Ad Ovada c’era il mare

di Angela Cresta e Maurizio Castellaro, 18 novembre 2020

 

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Attenzione!

Estetica delle macerie ed etica delle rovine

di Paolo Repetto, 4 novembre 2020

Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine
Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo
La storia futura non produrrà più rovine
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

Cammino con Stefano sulla cresta di una collina, nel cuneo di terra che separa ancora per un breve tratto Tanaro e Po, a nord-ovest di Alessandria. Davvero non te lo aspetti un posto così bello, a pochi chilometri da una città tanto piatta e grigia. Queste colline non hanno nulla di selvaggio, sono dolci e ordinate, completamente addomesticate dal lavoro umano lungo i secoli, e non susciteranno mai l’emozione del sublime: ma trasmettono l’idea di un rapporto armonioso con la terra. A me la natura piace anche così, mi piace vederci impressa l’impronta dell’uomo, quando è delicata, leggera.

Ma non sono qui per scoprire il paesaggio, negli ultimi tempi ho già imparato a conoscerlo bene. Cammino invece sulla scia della passione più recente di Stefano, quello per la fotografia di luoghi in rovina o abbandonati (che ha anche un nome, urbex, da urban exploration: inglese naturalmente). Mi incuriosisce. Sono quindi a rimorchio, è lui a guidare, perché ha in testa una meta. Conoscendolo, è probabile che questa meta sia a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto, ma senz’altro ci arriveremo facendo il giro più lungo possibile e percorrendo l’itinerario più ondulato.

Infatti. Viaggiamo per tre o quattro chilometri su stradine o sentieri fangosi che corrono lungo i campi, fino ad arrivare ad una macchia di verde del tutto inselvatichito e apparentemente impenetrabile. Nel verde si apre però ad un certo punto un piccolo varco, impercettibile al passante distratto. Ci inoltriamo nel folto e all’improvviso, quasi magicamente, siamo di fronte all’edificio.

È una costruzione imponente, tre piani che vanno calcolati con le misure di un tempo, quindi alta ad occhio e croce almeno una dozzina di metri. Ma non è facile farsi un’idea globale delle dimensioni, perché l’edificio non è mai visibile da una sufficiente distanza. Dall’esterno della macchia risulta totalmente nascosto, malgrado l’altezza, dalle piante secolari che lo circondano. Quando si è dentro lo si può guardare solo dal basso. Non riesco a valutare lo stato del tetto, ma i muri perimetrali sono tutti ancora in piedi, e non si vedono crepe. Persino l’intonaco regge, tranne in qualche punto sulla facciata che guarda a settentrione e nel cornicione che aggetta. Tutto il resto, naturalmente, le cornici in muratura degli infissi e i fregi e gli infissi stessi, è in totale rovina. La costruzione è forse databile agli inizi del secolo scorso, magari anche alla fine di quello precedente: lo stile sta tra il Liberty e l’Art Dèco.

Entriamo con cautela, e all’interno lo stato di degrado è ancora più evidente. Calcinacci e vetri ovunque, l’intero soffitto di una sala crollato, tappezzerie a brandelli, vecchie stufe, sedie e tavoli disfatti. Rimane però ancora percettibile quella che doveva essere l’originaria ricchezza e bellezza degli ambienti: nei pavimenti alla genovese, nelle volte affrescate, nelle lunette che offrivano scorci montani o lacustri, in quel che rimane degli armadi a muro, ecc… Mi viene in mente per un attimo la Vill’Amarena di Gozzano: Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Il riferimento non è del tutto appropriato, ma lascia intravvedere quella che ha potuto essere la fase iniziale dell’abbandono (in verità mi viene in mente perché è una delle poche poesie che ancora ricordo, e mi ci aggrappo prima che la memoria sia ridotta come questa casa).

Non ci avventuriamo ai piani superiori perché anche le scale sono fatiscenti, una grossa crepa taglia a metà il primo pianerottolo. Meno che mai osiamo scendere in un buio piano interrato, dove non arriva luce da nessuna apertura. In realtà non credo sia poi così pericoloso, ma l’impressione è che ci si debba muovere con tutta la delicatezza possibile, per non contribuire ad accelerare lo sfascio. È una casa che incute un certo rispetto.

Stefano comincia sparare fotografie, è affascinato dalla rovina, che i raggi filtranti attraverso quel che resta delle persiane ammantano davvero di una malinconica poeticità. Io, dopo il primo momento di sorpresa, e dopo aver appagato la curiosità iniziale, sento invece montare dentro un sentimento che conosco bene. A differenza di Stefano, che è un positivista professo ma sotto sotto subisce un po’ il fascino della decadenza, io di fronte a queste cose sto male. Non accetto alcun tipo di degrado che non sia quello iscritto nei cicli naturali, perché quello non è degrado, è trasformazione. Questo edificio è invece una testimonianza culturale, è cultura che va a pezzi, e allora sento l’urgenza di intervenire, di impedire alla rovina di avanzare. È una vera e propria sindrome, che rasenta l’autismo: ovunque vada sono immediatamente colpito da quel che è fuori posto, che potrebbe essere migliorato, sistemato, recuperato (così come mi irrita profondamente, nelle persone, ogni comportamento caciarone e scomposto). Una volta a casa di un amico ho rimesso in piedi tutta una serie di anfore abbattute sparse per il giardino, per poi scoprire che erano state messe così ad arte (il senso devo ancora capirlo oggi). Dopo aver restaurato e ridipinto i settanta metri di staccionata che chiudono il giardino di mia figlia a Bournemouth, mi aggiravo per la città a verificare quante altre staccionate avrebbero avuto bisogno di un sano intervento (e sarei stato disposto ad operarlo gratis). Insomma, è una malattia, che però non si limita a un decorso passivo, ma a modo suo mi rende immediatamente operativo.

