ridono, ma è forse quella che meglio fotografa la realtà attuale.
Come se ne esce? Sinceramente, non ne ho la minima idea. Altri le idee le hanno, ma mi sembrano piuttosto confuse e contraddittorie, Per alcuni la soluzione verrà dalla tecnica stessa, che ad un certo punto, a sua stessa salvaguardia, attiverà un riduttore o un salvavita e rimetterà in ordine i fili. Altri prevedono un’operazione di autodifesa del capitale, che ha sensori acutissimi, e che davanti alla prospettiva di un generale collasso vorrà riformarsi secondo modalità più “sostenibili”. I nostalgici del marxismo continuano a sperare in un risveglio collettivo degli ultimi, che è improbabile quanto quello del capitale ed apre a scenari altrettanto foschi, e comunque nebulosi. Altri ancora, al contrario dei primi, ritengono che l’incombere della catastrofe ambientale stia già facendo maturare un rifiuto integrale della tecnica, e dunque del consumismo, e propugnano il ritorno ad una economia “a misura d’uomo”. Magari auspicando anche una drastica riduzione numerica della nostra specie, operata in questo caso dalla natura stessa coi suoi mezzi (dagli asteroidi alle epidemie). Insomma, l’impressione è che chi si pone il problema in termini realistici non possa augurarsi altro che un rallentamento della corsa al disastro, anziché una sospensione, e che negli animi si stia sottilmente insinuando la rassegnazione di fronte a ciò che appare ineluttabile. Non in tutti, per fortuna.
Non rassegnarsi non significa per me progettare migrazioni su Marte o continuare a vagheggiare rivolgimenti sociali sulla Terra, oppure ritirarsi a pascolar capre in montagna: significa molto più semplicemente continuare a fare quello che bene o male ho cercato di fare fino ad oggi: pensare, indagare, capire almeno come siamo arrivati alla condizione attuale, per vedere casomai una delle strade non scelte in passato potesse offrire qualche via di fuga. E lo scritto presente, nel suo piccolo, imponendomi di riflettere risponde a questo assunto.
Come sarà? – Cerco dunque di venirne a una, tornando finalmente al tema che avrebbe dovuto essere centrale. Ho parlato sin qui di due modalità di autorappresentazione, quella proposta dal sistema sul grande schermo del mondo e quella concessa nel formato selfie ai rimanenti otto miliardi di individui umani. Ora vorrei cercare di chiarire qual è il rapporto tra il trionfo della rappresentazione e il crescente rifiuto dell’istituto della rappresentanza. Che a questo punto mi sembra scontato. Ma andiamo con ordine.
La rappresentanza è uno dei cardini della democrazia occidentale, e di fronte all’attuale crisi di credibilità del sistema democratico è il primo ad essere messo in discussione. Lo si elenca tra i trucchi illusionistici imputati alla “modernità” per mascherare l’azione sempre più pervasiva del potere, anche se a ben vedere non è affatto un portato dell’età moderna. Delle modalità di delega erano già presenti infatti, per i ruoli più diversi e in ambiti di partecipazione più o meno ristretti, sin dalla nascita delle comunità umane (a dispetto di quanto sostenuto dai nostalgici dell’eden paleolitico, delle società “orizzontali” dei cacciatori-raccoglitori). E duemilacinquecento anni fa ad Atene erano già regolamentate secondo il modello vigente ancora oggi. Col tempo, con la crescita di istituzioni politiche di grandi dimensioni (per intenderci, con lo stato moderno), e soprattutto con i rivolgimenti sociali prodotti dal modo di produzione industriale, le forme della rappresentanza sono state più o meno uniformemente definite e universalmente accettate. Questo soprattutto in Occidente, e almeno fino a ieri.
Oggi non è più così. Nei confronti della democrazia rappresentativa crescono i dubbi e la disaffezione. E dal momento che non si conoscono modelli alternativi che abbiano funzionato meglio, la critica investe tutto il sistema di princìpi, valori, regole e procedure che caratterizzano le istituzioni democratiche nel loro complesso. Anche questi attacchi non sono una novità: nei secoli scorsi erano uno sport praticato principalmente dalle destre, legittimiste, populiste o tradizionaliste che fossero, e questo è comprensibile. Ma non meno ostile era l’atteggiamento delle sinistre più radicali, nelle loro svariate sfumature, ortodossamente marxiste, operaiste, consigliari, leniniste, anarchiche, che nel mirino hanno sempre avuto la “democrazia borghese”
La differenza sta nel fatto che quelle proponevano bene o male delle alternative, (anche se dove hanno potuto sperimentarle sono andate incontro a risultati tragici), dei progetti sociali definiti e strutturati, mentre il rifiuto espresso dal nuovo corso “movimentista” è tutto all’insegna dello spontaneismo, del culturalismo (le appartenenze identitarie non sono più quelle di classe, ma quelle di cultura o di genere), dell’“orizzontalismo” (quello che avrebbe dovuto passare per Internet). Ciò spiega l’incapacità di questi movimenti di coordinarsi e di adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Si tratta in sostanza di un velleitario miscuglio di ideologie ferocemente antigerarchiche e antistataliste, genericamente antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali o di gruppi specifici, che finisce poi paradossalmente per essere espressione più o meno cosciente della globalizzazione e per aggregare masse disorientate, il “volgo disperso che nome non ha”, attorno a leader carismatici.
Tutto questo meriterebbe però una trattazione specifica, che rimando a una prossima volta. Qui mi interessa invece mettere in luce come la narrazione in negativo della politica che prevale oggi non sia solo trasversale ai due vecchi schieramenti, ma li superi, perché è orchestrata appunto da quel “sistema post-politico” che ho identificato sopra. I temi, le argomentazioni e i modi della critica tradizionale sono ripresi e riproposti in una confezione patinata, che sfrutta la potenza e la duttilità dei nuovi strumenti mediatici lasciando parlare, per così dire, le evidenze. Quelle, naturalmente, che si prestano a screditare il modello democratico. Cosa ci raccontano infatti i notiziari, i talk show, le inchieste scandalistiche, ma anche i film, le serie televisive, gli spettacoli di satira, se non che il mondo della politica è un letamaio, che quello politico è uno sporco lavoro, che non c’è verso a giocare puliti e che occorre averci il minor contatto possibile se non vogliamo a nostra volta insozzarci?
Questa narrazione ha senz’altro buon gioco, perché per un funzionamento corretto della rappresentanza la delega dovrebbe essere conferita ad individui in possesso dei giusti requisiti, e nella realtà politica queste condizioni ideali non si verificano quasi mai – non è un problema di oggi, è sempre stato così. Sulle scelte influiscono infatti logiche di partito, condizionamenti economici, interessi più o meno occulti, che alla lunga falsano completamente le regole del gioco. Basti pensare ad esempio a ciò che accade negli Stati Uniti, dove l’enorme aumento dei costi delle campagne elettorali ha finito per riservare ai ricchi la competizione elettorale, tagliando fuori dalla possibilità di vedere rappresentati i propri interessi non solo le classi lavoratrici, ma anche le classi medie (per cui a questo punto è praticamente indifferente che vinca l’uno o l’altro candidato). Lì la cosa è più eclatante per le cifre spropositate che entrano in gioco, ma anche in Europa, pur senza arrivare a questi eccessi, la democrazia non sta molto meglio. Ciò parrebbe in parte spiegare la disaffezione nei confronti della rappresentanza: in realtà spiega però solo quella nei confronti di coloro che deputiamo a rappresentarci, mentre oggi ad essere messo sotto accusa è proprio l’istituto politico.
Va altresì aggiunto che anche laddove una parvenza di senso le elezioni sembrano mantenerla, coloro che per onestà e competenza potrebbero essere più adeguati tendono a sottrarsi alla responsabilità, e non sempre per una scelta di comodo. In molti casi questo atteggiamento nasce dalle delusioni maturate nelle esperienze dirette, che inducono i più sensibili a ritirarsi nel loro guicciardiniano “particolare”.
Tutto, insomma, congiura a far prevalere l’idea che chi vuole preservare la sua dignità dovrà limitarsi alla resistenza passiva, alla difesa delle sue private libertà. E lasciare libero campo all’azione del sistema, rassegnandosi a vivere in una società post-democratica.
Questo avviene infatti mentre dietro le quinte dello spettacolo, nel mondo reale, aumenta in maniera esponenziale la distanza tra l’esigua minoranza dominante e il resto della popolazione, mentre è in atto lo smantellamento dello stato sociale, con la privatizzazione di una quota crescente di attività di assistenza, di cura, di controllo dell’ordine, di gestione del territorio e delle infrastrutture, tutte cose che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie. Quelle che erano le competenze degli stati sono trasferite ad agenzie transnazionali o a grandi aziende private che operano su scala planetaria, e le vecchie istituzioni politiche sopravvivono solo come facciate della gestione locale del capitale globale. E tutto ciò accade nella quasi totale indifferenza dei “sudditi”, la cui attenzione è stata frammentata e dirottata sui diritti individuali e sulle rivendicazioni identitarie, che sono impegnati a rappresentarsi e a gratificarsi reciprocamente sui social, e ai quali, disponendo di una tribuna teoricamente aperta sul mondo intero, di avere dei portavoce non importa più per niente. D’altro canto, che istanze dovrebbero rappresentare i delegati? quelle femministe, quelle ambientaliste, quelle pacifiste, quelle delle identità di genere o di cultura, e con quale tipo di mandato, e soprattutto, di fronte a chi?
Qui volevo arrivare. Il nuovo assetto sociale fa sì che venga meno anche la necessità di una finzione democratica, di un’ammortizzazione politica: democrazia e mercato, che bene o male avevano convissuto sino al secolo scorso, non viaggiano più di concerto. La prima non funziona nemmeno più da paravento, ha ceduto campo totalmente al secondo. Gli interessi del tecno-capitalismo globale, la sua nuova configurazione e gli strumenti di persuasione di cui dispone, gli consentono di governare direttamente le nostre vite, senza più bisogno di mediazioni politiche.
Questo, lo si voglia o no, è lo stato delle cose. Come si sarà capito, mi è difficile stabilire quanto sia frutto di un ben preciso progetto e quanto invece di un effetto a valanga, prodotto come dicevo sopra dall’autonomizzazione della tecnica, da una corsa di quest’ultima all’autorealizzazione che riesce per il momento perfettamente funzionale al capitale. Nel primo caso un’azione di contrasto dovrebbe essere eminentemente politica, e forse può essere ancora pensabile, nel secondo si tratta di mettere in discussione tutto un modello esistenziale, e qui davvero temo che le probabilità di sovvertire i pronostici infausti siano nulle. Rimanendo comunque al primo caso, sono convinto che l’azione politica non possa prescindere da una difesa e da una rivitalizzazione della democrazia. E che questa sia attuabile solo attraverso l’istituto della rappresentanza, senz’altro rivisto, purgato delle tante criticità, ridisegnato nei modi e nelle finalità: ma non ci sono alternative. Per come gli stati moderni sono configurati non si può pensare di saltare la rappresentanza per attuare una democrazia diretta: lo hanno dimostrato le recenti esperienze politiche dei “nuovi movimenti” che avevano come unico collante “l’indignazione”, l’insofferenza per i doveri, lo sprezzo per ogni tipo di istituzione – segnatamente di quelli che hanno avuto momentaneamente accesso al potere, come è accaduto in Italia per i grillini. Il rifiuto di un’organizzazione politica strutturata, la partecipazione digitale praticata con un click, ha creato in alcuni l’illusione che la democrazia potesse essere rivitalizzata semplicemente cambiandone le regole, in molti la presunzione di essere finalmente protagonisti e di farsi interpreti dei problemi del “paese reale”. Col risultato di consegnare il paese nelle mani di una combriccola incompetente e inconcludente, rissaiola, altrettanto disonesta e compromessa di quelle che avrebbe dovuto spazzare via, e di disamorare ulteriormente dalla partecipazione gli incerti e i delusi. Ha fatto cioè esattamente il gioco del sistema, ha recitato nel suo spettacolo.
Preferirei non assistere alle repliche.
Due postille
1) Non vorrei che il mio approccio al tema della tecnica fosse confuso con quello dei vari Severino, Galimberti e, giù per li rami, Heidegger e Nietzsche. La differenza sta nel fatto che da costoro la tecnica è intesa come un male assoluto, il peccato originale che ha strappato l’umanità dal suo edenico rapporto con la natura, e ha indotto la nostra specie a contrapporsi alla natura stessa e a volerla dominare.
Ora, non c’è dubbio che la risposta adattiva della nostra specie alla propria particolare condizione di debolezza biologica sia finita sopra le righe, ma a mio giudizio questo rientra pienamente nella sua particolare natura. Si può anche pensare che l’uomo sia un tragico errore dell’evoluzione, ma è pur sempre frutto di un processo evolutivo, che nel suo caso ne è la continuazione “con altri mezzi”. La tecnica non è “innaturale” in sé, lo diventa semmai quando il suo controllo è volto a finalità che secondo il nostro metro morale risultano sbagliate. Non è espressione della pura “volontà di potenza” come pensa Heidegger, sulla scia di Nietzsche, o una fuga di fronte angoscia del divenire, del destino della mortalità, come la considera Severino. È una “necessità” evolutiva.
Insomma, dobbiamo capirci. L’uomo per sopravvivere ha bisogno della tecnica: su questo non ci piove. È una scimmia nuda: non ha una pelliccia né una corazza, non ha dentature potenti come le tigri o i coccodrilli, non ha zanne né artigli, non si difende e non attacca coi veleni. Non è attrezzato come tutti gli altri animali alla vita di natura, almeno a partire dal momento in cui lo consideriamo una specie separata dalle sue più affini. Quando questa separazione sia avvenuta più o meno l’abbiamo stabilito, ma non sappiamo né come né perché. Probabilmente i cambiamenti climatici hanno costretto una parte dei nostri cugini scimpanzé a uscire dalle foreste e li hanno gettati allo sbaraglio nelle savane. Comunque sia, per non sopravvivere precariamente solo come prede, gli esuli da quel momento hanno dovuto riadattare il loro fisico alla nuova situazione, e là dove la selezione non provvedeva hanno dovuto ingegnarsi con quello che l’ambiente offriva, pietre, ossa, bastoni, pelli degli animali uccisi. Farne delle protesi dei loro corpi. Sono diventati “umani”, e hanno cominciato a modificare con le loro attività l’ambiente stesso (caccia, raccolta, agricoltura, allevamento) e a plasmarlo progressivamente in un crescendo inarrestabile, a creare nuove forme di società e di rapporti, moltiplicandosi fino ad arrivare a coprire con la loro presenza ogni angolo della terra.
Tutto questo ad un certo punto ha travalicato la pura volontà di sopravvivenza. E qui sposo completamente la tesi esposta da Ortega y Gasset nella Meditación de la técnica (1939): “Senza la tecnica l’uomo non esisterebbe e non sarebbe mai esistito”. L’uomo, dice Ortega, sviluppa, proprio per le circostanze che deve affrontare, una “intelligenza tecnica”, idonea a individuare le relazioni tra i fenomeni che lo circondano. Oltre a fornirgli la basilare possibilità di sopravvivere, questa gli permette di immaginare molteplici possibilità esistenziali e di scegliere tra esse per costruirsi un programma di vita. La sua condotta non è quindi più casuale, ma intenzionale. Per poter realizzare questo programma, per poter “essere insomma quello che vorrebbe essere”, e quindi vivere bene, usa la sua ingegnosità tecnica per creare artifici e procurarsi strumenti che gli consentano di superare le difficoltà e gli allevino le fatiche. Compie delle azioni “tecniche” volte a modificare e a migliorare la natura che lo circonda, generando in tal modo una sovranatura, e adattando l’ambiente a se stesso. La tecnica non è infatti soltanto adeguamento dell’uomo alla Natura ma, viceversa, tende progressivamente a diventare adattamento del secondo termine al primo. “L’esistenza dell’uomo, il suo stare al mondo, non è uno stare passivo ma egli deve, necessariamente e costantemente, lottare contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere abiti nel mondo.”
Bene. Anzi, male. Perché tutto questo funziona fino a quando l’uomo ha chiaro l’essere che vuole diventare: ma in caso contrario non può che maturare angoscia e disorientamento. E questa è la sua condizione attuale.
Cos’è accaduto allora (cosa è accaduto soprattutto nel frattempo, da quando quasi un secolo fa Ortega esponeva le sue Meditaciones: ma va ammesso che ciò che ancora non era così evidente il filosofo spagnolo ha saputo presagirlo)? È accaduto che gli sviluppi tecnologici hanno creato nell’uomo la sensazione di poter “essere tutto”: hanno moltiplicato esponenzialmente le sue possibili esistenze, ma proprio questa potenziale mancanza di limiti ha generato smarrimento, ha complicato sia l’individuazione che l’attuazione di un proprio progetto di vita, sino ad indurre all’assenza del desiderio o a perdersi dietro “pseudo-desideri, spettri di appetiti privi di sincerità e vigore”. L’uomo ha cominciato a riporre fiducia esclusivamente nella tecnica in quanto tale, addossandole anche la responsabilità creargli un senso. Dal canto suo il dominio della tecnica e della strumentazione scientifica, che orienta le nostre vite, quel senso invece lo nega, frammentandolo nella specializzazione e riducendo quei comportamenti che sono le caratteristiche costitutive della nostra identità a reazioni chimiche, elettriche o meccaniche (e questo per Ortega era uno dei prodomi della massificazione). “All’uomo è data l’astratta possibilità di esistere ma non gli è data la realtà. Questa se la deve conquistare, minuto dopo minuto: l’uomo, non solo economicamente ma anche metafisicamente, deve guadagnarsi da vivere”. Questo perché «l’essere umano e l’essere della natura non coincidono totalmente: dal “lato naturale” l’uomo risulta essere immerso nella natura circostanziale in cui i suoi processi naturali si attivano spontaneamente; la sua “parte extra-naturale” che “pretende di essere” ossia la sua personalità, il proprio io, necessita di costruzione, di cura ininterrotta e di attenzione».
Quindi: la tecnica è un beneficio nella misura in cui risponde alla sua funzione principale, ovvero, cambiamento ma soprattutto miglioramento della nostra situazione esistenziale. Il maggior rischio insito nella tecnica non è la produzione sterminata delle possibilità di vita che può offrirci; questa è una complicanza (il che non significa male assoluto) direttamente proporzionale alla sua grandezza. È invece l’uso improprio, il ricorso esasperato al suo aiuto per semplificarci la vita, che ce la semplifica ma solo nel senso che l’appiattisce, la omologa, la rende simile a tutte le altre, annichilendo la nostra identità. L’avanzamento tecnico, conclude Ortega, se fuori controllo, «indebolisce la forza dei centri riflessivi, semplifica e organizza razionalmente i rapporti umani. Potremmo essere vittime di un sistema tecnico che a sua volta corre un grave pericolo, quello “di sfuggirci dalle mani e scomparire in molto meno tempo di quanto potessimo immaginare”».
Riassumendo. La tecnica ha permesso all’essere umano di superare la sua ancestrale situazione di bisogno, di conquistare una libertà nei confronti delle determinazioni naturali della quale prima non godeva. Gli uomini hanno creato delle macchine moltiplicatrici della potenza, della velocità, della memoria, della conoscenza, le hanno usate per produrre o per distruggersi vicendevolmente, le hanno automatizzate e oggi con le nanotecnologie le hanno rese compatibili col nostro organismo, addirittura incorporabili. Tutto questo non l’hanno fatto le protesi, gli utensili, le strumentazioni, le macchine, lo hanno fatto gli uomini, e la tecnica è rimasta al loro servizio. Che poi ne abbiano fatto un buon uso o meno, è un altro discorso. Guardiamo al risultato: siamo più di otto miliardi. Dal punto di vista evolutivo, un incontestabile successo.
Fino ad oggi. L’evoluzione prevede infatti anche situazioni recessive. Anche queste le vanno messe in conto. Le specie che hanno esercitato sulla terra una eccessiva pressione si sono ridimensionate, o sono addirittura scomparse, e a questo non hanno provveduto solo i cataclismi o l’azione umana. I segni di una recessione di quella umana ci arrivano già dalle proiezioni sul calo demografico naturale a partire dalla metà di questo secolo (che potrebbe essere accelerato dalla natura stessa – epidemie, cambiamenti climatici – o dalla dissennatezza degli uomini – conflitti, carestie indotte). E sappiamo che anche là dove l’uomo ha inciso più profondamente e distruttivamente le tracce del suo passaggio la natura non impiega secoli per riprendere il sopravvento, ma pochi decenni.
C’è però un altro punto di vista da considerare: quello della essenza “umana”. Gli uomini non hanno bisogno della tecnica solo per sopravvivere. Hanno si trasformato il mondo per adeguarlo alle proprie aspirazioni, alla propria interiorità, per raggiungere i propri scopi, ma lo hanno fatto a costo di arrivare a dipendere totalmente dalle risorse tecniche. Le nuove necessità dell’uomo sono sempre meno determinate dalla sua natura e sempre più dallo stesso progresso tecnico-scientifico. La liberazione si è tradotta in una nuova forma di dipendenza.
Non è necessario insistere oltre su questo aspetto. Basta guardarci attorno. O riflettere su ciò che facciamo, sul tipo relazioni che viviamo. Ogni aspetto della nostra vita oggi è condizionato dalla tecnica, anche quando riteniamo di non essere “fuori controllo”. Può sembrare terribile, per molti versi lo è: ma l’ho già scritto sopra, non abbiamo alternative alla tecnica. Come scrive Ortega: “L’unica alternativa possibile all’uso delle macchine è quella di ritirarsi in se stessi e limitarsi a contemplare il mondo, rinunciando ai propri sogni e alle proprie aspirazioni per un futuro migliore”, e “vivendo in un continuo e vacuo sforzo di adattamento ai suoi (della tecnica) mutamenti”.
Questo non significa che non abbiamo alcuna possibilità di riprenderne almeno in parte il controllo, di sfruttarne positivamente i potenziali, di decidere se e quando cambiare marcia e svoltare. Significa che abbiamo una alternativa non all’uso, ma nell’uso.