Anche in questo caso finisco subito a realizzare che si potrebbe intervenire qui, rinforzare là, recuperare materiali, ripristinare. Cerco di figurarmi come potrebbero essere i locali una volta restaurati, e come sarebbe possibile farlo con interventi minimi, puramente conservativi. Mentre Stefano continua a raccogliere immagini, ogni tanto coinvolgendomi anche, comincio a fare mentalmente i conti: un tot a metro per il tetto e per gli intonaci, un calcolo approssimativo per le decorazioni esterne e per gli infissi, una bella botta per il ripristino degli interni. Siamo, molto all’ingrosso, nell’ordine del milione di euro. E questo a condizione di mettere all’opera gente seria, ad esempio i muratori con i quali ho lavorato, fino a pochissimi anni fa, per recuperare la mia casa. Altrimenti la cifra raddoppierebbe, e il risultato sarebbe disastroso. Il tutto naturalmente evitando ogni intromissione delle varie sovrintendenze e degli svariati e altrettanto inutili altri organismi di controllo, oggi tranquillamente indifferenti davanti al fatto che un edifico del genere vada allo sfascio, ma che domani, casomai un folle decidesse di metterci mano, interverrebbero di corsa a imporgli i vincoli più stupidi e le direttive più insensate.

Lascio Stefano a finire il suo servizio e mi aggiro nei dintorni della casa: solo per scoprire che le sorprese non sono affatto finite. Come avrei dovuto immaginare, a pochi metri, ma assolutamente invisibile se non ci si avventura in un altro varco nella boscaglia, c’è un secondo edificio, molto più basso e meno elegante, alle spalle del quale è stato appoggiato in epoca relativamente recente un enorme porticato. Dal porticato si ha accesso diretto ad una cantina. Evidentemente era la residenza dei mezzadri, e deve essere stata abitata o utilizzata ancora per qualche tempo dopo l’abbandono della casa padronale: almeno sino a una quarantina d’anni fa, come testimoniano le botti in cemento e lo stato del tetto. Dalla piccola radura antistante la casa individuo poi quello che probabilmente era l’accesso principale alla villa: un vialone un tempo inghiaiato, fiancheggiato da platani enormi, che scende con dolce pendenza e perfettamente rettilineo per almeno duecento metri, sino ad immettersi nella strada comunale. Ho il sospetto che Stefano lo sapesse, e che saremmo potuti arrivare sin lì tranquillamente in macchina. Ma in fondo sono contento di essermi guadagnato almeno un po’ la gioia della scoperta. Che non cessa di rinnovarsi: dal lato opposto, dando le spalle alla casa, intravvedo un altro edificio ancora. Era la stalla-fienile. Dentro, in mezzo a cumuli di cianfrusaglie d’ogni tipo, ci sono ancora delle vecchie attrezzature per l’aratura con gli animali. Devo aggiornare i preventivi per il restauro, ma rispetto a quanto previsto per il corpo centrale qui sono bazzecole.

Ora la topografia del luogo si ricompone. Si accedeva alla villa dal basso, e la si scopriva mano a mano che si risaliva il viale, mentre i due edifici “di servizio” rimanevano nascosti sino all’ultimo. Il viale si interrompeva in uno slargo alla loro altezza, dal quale con due dolci rampe laterali si guadagnava il terrapieno su cui sorgeva la dimora padronale. L’effetto doveva essere di imponenza e di eleganza assieme.

Continuando a girovagare mi rendo conto che il parco alberato è molto più ampio di quanto immaginassi. In serata poi, tornato a casa, scopro sulla mappa satellitare di Google che in basso, proprio al confine del parco, c’è ancora un quarto edificio, del quale né io né Stefano ci siamo accorti. Tra l’altro, nella visione dal satellite l’assieme appare come un’isola verde in mezzo ai diversi toni del marrone dei campi che la circondano.

Bene, non ho dettagliato questa piccola esplorazione domestica per puro amore di racconto, ma perché mi ha spinto a riflettere molto e perché ancora oggi, il giorno dopo, non riesco a smettere di pensarci. E mi chiedo innanzitutto se, al di là della mia specifica sindrome da dio riordinatore, progetti di recupero come quello su cui fantasticavo ieri sarebbero poi davvero così insensati, anche prescindendo da tutti i fattori emotivi, valutandoli su un piano prettamente economico.

Dunque. Proviamo ad immaginare come potrebbero andare le cose in un paese normale. È difficile, perché intanto in un paese normale un edificio del genere non sarebbe in quelle condizioni, sarebbe già intervenuto qualcuno, qualche ente, qualche istituzione, per impedirne la rovina. Se da noi questo non avviene non è perché la cosa sia impossibile, ma perché siamo un popolo di idioti. E certamente, se ogni progetto lo parametriamo a quest’ultimo dato di fatto, allora possiamo abbandonare in partenza. Io sto ragionando per assurdo, ma in questo caso non è assurdo il ragionamento, quanto piuttosto il fatto che in questo paese non lo si possa nemmeno fare.