Per darci un taglio, ed evitare di incartarmi ulteriormente, ricorro ad un esempio. Di fronte alla crescente digitalizzazione delle opportunità e delle competenze si parla del rischio di una “amnesia digitale”. Con questo si indica sia la precarietà dei contenuti, che possono andare dispersi per un qualsivoglia motivo, dall’attacco hacker all’incidente tecnico nel sistema, sia la perdita di competenze, la loro atrofizzazione, dal momento che l’operatività può essere demandata ai sistemi operanti sul web. Pensiamo alle mappe stradali, o alle calcolatrici sullo smartphone, o all’enorme deposito di conoscenze presente su Google. È chiaro che se ci affidiamo all’ausilio delle mappe digitali, che ci suggeriscono ogni svolta del nostro percorso, alla lunga perdiamo la capacità di orientarci autonomamente, di interrogare la segnaletica stradale, di affidarci al ricordo visivo. Lo stesso vale naturalmente se anziché ricorrere alle competenze di calcolo mi affido alla calcolatrice, o se per le mie ricerche consulto Google anziché faticare a rintracciare, a leggere e a comparare le fonti scritte.
È però da considerare un altro fatto: questo modo di procedere esige un investimento di tempo, di attenzione, di sforzo molto inferiore a quello classico. Se ci disabitua all’uso delle nostre facoltà, libera però anche molto spazio nel nostro cervello, che può essere riempito con altre conoscenze e competenze. È qui semmai che viene fuori il vero volto del problema: lo spazio liberato andrebbe riempito con conoscenze e competenze intelligenti, non col ciarpame. La responsabilità quindi non è della tecnica, che fino a questo punto ci offre una opportunità, ma nostra: siamo noi a dover decidere come utilizzare positivamente questi spazi. Il fatto che ciò non avvenga non può essere imputato all’invadenza degli strumenti, ma all’incapacità nostra di farne un uso sensato.
Quindi, lasciamo perdere le recriminazioni su come è andata a partire da Adamo ed Eva, o i vagheggiamenti di un’Arcadia presocratica desertificata dall’iper-razionalizzazione e dalle tecnologie. Abbiamo demandato alla tecnica la soluzione dei nostri problemi materiali, ci stiamo accingendo a demandarle anche il compito di pensare e decidere per nostro conto. È il momento di tracciare dei confini, e questo siamo ancora in grado di farlo: se non ci riusciremo come comunità umana, potremo comunque sempre volerlo come singoli. Non ci sono alibi.
Come vorrebbe dimostrare la postilla successiva.
2) Ne La société du spectacle Debord indica tra i suoi riferimenti Cervantes, dandogli atto di aver precocemente intuito dove sarebbe andata a parare la “modernità”. E questo pur vivendo lo scrittore spagnolo in un paese che nel XVII secolo accusava un grave ritardo nella nascita di un capitalismo moderno. Nella seconda parte del Don Chisciotte attorno al “cavaliere dalla trista figura” viene infatti costruito un mondo artificioso, nel quale tutti recitano uno spettacolo ininterrotto, un po’ alla maniera del Truman Show. In questo caso lo spettacolo non è finalizzato come accade oggi a realizzare un dominio economico e psicologico totale, risponde semplicemente alla maligna voglia di divertimento del duca e della duchessa d’Aragona; ma si tratta comunque di una rappresentazione ingannevole, nella quale tutti hanno una loro parte, e che finisce per far perdere il senso della realtà anche a chi l’ha inscenata. Mano a mano che l’inganno si complica e richiede una partecipazione sempre più allargata ci accorgiamo che i primi a crederci sono proprio coloro che lo ordiscono, nel senso almeno che nello sbeffeggiamento della loro vittima cercano un riscatto, qualcosa che dia un surrogato di senso alle loro vuote esistenze.
L’ultima rilettura del romanzo mi ha rafforzato nel convincimento che avevo già maturato sessant’anni fa, al primo incontro: il cavaliere sarà un pazzo, almeno in base ai criteri di normalità che vigevano all’epoca e vigono tutt’oggi, ma non è un idiota. Attraversa tutte le sue disavventure consapevole di vivere nell’illusione, ma preferisce quella eroica che lui stesso si è scelta a quella squallidamente prosaica nella quale gli altri pretenderebbero di confinarlo. Lo dice chiaramente nel suo testamento: “Ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest’alta e nuova impresa”. Ma non è l’unico ad avere questa consapevolezza: poco alla volta la sua determinazione scuote anche l’ignavia di Sancho Panza, e apre gli occhi a Sansone Carrasco, lo studente di Salamanca suo amico-avversario, che così lo ricorda dopo la morte: “Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò, / e che pure nella morte / la sua vita trionfò. / Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura; / fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto”.
L’hidalgo non ha combattuto e vissuto invano.
Appendice
Informazioni più dettagliate sul situazionismo si possono trovare cliccando la voce su Wikipedia, e magari andando poi a confrontarle con quelle presenti su altri siti (ad esempio, su quello della Treccani, su Situazionismo.it, su Anarcopedia, ecc …) o in blog come Doppiozero e Carmilla; oppure consultando direttamente volumi come “AA VV, Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998”, o “Mario Perniola, I situazionisti, Castelvecchi, 2005”, e “L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013”.
È difficile dare un’idea dell’impatto reale che il situazionismo ha avuto sul pensiero alternativo del secondo novecento. Nato nell’ambiente delle avanguardie artistiche, il movimento si è poi spostato progressivamente sul terreno della critica rivoluzionaria, andando incontro nel frattempo a diverse scissioni (chi ha vissuto gli anni attorno al Sessantotto sa di cosa parlo) e prestandosi alle più svariate riletture. Gli va comunque riconosciuto di aver portato nella sinistra una ventata di rinnovamento, mettendo a nudo i ritardi e le miopie dei partiti tradizionali e la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni in atto nel secondo dopoguerra.
Aggiungo solo un personalissimo ricordo di uno degli autori qui citati, Mario Perniola, una delle persone più aperte, intelligenti e disponibili che io abbia mai conosciuto, a dispetto di una non sempre totale convergenza delle nostre opinioni. Lo cito perché, a differenza di troppi altri cialtroni incontrati dentro e fuori del mondo accademico, mi ha regalato, col suo solo modo di essere, una straordinaria lezione di vita.
“Manifesto”, redazionale del 17 maggio 1960, I.S. n. 4, Giugno 1960
Una nuova forza umana, che il quadro esistente non potrà soggiogare, si accresce di giorno in giorno con l’irresistibile sviluppo tecnico e l’insoddisfazione per i suoi impieghi possibili nella nostra vita sociale privata di senso. L’alienazione e l’oppressione nella società non possono venire pianificate in nessuna delle loro varianti, ma solo rigettate in blocco con questa stessa società. Ogni progresso reale è evidentemente sospeso alla soluzione rivoluzionaria della multiforme crisi del presente.
Quali sono le prospettive d’organizzazione della vita in una società che, autenticamente, “riorganizzerà la produzione sulle basi di una associazione libera ed uguale dei produttori”? L’automazione della produzione e la socializzazione dei beni vitali ridurranno sempre di più il lavoro come necessità esterna, e daranno infine la libertà completa all’individuo. Liberato così da ogni responsabilità economica, liberato da tutti i suoi debiti e le sue colpe verso il passato e gli altri, l’uomo avrà a disposizione un nuovo plusvalore, incalcolabile in denaro perché impossibile da ridurre a misura del lavoro salariato: il valore del gioco, della vita liberamente costruita.
L’esercizio di questa creazione ludica è la garanzia della libertà di ognuno e di tutti, nel quadro della sola uguaglianza garantita con il non sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La liberazione del gioco, è la sua autonomia creativa, che supera l’antica divisione tra il lavoro imposto e i divertimenti passivi. La Chiesa ha bruciato un tempo le cosiddette streghe per reprimere le tendenze ludiche primitive conservate nelle feste popolari. Nella società attualmente dominante, che produce in maniera massiccia degli squallidi pseudo-giochi di non partecipazione, una vera e propria attività artistica è classificata necessariamente come criminalità. È semiclandestina. Si presenta come fatto scandaloso.
Cos’è, in effetti, la situazione? È la realizzazione di un gioco superiore, con più esattezza, è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana. I giocatori rivoluzionari di tutti i paesi possono unirsi nell’I.S. per cominciare ad uscire dalla preistoria della vita quotidiana. Proponiamo fin d’ora un’organizzazione autonoma dei produttori della nuova cultura, indipendente dalle organizzazioni politiche e sindacali che esistono in questo momento, poiché non riconosciamo loro la capacità di organizzare nient’altro che il riassetto dell’esistente.
L’obiettivo più urgente che fissiamo per questa organizzazione, dal momento in cui esce dalla sua fase sperimentale iniziale per una prima campagna pubblica, è la presa dell’UNESCO. La burocratizzazione, unificata su scala mondiale, dell’arte e di tutta la cultura è un fenomeno nuovo che esprime la profonda affinità dei sistemi sociali coesistenti nel mondo, sulla base della conservazione eclettica e della riproduzione del passato. La risposta degli artisti rivoluzionari a queste nuove condizioni deve essere un tipo nuovo di azione. Siccome l’esistenza stessa di questa concentrazione direttoriale della cultura, localizzata in un solo edificio, favorisce la conquista con un putsch; e siccome l’istituzione è del tutto sprovvista della possibilità di un uso sensato al di fuori della nostra prospettiva sovversiva, ci troviamo giustificati, di fronte ai nostri contemporanei, se ci impossessiamo di questo apparato. E l’avremo. Siamo determinati ad impadronirci dell’UNESCO, anche se per poco tempo, perché siamo sicuri di fare all’istante un’opera che resterà tra le più significative per illuminare un lungo periodo di rivendicazioni.
Quali dovranno essere i caratteri principali della nuova cultura, prima di tutto in rapporto all’arte del passato?
Contro lo spettacolo, la cultura situazionista realizzata introduce la partecipazione sociale.
Contro l’arte conservata, è un’organizzazione del momento vissuto, direttamente.
Contro l’arte parcellare, sarà una pratica globale basata contemporaneamente su tutti gli elementi utilizzabili. Tende naturalmente ad una produzione collettiva e senza dubbio anonima (almeno nella misura in cui, non essendo le opere immagazzinate in merci, questa cultura non sarà governata dal bisogno di lasciare delle tracce). Le sue esperienze si propongono, come minimo, una rivoluzione del comportamento ed un urbanismo unitario dinamico, suscettibile di essere esteso all’intero pianeta, e di essere poi diffuso su tutti i pianeti abitabili.
Contro l’arte unilaterale, la cultura situazionista sarà un’arte del dialogo, un’arte dell’interazione. Gli artisti — con tutta la cultura visibile — si sono separati del tutto dalla società, come sono separati tra loro dalla concorrenza. Ma anche prima di questa impasse del capitalismo, l’arte era essenzialmente unilaterale, senza risposta. Essa supererà questo periodo chiuso del suo primitivismo a favore di una comunicazione completa.
Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di “scuole”, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente ma simultaneamente. Inauguriamo ora quello che sarà, storicamente, l’ultimo dei mestieri. Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno «artisti», in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la costruzione della loro vita. Tuttavia, l’ultimo mestiere della storia è così vicino alla società senza divisione permanente del lavoro, che non gli si riconosce la qualifica di mestiere quando fa la sua apparizione nell’I.S. A quelli che non ci comprendessero bene, diciamo con un irriducibile disprezzo: “I situazionisti, di cui vi credete forse i giudici, vi giudicheranno un giorno o l’altro. Vi aspettiamo alla svolta, che è la liquidazione inevitabile del mondo della privazione, sotto tutte le forme. Questi sono i nostri fini, e saranno i fini futuri dell’umanità”.
C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va … Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa. Trilussa, Poesie scelte, Mondadori 1985
Accade – per fortuna o per scelta – che ci si allontani dalla routine quotidiana per concedersi di fare altro, di pensare diversamente. E meno male, altrimenti sai che strazio!
Recentemente ho partecipato a un incontro ispirato ad un brano dei Negrita, Che rumore fa la felicità? Non era un convegno di filosofi o letterati in qualche blasonato festival o salotto televisivo, ma una riunione tra colleghi della mia cooperativa, provenienti da settori molto diversi – coordinatori di strutture educative, operatori dell’inclusione sociale, responsabili del personale – che avevano percorso anche un bel po’ di chilometri (io più di 200) per ritrovarsi a Torino e tentare di rispondere a questa semplice ma insidiosa domanda.
S’è partiti alti, dalla Costituzione americana del 1776: “Tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità”. Beh, mica poco. Salvo che poi, per ottenere quest’ultima, gli Stati Uniti hanno agito in modo tale che il loro credo venisse imposto (con la forza) e diffuso (con i media) per una buona parte del globo. Nella nostra Costituzione, quella definita “la più bella del mondo”, alla felicità non si fa alcun cenno, e nessuno ha mai fatto una proposta di legge per introdurre un articoletto in cui si miri al suo raggiungimento. Forse perché è già stracolma di principi ideali a cui ispirarsi e ai quali sembra piuttosto difficile conformarsi (due articoli, così, a caso: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”). O forse perché in effetti pare impossibile trovare un accordo su cosa si debba intendere per “felicità”. Eppure è uno dei termini più ricorrenti e abusati anche nel nostro quotidiano.
La pubblicità, ad esempio, sfrutta il “desiderio di felicità” proponendo una sterminata gamma di prodotti che dovrebbero consentire di raggiungerla: da “Le pastiglie Leone. La fabbrica della felicità” a “La felicità è andare in bagno con Fave di Fuca“; da “Pasta, integratore di felicità” a “Fiat, grande Panda” (con il brano Felicità di Albano). Fatevi un giro in rete e ne uscirete frustrati, quasi colpevoli per non esservi ancora procurati quegli infallibili generatori di felicità! A me è venuta voglia di comprare un’altra Panda; poi, per fortuna, ho dato un’occhiata al catorcio guidato da mia moglie e m’è passata la smania.
Al di là degli usi biecamente commerciali e propagandistici del termine, e andando su un terreno meno inquinato, resta il fatto che definire la felicità, anche con molta approssimazione, è davvero un’impresa ardua. Da sempre ci hanno provato poeti e filosofi (per i politici il discorso è più recente), senza venirne a capo. È una condizione cui tutti tendono, ma che nessuno riesce non dico a realizzare, ma neppure a mettere chiaramente a fuoco. Questo perché i parametri che ciascuno adotta sono incredibilmente diversi: è come se ogni individuo possedesse una personale ricetta, con gli ingredienti più svariati, ma questa è realizzabile quanto la trasmutazione del metallo comune in oro.
Mi accorgo che di questo passo rischio di impantanarmi nei luoghi comuni e nell’inconcludenza. Provo dunque a riformulare la domanda, procedendo per gradi. Parto naturalmente dalla più banale: siamo convinti che si possa essere felici, se non qui e ora, da qualche parte e in qualche momento? Messa così, la questione pare più semplice, anche se la domanda fa emergere dubbi e incertezze: alcuni (io fra questi) ammettono di non essere sicuri di averla mai provata quella condizione, distinguendola dalla gioia, che invece appare più accessibile, anche se meno durevole.
Ciò non significa negarne la possibilità, ma semplicemente ammettere di non averne mai goduto. E questo può essere accaduto per vari motivi, tutti comunque riconducibili alla soggettività: al carattere, alla disposizione genetica, alle aspettative verso la personale esistenza, alla condizione ambientale e sociale (in una situazione di guerra, miseria e fame, quale felicità è possibile?). Quindi, una prima risposta c’è: forse non esiste “la Felicità”, ma senz’altro esiste in tutti l’aspirazione ad “esser felici”.
Cosa significa però “esser felici”? Anche qui, c’è da sbizzarrirsi, ma solo per arrivare a concludere che non c’è un denominatore comune da ricondurre a questo sentimento. Alcuni, ad esempio, lo considerano un premio meritato per l’impegno profuso, mentre altri al contrario lo percepiscono come un dono gratuito ed effimero, una grazia che sfugge alla logica della meritocrazia. Anche perché ciò che per qualcuno è fonte di felicità, per altri può essere irrilevante o addirittura una tortura (vedi l’amore per i figli o l’angoscia che comporta crescerli). All’incontro di Torino c’era chi associava una grande felicità ad una vincita alla lotteria, a me non smuoverebbe proprio nulla. Ma ammetto d’esser strano.
Per assaporare la felicità occorre accettarne la natura effimera, ammettere che è costituita da una somma di attimi la cui durata e intensità sfuggono dal nostro controllo. Un godimento breve ma intenso che deve essere accolto con la consapevolezza che è destinato a finire. O meglio ancora, che si tratta solo del “promo” di un film che non sarà mai proiettato, perché in fondo noi non “desideriamo la felicità”, che è appunto qualcosa di indeterminato, ma aneliamo costantemente l’“esser felici”. In sostanza: non siamo mai felici, ma desideriamo costantemente esserlo. È questa tensione perpetua che ci spinge a reggere e ad andare avanti.
D’altra parte, è pur vero che i momenti di grazia ci sono e non arrivano casualmente, che anche quando ci stupiscono siano il frutto di una autoconsapevolezza: avviene quando soppesiamo le emozioni positive del presente e le mettiamo a confronto col nostro strapazzato io. Per molti parrebbe valere esattamente il contrario con l’abbandono totale a ciò che accade. Credo invece che sia possibile riconoscere e associare un momento vissuto alla felicità solo quando si è consapevoli dei propri desideri più intimi, delle inevitabili paure, degli onesti e franchi limiti e del personalissimo concetto di benessere.
A questo punto, risulta evidente che la felicità è un concetto indefinibile e che di per sé non esiste, con buona pace dei costituenti americani. Tuttavia, possiamo ammettere che ciascuno ha il proprio modo di sentirsi o reputarsi (non è la stessa cosa) “felice” a modo suo. La felicità, infatti, non è un diritto, ma uno stato d’animo: non può essere sancita da una legge, ma solo resa possibile attraverso la consapevolezza, l’etica e l’intelligenza orientata al positivo.
Possiamo allora tornare al titolo dell’incontro, che chiedeva una riflessione sul “rumore” della felicità: ed è questo che intendo ora indagare.
Alcuni associano la felicità al canto degli uccelli, al fruscio delle foglie, alle onde del mare, alla risata della persona amata o al sorriso di un bambino: sono le associazioni più scontate, assolutamente legittime, ma ne esistono altre, più inconsuete, che meritano di essere considerate.
Ad esempio, nel brano 4’33” di John Cage l’orchestra, anziché suonare, osserva un silenzio totale, costringendo l’ascoltatore a percepire, nella durata del “brano”, i suoni accidentali dell’ambiente e i rumori interiori. Nel silenzio assoluto, l’orecchio umano è indotto a porsi in ascolto di ciò che resta di sé. Di conseguenza il dialogo si sposta inevitabilmente dal mondo esterno a quello interiore. Non so cosa Cage si proponesse, forse quel silenzio dovrebbe essere liberatorio, ma ammetto che dal mio interno arriva invece un fracasso che non sopporto, che mi urta: forse non riesco a sintonizzarmi sulla giusta lunghezza d’onda, certamente non lo associo alla felicità.
All’opposto, la felicità trova espressione nella potenza della Nona Sinfonia di Beethoven, con l’Inno alla Gioia di Schiller. Composta quando il musicista era ormai sordo, questa sinfonia è un paradosso: una celebrazione della felicità scritta da qualcuno che non poteva più udirne le note. Forse proprio per questo, la sua opera è così emblematica del concetto di felicità come esperienza interiore, capace di superare le barriere fisiche. Il “suono” che sentiva non passava per le orecchie, ma da una vibrazione dentro di lui, una melodia immaginata che trascendeva i limiti del corpo, risuonando persino nel silenzio della sua sordità. La felicità, allora, diviene una propensione interiore che vibra anche quando il mondo esterno tace.
Umberto Eco, ne Il nome della rosa, parla di un’estasi simile, derivante dalla contemplazione e dal superamento dei limiti fisici attraverso il potere creativo della mente. Adso, descrive così la felicità di Guglielmo da Baskerville: “Stavo osservando il mio maestro in quell’arca di scienza, in quel tempio della saggezza, e non potevo fare a meno di pensare che nemmeno la città celeste avrebbe mai potuto procurargli estasi più grande della seduzione della conoscenza!”[1]. Per Eco, la felicità non è un traguardo statico, ma un processo dinamico (appunto quello della ricerca, del “desiderio”), una continua seduzione che nutre la mente con domande e riempie il cuore di meraviglia. È il fruscio delle pagine sfogliate, la colonna sonora del pensiero in azione, dove ogni nuova scoperta aggiunge un tassello al nostro essere e si traduce in pensieri differenti e difformi.
John Berger, in Capire la fotografia, ci invita invece a riflettere sul tempo della felicità stessa: “Non credo proprio che la felicità sia uno stato. Può esserlo l’infelicità, ma la felicità è, per sua natura, un momento. Il momento può durare qualche secondo, un minuto, un’ora, un giorno e una notte, ma credo che in quanto tale non possa durare neanche una settimana. L’infelicità somiglia spesso a un lungo romanzo. La felicità è molto più simile a una foto! Ed è intimamente legata a quel che dici tu: il senso della meraviglia”. La felicità, dunque, non si presenta come un suono prolungato, ma come una singola nota o una sequenza di suoni che può durare anche istanti, minuti, ore, giorni, ma è comunque destinata a svanire. È quindi paragonabile ad un’istantanea fotografica, nella quale si coglie la bellezza dell’istante vissuto in modo irripetibile. Quindi la felicità ha il suono di un click fotografico su un singolo momento, che svanisce mentre inquadro la realtà successiva. La precarietà diviene un carattere distintivo della felicità.
Devo ammettere che, personalmente, un persistente acufene mi ostacola nella percezione del “suono” della felicità, nonostante viva una situazione familiare, sociale e lavorativa relativamente serena. Tuttavia, la serenità non coincide con la felicità: può essere paragonata ad un romanzo – come scrive Berger –, con il suo andamento ondulatorio, fatto di alti e bassi, di piaceri, di attimi al cardiopalma e altri di monotona quiescenza. La felicità, invece, se devo definirla almeno per analogie, la immagino più simile a una poesia: breve, intensa, condensata di significati ed emozioni, capace di irrompere improvvisamente e di travolgere i sensi con la sua intensità.
Il fatto è che il baccano della quotidianità rende difficile percepire gli esili suoni che potrebbero essere associati alla felicità. Tuttavia, fare pace col proprio acufene e accettare questa “semisordità”, impone una maggiore sensibilità verso i rumori di fondo del quotidiano, nel tentativo di cogliere tra di essi frammenti di note felici. È un esercizio perenne di ascolto selettivo della realtà, di ricerca della meraviglia nel caos, durante il quale ci si concentra su una realtà a volte distopica, cercando di estrarne le singolarità che sconquassano per le loro felici armonie.
La classica raffigurazione di Beethoven come figura corrucciata non riflette necessariamente il suo carattere, ma piuttosto la sua concentrazione assoluta, la sua capacità di ascoltare anche il minimo sussurro del mondo. È questa attenzione profonda che permette di cogliere la bellezza nell’istante, di praticare l’arte della meraviglia nel caos. La felicità, come una nota breve ma intensa, può essere trovata anche nel silenzio, se solo siamo disposti a cercarla nel rumore che abita dentro di noi.
Forse anche il semplice scrivere questo pezzo è per me una forma di felicità. Forse.
[1] La scena, tratta dal film di Jean-Jacques Annaud del 1986, in cui Guglielmo finalmente entra nella biblioteca è perfetta nella rappresentazione di questa felicità intellettuale.
Ci siamo imbattuti ultimamente in una serie di articoli nei quali si ventila che i maggiori siti di Intelligenza Artificiale (AI) stiano accordandosi per assoggettare a pagamento tutti i servizi che erogheranno. La cosa non ci ha indignati, ma ci ha stupiti. Non ci ha indignati perché non avevamo mai avuto il minimo dubbio che sarebbe finita così, e ci ha invece stupiti perché questi articoli trattavano la cosa come un’allarmante “eventualità”.
Ma quale eventualità! Ci sembra tutto così chiaro. Nessuno investe milioni o miliardi di dollari, di euro o di yen che si voglia per offrire un servizio a tutta la comunità umana. Al più potranno essere distribuite gratuitamente un po’ di briciole, quel che rimane sul tavolo dopo essersi spartiti le fette. E neppure le briciole saranno del tutto gratis, perché serviranno soprattutto a farci prendere gusto a quel pane, a rendercelo indispensabile e a indurci a farne un elemento essenziale della nostra dieta. A pagamento, naturalmente.
Per questo riteniamo che tutto il fiorire ultimo di G7 e di convegni e di predicozzi papali sul futuro dell’AI e sulla sua regolamentazione sia solo un teatrino più o meno consapevole di essere tale. Pensiamo che in effetti strumenti di difesa efficaci contro l’abuso e la strumentalizzazione non ce ne siano, e che al più possa essere opposta una consapevolezza, che non può essere che individuale, di come funziona tutta la faccenda. O meglio ancora: di come ha sempre funzionato.
Proviamo a riassumere, senza naturalmente la pretesa di riscrivere la storia dell’uso degli strumenti “intelligenti”, ma solo per buttare lì qualche spunto di riflessione non supinamente ortodosso e non aprioristicamente eterodosso.
Dunque. Con l’invenzione di “segni impressi manualmente su un substrato” gli umani sono stati svincolati dalla necessità di archiviare nella memoria parole, cose e fatti. Volendo possono essere considerate come substrato originario anche le pareti delle caverne, ma convenzionalmente l’origine della scrittura vera e propria è fissata all’uso di tavolette di argilla, sostituite poi attraverso innovazioni successive da papiri, pergamene o carta. E già lì il problema si poneva, come dimostra l’avversione, o quantomeno la diffidenza, di Platone per la parola scritta. Le ragioni addotte da Platone riguardavano l’appiattimento del discorso che la scrittura automaticamente produce, la sua neutralizzazione, in quanto si azzerano tutte le sfumature che il tono di voce o le espressioni facciali o la postura fisica consentono più o meno volutamente a chi parla di introdurvi, e a chi ascolta di coglierle, ma soprattutto la sostanziale passività che è indotta in chi ne fruisce.
C’era però anche un altro problema, ma questo Platone non se lo poneva, stante la sua concezione di un sapere “elitario”. Le innovazioni tecnologiche hanno permesso di “imprimere i segni” in maniera via via più veloce e meno costosa, e da ultimo anche automatizzata, con la conseguente moltiplicazione dei libri o di altri strumenti di trasmissione del sapere o quantomeno dell’informazione, e quindi hanno aperto l’accesso a quest’ultima ad una platea sempre più vasta. Ma sia per quanto ha riguardato per quattro o cinque millenni la trasmissione scritta che per quanto concerne oggi quella audio-visiva, la platea ha continuato ad essere sostanzialmente passiva (e più che mai lo è diventata di fronte ai media introdotti negli ultimi due secoli): si è nutrita quindi di saperi e di informazioni gestiti e selezionati e distribuiti di volta in volta dai diversi poteri (politici, religiosi, economici, ecc.). Per questo diciamo che la non solo possibile ma più che probabile monopolizzazione dell’AI, e non solo a fini economici ma anche di condizionamento sociale, non rappresenta affatto una novità. È sempre andata così. Con buona pace anche di noi sostenitori della intrinseca positività dell’innovazione tecnologica, dobbiamo ammettere che l’accesso ad un uso “attivo” delle tecnologie che supportano l’informazione e la trasmissione del sapere è consentito ai “non addetti ai lavori” solo quando queste ultime diventano obsolete. Oggi chiunque è in grado di prodursi a costi bassissimi un libro, o di girare un film o di aprirsi uno spazio in rete, ma questo libro o questo film o questo spazio, se non sono inseriti in un meccanismo di mercato che ne condiziona già in partenza la libertà espressiva, finiscono in un mare magnum nel quale non hanno la minima visibilità o rilevanza.
Vediamo comunque cosa ci aspetta. I “segni” cui ci si affiderà per il futuro, pur avendo ancora una loro effimera fisicità, sono “impressi” su un substrato e con tecniche tali per cui possono essere “visti e letti”, ma non lasciano una traccia “fisica” concreta. Vale a dire: questa roba c’è, può essere vista e letta, è rintracciabile velocemente e con facilità, ma in realtà non sappiamo affatto dov’è, con che criteri viene archiviata, e da chi, e a quale scopo. Si, certo, sappiamo che questo lavoro lo fanno i grandi gestori dei big data, ma abbiamo la minima idea di chi ci sia davvero dietro, dei traffici, delle guerre commerciali, degli accordi e degli scambi che si operano ben al di sopra delle nostre teste?
Ma non basta. Un’altra preoccupazione immediata riguarda la resistenza del supporto della fisicità dei dati. Con la progressiva sparizione degli archivi delle burocrazie reali, dei templi e delle biblioteche nei quali i dati erano conservati su supporti fisici, stiamo affidandoci sempre più alla “nuvola”. Con quali garanzie? Un’eruzione solare o una tempesta magnetica particolarmente forte o, senza scomodare la natura, una guerra dissennata combattuta nell’etere, potrebbero riportarci all’età della pietra? Il problema è reale, è già ampiamente discusso, ma noi tendiamo ad autoconvincerci che la tecnologia sarà comunque in grado di rimediare a questi rischi. In fondo, ci diciamo, i supporti vecchio stile hanno permesso una conservazione dei dati aldilà di quanto potevano immaginare i nostri avi: al giorno d’oggi tecnologie d’avanguardia consentono di leggere cosa c’era scritto sulle pergamene prima che venissero raschiate per essere riutilizzate, o addirittura di leggere i papiri ritrovati ad Ercolano. Ma parliamo pur sempre di supporti concreti sui quali lavorare: l’etere è un’altra cosa, e ci si chiede come sarebbe possibile rintracciarvi dati eventualmente dispersi.
Perché ci sono poi anche altri rischi: l’accensione della carta richiede una temperatura tra i 200 gradi e i 350 circa, a seconda dello spessore, e solo un malaugurato incidente o una “milizia del fuoco” come quella di Fahrenheit 451 possono provocarla, mentre il funzionamento dei megaserver nei quali stipiamo oggi le conoscenze necessita di temperature costanti tra i 30 e i 40 gradi. Con i mutamenti climatici in corso sarà sempre più difficile garantirle. Può sembrare una forzatura, ma in realtà abbiamo già modo di constatare quotidianamente come i più sofisticati sistemi di previsione, di prevenzione e di protezione vadano in tilt ad ogni stormir di foglia o ad ogni attacco degli hackers. È vero, anche la biblioteca di Alessandria, così come molte altre, è andata a fuoco, e una infinità di opere del passato è andata perduta: ma lo sappiamo perché di queste opere è rimasta comunque memoria, qualcuno ce ne ha comunque parlato, mentre ciò che finisce nella nuvola difficilmente ridiscenderà sulla terra come pioggia a fecondare i cervelli: è più probabile che si vaporizzi nel nulla. Rimane allora il dubbio che possano un giorno tornare utili i cinquanta e passa tomi della vecchia Treccani che Paolo ha messo al sicuro nel Capanno.
La preoccupazione maggiore e più attuale concerne però, come si diceva sopra, il rischio dell’appropriazione indebita del sapere da parte di società private fornitrici di servizi di AI. La cultura attuale è un frutto collettivo, prodotto dall’umanità durante tutta la sua storia, anche se con una accelerazione esponenziale negli ultimi millenni. Le varie società private utilizzeranno questo patrimonio dell’umanità per fare profitti, e potranno decidere quale conoscenza può essere fatta circolare o quale è meglio tenere riservata per i loro fini, politici o economici che siano. Un po’ come accadeva nella biblioteca dell’abbazia ne Il nome della rosa. Permettendoci di interrogare i loro sistemi ci daranno poi un’illusoria ed effimera sensazione di essere colti, mentre in realtà saremo solo consumatori di un prodotto culturale pre-confezionato e incartato, di uno spettacolo cui assistere passivamente.
Ripetiamo: è sempre stato così, il sapere e l’informazione trasmessi sono sempre stati trattati e normalizzati in funzione di chi ne deteneva il possesso (si pensi solo al lavoro di “ripulitura” dei testi sacri operato dalle varie chiese – per non parlare di quello della loro “creazione”), e da sempre ci sono individui o gruppi (medici, ingegneri, insegnanti ecc.) che usano le conoscenze prodotte dall’umanità per ricavarne un reddito. Quelle conoscenze sono però frutto di impegno e fatiche personali che hanno portato all’acquisizione di competenze necessarie alla società, che vanno riconosciute e remunerate al pari di quelle di qualunque altro lavoratore, e sono comunque a disposizione di tutti e non riservate ai membri di qualche setta (o azienda). Le modalità stesse della loro detenzione, poi, della conservazione e della circolazione, le hanno rese passibili (almeno negli ultimi secoli, ma in fondo da sempre) di essere confrontate, riviste, confutate: oseremmo dire che ogni innovazione tecnologica da un lato ha ampliato la cerchia degli utenti sui quali la cultura “addomesticata” poteva esercitare influenza, ma dall’altro ha progressivamente eroso a chi la deteneva ampi margini di controllo.
Le nuove tecnologie fanno intuire invece un controllo molto più soft e molto più subdolo: non ci sarà bisogno di alcuna censura, di alcuna proibizione conclamata: provvederà il sistema stesso, offrendo in apparenza possibilità illimitate, ma pilotando sapientemente all’interno del bailamme le nostre aspettative, a liquidare o a banalizzare sul nascere ogni tentazione di eresia o di autonomia di pensiero.
L’idea poi che le leggi, le regole sulle quali si basa la nostra convivenza, possano essere affidate ad un cloud ci inquieta: ricorda un po’ troppo epoche nelle quali le leggi erano garantite dagli Dei, e interpreti della volontà degli Dei erano i sacerdoti, almeno fino a quando non cominciarono ad essere scolpite sulla pietra, da Hammurabi a Mosè alle dodici tavole. La cultura del diritto, della quale tanto si parla, soprattutto a sproposito, nasce proprio da lì, da quelle pietre. Altro che nuvole.
Non vorremmo essere fraintesi. Non stiamo invocando un ritorno all’età della pietra: semmai proprio il contrario. Stiamo dicendo che il modello produttivo, e di conseguenza quello sociale, che abbiamo adottato suppone forme di organizzazione sempre più complesse, che a loro volta richiedono quantità di competenze impossibili da padroneggiare da un singolo. E che laddove la programmazione non possa essere eseguita e gestita dallo stato, cosa che oggi sta accadendo quasi ovunque perché le potenze che guidano il gioco sono ormai transnazionali, subentrano società private che possono investire enormi capitali: e che questi capitali, proprio perché enormi, si sottraggono al controllo di quei cittadini che attraverso lo stato dovrebbero esercitarlo. Alla faccia della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza.
Anche questo in qualche modo è già accaduto, sin dalla notte dei tempi storici: la nascita delle città, ad esempio, ha certo liquidato le libertà di cui godevano i cacciatori-raccoglitori del paleoliotico: ma ha anche prodotto degli anticorpi, dapprima marginali, poi sempre più robusti, che hanno conferito alla libertà e alla dignità individuale altri significati (e se siamo qui oggi a parlarne e a porci il problema lo dobbiamo a questa evoluzione culturale). La domanda è se questi anticorpi, davanti alla pervasività che si prospetta totalizzante dell’intelligenza artificiale e al monopolio culturale che questa ambisce ad esercitare, sapranno ancora reagire, escogitare strategie di difesa. Anche in questa direzione i dubbi sono più che giustificati.
Insomma. Se agiranno in regime di “proprietà privata”, le aziende che fanno ricerca nel settore dell’AI, che già si guardano bene dal divulgare i risultati di queste ricerche ma si affrettano piuttosto a tradurli in utili, a trasformarli in un “prodotto” (che come tale ha come destinazione naturale un mercato e come scopo un profitto), metteranno in vendita qualcosa che non appartiene loro, che è un capitale comune maturato dall’umanità. Non solo: lo faranno esercitando una discrezionalità totale, promuovendo o oscurando i dati in loro esclusivo possesso a seconda degli interessi in gioco. E infine, comunque la si metta, anziché agevolare il recupero o il potenziamento di quella intelligenza naturale che tanto sembra oggi difettare, c’è il rischio concreto che ne sanciscano la definitiva atrofizzazione.
A conti fatti, non sembriamo messi troppo bene.
Postilla. L’Enciclopedia Treccani di cui sopra mi è stata regalata da una conoscente una decina d’anni orsono, forse proprio per fare posto al digitale. Consta dei trentasei volumi dell’edizione originaria, pubblicati tra il 1929 e il 1937, più altri quattordici di Appendici aggiornate sino al 1992 e uno di apertura sul nuovo millennio. È insomma come quelle che di recente, a partire dall’era Covid, avete visto alle spalle di molti dei partecipanti da remoto ai talk televisivi. La mia è ospitata nel Capanno dei Viandanti (che peraltro non ne fanno granché uso), perché in casa occuperebbe almeno la metà di una parete, mentre già attualmente non rimane spazio nemmeno per una rivista. Non apparirà mai in tivù non perché è esiliata al Capanno, ma perché io non frequento i talk.
Ci torno su invece perché offre a mio giudizio un esempio particolarmente ambiguo di trasmissione di “cultura” intesa come “prodotto finito”, summa dei dati e dei saperi. Questo “prodotto culturale” viene infatti riproposto in tempi diversi nella stessa confezione, anche se gli ingredienti e le ricette sono spesso completamente differenti. Non è questa la sede, ma sarebbe interessante analizzare le correzioni, le variazioni o le cancellazioni conosciute nell’arco di mezzo secolo da alcune “voci” particolarmente significative (ad esempio, dalla voce: razza).
Ora, certamente la cultura è un continuo processo conoscitivo, ed è quindi normale che i dati si aggiornino e i punti di vista mutino: ma è inquietante constatare come l’involucro abbia conservato, e trasmesso al contenuto, sempre la stessa autorevolezza (e sua la presenza come convitato di carta nei salotti televisivi mira proprio a questo). È inquietante perché di un’identica proprietà sembra godere oggi ogni confezione digitale, e senza nemmeno che vengano a incrinarla gli Aggiornamenti.
Per il momento mi limito a sottolineare come sulla Treccani queste voci fossero comunque affidate a specialisti, che si presumeva avessero una preparazione specifica, e che firmavano i lemmi (per cui era possibile con poco sforzo determinare le loro coordinate), mentre le odierne enciclopedie digitali, prima tra tutte Wikipedia (della quale peraltro mi avvalgo), hanno alle spalle collaborazioni volontarie e anonime: ciò significa che quando va bene queste collaborazioni soffrono di dilettantismo, di scarsa accuratezza nella verifica delle fonti, di datazioni o attribuzioni errate, ecc… mentre quando va male nascono da un preciso intento di interpretazione e strumentalizzazione ideologica (intere aree storiografiche, ad esempio quella relativa al fascismo, sono state prontamente colonizzate da una storiografia di destra decisamente d’accatto: ma questo vale anche purtroppo per la sinistra). Ebbene, sul web tutte queste voci hanno pari dignità, e stanti i criteri quantitativi coi quali l’algoritmo ne decreta la rilevanza (in sostanza, il numero di accessi), e quindi l’ordine di comparsa sullo schermo, è evidente che tale “rilevanza” non potrà che crescere nel tempo.
Questo ci riporta direttamente all’intelligenza artificiale e alle prospettive che apre. L’interrogativo che ricorre con maggiore frequenza nelle discussioni sull’argomento riguarda la possibilità o meno dell’AI di riprodurre esattamente, e di potenziare, tutti i meccanismi e le funzioni intellettive del cervello umano: quindi non solo di eguagliare, ma di superare le capacità della nostra mente. La risposta che io mi davo sino a ieri era che esiste anche una intelligenza del corpo, che passa per i nostri sensi prima ancora che per la mente, e che non può essere clonata da una macchina. Oggi non ne sono più tanto sicuro, e comunque non importa, perché credo invece che sia malposta la domanda. Penso infatti che quello in corso non sia un processo di adeguamento dell’intelligenza artificiale a quella umana ma, al contrario, di adeguamento dell’intelligenza umana a quella artificiale. Tutti i nostri comportamenti, in effetti, e non solo quelli mentali ma anche quelli fisici, sono già sin da ora, quando di AI si parla ancora come di un progetto allo stato nascente, fortemente condizionati da protesi, da strumentazioni, da modalità di comunicazione e di spostamento che riconfigurano lo spazio e il tempo, dilatano e sterilizzano i rapporti, dettano le priorità, rimodellano le aspettative. Io stesso, che siedo in questo momento davanti a un computer, sto scrivendo in una modalità che da un lato sembra offrirmi possibilità infinite di ripensamento, di correzione, di controllo lessicale, di approfondimento, di verifiche e di ricerche in tempo reale, senza alzarmi dalla sedia, ma dall’altro mi induce una pigra dipendenza, mi asseconda se mi conformo ai suoi protocolli di scrittura e silenziosamente indirizza e influenza ciò che scrivo.
Insomma, sono io ad abituarmi a pensare come la macchina, e non viceversa. (P. R.).
Credo sia ormai il caso di presentare “ufficialmente” Carlo Prosperi, anche se non dubito che i frequentatori del sito abbiano già imparato a conoscerlo. Sarò breve: se tirassi giù una sbrodolata mi toglierebbe immediatamente l’amicizia, alla quale tengo invece moltissimo. Mi limiterò a un paio di ricordi da ex compagno di scuola, che a mio giudizio inquadrano l’essenziale. Quando è arrivato nella nostra classe – credo in prima Liceo – Carlo sapeva già, a differenza di tutti noi, cosa davvero lo interessava e cosa avrebbe voluto fare da grande. Scelse di frequentare praticamente part-time, e di dedicare più proficuamente il suo tempo alla sua vera passione, la lettura. Alla fine delle secondarie aveva letto più di tutti noi messi assieme, e di matematica e fisica sapeva comunque quanto me (vale a dire ben poco) che in cinque anni non avevo perso un giorno. Una volta all’Università, libero da orari e scadenze e impegni di frequenza, ha bruciato le tappe ed è stato il primo a laurearsi. Di lì è iniziata la sua missione di insegnante e, ciò che maggiormente qui importa, una attività di studioso tutta fuori dagli schemi correnti. Nel senso che è uno serio, che non compare in tivù e poco anche fuori, professionale nel metodo e negli approfondimenti (è la cosa che più gli invidio) e onnivoro negli interessi culturali. Può scrivere d’arte, di letteratura, di storia o di filosofia con la stessa ferratissima competenza, e insieme con la stessa modestia. “Il faut cultiver notre jardin” potrebbe essere il suo motto (anche se ama poco Voltaire). Ma per crescere fiori bisogna anche avere il pollice verde. E Carlo lo ha senz’altro.
Paolo Repetto
Caro Paolo,
ho letto con sommo interesse il tuo saggio sul complottismo e ancora una volta mi devo dichiarare d’accordo, almeno in gran parte, con te. Il complottismo, inteso nel suo senso deteriore, non è molto dissimile dall’allucinazione ossessiva. E bene ha fatto Eco a irriderne e a smontarne, nel Pendolo di Foucault, gli aspetti mistificatori. Che accomunano ed hanno accomunato tanto la destra quanto la sinistra: se, per ragioni politico-propagandistiche, Mussolini evocava complotti massonici e demo-plutocratici, da Togliatti ed epigoni abbiamo appreso di una perenne “Reazione in agguato”. Nel Mulino del Po Bacchelli citava i “segreti” di cui si nutriva “la bislacca visione” del Cavallotti: «dopo quel di Novara, il “segreto” d’Aspromonte, e poi di Mentana…». Una trama di congiure antidemocratiche, quasi una “strategia della tensione” ante litteram.