Allora, rimaniamo nella fanta-utopia (mi ci sono affezionato) del “paese normale”. Se fossi io il legislatore dopo un massimo di dieci anni di abbandono metterei i proprietari di fronte ad un aut aut: o lo tenete in piedi voi o lo cedete (per una cifra simbolica) alla comunità, che provvederà a farlo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di espropriare: basterebbe tassare in maniera esponenzialmente salata gli edifici oltre un certo periodo di non utilizzo. Mi si obietterà che il problema sarebbe a questo punto che fare della miriade di edifici di cui lo stato si troverebbe ad essere proprietario, visto che non riesce nemmeno a manutenere le strutture pubbliche di sua pertinenza. È vero: ma io sto parlando di uno stato normale, il che esclude in partenza situazioni come quella italiana.

Comunque, continuando così non si va da nessuna parte. Devo confrontarmi con la realtà: proviamo a rimanere in Italia. Assumendo quello che ho calcolato per la “mia” villa come costo medio di ogni intervento (e credo di essermi tenuto largo, perché per almeno due terzi gli interventi potrebbero essere meno dispendiosi), per recuperare diecimila edifici o luoghi di un certo pregio sarebbero necessari dieci miliardi di euro. Può sembrare una bella cifra, un investimento colossale: e in effetti lo è, lo sarebbe in qualsiasi momento e lo è tanto più in questa nefasta congiuntura di pandemie e di crisi strutturali.

Ma guardiamo a ciò che abbiamo di fronte. Teoricamente l’Italia dovrebbe ricevere nei prossimi mesi un soccorso finanziario nell’ordine di oltre duecento miliardi (il famoso recovery fund). Il condizionale è d’obbligo, perché il soccorso è subordinato alla presentazione di un piano di investimenti credibile e concreto, cosa di cui si hanno mille ragioni per dubitare (detto tra noi, fossi l’Olanda o la Svezia o l’Austria non farei credito di un solo centesimo al nostro paese). Il rischio è che tutto ciò che saremo in grado di proporre si riduca a una serie di interventi di “tamponamento” a pioggia, vale a dire ad elargire soldi destinati a tacitare le proteste, legittime o meno, ma non certo a normalizzare il respiro della nostra economia. Al tempo stesso abbiamo milioni di persone inattive, in parte per una crisi che era già strisciante prima del Covid e che con la pandemia è esplosa, in parte perché l’idea di poter contare su un salario, che sia di cittadinanza o assuma la forma di qualsivoglia altra assistenza, dissuade molti dal cercarsi o dall’accettare un lavoro. E non mi si venga a dire che è un ragionamento “di destra”, perché è solo una fotografia realistica della situazione.

Il lavoro infatti, a volerlo vedere e organizzare seriamente dagli uni e a volerlo fare senza troppe scene dagli altri, ci sarebbe. Basti pensare a tutti gli interventi urgenti di risanamento ambientale, che quantomeno ci metterebbero in sicurezza rispetto agli eventi catastrofici che ad ogni stormir di pioggia devastano il nostro territorio. Sarebbe un investimento ripagato da un riscontro immediato, di tipo occupazionale e non solo, perché smuoverebbe la produzione e avrebbe una ricaduta contributiva sulle casse statali: ma la sua maggior resa verrebbe col tempo dai risparmi sullo stillicidio continuo di interventi d’emergenza. A questo naturalmente andrebbe data la priorità.

Anche quello che ipotizzo io è però un investimento che dà risposte concrete e immediate, oltre ad aprire a quelle a lungo termine. Attivando cantieri per diecimila interventi di recupero di questo tipo si creerebbero come minimo centomila posti di lavoro nel settore edilizio e si metterebbe in moto indirettamente un indotto che ne vale altrettanti. Una volta chiusi i cantieri, rimarrebbero attivi almeno ventimila posti per le attività di manutenzione e valorizzazione di quanto già recuperato, mentre potrebbero partire ulteriori progetti di risanamento “culturale”. Queste attività, se minimamente coordinate e inserite in circuito con altre forme di “offerta” (da quelle gastronomiche a quelle enologiche, dall’escursionismo alle più svariate pratiche di fitness, ci sta di tutto), una volta avviate potrebbero raggiungere facilmente l’autonomia finanziaria. A dispetto della nostra colpevole negligenza siamo ancora un paese ad altissima attrattiva turistica anche nel campo della cultura, e con uno sforzo intelligentemente mirato potremmo offrire quei percorsi alternativi ai grandi eventi, alle mostre-monstre, agli intruppamenti obbligati, che vengono invocati ogni volta che le nostre città d’arte arrivano al collasso, ma per i quali non è mai stato pensato alcun progetto serio.