Oggi, con la globalizzazione imperante, la Spectre ha assunto aspetti e dimensioni ancor più inquietanti. Certo i “poteri forti” esistono, ma spesso sono tra loro in conflitto. O in concorrenza. Per spartirsi le aree d’influenza. O i mercati (è il caso delle multinazionali). Come è sempre accaduto. Da sempre esistono gli arcana imperii. E quanti registi hanno costruito la loro fortuna sui complotti della CIA, dell’FBI, dei Servizi Segreti. Ma vogliamo chiamare complotto anche l’espansionismo cinese, che, con la “Diplomazia dei Vaccini”, va accelerando la sua penetrazione socio-economica nel mondo, a cominciare dall’Oriente, in un confronto muscolare a tutti i livelli con le economie occidentali? La “Diplomazia dei Vaccini”, da agosto in qua, si è estesa ad aree politicamente ed economicamente cruciali del Medio Oriente: dal Bahrain all’Egitto, dalla Giordania agli Emirati Arabi, dall’Arabia Saudita a diversi Paesi dell’America Latina. Ai vaccini si sono aggiunti accordi economici: con la Turchia, con Israele, col Pakistan. Al Marocco è stato concesso un brevetto per la produzione di un vaccino cinese per tutta l’Africa: continente in cui la penetrazione cinese è già molto estesa. Complotto? Ma tutto avviene alla luce del sole, tutto è di dominio pubblico, anche se i nostri mass-media ne parlano poco e senza dare a tutto ciò il rilievo che meriterebbe. Lo stesso poi si potrebbe dire degli USA e della disciolta URSS.
Il vero complottismo – come tu ben spieghi – si ammanta di mistero (arcano resta il “disegno perversamente intelligente” con cui si ripromette di asservire l’umanità) e sfugge ai giochi o agli intrighi diplomatici, ma le élites che promuovono la congiura si conoscono tra loro (tutte d’accordo? possibile?) e le conosciamo. Sappiamo nomi e cognomi dei componenti della Trilateral Commission o del Bilderberg. Ricordo che Gianni Collu a siffatta mia obiezione rispondeva che queste organizzazioni non sono il vertice di nulla, bensì soltanto la cinghia di trasmissione di un Potere Occulto, giacché i veri processi decisionali avrebbero luogo ancora più in alto. Un paradosso capzioso: se il Demiurgo non è Dio e se Dio sta sopra o dietro di lui, perché dietro o sopra Dio non potrebbe esserci, che so? un Super-Dio, un Ur-Dio? E via retrocedendo all’infinito: un altro esempio di “cattiva infinità”.
Come vedi, il discorso è complesso. E a complicarlo concorrono poi le “Società Segrete”, le Mafie, le P2 o P3, le infinite sette che nella storia hanno contribuito ad alimentare il mito e il gusto dei complotti. Non tutti a fin di male: stando a Luigi Natoli, i Beati Paoli, ad esempio, si proponevano di vendicare le ingiustizie a danno dei più deboli; altre associazioni si ripromettevano di liberare i popoli dall’oppressione o di instaurare l’uguaglianza tra gli uomini. Ma siamo pur sempre mille miglia lontano dal “complotto mondiale” dei tempi nostri. E fin qui hai perfettamente ragione. Come hai ragione a dire, a commento del pensiero foucaultiano, che tu in parte condividi, a distinguere la realtà (“ciò che accade”) dalle fantasie (“ciò che vien fatto accadere”). Ma dimentichi di aggiungere che Foucault, nel denunciare l’onnipervasività del potere o, se vuoi, quella “microfisica del potere” capace di penetrare in ogni atto, situazione, gesto, ometteva di menzionare il suo potere, quello da lui espresso come cattedratico, come intellettuale à la page, come scrittore di successo (già nel 1971, George Steiner vedeva in lui “il mandarino del momento”). Un successo, il suo, dovuto all’ambiguità o alla contraddittorietà dei suoi stessi enunciati, come ha evidenziato nel 1977 Jean Baudrillard nel suo saggio Dimenticare Foucault. Pensa ad asserzioni come quelle che seguono: “noi ignoriamo ancora che cos’è il potere, questa cosa enigmatica, a volte visibile e invisibile, presente e assente, investita in ogni parte”; il potere è “una modalità di azione sulle azioni degli altri», lo si coglie cioè solo quale mero effetto, senza poter risalire univocamente a una sola causa cosciente; «il potere è ovunque, essendo immanente alla struttura sociale”. Puro fumo, per di più oppiaceo.
Jean-Marc Mandosio, nel pamphlet “Longevità di un’impostura: Michel Foucault”, uscito in Francia nel 2010, ha giustamente rilevato come, con la sua prosa intessuta “di asserzioni contraddittorie e di ingiunzioni equivoche” e di termini-feticcio come “dispositivi”, “norme”, “biopolitica”, “trama reticolare”, “Biopotere», Foucault abbia dato “forma filosofico-letteraria ai luoghi comuni di un’epoca”. E parla di acrobazie teoricistiche, di terminologie passe-partout e di esibizioni erudite (come se avesse tutto letto e rovistato in tutti gli archivi), senza le quali l’idea ontologico-teologica di rivoluzione permanente e ubiqua non sarebbe stata così esportabile nelle università di mezzo mondo. Così Foucault ha messo in discussione i «dispositivi» della legittimazione sociale e intellettuale. Ma se il potere è dovunque, se l’uomo è sempre, inevitabilmente, parte delle leggi che lo governano, e queste leggi o sono storico-sociali o sono naturali, dove sta il problema? Tutti i sistemi politici sarebbero sostanzialmente equivalenti o almeno equiparabili. Se non esiste più l’individuo, ma la trama delle sue relazioni, ovvero ciò che è dato dalla continua, mutante struttura occulta che lo sottende, egli cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso. Si scopre che ciò che lo rende effettivo è un insieme di strutture che può pensare e descrivere, ma di cui non è il protagonista determinante. In altri termini, è un ente in balìa della sua trasversale esperienza. Di conseguenza, la volontà umana autocosciente giunge alla sua completa dissoluzione: l’individuo è soltanto un residuo e con esso, naturalmente, anche la sua specifica libertà. Alla luce di quanto detto, “ciò che accade” è anche “ciò ch’è fatto accadere”. Io, quindi, t’inviterei a non credere alla veridicità di Foucault: “ciò che accade”, ammesso che sia corretto usare tale verbo, non “accade” come dice lui.
Non solo. Foucault ha alimentato, fra l’altro, le rivendicazioni del femminismo. Le donne, che si sono sentite senza potere o vittime del potere patriarcale o maschilista, oggi quel potere lo reclamano. Ma partono da un assunto che contrasta con le premesse stesse del potere ubiquo. Personalmente – tanto per discendere dall’iperuranio a più prosaica e quotidiana realtà – ricordo che in casa mia (e di tanti altri che conosco) nominalmente comandava mio padre (il capofamiglia), ma nella pratica il potere “sotterraneo” di mia madre era non di rado vincente. Alla lunga era <più decisivo e dirimente. Oggi le femministe vogliono spogliare i maschi e i padri del loro ruolo sociale, della loro identità tradizionale, della loro auctoritas. Con esiti che ritengo nefasti. Anche per loro stesse. Ma qui, per dare una spiegazione esauriente, dovrei troppo dilungarmi; per cui tralascio il discorso.
Di ben altro spessore è il pensiero di Carl Schmitt, che pure, per altri versi, è dinamite (per dirla col Cucco). Alcuni concetti (la distinzione “amico-nemico”, lo “stato di eccezione”, il decisionismo) ormai entrati nel repertorio comune degli studiosi di politica sono a parer mio fondamentali e non mi stupisce che siano fatti propri da studiosi di destra e di sinistra. D’altronde lo stesso vale per Foucault: se è vero che la sinistra sedicente sovversiva parla oggi la sua lingua, esiste nondimeno un “foucaultismo di destra”. Io, peraltro, condivido anche idee più ardite, quali: “L’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”; o “La prassi si giustifica attraverso sé medesima” (Carl Schmitt, Le categorie del “politico”). Sono cioè convinto che, seppure lo ius presuma di ammantarsi di un abito scientifico e di essere asettico, oggettivo e imparziale, i rapporti di forza restino decisivi. Se non nel dettato giuridico, nella sua reale applicazione. La forza è alla base del diritto. In altre parole: esiste un ordinamento giuridico solo fintanto che è fatto valere con la forza, quindi solo finché è efficace. È bensì vero che per Kelsen la forza non è lo strumento del diritto, e che il diritto è un insieme di norme che regolano l’uso della forza. Ma lo scopo di qualsiasi ordinamento non è organizzare la forza, sì organizzare la società mediante la forza (di cui, non a caso, lo Stato sovrano si arroga il monopolio). Kelsen scambia la forza/strumento con la forza/fine dell’ordinamento. Del resto, anche il carisma è forza e forza è pure quella dei “persuasori occulti”. E poi basta riandare a Machiavelli: la forza può essere anche quella delle leggi, perché “sono dua generazione di combattere, l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie; ma perché el primo molte volte non basta, bisogna ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo”. La golpe e il lione, come sappiamo. Il politico ha la natura del centauro.
Il resto del tuo discorso mi persuade ed è svolto con affabilità da scrittore di vaglia, mescolando ironica sprezzatura a perspicacia argomentativa. Insomma, il saggio è avvincente e si legge di un fiato. Oltre tutto risulta ben impaginato e composto, con ottime illustrazioni. Dove le scovi?
Ho letto anche la risposta dell’amico Nico: nella sostanza siamo più vicini di quanto non sembra, quantunque lui si ammanti di un habitus più scientifico (e talora scientista) del mio. È un vero “mastino della ragione”, e tuttavia, a proposito dell’amore, qualcosa concede – bontà sua – anche alla poesia. Che sia meglio della chimica?
Scusami la forma, forse non sempre scorrevole, ma scrivo currenti calamo, cioè alla tastiera del computer, senza troppo badare alla concinnitas e al nitor dello stile.
Ho pensato questo intervento come un modestissimo omaggio a Mario Mantelli, per fargli sapere, dovunque sia ora, che mi manca molto la sua compagnia ma che la sua lezione non è andata del tutto perduta. L’argomento di cui parlo ricorreva puntuale nei nostri incontri e nelle lunghe flâneries pomeridiane, e la naturalezza e l’umiltà con la quale Mario mi faceva partecipe delle sue straordinarie conoscenze e delle riflessioni che ne ricavava riuscivano ogni volta a stupirmi. Provo ad immaginare cosa avrebbero potuto diventare queste considerazioni se filtrate dalla sua penna (perché con quella scriveva rigorosamente le sue cose), solo per rendermi conto che in realtà lo aveva già fatto, e che proprio da ciò discende la mia voglia di riprenderle. Temo che nelle mie mani verrà fuori solo una brutta copia delle nostre conversazioni; ma credo che a Mario non spiacerà comunque.
1. Se vi raccontano che invecchiando si torna bambini, non credeteci. Non so se sarebbe bello, non ne sarei tanto sicuro, comunque non è così. Al più si rimbambisce un po’, e i bambini tutto sono tranne che rimbambiti. E poi, il loro sguardo è concentrato per i primissimi anni sul presente e subito dopo sul futuro: mentre il nostro non può che essere rivolto al passato, e non è davvero la stessa cosa.
Accade semmai di ripensare molto più spesso alla propria infanzia, mentre si tende a dimenticare tutto ciò che c’è in mezzo. A me, almeno, capita questo. E non credo si tratti di infantilismo. Non rievoco quel periodo sull’onda della malinconia nostalgica, o perseguitato da cupi retaggi del passato: per quanto ne ricordo è stata un’infanzia serena, non ho nulla da recriminare, mi è andata bene così. No, torno invece volutamente indietro per cercare spiegazione del mio modo successivo di pormi nei confronti della vita. In realtà, ho l’impressione di non fare altro da sempre. Insomma, provo a capire quanto e come una disposizione naturale, genetica, senz’altro già molto forte (anche quella, peraltro, tutta da indagare) sia stata rafforzata e implementata, o magari per certi aspetti anche frenata, dalle esperienze “culturali” (libri, film, incontri, accadimenti) maturate in quel primo periodo della mia esistenza.
Le rimpatriate infantili mi hanno convinto che un peso decisivo sullo sviluppo di un’attitudine sognatrice e anarchica (intesa però alla Reclus: per il quale “l’anarchia è la più alta espressione dell’ordine”) lo abbiano avuto le immagini. Lo hanno per tutti, naturalmente, ma credo che nel mio caso siano state davvero determinanti (al contrario, ad esempio, dei suoni). Da piccolo sognavo di diventare un disegnatore – oggi si direbbe un grafico – e provavo nei confronti delle illustrazioni e delle immagini in genere un’attrazione straordinaria e minuziosa: non ne ero semplicemente affascinato, le guardavo già con occhio istintivamente critico. Prima ancora che il soggetto, a colpirmi era il modo in cui veniva trattato, “lo stile” della rappresentazione (e successivamente, col fumetto, la congruenza tra questa e la narrazione). Ci sono favole di Andersen, ad esempio, che non ho letto fino a trent’anni solo perché le illustrazioni che le accompagnavano mi riuscivano indigeste. Quando invece trovavo di mio gradimento un tratto particolare, o l’uso del colore, a partire da quelle figure immaginavo tutto il resto della storia, o ne costruivo una mia, intervenendo anche pesantemente sul soggetto, sulla trama e sulla sceneggiatura. E a volte non mi limitavo ad immaginarla, ma le davo corpo nei disegni “neolitici” che ho sparso per anni a margine dei miei primi libri e in una infinità di quaderni.
La fascinazione poteva nascere da qualsiasi tipo di immagine: quelle sulle scatole tedesche di biscotti della zia, quelle che illustravano il primo libro di lettura o le favole dei Grimm, quelle dei primissimi fumetti, o delle raccolte di figurine, o dei manifesti dei film. Le ho tutte ancora ben presenti, nitide: e il criterio estetico di fondo è rimasto anche in seguito pressoché invariato: volevo contorni netti e ben definiti, colori uniformi. Addirittura non mi spiaceva un certo calligrafismo. Col tempo quelle scelte di gusto si sono poi tradotte in una attenzione persino maniacale alle “confezioni” (le copertine e il tipo di rilegatura dei libri, ad esempio), ma anche alla sobrietà e all’equilibrio negli arredi, nell’abbigliamento, nei comportamenti. Sono l’opposto del dandy, vesto anzi in maniera ordinaria, abito in una casa spartana (nel senso che oltre ai miei scaffali e ai volumi che ospitano – parecchi – c’è ben poco) e reputo sacrosanta la regola per la quale la vera eleganza si definisce in negativo, sta in ciò che non si nota affatto, anche se inconsciamente lo si percepisce.
Le immagini che si sono scolpite nella mia memoria avevano quindi queste caratteristiche: erano precise, chiare, semplici, dirette, e malgrado ciò, anzi, proprio per questo, possedevano una grande forza evocativa. Come ho già detto, non volevo che mi raccontassero una storia: dovevano soltanto darmi le coordinate di base per un percorso che poi sarebbe stato tutto mio. Ho addirittura scoperto, a distanza di sessanta e passa anni, che alcune fiabe non erano affatto come le ricordavo: in realtà ricordavo la rielaborazione che ne avevo tessuto io.
Non sto però accampando una sensibilità anomala alle immagini (semmai, come vedremo, solo un po’ particolare, e comunque precoce). Non era eccezionale perché la mia generazione, e le ultime due o tre che l’hanno preceduta, quelle per intenderci che hanno vissuto l’infanzia tra l’esplosione della letteratura popolare illustrata, nel diciannovesimo secolo, e l’ultima stagione pre-televisiva, si sono formate essenzialmente attraverso quelle, sono state sommerse dalla loro crescente offerta, dal moltiplicarsi delle fonti dalle quali arrivava lo stimolo visivo: testi scolastici, manifesti, libri e giornali sempre più illustrati, diorami, mostre ed esposizioni. Ho quindi sognato sulle figure assieme a moltissimi altri.
Abituati come siamo, oggi, a vivere costantemente immersi nello scorrere delle immagini, dubito che ci rendiamo davvero conto di quanto tutto questo abbia cambiato (e continui a cambiare) la nostra percezione del mondo. Ogni rappresentazione figurativa (un disegno, un dipinto, a volte anche una fotografia) semplifica e al tempo stesso enfatizza la realtà: nel senso che deve per forza schematizzarla e “addomesticarla”, ma al tempo stesso la apre ad una gamma infinita di interpretazioni, mentre la realtà ne impone una sua. Ora, la rappresentazione è il fondamento stesso della “cultura”: la storia di quest’ultima è tutto sommato la storia di come l’uomo si è rappresentato il mondo, ovvero di come si è posto “fuori” dal mondo, per coglierlo dall’esterno (magari poi continuando a cercare di rientrarci, attraverso modalità di conoscenza magiche e intuitive), per anticiparlo, per memorizzarlo, per rappresentarlo, per sopravviverci e da ultimo per arrivare a dominarlo. L’evento “rivoluzionario” si è dato una volta per tutte al momento del distacco originario, quando gli uomini hanno cominciato a porre tra sé e il mondo una distanza che consentisse di “guardare” quest’ultimo, e tutto quel che è venuto dopo è sviluppo, o se si vuole deriva, di questo atto primigenio (il “peccato” biblico).
Nel corso della storia umana questa attitudine ha conosciuto vari “perfezionamenti”, e in alcuni momenti in particolare il cambiamento è stato radicale. Il più prossimo a noi tra questi momenti risale alla seconda metà del quindicesimo secolo, quando sono comparse le mappe e i libri a stampa. Le prime, che si portavano immediatamente appresso il reticolo delle coordinate geografiche, il mondo cercavano di descriverlo per ingabbiarlo: ma nel contempo individuavano ampi spazi bianchi, inesplorati, paurosi e invitanti al tempo stesso. I secondi allargavano in maniera esponenziale gli utenti delle nuove conoscenze. E introducendo apparati iconografici sempre più accattivanti ampliavano gli orizzonti della fantasia: l’immaginazione ha bisogno dell’immagine, che apre ad una infinità di universi e storie paralleli.
Fino a tutto il Settecento, però, a godere di questa rafforzata stimolazione visiva erano pochi fortunati, coloro che avevano accesso ai testi miniati, o vivevano in palazzi con gli interni affrescati, o ricchi di quadri: a tutti gli altri rimanevano solo la statuaria pubblica e l’iconografia religiosa – e rispetto a queste è evidente che gli spazi di libera interpretazione erano pochini (e a coloro che magari se li ritagliavano non conveniva farne parola). In genere chi deteneva il potere era anche in grado di dettare la direzione nella quale la fantasia doveva muoversi. In sostanza: le immagini miravano ad imitare il più possibile la realtà, anche quando si voleva rappresentare una trascendenza. Era un modo per legittimare l’esistente, l’ordine e i rapporti vigenti. Ancoravano il trascendente al reale, e anche se talvolta il genio artistico le faceva staccare da terra creavano una connessione diretta e obbligata tra il visibile e l’invisibile. O almeno, l’intento era quello. Ai fini del mio discorso, però, la cosa più rilevante è che non si trattava ancora di immagini mirate alla gioventù.
Le cose sono cambiate nel periodo cui accennavo più sopra. La coscienza del fascino che le figure riescono ad esercitare c’era già da un pezzo – ne sa qualcosa la Chiesa, che in questo campo è sempre stata all’avanguardia, e ne sono testimoni le feroci resistenze iconoclaste, fino al Savonarola e alla Riforma. Mancavano invece gli strumenti per una diffusione generalizzata e al tempo stesso tenuta sotto controllo. Nell’Ottocento si danno nuove motivazioni ideologiche (il nazionalismo, il culto dello stato, ecc..) ed economiche (la persuasione alla produttività e al consumo) e si creano le condizioni tecniche per sfruttare appieno questo fascino, esaltandone il potenziale “educativo”. Ciò va necessariamente a coinvolgere anche le fasce d’età in precedenza trascurate, l’infanzia e la prima giovinezza, alle quali viene riservato uno specifico spazio iconografico.
Mi occuperò proprio di questo. Ma solo dopo aver anticipato che a partire dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso l’avvento della televisione ha nuovamente del tutto scombussolato le modalità nelle quali percepiamo le immagini, mentre quello della musica “portatile” ne ha scalzato l’assoluta priorità. Le immagini con le quali già i nostri figli sono cresciuti (per non parlare dei nostri nipoti, e dell’ulteriore rivoluzione creata dai nuovi media) trascorrono rapide, non concedono il tempo di fissarle nella mente e nella memoria e costringono a concentrarsi sulla storia narrata, a seguirle passivamente nel loro percorso. Inoltre sono legate costantemente ai suoni, altro vincolo che costringe ad una lettura e ad una interpretazione obbligata; sono recepite principalmente al di fuori di un contesto “sacrale”, quale poteva essere ancora, ad esempio, quello della sala cinematografica di un tempo; e infine sono mescolate e sovrapposte ad altre, che appartengono alla dimensione profana della pubblicità, e che spesso sono più suggestive e accattivanti di quelle che si era scelto di vedere, perché create proprio per stordire e calamitare l’attenzione. Insomma, ci sarebbe materia per tutto un trattato di sociologia dell’immagine, e non è certo questa la sede. Era solo per chiarire che ciò di cui vorrei parlare ha un suo contesto temporale limitato e ben preciso.
In realtà, preciso non è forse il termine più adatto. Al di là del fatto che il tipo di attenzione alle immagini al quale mi riferisco è naturalmente variato nel corso di un secolo e mezzo – caratterizzato tra l’altro da innovazioni continue –, perché col mutare delle condizioni materiali e spirituali cambia anche il modo e l’interesse con cui guardiamo le cose, c’erano poi ragioni ambientali oggettive a condizionarlo: vasti strati sociali sono rimasti ad esempio ancora a lungo esclusi da un rapporto intenso con le immagini, mentre taluni ambienti hanno continuato ad osteggiare questo rapporto per preclusioni di carattere religioso o pedagogico. Insomma, anche il periodo aureo della fascinazione delle immagini ha una sua storia, che corre diversa nei tempi e nei luoghi.
Detto questo, rimane fondamentale il fatto che ogni storia individuale predispone poi a cogliere e a vivere le cose in maniera diversa. È una considerazione ovvia, ma è quella che sfugge ai grandi affreschi di costume, nei quali la particolarità è necessariamente sacrificata al quadro generale, e si parla in termini di generazioni o di grandi gruppi: mentre sono proprio le sfumature, all’interno di una attitudine comune, a rivelarci le differenze più significative.
Vorrei soffermarmi appunto su queste, nella fattispecie prendendo le mosse dalla mia singolarità, come essa emerge dal confronto con altre testimonianze di una speciale relazione con le immagini: quelle di autori che tale relazione l’hanno esplicitamente raccontata e analizzata e quelle più dirette di amici come Mario, dalla consuetudine coi quali sono emerse tante condivisioni, a volte inattese e sorprendenti, ma anche le spie di esperienze infantili e di riletture successive decisamente difformi.
Parto dunque da quella che possiamo considerare una attitudine comune transgenerazionale, premettendo che tutto ciò di cui andrò a parlare si iscrive ancora, almeno idealmente, in un contesto che è stato ben riassunto da Bernard Shaw in Santa Giovanna: “Non c’è niente al mondo di più squisito che un bel libro, con colonne ben ordinate di una ricca scrittura nera, con dei bei bordi e delle miniature elegantemente inserite. Ma al giorno d’oggi la gente invece di ammirare i libri, li legge”.
Io, ancora oggi, i libri prima li ammiro e poi li leggo.
2. A metà Ottocento una scrittrice francese di romanzi e novelle per ragazzi, la Comtesse de Ségur (autrice di almeno venti volumi, che hanno conosciuto una fortuna duratura), già si lamentava col suo editore perché gli illustratori dei suoi libri sembravano viaggiare per conto proprio. (“A quanto pare non si danno nemmeno la pena di leggerli – scriveva – prima di illustrarli”). Anche se le sue rimostranze erano dettate da una presunzione di superiorità autoriale, la Ségur toccava un tasto delicato. È senz’altro vero che gli illustratori sono in fondo degli artisti, e ci mettono del loro. Il fatto è che, anche volendo, non potrebbero tradurre pedissequamente in immagini gli intenti dell’autrice, e il decalage che si crea è in fondo la loro firma. Non si tratta, o meglio, non lo è quasi mai, di una intenzionale rivendicazione d’indipendenza. La distanza sta già tutta nella diversa natura dei due strumenti di trasmissione, la parola, sia pur scritta, e quindi visiva, e l’immagine.
Anche se aveva iniziato a scrivere quasi a sessant’anni, la Ségur era tutt’altro che una zitella acida e permalosa: di bambini se ne intendeva, perché aveva otto figli e venti nipoti, le novelle aveva cominciato a scriverle proprio per loro. Nel caso specifico vedeva giusto: le immagini possono anche seguire tutti i crismi della pedagogia dell’epoca e della iconografia specifica per l’infanzia (ad esempio, il senso infantile delle dimensioni, la gestualità enfatizzata, per rendere esplicite azioni ed intenzioni, la netta distinzione anche nei tratti fisici tra buoni e cattivi, ecc…), ma sono comunque, di per sé, ricche di particolari che rimandano la fantasia ad altro e che in qualche modo contraddicono o si scostano dal discorso del testo. Il che costituisce un valore aggiunto, ma non nella direzione funzionale agli intenti dell’autrice: la quale, ripeto, sia pure entro i limiti della cultura della sua epoca, non era affatto una cariatide passatista. La sua creatura più famosa, la piccola Sophie, è una simpatica peste, tanto da essere stata paragonata a Gianburrasca: e tutti i protagonisti delle sue storie (sarebbe più corretto dire: le protagoniste) vivono in un mondo che offre degli spazi privilegiati di libertà e di creatività, un mondo nel quale gli adulti sono autorevoli, ma non autoritari, accettano di far correre ai bambini dei rischi, ma intanto vigilano responsabilmente sui pericoli da evitare, sono comprensivi nei confronti della trasgressione, ma non per questo mettono in dubbio la necessità di insegnare, sia pure benevolmente, che tra giusto e ingiusto, bene e male, ci sono dei confini, e che le regole vanno rispettate. Insomma, propugnava dei principi etici, nonché delle pratiche educative, che hanno un valore universale ancora oggi.
E tuttavia, la scrittrice avvertiva la distanza tra ciò che le sue storie volevano trasmettere e quel che i giovani lettori, distolti dalla forza delle immagini, alla fine avrebbero recepito. Naturalmente lo scarto è direttamente proporzionale alla qualità, allo stile dell’illustratore: tanto più forte è la personalità e più efficace è il tratto di quest’ultimo, tanto più le immagini acquisteranno una vita e un potenziale evocativo propri. E paradossalmente questo andrà a contrapporsi a qualsiasi intento pedagogico ed edificante. La Ségur per i suoi libri voleva il meglio, e questo era suo malgrado il prezzo da mettere in conto.
3. Ad esaltare l’aspetto libertario e ribelle dell’illustrazione è, settant’anni dopo, Walter Benjamin, non autore in proprio ma vorace lettore e poi collezionista spasmodico di letteratura per l’infanzia. Recensendo l’opera di un suo amico e grande collezionista, Karl Hobrecker (Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati) fa propria questa considerazione: “C’è una cosa che salva persino le opere più antiquate, meno libere dal pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. Quest’ultima sfuggiva al controllo delle teorie filantropiche, e gli artisti e i bambini si sono messi presto d’accordo alle spalle dei pedagogisti”. Che è esattamente ciò che diceva la Comtesse de Ségur, quando parlava di “una sotterranea complicità” tra gli illustratori e il mondo dei bambini: soltanto, qui la complicità viene esaltata, mentre la Ségur la deprecava.
Benjamin non fa che applicare ad un contesto particolare una regola generale, che vale per ogni forma di cultura, anche la più istituzionalizzata. Così come l’illustrazione viene introdotta nei libri per potenziare il valore del testo, fornirgli un supporto visivo che esprima ciò che il testo non può dire, ma finisce poi per assumerne uno autonomo, che può rinviare anche ad altro, persino a ciò che il testo non vorrebbe affatto esprimere (non a caso Benjamin rimarca il valore assieme pedagogico e suscitatore di fantasie degli abbecedari), allo stesso modo ogni forma di cultura esce immediatamente dai binari lungo i quali viene trasmessa. È, per intenderci, la contraddizione intrinseca alla scuola, che nasce per irreggimentare i cervelli e finisce per trasmettere i germi di una autonomia culturale (fermo restando che li trasmette solo a chi la scuola prende sul serio, così come le immagini li coltivano solo in chi davvero le ama).
In cosa consiste il potere “eversivo” che Benjamin attribuisce alle immagini? In un Profilo dedicato all’amico, T. W. Adorno scrive: «Ciò che Benjamin diceva e scriveva sembrava far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto. […]”. Ovvero, le immagini secondo Benjamin promettono e consentono assoluta libertà, in ciò contraddicendo le intenzioni e le indicazioni interpretative fornite dal testo stesso, quale esso sia. Quando parla di letteratura Benjamin ribadisce costantemente il concetto che “nel regno della lettura chi legge è sovrano”. Tanto più lo è il bambino, che si immerge interamente nella vicenda, si identifica con i personaggi e varca le porte aperte dalle illustrazioni. “Il bambino calca la scena dove vive la fiaba, e drappeggiandosi nei colori ch’egli cattura leggendo e guardando, si trova nel mezzo di una mascherata cui anch’egli prende parte.” Per Benjamin proprio i colori e il linguaggio delle immagini presenti nei vecchi libri illustrati sono decisivi, perché invitano il bambino ad abbandonarsi ai propri sogni. Il che si combina con l’altro grande tema benjaminiano, l’amore per i libri “vecchi e dimenticati” (ma anche con le “rovine” d’ogni sorta): liberata dalla responsabilità di una interpretazione “corretta”, la fantasia può alimentarsi degli “scarti” presenti nell’immagine, di quei particolari apparentemente inutili che i bambini salvano dalla cancellazione e riutilizzano in una personalissima operazione di montaggio.
Tutto ciò contraddice clamorosamente il progetto di condizionamento disciplinare ed etico sotteso sin dall’inizio alla creazione dei libri per l’infanzia. Benjamin ricostruisce le tappe di questo progetto: c’è un primo momento, che possiamo definire “illuministico”, nel quale si mira ad educare “dall’esterno” il bambino guidandone e correggendone passo passo la crescita verso “l’uomo migliore”, il cittadino responsabile e obbediente; ce n’è poi uno successivo nel quale si cerca invece di entrare nella mente del bambino predisponendogli un mondo a sua misura (in questo è implicita anche una critica al metodo montessoriano, che stava conoscendo in quel momento un grande successo ed era considerato all’avanguardia). In pratica, col libro e con le immagini che lo illustrano si completa la costruzione di un mondo infantile a se stante (nel frattempo si creano infatti oggetti e ambienti “adatti” ai bambini). Ciò significa però che ad un certo punto questa fase dell’esistenza andrà chiusa, e che va usata per acquisire comunque gli strumenti per accedere ad un mondo e a una visione adulta.
Ora, tutto questo rientrerebbe in una normalità pedagogica che risale all’età della pietra, se non fosse che Benjamin coglie nella strategia “infantilistica” le spie del modello totalitario: l’identificazione (ma poi, nella sostanza, la creazione) di “bisogni specifici del bambino” mira in realtà a coltivare l’educazione al consumo e a sostituire il consenso all’obbedienza. Per Benjamin i bambini sanno invece benissimo scegliersi gli oggetti adatti a loro e adattarsi agli ambienti, e lo fanno appunto spiazzando l’uso degli oggetti, la lettura delle immagini, l’interpretazione degli ambienti. Certo, lo fanno accedendo ad una esperienza dell’autentico e del diverso che viaggia in direzione diametralmente opposta a quella dell’esistenza borghese: per questo la loro fantasia genuina nasconde un potenziale sovversivo (e qui il potere ci vede altrettanto bene che la Comtesse de Ségur), che appunto va stemperato nelle sdolcinatezze dell’infantilismo.
Benjamin ritiene insomma che la pedagogia moderna miri non a bloccare, ma a incanalare e disinnescare la creatività anarchica del bambino, concedendole una gamma apparentemente vastissima, in realtà pre-selezionata e sterilizzata, di possibilità di esprimersi. Rimane, al di là di tutte le dichiarazioni progressiste di intenti, ancorata all’ideologia dell’“utile”, laddove il bambino nel ricombinare la realtà a suo arbitrio esercita il suo fondamentale diritto di sottrarla a quella schiavitù. E una volta che abbia imparato a farlo, difficilmente potrà essere indotto da adulto ad un atteggiamento differente. Questo potenziale trasgressivo Benjamin lo coglie poi, anche se la cosa potrebbe sembrare paradossale, più nei vecchi libri di favole che in opere moderne in apparenza ispirate appunto alla visione “liberatoria”. In fondo, la sua generazione è già cresciuta con Pinocchio, Alice, Peter Pan, quelli più grandicelli hanno letto Huckleberry Finn, tutti testi concepiti in apparenza “dalla parte del bambino”. Benjamin avverte però che anche queste sono “intrusioni” in un campo dove la fantasia dovrebbe essere lasciata assolutamente libera e sbrigliata: sono anch’esse un modo per giocare d’anticipo, offrendo le varianti fantastiche più ricche e straordinarie, ma pur sempre pensate da adulti per i bambini, e quindi a loro volta egualmente condizionanti.
Benjamin sa bene di cosa parla. Arriva da una esperienza di iniziale entusiasmo e poi di totale disillusione nei confronti della Jugendbewegung, il movimento giovanile, naturista e idealistico, che aveva infiammato i ragazzi tedeschi agli inizi del Novecento e fatto loro intravvedere una liberatoria dimensione di avventura. Il movimento e le sue idealità avevano finito per schiantarsi contro la realtà cruenta della prima guerra mondiale, che i giovani avevano affrontato con un entusiasmo ingannevolmente dirottato dal potere verso il nazionalismo. Di fronte all’assurda carneficina i suoi membri più consapevoli, come appunto Benjamin, si erano resi conto che una vera liberazione poteva arrivare soltanto dal recupero, operato singolarmente e in totale autonomia, dell’innocenza infantile, ovvero di tutto quel potenziale utopico e sovversivo che una pedagogia castrante cercava invece di dissipare o, peggio, di snaturare completamente.
Mi sembra illuminante in proposito il raffronto tra l’idea di una autonomia e centralità dell’esperienza infantile in Benjamin e la “poetica del fanciullino” di Pascoli. Parrebbero esserci diversi punti di contatto, ma a conti fatti risultano ben più significative le differenze. Pascoli afferma, rifacendosi peraltro a Platone, che: “È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi”. Questo fanciullino si rapporta al mondo attraverso l’immaginazione, e ne scopre quegli aspetti reconditi e misteriosi che “sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione”. Conosce cioè in modo autentico ciò che lo circonda, e lo esprime in un linguaggio che è necessariamente poetico, in quanto racconta un mondo che è percepibile solo dall’intuizione, e non dalla razionalità.
Ora, quel che Pascoli attribuisce alla sensibilità infantile è una capacità di comprensione profonda e reciproca, comune a tutti gli uomini, sulla base della quale diverrebbe possibile la pacificazione di tutti i rapporti. In realtà non parla di una specifica (e irripetibile) disponibilità infantile, ma di un infantilismo del sentire che permane negli adulti, e che quando trova espressione genera poesia. Benjamin non intende questo. La sensibilità infantile è a suo parere soprattutto “scorretta”, e non rimane inalterata al fondo dell’animo degli adulti ma piuttosto crea una disposizione, li abitua ad una modalità di percezione del reale, di sguardo sul mondo, che li porta a contrapporsi alla mentalità borghese e utilitaristica corrente. È evidente che l’interesse di Benjamin per la letteratura infantile è tutt’altro che frutto della recriminazione nostalgica: c’è dietro una vera e propria filosofia politica, che assume a proprio paradigma e laboratorio il mondo incontaminato dell’infanzia.
4. La lezione di Benjamin è stata raccolta soprattutto da autori nati e cresciuti negli anni trenta: ed è interessante vedere l’uso che ne hanno fatto.
Antonio Faeti è senza dubbio il maggiore storico dell’illustrazione italiana (ma non solo). Esistono studi criticamente più approfonditi (c’è, ad esempio, la Storia dell’illustrazione italiana di Paola Pallottino), ma Guardare le figure e La storia dei miei fumetti rimangono in questo campo due caposaldi. Faeti è riuscito a produrre un lavoro documentario estremamente accurato e al tempo stesso a farci rivivere il modo e l’atmosfera in cui lui stesso aveva colto, da fruitore “innocente”, queste immagini. Ci ha poi lavorato sopra per tutta la vita. Leggere i suoi libri significa, anche per chi appartiene alla generazione successiva – quella di chi, come me, è nato immediatamente dopo la seconda guerra –, fare una immersione nel proprio immaginario infantile: è un continuo fuoco d’artificio di riconoscimenti e agnizioni, che permette di rilevare le continuità ma anche le differenze. E dal momento che sono queste a interessarmi, faccio un paio di esempi relativi ai diversi tipi di fascinazione che dalle illustrazioni e dal fumetto possono (potevano?) sprigionare.
Mi ha stupito, in Guardare le figure, trovare l’opera del casalese Vittorio Accornero liquidata in sole quattro righe. Io ho conosciuto il mondo fiabesco di Perrault attraverso le sue illustrazioni, ma prima ancora ero stato affascinato dalle immagini di un calendario capitato chissà come in casa mia, che era poi finito nella mia camera e che ho avuto sotto gli occhi lungo tutta l’infanzia (e oltre). Non so di che anno fosse, perché conservo ancora gelosamente solo le dodici illustrazioni, tratte da fiabe di varie raccolte (Accornero ha illustrato almeno una sessantina di volumi, tra cui gli immancabili fratelli Grimm e Andersen). Faeti sembra rimproverargli un taglio da cartone animato disneyano, o forse il fatto che sia diventato un autore di successo, conosciuto e premiato di qua e di là dall’oceano, attivo anche in settori diversi e marginali all’ambito “artistico”. Di queste possibili “contaminazioni” sapevo nulla, me le ha suggerite solo la sua lettura, ma facendo quattro conti sulle date verrebbe più immediato pensare che sia stato piuttosto Disney a ispirarsi al tratto di Accornero. E comunque: quando le ho viste per la prima volta avevo tre o quattro anni, e quelle immagini nitide, caratterizzate da colori pieni e compatti, ma al tempo stesso delicati, quasi stilizzate nei contorni ben definiti, eppure realistiche, sono state le prime a impressionare la mia mente. Il fatto che in quel caso fossero completamente svincolate da un testo, e che per me lo siano rimaste anche dopo, è risultato senz’altro determinante: ho continuato per anni a costruire a mio arbitrio, in versioni molteplici, il prima e il dopo di quei momenti fermati sulla carta, totalmente libero nella mia immaginazione, perché avevo davanti delle figure prototipiche di principi, orchi, principesse e castelli, un mondo essenziale e pulito: il resto, le ombre, le sfumature, potevo aggiungerle io. Anche quando successivamente ho incontrato artisti sui quali Faeti spende giustamente interi capitoli, come il Carlo Chiostri delle illustrazioni per Pinocchio, il mio immaginario fiabesco è rimasto quello delineato da Accornero. Che era poi del resto lo stesso che ritrovavo negli album delle figurine Lavazza e di quelle Salgari, e poco più tardi in quello delle Giubbe Rosse (rarissimo, a lungo invidiato ad un amico più grande, e avuto poi da lui in regalo quando ha cominciato a coltivare fantasie diverse).
Quasi contemporaneamente agli album è entrato nella mia vita (stavo per scrivere: nella mia vita parallela, ma in realtà i due piani si intersecavano continuamente) un altro protagonista: il Buffalo Bill che usciva in dispense, tradotto negli anni venti e trenta dagli originali americani, e che evidentemente aveva incontrato una grossa fortuna anche nel nostro paese, dal momento che di quella serie furono editate diverse centinaia di titoli. Quei fascicoli arrivavano dal passato, e solo per uno strano giro erano approdati nella bottega da calzolaio di mio padre, in mezzo a fasci di vecchi giornali che venivano usati per incartare le scarpe riparate. Riuscii a salvarli (non servivano per incartare) e ci edificai sopra un’altra buona fetta del mio immaginario.
Le illustrazioni di copertina degli albi di Buffalo Bill. L’eroe del Wild West erano state affidate dall’editrice Nerbini a Tancredi Scarpelli, e quello di Scarpelli è diventato per sempre il mio West. Bill esibiva cappelli Stetson dai cocuzzoli altissimi e arrotondati, stivaloni alla coscia, giacche con le frange, cavalcava mustang con la schiuma alla bocca. E alle spalle aveva sterminate pianure o canyon ripidi e stretti. Nei tratti fondamentali la sua immagine si poneva in continuità con quelle di Accornero, quindi rispondeva perfettamente a ciò che io esigevo. Per il resto, nell’iconografia della pubblicistica popolare dell’epoca ricorrevano una serie di stereotipi. Le figure dovevano essere nitide, per permettere una immediata distinzione dei ruoli, l’azione veniva congelata nel momento di maggiore drammaticità, con i personaggi colti in posture molto teatrali, simili a quelle dell’opera lirica, gli sfondi stessi rimandavano alle scenografie. Era la stessa impostazione già tipica delle illustrazioni che comparivano sul “Giornale Illustrato dei Viaggi” o in quelle dei libri di Verne o di Salgari. Nel caso delle copertine di Buffalo Bill, trattandosi di tavole fuori testo, che non dovevano supportare visivamente la narrazione ma riassumerla e anticiparla, l’effetto teatrale era ancora più ricercato. Comunque, quello stile aveva una sua precisa identità: e infatti l’ho poi immediatamente riconosciuto nella mia prima immersione nel mondo salgariano, in quel “Avventura tra le pelli rosse” che conteneva addirittura trenta illustrazioni di Scarpelli. Non ne ho trovato invece riscontro nei testi, affrontati pochi anni dopo e abbandonati quasi subito: erano davvero troppo gonfi di retorica e poveri di immaginazione, rischiavano di vanificare tutta la mia opera di costruzione del mondo della frontiera.
Cosa mi rimandavano quelle immagini? Intanto, un mondo ordinato, nel quale le parti erano chiare: i buoni, i giusti, i leali da un lato, i malfattori, i cattivi, i traditori dall’altro. Le distinzioni non tenevano conto dell’età, della razza o del ceto, ma solo del coraggio e della viltà. Era un mondo solo apparentemente semplice, perché le dinamiche che si innescavano potevano poi confondere i ruoli e ribaltare le apparenze: ma offriva l’occasione di scelte etiche non ambigue. Ora, tutto questo potrebbe sembrare funzionale a quella pedagogia dell’ordine che Benjamin metteva sotto accusa: in realtà io lo sentivo congeniale perché ci riconoscevo qualcosa del mondo contadino nel quale vivevo, un mondo rozzo ma nel quale i valori sembravano ancora chiaramente definiti, e che già vedevo però giorno dopo giorno sparirmi davanti agli occhi. Le immagini di Scarpelli e di Accornero quel mondo non lo creavano, ma in qualche modo lo rispecchiavano. Il che avvalora paradossalmente proprio la tesi di Benjamin, per la quale i bambini sanno benissimo scegliersi da soli, quale che sia l’offerta, ciò è che loro più “adatto”.