Ora, mi si farà notare, tutta questa gente va comunque da subito pagata. Appunto. Ricordo che stiamo parlando di un settore nel quale da molto prima del covid una buona metà degli addetti stazionava in cassa integrazione, e la quota è aumentata con la pandemia; quindi si tratta in realtà di gente già pagata con soldi pubblici, e senza alcuna contropartita. Lo stesso vale naturalmente per i percettori del reddito di cittadinanza. Ci sono poi anche le spese per i materiali: ma teniamo presenti le sovvenzioni “di ristoro” che lo stato elargisce alle aziende messe in crisi dalla pandemia e dalle misure restrittive: con le stesse cifre si potrebbe acquisire già gran parte del fabbisogno. Anche in questo caso, sarebbero soldi destinati in parte a rientrare nelle casse dello stato e dell’ente previdenziale, sotto forma di imposte e di contributi. Rimane il tema scottante del tipo di occupazione offerta. Ma mi sembra sia giunta l’ora di mettere in chiaro come girano le cose. Non siamo in grado di creare “posti di lavoro” rispondenti a tutte le aspettative, siamo solo in grado di creare occasioni di lavoro, e dovremmo semmai poi assicurarci che questo si svolga in sicurezza, che sia adeguatamente retribuito, che crei a sua volta professionalità e conferisca quindi dignità. Non ha senso opporre che i nostri giovani, o anche i meno giovani, non sono “preparati” per questi tipi di attività. Nemmeno chi sbarca sulle nostre coste o arriva dall’est nel nostro paese è preparato, ma non tarda ad adeguarsi. Impareranno, e questo sarà per loro un valore aggiunto, oltre al fatto di guadagnarsi uno stipendio e poter fare progetti per il futuro. Se invece per quei duecentomila posti dovremo reclutare polacchi o senegalesi, ben venga allora anche l’immigrazione clandestina.

Sono scaduto nello sproloquio da allenatore da bar, di quelli che non saprebbero gonfiare un football ma disquisiscono dei moduli di gioco. Io però non voglio fare l’allenatore, altrimenti mi sarei dato alla politica. Voglio semplicemente dimostrare che una scelta del genere in Italia non si farà mai non perché impossibile, o insensata, ma perché ogni cosa, ogni idea, ogni progetto deve confrontarsi da noi con la vischiosità degli apparati, l’inossidabilità dei privilegi, le gelosie e le ripicche tra i vari enti, lo scaricabarile tra le diverse istituzioni, e non ultimo con una malintesa, ipocrita ed egoista concezione della libertà. Non ci vuole una gran fantasia ad immaginare il balletto dei bandi e degli appalti truccati e dei ricorsi, la sequela delle lungaggini e delle assurdità burocratiche, il gioco delle tangenti e degli interventi della magistratura, il veto a prescindere dei sindacati e degli ispettorati e delle associazioni di difesa dei chirotteri o delle piante spontanee, il traffico dei subappalti, tutta la polvere e la sporcizia insomma che un qualsiasi progetto qui da noi va a sollevare. Ma le cose sono complicate solo perché rese tali da una assoluta mancanza di senso dello stato, di onestà, di competenze, di buona volontà, ecc…: tutti vizi che non attengono al naturale ordine del mondo, ma solo a una particolare disposizione negativa che ci portiamo dietro. Non possiamo imputare il nostro perenne stato di emergenza al fato o ai complotti orditi alle nostre spalle dai poteri forti, ma solo alla nostra riluttanza ad assumerci, a qualsiasi livello, una qualsivoglia responsabilità, dalla nostra tendenza a sentirci sempre creditori nei confronti di tutti, della nostra meschina corsa a scovarci alibi per non fare nulla.

Con queste premesse è evidente che uno i progetti non dovrebbe nemmeno immaginarli. Forse farei meglio a restarmene nell’utopia del paese normale. O forse ci sono rimasto davvero, perché da ieri non faccio che parlare con gli amici di questa cosa, e oggi ne ho già sguinzagliati un paio in cerca di informazioni sulla proprietà. Avessi trent’anni di meno, e quattro soci armati di buona volontà, altro che recovery fund! Accoglierei in cima al viale la delegazione olandese, e si toglierebbero tanto di cappello.

***

Le allegorie sono nel regno del pensiero
quel che le rovine sono nel regno delle cose
Walter Benjamin

Dopo la visita alla villa abbandonata, sopiti un po’ gli entusiasmi restaurativi, mi sono trovato a riflettere su un tema di ordine più generale, che meriterebbe dunque un approccio più serio e ponderato: infatti ho qualche esitazione a trattarlo in questo contesto. Ma non sapendo se e quando potrò tornarci su, colgo almeno l’occasione per anticiparlo.

Constatavo, anche in rapporto alla nuova passione di Stefano, che stiamo tornando ad una “estetica delle rovine”, ciò che ci rimanda a quanto accaduto nella sensibilità occidentale un paio di secoli fa, verso la fine del XVIII secolo. Erano stati infatti Winckelmann e poi Goethe ad elaborare questa particolare teoria del sentimento del bello, ispirati non a caso proprio dai loro soggiorni in Italia (e sempre non a caso Winckelmann in Italia era stato ammazzato). Il riferimento era naturalmente alle rovine dell’antichità (stava nascendo l’archeologia classica, erano state da poco riscoperte Pompei ed Ercolano), che si rivelavano essenziali per ri-educare il gusto moderno alla bellezza: da esse si poteva inferire la forma originaria e pura delle opere greche e romane, e ciò, al di là dell’appagamento “sensoriale”, emotivo, doveva indurre alla ricerca, all’imitazione e alla riproduzione di quella bellezza. Non solo di quella artistica: quel mondo poteva darci lezioni sul piano giuridico, legislativo, sociale. Il neoclassicismo non era un moto di reazione agli sconvolgimenti rivoluzionari. Era figlio legittimo dell’Illuminismo. (“Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose”, scriveva Diderot , uno dei Maestri del mio personalissimo pantheon: e, nel mio piccolo, sembrano sortire anche su di me lo stesso effetto).