Un altro esempio lo ricavo da La storia dei miei fumetti. Mi ha colpito la lettura che Faeti dà dell’Uomo Mascherato, un personaggio che tanto sembra aver eccitato le fantasie pre-belliche, ma che negli anni cinquanta non era affatto apprezzato, e non solo da me ma un po’ da tutti i miei coetanei. Il motivo di questa disaffezione credo sia da cercarsi nell’improbabilità sia del personaggio, perché uno che si aggira per la giungla o nelle metropoli in calzamaglia rossa e mascherina da notte attorno agli occhi qualche perplessità la suscita, anche in un ragazzino, sia delle vicende e delle loro ambientazioni. Lo stesso Faeti scrive: «Ma “l’Africa fantasma” di Lee Falk o di Ray Moore allude anche alla specificità narrativa di cui è dotato il fumetto in generale: tutte le programmate incongruità che scorgiamo nelle storie dell’Uomo Mascherato, tutti i Bandar che non dovrebbero mai convivere con la Banda Aerea, tutti gli immensi acquari con i pescicani che rimandano ai Sing proprio perché i Sing non dovrebbero possederli, sono l’anima nascosta e vera del fumetto. I buoni frati pellegrini, il buon Togliatti predicatore, le pie signore caritatevoli, gli ispettori scolastici molto aggiornati, insomma, tutte le buone anime che volevano vietarci i fumetti avevano ragione: chi si perde nella savana dei Bandar, la strada di casa non la trova più». Il che in linea di massima è vero: l’impressione è però che negli anni trenta ai fanciulli un po’ più cresciuti andasse davvero bene tutto, purché consentisse loro di distrarsi dai rituali e dall’indottrinamento dei balilla. A noi nati sulle macerie del conflitto si conveniva invece un più sano neorealismo. Ed è anche vero che trasferirsi nella savana dei Bandar è affascinante per chi vive tra l’asfalto e il cemento cittadino, ma lo è già molto meno per chi ha qualcosa di simile attorno a casa. Anziché cercare rifugio in un altro mondo, quello di cui sentivamo noi il bisogno era poter trapiantare, calare le avventure e gli incontri che i fumetti ci promettevano, nel mondo che ci circondava. Ma su questo torneremo.
Ho salutato invece con gioia l’entusiasmo di Faeti per gli Albi d’Oro di Oklahoma. All’epoca sia la vicenda che i disegni mi avevano incantato, malgrado disponessi solo di paio di albi di una serie che ne contava quasi quaranta. Mi mancavano gli antefatti e il prosieguo della storia, e forse proprio questo me li ha fatti amare tanto, così che ho poi continuato a cercarli a lungo (a tutt’oggi: erano molto rari e non sono stati più riediti). In quei due albi, con quei personaggi, c’era però già tanto materiale da imbastirci sopra non una ma mille storie. Ciò che ho fatto regolarmente.
La cosa intrigante è che Oklahoma raccontava il travagliatissimo ritorno a casa, alla fine della guerra di secessione americana, di un ufficiale confederato e di un gruppetto molto eterogeneo che gli si era accodato. Il protagonista avrebbe dovuto appartenere quindi, secondo una lettura “politicamente corretta”, alla schiera dei non giusti, degli schiavisti, aristocratici e ribelli. In realtà la sua si rivelava essere un’aristocrazia di spirito, ciò che gli faceva superare ogni differenza formale e lo portava ad affrontare ogni ingiustizia. Credo sia lì che ho imparato che non esistono cause giuste, ma solo uomini giusti. Ed è una lezione che non ho più dimenticato.
Di Faeti ho condiviso anche il fastidio per le inesattezze. Quando, ad esempio, rileva nel numero 65 degli Albi d’Oro, Il tesoro dell’Isola, “un affronto insopportabile alla memoria di Stevenson: ai personaggi era stata aggiunta Anna, data per figlia del capitano Smollett: una donna nell’isola, una rilettura intollerabile”. O quando, a proposito del numero 111, Tom il vendicatore, dice: “non potevo sopportare che qualcuno, senza una folle ragione tattica o strategica, travestisse da Sioux i nobili e sapienti Navajos delle struggenti città costruite al riparo di grotte immense e scaturite dal Mito”. Sono le stesse idiosincrasie che io coltivavo. Solo che nel mio caso le ho poi estremizzate sino a pretendere dai racconti e dalle immagini (anche in quelli cinematografici) una assoluta verosimiglianza per quanto concerneva ad esempio abitazioni, costumi, armi.
La mia scarsa simpatia per l’uomo mascherato, e addirittura l’insofferenza per i primi supereroi che cominciavano, a metà degli anni cinquanta, a circolare anche in Italia, nasce di lì. Per me le strade dell’utopia sono sempre state lastricate di pietre reali, o almeno verosimili.
5. Certe distanze, non solo generazionali, risultano ancora più evidenti dal confronto con Umberto Eco. Si spiegano senz’altro col fatto che l’infanzia di Eco si è svolta tutta nel periodo pre-bellico, anche se credo non sia solo questo. Faeti centra bene il problema quando parla di “ipoteca generazionale”: “Se questa cui sto lavorando è davvero la storia dei miei fumetti, allora occorre trovare per essa un protettore: è il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, (guarda caso, uno dei miei santini, n.d.a) perché dalle sue opere ho ricavato quel concetto di generazione al quale faccio riferimento quando accenno a certe date”. Oppure: “Oreste del Buono apparteneva a un’altra generazione, aveva altri amori”.
Sulla sensibilità di Eco per le illustrazioni e per il fumetto non ci piove: come semiologo si è occupato di ogni forma di rappresentazione visiva, e con Apocalittici e integrati ha “sdoganato” ufficialmente il fumetto come espressione culturale, conferendogli una sua dignità specifica. In realtà questo placet arrivava tardi (non certo per colpa di Eco, ma perché il fumetto stava già perdendo nei primi anni sessanta tutta la sua rilevanza “educativa” – sappiamo a vantaggio di chi) e sanciva appunto la dignità di qualcosa che era stato. Ma, soprattutto, l’analisi semiologica che Eco ne sviluppava aveva suo malgrado il sapore di un’autopsia. Negli anni successivi sono stati fatti goffi tentativi di omologare il fumetto agli strumenti pedagogici d’avanguardia (si è arrivati persino agli albi in latino), e questo ha reso evidente che non si era affatto compreso cosa nell’epoca d’oro le strisce disegnate avevano davvero rappresentato, di quale carica eversiva – quella rivendicata appunto da Faeti – fossero portatrici.
Nella mia distanza da Eco come lettore di fumetti e cultore dell’illustrazione non gioca però solo la differenza anagrafica. Mi rendo conto che quando si parla di queste cose non usiamo la stessa lingua perché abbiamo alle spalle storie e culture, e quindi bisogni e aspettative e punti di vista, decisamente diversi. Ma probabilmente è anche questione di carattere, di una disposizione di fondo.
Ne “La misteriosa fiamma della regina Loana” Eco monta un’impalcatura narrativa abbastanza farraginosa (in effetti, come romanzo non è granché), col vero scopo di allestire una vetrina dell’immaginario iconografico giovanile degli anni trenta. Sotto questo aspetto il repertorio messo in mostra è più che esauriente, ed è anche a mio giudizio l’unico motivo per il quale valga la pena leggere il libro. La debolezza dell’impianto porta però allo scoperto il vero spirito col quale Eco affronta l’argomento, che è quello del collezionista e del semiologo, e in subordine quello del sociologo: al contrario che negli scritti di Benjamin, qui il bambino, a dispetto dei tentativi di evocarlo, non lo vedi mai. L’infanzia è rivissuta tutta col senno di poi: di chi ne è uscito da tempo.
Lo dimostra, ce ne fosse bisogno, l’ennesima dissacrazione del libro Cuore(“Dunque, non solo io ma i miei maggiori erano stati educati a concepire l’amore per la propria terra come un tributo di sangue, e a non inorridire ma anzi ad eccitarsi di fronte a una campagna allagata di sangue. […] Tutti sono contro il povero Franti che viene da una famiglia disgraziata. […] Al muro, al muro. Sono quelli come De Amicis che hanno aperto la strada al fascismo.”) Non vorrei tornarci su perché l’ho già fatto troppe volte, ma ne La misteriosa fiamma mi ha infastidito l’allusione ad una precoce coscienza del carattere fascistoide del libro. Non ci credo. Lo leggevamo anche nel secondo dopoguerra, e nessuno di quelli che conosco lo ha mai interpretato così. Al massimo, se paragonato a Stevenson o a Salgari, era considerato un po’ noioso. Ma tutti parteggiavano per Garrone. Cuore era senz’altro tra i libri che non piacevano a Benjamin (non so però se lo conoscesse, non lo cita mai), esemplare di una pedagogia dell’ordine e dell’obbedienza: ma si prestava anche perfettamente ad avvalorare la sua tesi del “lettore sovrano”. Come tale ho amato a modo mio la piccola vedetta lombarda, e arrivando da una campagna allagata di sudore non mi sono fatto tentare da alcuna retorica nazionalista e guerrafondaia. Sarei salito sull’albero non per amore della patria, ma per il gusto del rischio e dell’avventura. Cavalcare gli alberi era una mia specialità.
Se poi uno viene a raccontarmi che nella casa di campagna, in solaio, trova i libri che suo nonno ha collezionato, intere serie degli eroi popolari del primo Novecento, da Fantomas a Nick Carter, a Petrosino, all’immancabile Buffalo Bill, comprese le avventure di Sherlock Holmes in inglese, e quelli che lui stesso ha letto da bambino, tutti o quasi i volumi della Biblioteca dei miei ragazzi, tutto Salgari e moltissimo Verne, e poi ancora raccolte del Giornale illustrato dei viaggi (con in mezzo, per buon peso, anche qualche numero della Revue des Voyages), la collezione completa di Flash Gordon e de l’Avventuroso, e un sacco di altre chicche del genere, costui mi sta parlando di una dimensione che assolutamente non mi appartiene – ma credo appartenga in realtà a pochissimi. So che si tratta di un pretesto narrativo, che Eco ha voluto trascrivere il sogno di ogni appassionato di immagini e inveterato bibliomane, ma è un pretesto rivelatore d’altro.
In primo luogo, appunto, del fatto che Eco non intendeva scrivere un romanzo, ma redigere una sorta di un compendio enciclopedico dell’immagine tra Otto e Novecento, sul tipo di quei bestiari ed erbari e lapidari medioevali per i quali ha sempre manifestato una grande passione. Basta vedere l’ordinein cui la materia è esposta per renderci conto che stiamo visitando le sale di un museo virtuale dell’illustrazione: le stampe tedesche, le paginate di soldatini, le riviste floreali francesi, le illustrazioni del Novissimo Melzi, gli atlanti, le scatole di dolciumi, i pacchetti di sigarette, gli almanacchi, e via via sino ai manifesti, politici o pubblicitari o cinematografici, ai francobolli, alle copertine dei romanzi d’appendice e a quelle dei dischi, insomma, a tutto quanto rientri nel campo dell’immagine e del suo utilizzo. Il resto, la vicenda, è musica di sottofondo, del genere di quella diffusa a volte nelle sale espositive: o è assimilabile al commento dell’audioguida. Ma l’atmosfera riesce fredda: l’autore si aggira per le sale ufficialmente per una operazione come quella che intendevo fare io (e che mi è subito scappata di mano, andandosene per i fatti suoi), in questo caso ricostruire letteralmente la propria memoria, ma sembra non fermarsi mai con gioioso stupore di fronte a qualcosa, avere una qualche epifania: sembra piuttosto impegnato a redigere un ponderosissimo e ponderatissimo elenco. Come dicevo sopra, questo elenco da solo giustifica il possesso del libro: quindi ben venga, è un ottimo stimolatore della memoria. Ma quanto al significato emozionale che il rapporto con le immagini ha avuto per Eco, dice molto poco.
E questo è a sua volta rivelatore dell’abissale differenza di attitudine che esiste tra uno che si trova in casa una biblioteca dalla quale può attingere di tutto e chi invece i libri se li propizia e li sospira e li cova con la mente uno ad uno. Voglio precisare subito che non ho alcun motivo di recriminazione o di rivendicazione nei confronti di chi è nato in mezzo ai libri. Anzi, provo nei loro confronti un’invidia tutt’altro che rancorosa, e una profonda ammirazione per chi ha saputo farne buon uso. Ciò non toglie che la differenza oggettivamente esista, e che spieghi preferenze e atteggiamenti. Ad esempio. Una delle sezioni più vive della mia memoria riguarda gli elenchi di titoli che comparivano in genere nella terzultima di copertina, o nella copertina posteriore stessa, sotto la dicitura: “Sono usciti nella stessa collana”. È viva perché i libri dell’infanzia li ho conservati – non erano moltissimi –, quelli almeno che sono scampati alla lettura di fratelli o figli, e in tutti ritrovo gli elenchi finali irti di spunte che rimandano ai desiderata, molti dei quali rimasti poi tali per decenni. Ora, quando scorro quegli elenchi rivivo tutta l’ansia e l’aspettativa che caratterizzavano ogni mio Natale (altre occasioni per attendersi regali non c’erano), nella speranza che fosse preso in considerazione dalla zia uno di quei titoli (il regalo era un dono, non un obbligo, per cui era considerato molto sconveniente dare indicazioni su ciò che ci si attendeva). Nel frattempo, se avevo letto l’anno precedente un romanzo del ciclo malese di Salgari, mi era stato concesso tutto il tempo per fantasticarci attorno e scrivere mentalmente tutti i prequel e i sequel immaginabili. Ho potuto leggere I misteri della Jungla Nera e I pirati della Malesia solo a quasi trent’anni, ma ne avevo già elaborato infinite versioni. Per forza poi la mia fantasia, e anche la mia scrittura, sono cresciute così indisciplinate.
Questo intendo quando parlo di diversa percezione. Chi ha già disponibile tutta la collana, o è in condizione di farsi regalare i libri mano a mano che ne finisce uno, è naturale che proceda nelle letture, non ha bisogno di crearsi da sé i seguiti, li trova belli e pronti. Ed è anche meno portato a costruirci sopra il gioco, se è un lettore appassionato non ne ha nemmeno il tempo. Laddove invece ogni mia lettura diventava il canovaccio con infinite varianti per i giochi di gruppo di tutta la banda, o per quelli solitari in soffitta, con i soldatini e le grette. Lo stesso vale naturalmente per le illustrazioni: le poche cui avevo accesso diventavano delle vere icone, dettavano i gesti, l’abbigliamento, le scelte dei luoghi per le avventure future. Insomma, è tutto un altro modo di viverle, e di questo modo in Eco, giustamente, non ho trovato nulla.
L’altra differenza concerne, al di là della “condizione”, della possibilità di accedere al libro, al fumetto, all’immagine, il modo in cui li si “guarda”. Che non è in realtà disgiunto dalla condizione “materiale” di cui parlavo sopra, perché la quantità e la disponibilità senza dubbio orientano e focalizzano diversamente lo sguardo: è una legge economica, quanto più l’offerta aumenta, tanto più diminuisce il valore intrinseco degli oggetti, la loro sacralità. Pur senza presumere di aver amato i libri e i fumetti e le immagini in generale più di Eco, sono certo che nei loro confronti il mio sentimento fosse diverso, in quanto dettato dall’assenza anziché dalla presenza. Ciò che Eco sembra maggiormente apprezzare nel fumetto, ad esempio, è la valenza ironica, cioè la capacità del disegnatore di andare al di là di quello che il testo narrativo dice. Bene, questo è significativo di una lettura “adulta” del fumetto, nella quale funziona il gioco delle strizzate d’occhio tra l’illustratore e il lettore, delle citazioni, dei rimandi, dei paradossi, inseriti attraverso elementi che col racconto non avrebbero nulla a che fare (ad esempio, figure che escono dai quadri appesi alle pareti e cose simili): come a dire: prendiamola bassa, stiamo giocando. Ed è un tipo di lettura che ha alle spalle una qualche saturazione, per cui l’effetto “piacevole distrazione”, quando non “analisi professionale”, ha preso il posto dello stupore commosso. Ma tutto ciò a mio parere non ha a che vedere con la lettura infantile: la lettura infantile non è affatto un gioco, è seria, e ogni intrusione che apra in una direzione diversa sottrae al giovane lettore un po’ della sua autonomia, tarpa la sua fantasia facendola polarizzare su quella dell’autore. Quella saturazione io non l’ho mai raggiunta, devo recuperare un sacco di storie o di puntate che mi sono perso sessant’anni fa, e dalle quali ancora mi attendo, a dispetto dell’età, qualche scampolo di sogno.
6. Credo che neppure Mario Mantelli considerasse chiusa la fase “illustrata” della sua esistenza: per questo l’ho sentito immediatamente così affine. Il clima generazionale c’entra senz’altro, perché Mario era un mio quasi coetaneo, ha respirato la stessa aria, letto più o meno le stesse favole e gli stessi fumetti, visti gli stessi manifesti e giornali: ma c’era di più. Anche se non sempre ero d’accordo con lui, e le nostre preferenze divergevano (avrebbe molto da obiettare su quanto ho scritto fino ad ora), avvertivo chiaramente, di qualunque cosa stessimo discutendo, che quell’argomento l’avevamo affrontato con la stessa disposizione d’animo, la medesima “postura interiore”. Questo atteggiamento rendeva possibile il confronto. Parlavamo della stessa cosa, e il fatto di averla vissuta in ambienti e situazioni diverse faceva sì che non si riducesse a un semplice reciproco innesco di nostalgie, ma diventasse uno scambio vero di figurine dell’album del passato: ce l’ho, mi manca.
Nel “Viaggio nelle terre di Santa Maria e san Rocco” sono le immagini a prendere per mano il bambino e fargli scoprire il mondo attorno. Le immagini segnano le tappe, marcano i luoghi e i tempi del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Ogni etichetta, francobollo, carta da gioco, copertina di Pinocchio, del Principe Valiant o di Topolino, ogni insegna di negozio o pubblicità o cartolina, o immaginina sacra o pagina del Vittorioso, rievoca sogni, speranze, scoperte. E ti stupisci soprattutto quando dal cilindro della memoria vengono poi fuori il volto scarsamente mascherato di “El Coyote”, la copertina di Gim Toro a China Town, l’albo d’oro di Pecos Bill, le vignette di Tiramolla e il rebus de La settimana enigmistica: perché sono segnavia anche tuoi, e li ritrovi non esposti come reliquie nelle fredde vetrine di un museo, ma scaldati dalla stessa meraviglia nella quale erano stati originariamente avvolti.
Nella ricostruzione di Mantelli domina un costante senso di stupore. Mario ri-conosce quelle immagini non col senno di poi, attraverso il filtro delle esperienze e delle letture successive, ma calandosi direttamente nei momenti e nei luoghi in cui gli erano apparse la prima volta. Le conosce daccapo. Aziona una perfetta macchina del tempo che riproduce gli sfondi, l’urbanistica, le architetture, i rumori e gli odori e persino i sapori della vita di ringhiera, e quelli delle scampagnate domenicali, appena fuori porta o addirittura nell’oriente magico dei paesini del pavese. Quelle immagini vengono poi trasposte nel quotidiano (le cantine come sotterranei salgariani, le periferie come confini africani), in un andirivieni continuo tra il sogno e la realtà, senza neppure tanto sforzo, perché quella realtà è già di per sé sogno.
Questi sogni li abbiamo confrontati mille volte, e abbiamo verificato quanto nella trasposizione incidessero le differenze di contesto, a volte anche quelle lievi. Mario viveva in città, in una casa di ringhiera con cortiletto interno, che rappresentava lo spazio deputato al gioco protetto, ma aveva un qualche sentore di carcerario (io, perlomeno, lo immagino cosi): per valicare quelle quattro mura, all’interno delle quali si era ancora sotto controllo, bisognava lasciare briglia sciolta alla fantasia. Io ho vissuto l’infanzia in uno spazio completamente aperto, sia in paese che presso la cascina dei nonni. La fantasia non doveva nemmeno scomodarsi, avevamo giungle e foreste e deserti appena dietro casa, potevamo scorrazzare tutto il santo giorno fuori della portata di vista o di voce dei genitori. Tutta questa libertà reale ci consentiva di giocare al risparmio su quella fantastica. Non avevamo bisogno di inventarci quasi nulla. L’unico impegno era quello di trasferire nelle scenografie naturali personaggi, vicende, cavalli, banditi, indiani, tughs. Accadeva in automatico. Quando nel circolo parrocchiale assistevamo alle primissime programmazioni televisive di Rin-tin-Tin, al the end seguiva un fuggi fuggi velocissimo per risparmiarci il rosario o la novena, e il ritrovo era nella dolina di tufo lontana nemmeno centro metri, dietro un boschetto di roveri. Quello era già Forte Apache.
Quanto allo stupore di Mario, allo stato d’animo in cui riesce perfettamente a reimmergersi, confesso che per me non funziona proprio così. Il motivo è probabilmente quello cui accennavo sopra. Per questo la lettura del “Viaggio nelle terre di Santa Maria e san Rocco” mi ha così colpito, addirittura mi ha commosso. Ho continuato a immaginare quel ragazzino in timida e timorosa esplorazione, sia pure senza mai staccarsi dalle calcagna del fratello maggiore, alla scoperta delle meraviglie di un altrove che stava a cento metri da casa sua (le vetrine! “portafiamma di fornelli a gas esposti su fondi scuri come pezzi anatomici su un tavolo d’autopsia”. Fantastico!), ma al quale accedeva rasentando muri che dovevano sembrargli altissimi e che gli precludevano i misteri di altri cortili, di altri palazzi, percorrendo vie che aprivano ad altre possibili terre incognite. Quelle meraviglie oggettivamente non ci sono (lo scrive lui stesso), è anche plausibile che ad occhi infantili le dimensioni e le forme si dilatassero, ma il resto lo metteva tutto lui. «Per prima mi apparve ondulante, forse anche per un simultaneo suono di campane, la punta del campanile di San Rocco simile ad un enorme cappello di Mago Merlino, poi la facciata della chiesa dai grandi boccoli arricciolati sui fianchi dell’alta fronte e il medaglione del santo. E fu come si scaricasse su di me un empito di magnificenza e di maestosità incredibili, come un traboccamento del cielo. […] Quel giorno l’impressione fu quella di avere su di me precipiti, incombenti, sul punto di franare ma resistenti in piedi per un prodigio, le torri e le cupole di un intero Cremlino, con dentro tutto il prezioso trionfo delle chiese d’Occidente e d’Oriente. L’unico termine di riferimento per una possibile aggettivazione erano per me in quel momento le illustrazioni di Golia per l’Oriente di Marco Polo ne “I grandi viaggiatori” della collana “Scala d’Oro”».
Ecco, devo lasciare parlare lui. I grandi boccoli arricciolati sono quelli che avevo visto in una illustrazione di Antonio Rubino, incorniciavano il volto di un re bonario, e quando sono finalmente andato a verificare le volute barocche della chiesa di San Rocco li ho subito riconosciuti (ma quando l’ho poi detto a Mario ha manifestato qualche dubbio: Rubino disegna i boccoli girati all’interno – disse –, forse era Mussino). Insomma, tutta questa esperienza è filtrata dalle prime immagini raccolte nell’archivio della mente, in un gioco di montaggio che viaggiava all’inverso di quello che facevo io. Io leggevo le illustrazioni di Accornero riconoscendo le cantine del castello alle quali si accedeva (per un “passaggio segreto”) dallo strapiombo della Catenaia, i fumetti di Oklahoma come si svolgessero nel bosco della Cavalla o nelle gole della Lavarena, e Hukleberry Finn come navigasse lungo il Piota.
E anche il rapporto col fratello. “Con me era mio fratello, ragazzino più grande di me, ma mago, profeta di fini del mondo ed evocatore di emozioni sconvolgenti.” Altra situazione capovolta. Io, come primogenito, non sono stato guidato da nessuno, sono stato quello sempre in avanscoperta, anche per le letture e le immagini. Ho “guidato” io alle immagini mio fratello, che tra l’altro non era certo uno docile e devoto come Mario. Ho dovuto anzi difendere gelosamente i miei libri e miei fumetti, combattere per strappargli i suoi, soffrire quando ero costretto (da mia madre) a lasciarglieli in mano, non per insana gelosia ma perché in fondo lui era già uno di quelli che i libri e i fumetti, sia pure pochi, se li trovava in casa, e non li aveva nel concetto di tesoro in cui li tenevo io. Quindi il mio era un sentimento ben diverso da quello di gratitudine che provava Mario per essere ammesso a quei misteri, a quelle cose da più grandi (che gli arrivavano però già un po’ mediate). Io me le conquistavo palmo a palmo, e le difendevo coi denti.
Ad accomunarci è invece l’accesso inizialmente molto razionato alle immagini, e quindi la sorpresa e la felicità estatica suscitate dalla loro inattesa comparsa. “Il numero uno di Topolino formato tascabile fu in casa nostra come l’ingresso fruttuoso di una ricchezza. Ne venimmo in possesso non per acquisto diretto (troppo care le sessanta lire per quell’aprile 1949) ma perché ci fu lasciato da una coppia di amici di famiglia ricchi, come ex trastullo presto consumato dal loro figlio di pochi mesi.” Eventi come questo sono fondativi di una passione che durerà tutta la vita. A proposito della copertina di quel Topolino arrivato dal cielo Mario scrive: “Dopo la figurina Fidass, questa può considerarsi la seconda immagine fondante del concetto di gioia instillatosi nell’animo dell’autore di queste righe”. È difficile descrivere con maggiore semplicità ed efficacia l’effetto di certe immagini: quello esercitato su di me, ad esempio, della copertina di “La rivincita di Yanez”, arrivato ormai inaspettato, col vecchio corriere che faceva la spola una volta la settimana con Genova, dopo che l’avevo atteso la sera di Natale per quattro ore, seduto su un gradino ghiacciato davanti al suo deposito. Il fatto che non mi fossi beccato una polmonite venne considerato un miracolo, ma ad operarlo non fu il bambinello: fu quella copertina, col portoghese cavalcioni ad un elefante, a scongelarmi istantaneamente e a far correre il mio sangue così veloce da non lasciarmi chiudere occhio per tutta la notte.
Antonio Faeti racconta di una sensazione del genere, quando, immediatamente dopo la guerra, ragazzino decenne, si vide recapitare in casa da un ex “camerata” del padre scatoloni pieni di libri e di fumetti: era un gesto di solidarietà per una famiglia che si dibatteva in gravi difficoltà economiche, apparentemente bizzarro, visto che mancavano soprattutto farina e olio e capi di vestiario: ma per Faeti fu la cosa che dava senso ad una stentata esistenza, che zittiva la fame e faceva passare in secondo piano ogni altra necessità.
«Nella mia tristissima e povera infanzia ci fu un lungo periodo in cui noi quattro fratelli ci trovammo privi di ogni reddito. Mia madre era morta nel ’44, mio padre, squadrista non pentito e oltremodo capace di dichiararsi tale, fu “epurato”, cioè cacciato dal suo posto di vigile urbano. Così non c’era un soldo, e a volte appariva anche la fame vera. Intervenivano i vecchi camerati […] Ci fu uno che portava solo libri, in grandi scatoloni […] Così che il bambino che mancava di pane ebbe moltissimi libri, tanti di più di quanti ne avessero i suoi amici coetanei, forniti anche di companatico. E leggeva, pertanto, con un’ottica famelica e distorta, guardava le figure inventando solitarie classificazioni: molto prima di conoscere e studiare Lo stupore infantile di Zolla, ne era permeato. Guardava le figure delineando sempre nuovi Altrove.» Una situazione certamente diversa da quella mia e di Mario, paragonabile per certi versi piuttosto a quella di chi, come il protagonista de “La misteriosa fiamma
”, scopre in casa bauli pieni di libri: ma il risultato, a quanto pare, è stato lo stesso. Fame di sempre nuovi sogni. Rispetto a tutti coloro che ho chiamato a testimoniare sino ad ora, comunque, per tutta l’infanzia, e anche un po’ oltre, il mio rapporto con le immagini è stato quantitativamente molto più scarno. Sorprese come quella toccata a Faeti le ho sognate a lungo, ma ho potuto provarle solo da adulto, e la gioia a quel punto era già di un altro tipo. Libri, fumetti, figurine entravano in casa col contagocce, non circolavano riviste, la cosa più illustrata che conoscevo fino a sette o otto anni erano i cataloghi dei Fratelli Ingegnoli, vivaisti in quel di Milano, che per qualche oscuro motivo a mio padre arrivavano gratis. Riuscivo comunque a fantasticare anche su quelli, sui colori e sui nomi esotici dei fiori e delle piante, e sull’incredibile loro varietà. Ho avuto il tempo di masticarle bene quelle immagini, di digerire e metabolizzare con calma i libri, di consentire alle une e agli altri, ai sogni che evocavano, di entrarmi in vena. Girano ancora nel mio sangue.
Oggi la mia casa è quella di un bulimico: tra scaffali e quadri e carte geografiche e foto non rimane un centimetro libero per piantarci un chiodo. I muri grondano letteralmente di immagini o di promesse di immagini. Eppure, l’appetito è rimasto immutato. A quanto pare funziona come per chi la fame l’ha patita da piccolo, che non riesce mai più a togliersela definitivamente di dosso. In me quello stillicidio rarefatto infantile ha lasciato addosso una bramosia di immagini (e dei libri che le ospitano, e di quelli che le immagini si tirano appresso) che non è mai stata saziata.
Mi accorgo che è arrivato il momento di chiudere, prima di affogare nel sentimentale. Conviene davvero però che lasci il commiato ad altri. Ancora Faeti. Riassume davvero tutto.
“Fin dal primo dopoguerra, e ancora di più all’inizio degli anni cinquanta, il figurinaio (è il termine che Faeti usa per indicare l’illustratore classico) non esiste più: si assiste allora ad una totale ricomposizione, che accosta, secondo i termini di un progetto complessivo, gli illustratori per l’infanzia ai messaggi dei media che guidano e determinano l’intrattenimento infantile. È l’epoca del cartoonist, “colto”, integrato, attento a cogliere le sfumature di un gusto che segue gli schemi della televisione e della immagine pubblicitaria.
Da quest’ultimo ambito sembrano, soprattutto, ricavati i termini entro i quali l’opera del cartoonist si realizza: essa è sempre falsamente ottimista, pedagogicamente edulcorata, cerca di sbarazzarsi di ogni problema, sublima le ansie, spegne i timori. Il figurinaio, che riproponeva un repertorio antico e denso di contraddizioni, sembrava guardare l’infanzia sempre con gli occhi di Wilhelm Busch o con quelli di H. Hoffmann: non esitava a spaventare i bambini, non rimuoveva i corposi fantasmi di una antipedagogia popolare, bizzarra e saturnina.
Autentico “pifferaio di Hamelin” trascinava inspiegabilmente i bambini, attratti da immagini remote, che essi non riuscivano a decifrare interamente.”
Sono uno di quei bambini. E inseguo ancora quelle immagini.
I testi cui si fa riferimento in queste pagine sono:
Walter Benjamin, Orbis Pictus. Scritti sulla letteratura infantile, Giometti & Antonello, 2020
Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, 2004
Antonio Faeti, Guardare le figure, Einaudi, 1972
Antonio Faeti, La storia dei miei fumetti, Donzelli, 2013
Karl Hobrecker, Alte vergessene Kinderbücher, Mauritius Verlag, Berlin, 1924
Si quis furetur, Anathematis ense necetur Marc Drogin, “Anathema!”
Mentre cercavo notizie del pittore-scrittore-esploratore inglese Arnold Savage Landor per un album dedicato alla sua pittura (che apparirà a breve sul sito dei Viandanti), mi sono imbattuto in un accenno ai suoi contatti con D’Annunzio. Nulla di sensazionale: D’Annunzio conosceva un sacco di gente e Landor, che tra l’altro era nato e aveva vissuto a lungo a in Italia, a Firenze e a Roma, senza dubbio anche qualcuno in più. Mi aveva colpito però una particolare concomitanza: in parallelo all’album su Landor ne stavo curando infatti un altro su Guido Boggiani, e anche Boggiani è stato in rapporto con d’Annunzio, per un certo periodo abbastanza strettamente: oltre a collaborare alla stessa rivista e a frequentare gli stessi ambienti, ha veleggiato con lui sul panfilo “Fantasia”, in un viaggio-pellegrinaggio nell’Egeo, lungo le coste greche e dell’Anatolia, dal quale il vate avrebbe poi tratto ispirazione (trasfigurando in epica una vicenda quasi comica) per una delle sue Laudi più famose, “Elettra”.
Ora, per me queste non sono semplici e casuali coincidenze: sono lampi di luce, mi confortano del fatto che i miei interessi corrono lungo un filo rosso, sia pure spesso invisibile (di Landor sapevo assolutamente nulla fino a pochi mesi fa), e che tutto alla fine in qualche modo si tiene.
Ma il motivo di queste righe è un altro. Infatti, incuriosito, ho indagato un po’ più in profondità, per scoprire che di contro alle insistenze e al corteggiamento di D’Annunzio, il quale gli aveva proposto persino la scrittura di un romanzo a quattro mani, Landor si era sempre mantenuto su un piano di cortese freddezza (ciò che lo ha ingigantito immediatamente ai miei occhi, perché l’Immaginifico all’epoca era già un mito, non solo in Italia, e snobbarlo non era da tutti): e che un decennio dopo questi c0ntatti aveva trovato molte pagine dei suoi diari di viaggio trasposte di sana pianta in almeno due dei romanzi dannunziani. La cosa era stata messa in evidenza da “La Critica”, la rivista di Benedetto Croce, che aveva pubblicato fianco a fianco le pagine di Landor e quelle corrispondenti delle opere dannunziane.
Lo scoop de “La Critica” era solo l’ennesimo capitolo di una diatriba che andava avanti da anni, non solo in Italia ma anche in Francia, con accuse (più che fondate) rivolte a D’Annunzio di trarre con eccessiva libertà ‘ispirazione’ dalle opere altrui, da quelle di Maupassant, di Zola, di Paul Bourget e di un sacco d’altri. Non conosco la reazione di Landor, non ne ho trovato traccia: probabilmente, se un po’ ho capito il personaggio, non ha dato grosso peso alla cosa, ci ha fatto su una risata e se ne è dimenticato.
A me interessa però più il plagiario che il plagiato: non tanto nello specifico D’Annunzio, ma l’operazione in sé del furto e riciclaggio di idee, immagini e testi. E mi interessa non da un punto di vista, diciamo così, accademico, quanto piuttosto perché di alcuni plagi sono testimone diretto, e in altri anche parte in causa (non scrivo ‘vittima’ perché l’uso del termine per questi casi non mi piace, e spero di riuscire a spiegarne il motivo).
Veniamo ai fatti. Devo premettere che ho la memoria ‘pratica’ di un criceto, non c’è verso che ricordi dove ho posato un attrezzo, le chiavi della macchina o le ricevute dell’IMU, ma in compenso ne ho una ‘letteraria’ da elefante. Magari mentre ne parlo mi sfugge il titolo di un libro, o il nome dell’autore, ma il testo, quello rimane lì, l’ho ben presente. E di libri ne ho letti parecchi. Per cui non è così strano che provi ogni tanto delle sensazioni di deja vu, che mi squillino campanellini nella mente e mi renda conto di trovarmi davanti a pagine sospette. Fossi nato cane, sarei stato un ottimo segugio da plagiari.
Non sempre riesco ad identificare la fonte originale, ma quando il sospetto si insinua sono certo che qualcosa prima o poi arriverà a dargli conferma. In qualche caso invece l’agnizione è immediata. È accaduto ad esempio con uno dei moltissimi libri pubblicati negli ultimi trent’anni dal massimo divulgatore italiano di storia dell’ebraismo, Riccardo Calimani. Mentre lo leggevo ho avuto la percezione netta di essermi già imbattuto in quelle pagine, e sono corso a verificare su un paio di volumi sullo stesso argomento che avevo letto tempo prima. Bingo! Interi periodi risultavano pescati da “Profeti senza onore”, di Frederic Grunfeld, pubblicato in Italia una decina d’anni prima, senza cambiare una virgola, mentre più di un capitolo era stato riassunto usando al risparmio gli stessi termini. A quanto pare nessun altro se n’è accorto, perché Calimani ha continuato a sfornare libri senza che alcuno gli muovesse la minima obiezione.
Altrettanto clamorosa è una vicenda che mi ha visto in qualche modo coinvolto. Trent’anni fa, nel 1989, sono stato interpellato dalla Fondazione Feltrinelli per sistemare in un italiano corretto le schede di testo e le corpose didascalie che avrebbero dovuto corredare un volume prevalentemente iconografico, pensato come una polemica e anticipata contro-celebrazione dei cinquecento anni dalla ‘scoperta’ di Colombo. La redazione dell’opera era stata affidata, in linea con quell’intento e con la politica editoriale ‘terzomondista’ che in quel periodo caratterizzava ancora la casa editrice milanese, a un paio di docenti universitari latino-americani, mentre un fotografo argentino piuttosto quotato aveva il ruolo di consulente per la grafica e di responsabile della scelta delle immagini. C’era una certa urgenza, e ho accettato soprattutto in nome dell’amicizia che mi legava a chi dirigeva in quel periodo la Fondazione: ma quando mi sono trovato tra le mani il materiale mi è venuto un colpo.
I sensori si sono attivati già alla lettura della prima scheda, con la seconda è subentrata la certezza: quella roba l’avevo già letta. Infatti, non c’è voluto molto per risalire alla fonte: era la “Storia dell’America Latina” di Pierre Chaunu, un libricino sintetico, che abbracciava cinque secoli in poco più di cento pagine. I testi erano perfetti per il numero di schede previste, ma come oggetto di plagio risultavano decisamente poco azzeccati, dal momento che qualsiasi studente universitario avesse dato esami sull’argomento li conosceva. Per farla breve, dopo che l’editore si è convinto che a pubblicare roba del genere avrebbe perso ogni credibilità, e anche qualcos’altro, ho dovuto rifare di sana pianta più di un centinaio di schede storiche: e non solo, ho dovuto scrivere anche le didascalie esplicative di ciascuna immagine, ma prima ancora cercare le immagini stesse, perché per la parte relativa alla scoperta, alla conquista e al sistema coloniale non ne era stata selezionata e riprodotta una. Dovendo il volume uscire entro la metà di ottobre, in concomitanza con un convegno che avrebbe aperto con largo anticipo il carrozzone delle contro-celebrazioni colombiane, ed essendomi stato affidato il lavoro a fine giugno, ho trascorso per i successivi tre mesi tutti fine settimana girando da una biblioteca milanese all’altra, munito di speciali salvacondotti che mi hanno guadagnato l’odio imperituro del personale precettato, a scovare immagini in antichi e preziosissimi tomi di relazioni di viaggio e a inventarmi poi qualcosa che giustificasse le mie scelte.
Per la cronaca, uscimmo in tempo utile. Ne venne fuori persino un bel volume (“I tempi dell’Altra America”), anche se non conosco nessuno che lo abbia mai letto. Credo che i sudamericani contassero proprio sul fatto che il libro puntava soprattutto sull’iconografia, era un’opera da sfogliare, e per questo motivo non si fossero nemmeno curati di accertare se la loro ‘fonte’ era stata tradotta in italiano. In quell’occasione, visto che il mio nome sarebbe comparso a fianco di quello di quei lavativi, ho considerato per l’unica volta nella mia vita la ricerca come un lavoro, e ho preteso di essere remunerato in ragione del mio effettivo impegno.
Avrei altri personalissimi casi da citare, ma non credo sia necessario: per farsi un’idea della diffusione del fenomeno è sufficiente scorrere qualche pagina su Google alla voce ‘plagio’ (non le prime, perché trattano solo dei plagi musicali). Vengono fuori una serie di siti sui quali rimbalzano, spesso trasposti dall’uno all’altro alla lettera e senza alcun riferimento alla fonte originaria, tanto per rimanere in sintonia con l’argomento, esempi e denunce di casi di plagio letterario clamorosi, e testimonianze a carico e a discarico. Il che fa pensare che in rete sul concetto di plagio esista quantomeno una certa confusione.
Da una esplorazione velocissima emergono comunque due scuole di pensiero. C’è chi abbraccia una posizione ‘giustificatoria’, citando tutta una sfilza di addetti ai lavori, dal grammatico latino Elio Donato a Roland Barthes e, per una volta a proposito, a Umberto Eco, e chi invece sembra godere a scoprire gli altarini dei ‘mostri sacri’, da Pirandello a Montale, a Ungaretti, a Eco stesso, indiziato di plagio sia per “Il nome della rosa” che per “Numero Zero”, e persino a Camus. Il problema è che non sempre (anzi, quasi mai) riesce chiaro di cosa precisamente si sta parlando, e spesso si confondono volutamente le idee. Peggio ancora è quando di idee proprio non ce ne sono, e si parla a vanvera, riproponendo pari pari cose leggiucchiate qua e là e malamente assemblate.
Faccio un esempio, e naturalmente scelgo proprio quello relativo a Camus.
Sul bollettino del P.E.N. Club di aprile-giugno 2015 compare un articolo di Luigi Mascheroni, caposervizio della redazione Cultura e Spettacoli de “Il Giornale”. È un pezzo autopromozionale, visto che Mascheroni ha appena pubblicato un libro dal titolo sibillino, “L’elogio del plagio”, nel quale passa in rassegna i ‘prestiti’ letterari più clamorosi, dall’antichità a oggi, per arrivare poi a concludere che “senza il plagio la lettura sarebbe più povera” e che “i veri geni copiano”. A questa conclusione (che non è sua, ma di T.S. Eliot) arriva però dopo una pars destruens nella quale non fa sconti a nessuno, e smaschera i copioni di ogni epoca, “da Marziale al web”, come recita il sottotitolo. E lo fa in questi termini:
“E chi avrebbe mai pensato di trovare nello stesso elenco dei plagiari il nome dello scrittore franco-algerino Albert Camus, morto il 4 gennaio 1960 in un incidente automobilistico, dopo essere stato tre anni prima il più giovane Nobel per la Letteratura della storia? La pietra dello scandalo è rappresentata peraltro dal suo romanzo più acclamato, “La peste” (1947), le cui pagine, a un’attenta comparazione, risultano incredibilmente affini a quelle di un singolare romanzo di un autore italiano anticonformista e semidimenticato: “La peste a Urana” (apparso da Mondadori nel 1943) di Raoul Maria De Angelis, nato in provincia di Cosenza nel 1908 e morto a Roma nel 1990. Non è solamente il titolo del romanzo di Camus e i nomi delle città in cui si svolge la vicenda (Urana e Orano) a deporre a favore di un possibile plagio dal libro dello scrittore italiano, che il futuro premio Nobel avrebbe potuto conoscere in traduzione francese, ma l’intero impianto narrativo dell’opera. Lo stesso De Angelis, nel pieno della polemica, tra il 1948, anno della traduzione del romanzo di Camus da Bompiani, e il 1949, quando i giornali italiani titolavano “La Peste di De Angelis ha contagiato Camus”, fu il primo a parlare di «precedenti» e «somiglianze impressionanti» (ma mai di plagio), ed è indubbio che le due opere, pure sostanzialmente autonome e stilisticamente molto differenti, presentino ambientazioni ed episodi (e il finale) – diciamo così – «somiglianti». Sulla vicenda la querelle fra gli studiosi è aperta …
Ora, si dà il caso che dieci anni prima, su “Il Tempo” del 6 aprile 2006, fosse comparso un articolo non firmato titolato “Da Fedro a Dan Brown”, l’arte immortale del plagio letterario, il cui autore afferma ad un certo punto: “Non ci saremmo mai aspettati di vedere inserito nel registro nero dei plagiari il celebre scrittore franco-algerino Albert Camus, morto il 4 gennaio 1960 in un incidente automobilistico, dopo essere stato tre anni prima il più giovane Nobel per la letteratura. La pietra dello scandalo, se così possiamo dire, è rappresentata dal suo romanzo più acclamato, “La Peste” (1947), le cui pagine, da un attento esame comparativo, sono risultate scopiazzate in più punti da un altro reperto di narrativa, “La peste a Urana” (1943), dello scrittore calabrese Raoul Maria De Angelis. Non è solamente il titolo del romanzo di Camus a deporre a favore della tesi del plagio, ma l’intero impianto narrativo dell’opera.Sul conto dello scrittore francese c’è da osservare che egli poté venire a conoscenza del libro del narratore calabrese a seguito della traduzione in lingua gallica che ne fu fatta a suo tempo. La conclusione è che anche in campo letterario non ci si può fidare di nessuno”.