Ma quel figlio non era l’unigenito. La stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare anche altre fantasie, meno serene; il passato nel quale i classicisti identificavano un modello riproponibile per il presente poteva apparire come un mondo splendido e maestoso, ma irrimediabilmente perduto (si pensi a Piranesi: nelle acqueforti sulle antichità romane esprime la nostalgia per un mondo ideale, per un’epoca incomparabile, ma ormai chiusa e irripetibile: di fronte ai resti colossali dei Fori imperiali non si abbandona a una pacata contemplazione, è scosso da una forte emozione) e suscitare nell’artista moderno un senso di impotenza e di frustrazione (mi viene in mente L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, di Füssli. In quella sanguigna c’è davvero tutto il conflitto degli opposti sentimenti, commozione per la grandezza delle opere classiche e frustrazione per l’insostenibilità del confronto).

Del resto, anche gli illuministi non si sottraevano alla riflessione malinconica. Lo stesso Diderot aggiungeva: “Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. […] Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. Si riferiva soprattutto agli aspetti naturali (la roccia che sprofonda nella terra o la valle che si frantuma), ma anche, naturalmente, ai ruderi dei sogni umani.

Col Romanticismo si afferma, soprattutto nei paesi nordeuropei, il gusto per le architetture gotiche: si recupera insomma il passato di casa, un passato che si presenta, rispetto a quello classico, più irregolare e informe, e produce una fascinazione d’altro tipo, nella quale diventa dominante la sensazione di angoscia. Le rovine non sono più un raccordo tra passato e futuro. Raccontano qualcosa che non tornerà, che sta lentamente svanendo anche dalla memoria, e costringono a meditare sulla fragilità umana. I segni del tempo, la vegetazione e i muschi che le ricoprono parlano di una natura che si prende la rivincita sulla civiltà e la cultura. Shelley scrive nell’Adonais:

Su, vai a Roma, — che è insieme il Paradiso, la tomba,
e la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono
come montagne frantumate, e le gramigne
fiorenti e le piccole selve profumate
vestono l’ossa nude della Desolazione …

Magari oggi la sua esortazione sarebbe più tiepida, anche se le gramigne a Roma fioriscono ancora. Le uniche montagne accanto alle quali si passa sono quelle dei rifiuti, e le piccole selve che crescono sui marciapiedi sono tutt’altro che profumate.

Nella pittura di questo periodo è Friedrich a esprimere perfettamente, in dipinti come L’abbazia nel querceto, l’estetica del fascino malinconico e dolente delle rovine. Altro che ponte sul futuro! Il futuro è plumbeo come il cielo contro il quale le mura e gli alberi tutti spogli e rinsecchiti si stagliano. E la processione che appena si intravvede nella fascia più bassa è diretta a un cimitero. Nel suo caso è una forte connotazione religiosa, e per di più luterana, a indurlo a usare le rovine come simbolo e come monito. Ma quel tipo di fascino, secolarizzandosi, tenderà facilmente a scadere, alla lunga, nel gusto per il fatiscente e il macabro: quello che caratterizzerà il decadentismo (e il cui prototipo potrebbe essere La rovina della casa Usher, di Poe)

E si arriva all’oggi, passando per il Novecento. Il secolo scorso ha prodotto in realtà molte più macerie che rovine, e la sensibilità nei confronti di queste ultime è ancora una volta mutata. Ho sottomano Rovine e macerie. Il senso del tempo, un libretto esile e densissimo, nel quale Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”. Credo voglia intendere che il cumularsi delle macerie prefigura un mondo senza rovine, nel quale il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Per Augé il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. La rovina è un frammento del passato ancora presente, e sottratto alla temporalità delle appartenenze, dell’uso, dei significati. Quindi “contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro”.

Ma questo cosa significa? Significa che per Augé, illuministicamente, là dove c’è rovina c’è una possibilità, una indicazione di ripartenza: mentre là dove ci sono macerie il tempo viene non solo azzerato, ma abolito. Le rovine tendiamo a conservarle, le macerie possiamo solo rimuoverle, dobbiamo sbarazzarcene. Sottoscrivo in toto, anche dove dice: “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente la storia futura susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. A dispetto della mia disposizione congenitamente scettica, non mi sembra un ottimismo forzato e consolatorio: ricordo una immagine, credo sia della biblioteca di Sarajevo, incendiata e semidistrutta nel 1992 (con perdita dell’ottanta per cento del patrimonio librario), nella quale un ragazzo, in mezzo a tanta devastazione e desolazione, sfoglia un libro: e ho davanti quella odierna dell’edificio rimesso in piedi (e in funzione) seguendo esattamente le linee del vecchio progetto. Per quelle macerie, e attraverso quel ragazzo, la storia in qualche modo è ripartita.

A tornare ripetutamente, direi quasi ossessivamente, sul tema delle rovine, nella prima metà del ‘900, è stato Walter Benjamin. Benjamin scrive in un periodo che di macerie ne ha prodotte parecchie, tra le due guerre, ed è comprensibile che vi faccia costante riferimento. In un frammento che è diventato una delle pagine più citate (e abusate) della recente letteratura filosofica scrive (e così lo cito anch’io): “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.

Confesso che non mi ero mai soffermato a decrittare l’allegoria racchiusa in questa immagine, mi accontentavo dell’interpretazione più immediata e superficiale. La verità è che non riuscivo affatto a scorgerci tutto quello che Benjamin sembra vedere, e non mi rendevo conto che era lui quello da decrittare, e non Paul Klee. Anche perché il quadro era suo, l’aveva voluto fortissimamente e acquistato, l’ha portato con sé in tutte le sue peregrinazioni, sino all’ultimo, e aveva tutti i diritti di leggerlo come voleva. Forse la passeggiata di ieri mi ha chiarito le idee, e riesco anch’io a guardarlo con occhi nuovi.

La storia si allontana, sia pure camminando a ritroso, da ciò su cui fissa lo sguardo, dal passato. Questo passato può essere percepito come un ammasso di detriti, di macerie, e quindi come qualcosa da rimuovere, magari in maniera soft, diluendolo in tante diverse memorie, come sta accadendo oggi, oppure in modo violento e radicale, cancellandone ogni traccia (penso ad esempio ai roghi dei libri, da Qin Shi Huang a Hitler e all’ISIS, o ai calendari “rivoluzionari” che ripartono dall’anno zero). Per Benjamin invece l’angelo, ovvero il vero senso della storia, “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. Qui il significato è ambiguo, e credo ciò dipenda dal fatto che una prima versione di questo brano era incentrata sulla vicenda personale di Benjamin, su un amore finito e rimpianto. Comunque, è verissimo. Per ciascuno di noi ad un certo punto della vita, quello in cui ci si volge indietro perché davanti rimane ben poco da vedere, le rovine della storia sono i fallimenti, le incertezze e le decisioni non prese, le cose non dette e non fatte, che avrebbero potuto cambiare il nostro destino, il nostro presente e il nostro futuro. Vorremmo poter tornare indietro e riscrivere tutto il libro. Ma il vento, che in questo caso è semplicemente l’inesorabile, naturale scorrere del tempo, volta le pagine che rimangono, e il cumulo che abbiamo alle spalle si innalza.

Se interpretata invece nel suo significato più esteso, quello poi scelto da Benjamin, l’immagine ci dice che in realtà l’unica via d’uscita, per non lasciarci trascinare dalla tempesta che chiamiamo “progresso”, è proprio quella di fermarci, tornare sui nostri passi e “risanare” il passato. Quando dice che la tempesta del progresso spira dal paradiso, Benjamin non intende che è suscitata da una volontà divina o da un fantomatico Spirito hegeliano: il paradiso di cui parla è quello terrestre – sta quindi alle spalle rispetto alla marcia del “progresso”, e non davanti –, e il vento soffia dalle porte che l’uomo ha lasciate aperte uscendone. Quel vento, quella tempesta nascono dalla colpa originaria, dalle scelte errate che l’umanità ha compiuto, che ha cumulato e sparso lungo il suo cammino (le rovine, le macerie) senza averle poi ricomposte. Gli occhi spalancati, la bocca aperta dell’angelo sembrano i tratti tipici di chi all’improvviso si è voltato indietro e si sta rendendo conto, pieno di sgomento, della catastrofe che sta lasciando alle sue spalle (e del fatto che la sua marcia lo allontana dal paradiso).

Quello che l’angelo vede non sono però macerie, ma rovine. Non è tentato di rimuoverle per correre incontro al futuro, ma di ricomporle, per costruire su di esse un futuro che dia senso anche al passato. Esattamente il contrario di quella idea di “progresso” che si fonda sul consumo rapido delle cose e delle idee, sulla rincorsa costante del “nuovo” e sulla forma più efficace di eliminazione delle scorie, che è quella di sotterrarle nell’oblio. L’angelo è fermo. Si è fermato per riflettere e per decidere, malgrado la tempesta lo spinga e non gli consenta di chiudere le ali. E già questo gesto di fermarsi è significativo: vuol dire che il “progresso” così irresistibile forse non è, irresistibile è solo la marcia del tempo, ma la direzione e il posso che vogliamo tenere possiamo ancora deciderli noi.

Per capire meglio la complessa interpretazione che Benjamin dà di questa allegoria riesce illuminante, a mio giudizio, un aspetto del suo carattere che di solito è considerato marginale, e che parrebbe avere poco a che vedere col tema delle rovine. Benjamin era un collezionista. Ma di quelli duri, per i quali la passione diventa quasi (o senza quasi) un’ossessione. Collezionava vecchi libri per bambini, quelli impreziositi dalle immagini di illustratori del calibro di Dulac e di Rackam, ma anche più antichi: e quanto il piacere del possesso fosse vera bibliomania lo dice il fatto che un elenco recentemente pubblicato di questi libri consta di trentasette pagine di titoli. Essendo io stesso un bibliomane patologico non posso che sentirlo vicino, e posso anche immaginare quanto debba essergli costato separarsene quando fu costretto all’esilio. La mania con-divisa mi aiuta però a comprendere anche qualcosa di più. I libri per l’infanzia, e le soprattutto immagini che li adornano, sono il primo (in qualche caso anche l’ultimo) tramite per accedere all’esperienza di una dimensione diversa, più “autentica” di quella reale, che si vive attraverso il gioco. Il bambino fa coi con i suoi giochi “un esercizio dell’inutile”. Parte dalla realtà e dalla concretezza di quei fogli di carta, delle parole e delle immagini che vi sono impresse, e ricombina il tutto a suo modo e a suo piacere, avventurandosi in mondi nuovi, nei quali non valgono regole e logiche e tempistiche prevedibili. (Benjamin era molto polemico con la pedagogia della sua epoca – e lo sarebbe anche con quella attuale – che voleva trasformare i libri per bambini in strumenti di indottrinamento etico e di irreggimentazione disciplinare. Non posso che essere d’accordo: se c’è qualcosa di insopportabile e di ipocrita sono i libri per l’infanzia “educativi” – non parliamo poi del tentativo di piegare all’istruzione i fumetti).