È vero. Soprattutto non ci si può fidare di giornalisti semi-analfabeti che si improvvisano critici letterari. L’anonimo in teoria non dovrebbe essere Mascheroni, che a “Il Tempo” non ha mai lavorato. Quindi questo è uno squallido esempio di plagio, perché Mascheroni o ha copiato di sana pianta l’articolo, dopo aver rubato al suo autore l’idea, oppure ha copiato se stesso per rivendere roba vecchia senza neppure cambiare l’incarto. E fin qui, comunque, il danno sarebbe relativo: il bollettino non lo legge nessuno, il P.E.E. club ha semplicemente pagato per nuova merce riciclata, e probabilmente non è nemmeno la prima volta. Rimane però un problema di merito. L’autore infatti (o gli autori?), oltre a non aver letto evidentemente nessuno dei due romanzi, e quindi a non aver fatto un “attento esame comparativo”, dal quale risulterebbe invece che le due opere non sono nemmeno lontanamente parenti (a differenza del nostro fustigatore, li ho letti entrambi), porta poi a sostegno della sua tesi la quasi omonimia delle città in cui le vicende sono ambientate. Ovvero, a suo parere Camus avrebbe chiamato Orano la sua storpiando l’Urana di De Angelis. Il che significa che il nostro acuto critico, oltre ad essere un millantatore (l’attento esame comparativo!) ignora tanto la geografia, perché non sa che esiste in Algeria una città di nome Orano, quanto la storia della letteratura, perché ignora che Camus proprio ad Orano è nato e ha trascorso la giovinezza. Per non parlare del titolo: col criterio investigativo adottato da Mascheroni Camus potrebbe aver pescato a piene mani da De Foe o dal cardinal Borromeo (che scrisse un “De pestilentia” ‘ispiratore’ anche di Manzoni). Quanto all’argomento, non ricorda troppo da vicino Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni stesso? Ragazzi, se questo è il responsabile dei servizi culturali, non oso immaginare il livello della truppa.
Potrà sembrare che io dia un peso eccessivo alla vicenda. In fondo, non sarà certo il libello di Mascheroni a intaccare la stima di cui Camus gode presso i suoi lettori. Ma il fatto è che due cose detesto dal profondo dell’anima, e quelle sono l’ipocrisia e la viltà, e Mascheroni mi conferma che vanno sempre a braccetto. “Sulla vicenda la questione è aperta …” con tanto di puntini è un modo pilatesco per dire: “Io non mi pronuncio, ma vi ho insinuato il tarlo e ho fornito gli indizi”. È insomma un modo vile per spargere veleno nella certezza dell’impunità. Dietro la ricerca del sensazionalismo di bassa lega c’è infatti un’operazione sottile di delegittimazione, nel caso specifico avviata nei confronti di un autore che alla destra per la quale Mascheroni scrive piace poco (ma qui l’ignoranza diventa abissale, perché Camus non ha mai goduto di eccessiva simpatia neppure presso la sinistra ‘ortodossa’, che fino a ieri e probabilmente anche oggi gli ha sempre preferito Sartre): ed è anche infine, verosimilmente, un mezzuccio per autoassolversi, appellandosi al “così fan tutti”. Proprio tutti no, Camus no senz’altro, Mascheroni certamente.
Quindi, c’è di molto peggio, ma io ritengo siano gli indizi meno clamorosi, più subdoli, quelli da cogliere, se si vuol tentare di arginare l’andazzo. Non è solo questione di personale disgusto: è che in questo modo si intorbidano talmente le acque da non consentire più di distinguere ciò che andrebbe conosciuto dalle fanfaluche.
Ma torniamo al dunque. Se non scaglio la prima pietra, a meno che il bersaglio non siano i lapidatori professionali, è intanto perché non sono poi così sicuro di non essere incorso qualche volta io stesso in piccoli plagi, sia pure involontari. Da almeno sessant’anni annoto in innumerevoli taccuini le idee che mi vengono suggerite dalle letture o da semplici accadimenti quotidiani, e spesso trascrivo frasi o interi periodi che mi hanno colpito, immagini che ho trovato originali, non sempre riportando in calce a ciascuna l’autore o il titolo di provenienza.
Di norma so distinguere tra ciò che è frutto della mia mente e quello che appartiene ad altri, ma potrei anche, soprattutto per le cose annotate molto tempo fa, essermi convinto di una paternità che in realtà non mi spetta. Non sto mettendo le mani avanti: spero non sia accaduto, ma so che potrebbe, e dovessi accorgermene mi spiacerebbe, ma non ne farei un dramma. Quando arrivo a scrivere qualcosa è perché mi urge in mente da parecchio e, da qualunque parti arrivi, almeno in parte ormai è mia.
Questo vale anche per quella particolare pratica costituita dall’auto-plagio. Occupandomi disordinatamente di un po’ di tutto (per pura curiosità, e non per mestiere) ed essendo ormai avviato verso il rimbambimento senile, mi scopro talvolta a ripetere cose già scritte in precedenza. Dipende probabilmente dal fatto che vado molto d’accordo con le mie idee, e finisco per ribadirle quasi sempre nella stessa forma. Quando me ne accorgo taglio corto e ricorro sfacciatamente all’autocitazione, ma non sempre la memoria mi soccorre in tempo. In tal caso non danneggio nessuno, risulto soltanto noioso. Naturalmente però non funziona sempre così. C’è come abbiamo visto anche chi ricicla senza alcuno scrupolo più volte le stesse cose, cambiando semplicemente titoli e contesti, e se pure lo fa con materiale proprio è quanto meno poco corretto nei confronti del lettore e meno ancora nei confronti di se stesso.
Un secondo motivo che mi induce a chiamarmi fuori dalla canea è la piega bassamente strumentale e speculativa che lo ‘smascheramento’ del plagio ha preso ultimamente. Come accade per altri fenomeni (si pensi al boom delle denunce per molestie sessuali), le motivazioni, al di là dell’imbecillità maligna o della malafede rancorosa alla cui esternazione la rete ha aperto praterie immense, sono nella gran parte mirate a possibili risarcimenti o comunque alla ricerca di una visibilità pubblicitaria. Tale deriva attiene però ad una idea del ‘lavoro culturale’ che mi è totalmente estranea, che equipara le realizzazioni dello spirito e della fantasia ad una qualsiasi merce materiale e il plagio al furto di segreti aziendali. Non è certamente questa l’ottica nella quale volevo affrontare il problema, anche se per forza di cose, e appunto per prenderne le distanze, devo tenerla presente.
Proprio mentre sto scrivendo queste righe mi viene in mente un’altra considerazione. Al di là del plagio letterario, che è il vero argomento di questo intervento, esiste una sterminata casistica di piccoli plagi quotidiani dei quali siamo protagonisti attivi o passivi. Mi riferisco a idee, frasi, vicende, che colpiscono l’immaginazione e vengono fatti propri e riciclati. È una compulsione a riempire la propria esistenza di fatti che la rendano più significativa, e probabilmente non solo agli occhi altrui. È capitato recentemente che mi sia sentito raccontare da un conoscente un episodio di cui ero stato protagonista moltissimi anni fa, e nel quale quella persona non aveva avuto alcuna parte, forse neppure era presente. Me lo ha raccontato come fosse capitato a lei, con dettagli e particolari che mi fanno pensare di essere stato io stesso a riferirglielo. La situazione era a dir poco surreale, ma sono stato al gioco, pensando che per non rendersi conto dell’assurdità della cosa quella persona, per il resto assolutamente normale, doveva averla fatta totalmente propria, doveva averla rivissuta una miriade di volte nella fantasia, fino a dimenticarne la fonte originaria.
Ora, pur senza arrivare a situazioni limite di questo tipo, penso che nella nostra quotidianità il plagio più o meno inconsapevole abbia un ruolo importantissimo. In termini scientifici ciò è stato confermato dalla scoperta recente dei neuroni specchio, in quelli antropologici dalla teoria mimetica di René Girard. In pratica ogni nostra azione non sarebbe che l’imitazione di azioni altrui, e il plagio arriva anche oltre, va fino alle intenzioni. Certo che, messa così, la cosa cambia decisamente aspetto. Se il plagio è una componente essenziale della nostra cultura e della nostra stessa esistenza, allora tutta la faccenda va riconsiderata sotto un’altra luce. Avremo comunque modo di riparlarne. Qui mi limito a cercare di capire perché goda di una considerazione tanto negativa quando riguarda la letteratura.
Il plagio letterario ha una storia antichissima. Risale alla tradizione orale, nella quale non costituiva però un problema, perché non c’era alcuna paternità certa, nessuno sapeva da chi avesse avuto origine un’idea o un racconto particolare e nessuno poteva vantarne l’esclusiva. L’imitazione o l’appropriazione erano in fondo l’unico tramite per la diffusione di un testo. Quando Omero (o chi per esso) trasferì questa usanza alla scrittura cominciarono ad esserci delle prove documentali delle precedenze, anche se le cronologie rimanevano difficili da stabilire. Il plagio a questo punto aveva una sua evidenza, e infatti si cominciò a parlarne. Tra i latini, ad esempio, qualcuno (come Marziale) lo stigmatizzava, altri lo giustificavano (come Elio Donato). In linea di massima, però, non era ancora considerato uno scandalo: intanto perché non esisteva il concetto giuridico di proprietà intellettuale, ma soprattutto perché il valore di un’opera non era calcolato sulla sua originalità, quanto, al contrario, sulla sua aderenza a modelli riconosciuti, e il grande pubblico questo si attendeva. Di fatto, poi, è evidente che ciascun autore serio cercava un linguaggio e un percorso suo.
A quanto pare però molti preferivano le scorciatoie, tanto che nel medioevo per difendersi dalle operazioni piratesche gli autori riempivano la prima o la quarta di copertina dei manoscritti di anatemi e maledizioni come quella che ho riportato in esergo. In effetti, al di là di quelle non avevano molte armi per difendersi. Lo stesso Cervantes fu indotto a scrivere la seconda parte del “Don Chisciotte” per contrastare le imitazioni dozzinali e i sequel che avevano cominciato immediatamente a circolare, ma non ottenne alcuna soddisfazione dai tribunali ai quali si era rivolto per impedire che fosse usato il suo personaggio. E già si parla di un’opera uscita a stampa.
I tempi comunque stavano cambiando. La connotazione decisamente negativa del plagio è legata infatti proprio all’avvento della stampa e alla nascita del mercato editoriale moderno, contestualmente alla quale arrivava già ai primi del Settecento la definizione del diritto d’autore (che in inglese ha mantenuto la dicitura di copyright, diritto di copia, ovvero di stampa, in quanto si riferiva inizialmente solo ai privilegi concessi agli stampatori).
Con l’ingresso nella modernità il mercato editoriale crea la professione letteraria, o meglio, ne cambia lo status. Non che un rapporto ‘mercantile’ prima non ci fosse, ma fino al Rinascimento il letterato viveva delle pensioni e delle elargizioni dei suoi committenti (pubblici o privati): ora vive invece delle parole che scrive. Tra Ariosto e Aretino passa nemmeno una generazione, ma il rapporto del secondo con la propria opera e il proprio pubblico è già mutato. Ancor più lo sarà un paio di secoli dopo, quando committenti diventano i borghesi, e De Foe e Diderot possono offrire in libreria o in abbonamento la giustificazione morale e la consacrazione sociale delle fortune di questi ultimi. Le parole acquistano un preciso valore economico (nell’Ottocento gli scrittori d’appendice erano pagati un tanto – o un poco – a pagina), e diventa importante difenderle dall’appropriazione altrui (quanto all’Aretino, erano gli altri a doversi difendere dai suoi saccheggi).
Quello stesso mercato è però l’ispiratore fondamentale del ricorso al plagio. Con la crescita dell’alfabetizzazione e quindi del numero dei lettori i ritmi editoriali diventano sempre più frenetici, il pubblico chiede cose sempre nuove da consumare. D’Annunzio copia da Landor e da molti altri perché è inseguito dai debiti e dai contratti stipulati con gli editori strappando cospicui anticipi. Deve accelerare costantemente i tempi di produzione. Lo stesso accade a Salgari, a De Amicis e ad un sacco di altri autori. Il modello fordista di produzione si applica prima all’editoria che alle automobili.
Ma è cambiato anche il gusto, perché i lettori hanno cominciato ad apprezzare piuttosto l’originalità che non l’aderenza ad un modello. Nella letteratura non cercano più rassicurazione e conferme della stabilità del mondo, ma indizi del suo progresso e aperture a potenzialità nuove. E in quanto consumatori paganti non vogliono farsi rifilare merce di seconda mano. Acquistano un prodotto che reca stampigliato in copertina, in piena evidenza, prima ancora del titolo, il nome dell’autore, e a partire dai primi dell’Ottocento, nel frontespizio, persino il suo ritratto. Queste cose sono un marchio di fabbrica, sanciscono appunto una proprietà, un’esclusiva: ma dovrebbero anche essere garanzia di una ‘originalità controllata’.
Naturalmente, così come le maledizioni, anche queste marchiature non scoraggiano affatto i plagiari. Che, anzi, nell’Ottocento e nel secolo scorso si moltiplicano. Ma non godono più di una distratta impunità. Il vero deterrente è il disprezzo cui è esposto chi viene colto in fallo. Il plagio diventa ‘moralmente’ intollerabile perché, a differenza di una qualsivoglia altra truffa, che è un gioco sporco di astuzie attorno a beni materiali, macchia un ambito che si vorrebbe considerare spiritualmente immacolato. Ed è anche sanzionato giuridicamente. Una volta che la proprietà diventa un diritto, il plagio diventa un furto. Viola un principio etico e viola al tempo stesso una legge di mercato. In più, rivela aspetti e retroscena del lavoro intellettuale che spiazzano e disilludono.
La questione si complica ulteriormente nell’odierna età dell’informatica. La massa enorme di materiali immediatamente accessibili e facilmente manipolabili attraverso il ‘copia e incolla’ crea una tentazione enorme a profittarne per velocizzare ulteriormente. Il fatto stesso che tutto ciò che viene intellettualmente prodotto sia visto sempre più come materiale di immediato consumo, e presto destinato all’oblio, induce a rischiare tranquillamente, per produrre appunto a ritmi industriali. Sono insomma l’insignificanza delle idee e la volatilità stessa del supporto sul quale circolano a favorire la tentazione del plagio. Ed è anche vero che sulle onde di quella rete di idee ne circolano talmente tante che non ha nemmeno più senso parlare a loro proposito di plagio.
Si complica pertanto anche la casistica. In teoria oggi qualsiasi appropriazione di materiale altrui potrebbe essere smascherata all’istante, con un semplice confronto in rete; nella pratica sembrano ormai tutti talmente indaffarati a scopiazzarsi a vicenda, cercando magari di essere originali nella copiatura, da non dar peso a queste cose (o da dargli solo quello sbagliato). Una definizione giuridica della materia è d’altro canto quasi impossibile (e più ancora, assolutamente inutile). Sarebbe persino assurda, in un contesto nel quale ciascuno di noi è giornalmente spogliato di ogni “dato sensibile”, che viene immesso immediatamente sul mercato e diventa strumento per un totale asservimento ai meccanismi del consumo. Al confronto, la ‘sottrazione’ di qualche pagina o di qualche idea non può che far sorridere.
Al di là di questo, però, ciò che mi spinge ad un atteggiamento cauto (che non vuol dire tollerante), è la varietà dei modi e delle motivazioni che possono stare dietro un plagio. Prendiamo il caso del già citato Calimani: tutto sommato, prestiti o meno, l’intento e l’insieme della sua opera sono meritori. È un divulgatore, ha scritto più di venti volumi (e tutti piuttosto poderosi) di storia dell’ebraismo dai quali io stesso ho attinto conoscenze e rimandi ad altri autori, ci sta anche che qualche volta abbia preso delle scorciatoie. Il problema in questo caso, trattandosi di saggistica storica, è piuttosto che i materiali usati siano stati vagliati criticamente. Il resto è una questione di virgolette (non lo dico io, lo scrive Barthes, ma l’ho fatto mio), e mettere o meno le virgolette dipende da una personalissima concezione della dignità propria e del senso del proprio lavoro. C’è persino chi eccede, e virgoletta metà del testo: ma in questo caso lo scrupolo c’entra poco. Di norma è solo un trucco per conferirgli autorevolezza, per dirci che ciò che stiamo leggendo ha alle spalle scavi e accumuli e conoscenze profonde.
Intendiamoci, non sto dicendo che in un lavoro a carattere essenzialmente compilativo il plagio sia accettabile o addirittura giustificato. Dico solo che in questi casi il problema del plagiario è con se stesso, piuttosto che coi suoi lettori. Certo, c’è una bella differenza tra raccontare le stesse vicende e raccontarle con le stesse parole o trarne identiche riflessioni: ma rimane che quelle vicende, i fatti storici, sono proprietà di nessuno, che le riflessioni uno le scrive perché circolino e che al limite da una loro ‘trasposizione’, anche letterale, il lettore non ha un danno. È normale che provi un senso di fastidio, se si accorge della cosa, e certamente concederà per il futuro minor credito all’autore. Ma finisce lì.
Diverso è il discorso per l’opera narrativa. La narrazione letteraria, e tanto più quella poetica, sono creazione più o meno ex-nihilo, e allora le idee e le parole per esprimerle sono soggette alla denominazione d’origine controllata. Appropriarsi delle une e delle altre e spacciarle per proprie è in questo caso un furto bello e buono e, peggio ancora, è un furto assolutamente stupido. Ma anche qui occorre fare delle distinzioni. Salgari e Verne copiavano intere voci dalle enciclopedie e paragrafi dai libri di viaggio per dare una credibile ambientazione alle loro storie, oltre che per cumulare pagine da tradurre in moneta. Anche per loro vale a mio giudizio la scusante di una utilità per il lettore. Di questo infatti ancora li ringrazio: ho imparato prima dei dieci anni che esiste il marabù, che l’Islanda è piena di vulcani e dove si trova l’isola di Tristan da Cunha, conoscenze che sono poi risultate fondamentali per la mia vita. D’Annunzio copiava invece Landor per ammantarsi di esotismo, per contrabbandare di sé un’immagine falsa e alimentare un mito. Sono due cose ben diverse.
Di questo passo mi sto però addentrando in un ginepraio dal quale so già che non saprei più uscire. I possibili distinguo sarebbero infiniti, e comunque legati alla mia personalissima sensibilità. Meglio tornare indietro e tagliare corto, riassumendo e riannodando quello che sin qui ho cercato confusamente di dire.
In primo luogo è difficile definire l’area del plagio. Non è tanto l’entità del ‘prestito’ a stabilirne le coordinate, quanto il modo o l’intenzione coi quali l’autore usa i materiali di cui si è appropriato (e naturalmente ci sono anche quelli della ricezione del lettore). Quattro pagine di Grunfeld non onestamente citate nel mare magnum di Calimani hanno un peso, se fossero contrabbandate come articolo a sé sotto un altro nome ne avrebbero uno diverso. E più in generale: una cosa è trarre ispirazione da un’opera, un’altra è riscriverla più o meno tale e quale (a meno di non essere il Pierre Menard di cui parla Borges). E fin qui non ci piove.
Per come lo intendo io, il plagio va considerato prescindendo dall’esistenza o meno di ‘diritti di proprietà’ funzionali all’industria culturale, che ha regole e giurisdizioni delle quali francamente mi importa un fico secco. Chi scrive per passione genuina lo fa per sé prima che per gli altri: non si lega alla catena di montaggio e sa di non poter essere derubato della sua interiore soddisfazione. La questione si pone quindi sotto un profilo puramente etico (distinguerei anche da quello morale, per il quale il furto è comunque una colpa: ma qui si tratta di rispondere alla propria coscienza, non a quella collettiva).
In quanto lettori, il plagio esiste quando ci disillude. Quando sentiamo tradita la nostra fiducia, distrutta l’aura speciale che abbiamo costruito attorno ad un autore che amiamo o l’autorevolezza di cui ammantiamo lo storico e il saggista che ci interessano. Più in generale, quando ci mostra un aspetto del lavoro intellettuale che ci rifiutiamo di accettare. E ancor più ci indigna quando è fatto male, in maniera sciatta e abborracciata, e risulta palesemente fine a se stesso.
Quanto agli autori, invece, o attuano l’esproprio in funzione di una creatività che porta quelle pagine ad essere comunque qualcosa d’altro rispetto all’originale, e allora non di plagio si può parlare ma di rielaborazione: oppure tirano semplicemente a campare per la via più comoda e scorretta. In questo caso, al di là della scorrettezza, anzi, del furto bello e buono, a infastidire è la povertà spirituale che induce quel comportamento.
Quando è tale, il plagio si sanziona da solo, indipendentemente dal fatto che venga scoperto o meno. Credo che nessuno possa avere rispetto di se stesso, e pretenderlo dagli altri, quando lo specchio gli rimanda un mistificatore, un poveraccio che non è in grado di fare lo sforzo e di assumersi la responsabilità di quattro idee o di quattrocento parole originali. Gli idioti (che dalle nostre parti vengono chiamati furbetti, e sono comunque moltissimi), forse: ma quelli costituiscono una categoria a parte. Sono idioti appunto perché non hanno rispetto di sé, e lo sono doppiamente perché non lo sanno.
Ho sempre immaginato che girare costantemente con carte false debba essere una sensazione terribile, che la paura di essere scoperto finisca per condizionare ogni gesto, ogni scelta, e, qualora la cosa si verifichi, la vergogna risulti intollerabile. In Germania un ministro accusato di aver copiato parte della sua tesi di laurea si è immediatamente dimesso e si è ritirato dalla vita politica. Ho apprezzato il gesto, sperando fosse dettato più dal tarlo interiore che dalle pressioni esterne. E anche se così non fosse, mi è parso comunque giusto. Non è questione di credenziali culturali attendibili o certificate, ma di coerenza etica: avrebbe potuto essere magari un buon ministro, ma sarebbe rimasto per sempre ricattabile, e non da fuori, ma dalla sua stessa coscienza.
Nessuna paura, però, per chi in Italia avesse qualche peccatuccio di questo tipo. Dalle nostre parti il problema non si pone. Quanto a coscienza, collettiva o individuale, siamo molto più avanti. Da noi un caso simile è valso recentemente alla protagonista la promozione a ministra.