Ma giocare è in fondo anche quanto il collezionista fa con i suoi reperti: “toglie alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce …. e si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.” Aggiungerei che redime il mondo dal disordine, disponendo gli oggetti della sua collezione in un ordine spaziale e mentale che conferisce loro un valore diverso da quello d’uso o da quello di scambio. Cancellandone idealmente il prezzo conferisce loro una dignità. Benjamin scrive anche: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria.” Che è perfettamente applicabile tra l’altro al mio modo di collezionare libri, pescandoli là dove già sono rovina, sui banchi dell’usato a un tanto al chilo, e facendoli rifiorire a nuova vita in un orizzonte di senso assolutamente fuori mercato. Con questo il cerchio si chiude.

Adesso mi riconosco perfettamente in questa immagine. Mi sembra rappresenti e riassuma nella maniera più nitida il mio modo di concepire la storia e il nostro essere nella storia. Mi riusciva difficile conciliare le due pulsioni apparentemente contrastanti che mi agitano dentro, quella verso il passato e quella verso il futuro. Pensavo di essere sulla strada giusta, ma mi mancava il conforto di un segnavia riconoscibile. Ora so che quelle due pulsioni possono coincidere, anzi sono un unico moto.

In sostanza, io voglio un futuro che in qualche modo riscatti, dia un senso al passato. Sento una responsabilità, un debito, non solo nei confronti di coloro che verranno, ma anche di coloro che mi hanno preceduto. Per questo, malgrado gli acciacchi, e a dispetto del senso di frustrazione che troppo frequentemente mi tenta, continuo a stare per aria. Ho trovato una corrente ascensionale che mi consente di librarmi senza sbattere le ali (non ne avrei più la forza) e di guardare indietro: le rovine che vedo, quelle che reggono all’erosione del tempo, sono la testimonianza degli sforzi che miliardi di altri, centinaia di generazioni, hanno compiuto guardando a me. Non riuscirò a destare i morti, non ricomporrò i cocci di ciò che stato infranto, ma ricordarli, quello almeno lo posso e lo devo fare. E credo che sino a quando qualcuno lo farà rimarrà aperta la strada per sfuggire alla tempesta abrasiva del “progresso”.

Il mio non è allora un comportamento autistico, ma un impegno etico. In parte ereditato, da una cultura contadina che non buttava nemmeno le unghie del maiale, in parte coltivato, mano a mano che ho cominciato a leggere la storia, anziché come una squallida e assurda tabella di massacri, come un diario della resistenza dell’umanità alla tragica e assieme straordinaria condizione che la natura le ha regalato.

E l’estetica? Me la sono persa per strada? No, semplicemente per me etica ed estetica coincidono. Il comportamento etico non può essere dettato che dalla percezione e dal riconoscimento del bello, in questo caso delle sue vestigia. Una emozione estetica altro non è che il segnale, la luce che si accende su qualcosa che vale, che ha e che dà senso, e va quindi preservato, difeso. Ma anche rispetto a questo atteggiamento vanno fatte delle distinzioni.

Oggi le rovine non sono più consumate solo dal tempo e dall’incuria o dall’indifferenza degli uomini, ma al contrario, dal soffocamento del turismo globalizzato. In un brevissimo saggio scritto a inizio Novecento, che si intitola proprio “La rovina”, e che senz’altro era conosciuto da Benjamin, George Simmel equiparava la rovina alla moda, nel senso che entrambe sarebbero caratterizzate dalla distruzione di ogni contenuto precedente per accedere a una nuova unità. Non sto a raccontare come ci arriva (peraltro, con un percorso un po’ ostico ma illuminante), mi intriga solo l’accostamento, perché in effetti l’interesse per le rovine è stato sempre condizionato, dai giorni del Gran Tour ad oggi, dal fenomeno delle mode. Un tempo era riservato ai rampolli delle famiglie nobili del continente settentrionale e d’oltremanica, poi è entrato a far parte dei consumi di masse sempre più allargate, e motivate sempre più da una necessità di omologazione. Non è nemmeno il caso che stia a ripetere ciò che è sotto gli occhi di tutti e aggiunga la mia ad un coro di geremiadi che fanno ormai parte anch’esse del gioco. Le rovine, così come le bellezze naturali, sono ridotte a elemento scenografico del grande spettacolo non-stop al quale siamo persuasi più o meno velatamente o sfacciatamente ad assistere e/o a partecipare.

Ma qui, nel caso specifico dell’esperienza da cui ho tratto pretesto per queste righe, non di rovine si parla, ma di macerie, e del tipo di fascino, e conseguentemente di disposizione, che inducono. Questo è un fenomeno relativamente nuovo. È già stato fagocitato dalla moda, oggi si direbbe che è diventato virale, e quindi è destinato alla transitorietà: ma non lo liquiderei così frettolosamente. Presenta infatti delle caratteristiche emblematiche dell’ambiguità sottesa ad ogni nostra modalità e finalità di conoscenza. Intanto è una forma di esplorazione, mirata non tanto alla scoperta quanto alla riscoperta. In questo senso, la pulsione esplorativa sarebbe in linea con l’atteggiamento etico di cui parlavo sopra. Cercare qualcosa che si sottrarrebbe, in quanto scarto, alla logica dell’utilità e della mercificazione, e ripartire da quello per immaginare la possibilità di altri mondi. “La rovina innalza le cose allo stato di allegoria”. Ogni scoperta però reca con sé un germe infettivo: produce contaminazione, modifica o addirittura distrugge l’oggetto stesso che l’ha motivata. Gli antropologi ne sanno qualcosa.

Nel nostro caso, di fronte alle macerie della villa, due diversi atteggiamenti possono indurre a fermarle nell’immagine fotografica: quell’immagine può diventare un ulteriore momento dello spettacolo, oppure può documentare qualcosa che non funziona e a cui occorre ovviare. In entrambi i casi quelle macerie diventano funzionali ad altro rispetto a ciò che realmente rappresentano. Ma qui si pone il discrimine tra una scelta estetica, che è di per sé etica, perché orienta il nostro agire, ed una estetizzante, che banalizza nella “spettacolarizzazione” ciò che si è fotografato. L’una ci dice di una volontà di continuità nel tempo, di lettura e recupero del passato in funzione del futuro, l’altra di una plastificazione museale destinata solo al presente, e a un presente esteso, puramente orizzontale, privo di profondità.

Naturalmente queste generalizzazioni hanno senso solo all’interno di una trattazione teorica. La mia esperienza con Stefano, ad esempio, le contraddice. Le sue emozioni, il suo entusiasmo sono assolutamente genuini: e li manifesta attraverso un mezzo che ama altrettanto genuinamente, e col quale riesce a mediare e a ricondurre ad unità quelli che parrebbero interessi sparsi. È anche lui un collezionista di immagini, tratte non dai libri ma dalle tante realtà ambientali e culturali che ha incontrato (l’altra sua passione sono i viaggi). L’elemento unificante è dato dalla costante ricerca della bellezza, intesa come la risultante del lavoro del tempo sui volti, sulle montagne, sui suk arabi, sugli animali africani o sui templi tibetani: di una bellezza che va sottratta alla svendita e al consumo in confezioni cellofanate, con tanto di bollino di conformità, e partecipata invece come condivisione emozionale attiva.

Lo stesso vale per le macerie. Anche nei loro confronti lo sguardo fotografico può essere caldo e partecipe, se a orientarlo c’è dietro un’intenzionalità etica. E questa non è necessario indossarla o metterla nello zaino quando si esce di casa come per partire in missione. Se c’è, se ci è congenita o se l’abbiamo maturata e coltivata, al momento giusto vien fuori. E magari riesce anche a far sì che le macerie diventino rovine, “si presentino – come scrive Augé – a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa.
Un passato al quale egli sopravvive”.

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Lode alle relazioni futili

di Fabrizio Rinaldi, 23 agosto 2020

Sul piazzale di casa un’enorme personaggio di Botero è sdraiato a prendere il sole e a guadarmi ogni volta che apro la porta d’ingresso.

In realtà è una catasta di legna, che avendo la forma di un annoiato grassone mi rammenta l’urgenza della sua messa a dimora in legnaia; dovrò farlo certamente prima delle piogge autunnali, ma sino ad ora l’estate afosa ha fiaccato ogni volontà.

L’inerzia dura già dalla primavera scorsa, quando la pandemia imponeva lo stare rinchiusi in casa. Inizialmente ero inebetito dalla situazione, dai dati del contagio e delle allarmanti immagini del coprifuoco, cui si aggiungeva un entusiasmo un po’ cinico per l’inaspettato e obbligatorio riposo. Lo stesso stato d’animo, in misura e in forme diverse, credo si sia diffuso un po’ in tutti.

Le attività lavorative consuete sono riprese dopo le prime settimane, anche se in modalità differenti (come nel mio caso), o si sono definitivamente chiuse per l’impossibilità di reggere situazioni economiche già precarie e rese definitivamente disastrose dalla pandemia. Per certi versi era quindi un esito già pronosticabile: la società odierna si fonda sull’equilibrio tra domanda e offerta, se uno dei due eccede, prima o poi il meccanismo s’inceppa.

Faccio un esempio: Ovada è una cittadina che si regge in piedi sulle pochissime piccole industrie non ancora affossate dalle ripetute crisi e dalla globalizzazione, su una campagna relativamente arretrata e su ben poco altro. Eppure, a fronte di circa 11 mila abitanti, nel 2019 contava ancora una sessantina di bar: un numero esagerato in proporzione agli abitanti. Ovada non è la Venezia del Piemonte.

Dopo tre mesi di chiusura forzata, molti non hanno rialzato la saracinesca, perché sconfitti dagli immutati costi d’esercizio o per l’insostenibilità economica delle nuove norme sanitarie. La stessa cosa è avvenuta per alcuni negozi di abbigliamento, in particolare per quelli più ambiziosi, che offrivano prodotti e praticavano prezzi alla portata delle sole star cinematografiche o dei super-manager. (Credo che l’ultima “celebrità” approdata ad Ovada sia stato Umberto Smaila, al tempo in cui facevano furore le tette delle conigliette di “Colpo grosso”, negli anni Ottanta). Questo mentre nessun imprenditore degno di nota si sognava di vedere questo territorio come una risorsa.

Ma anche molti artigiani hanno subito la stessa sorte. D’altro canto, non serviva essere fini economisti per capire che al primo scossone il castello costruito sull’illusione di un perpetuo benessere sarebbe crollato. Purtroppo la realtà ovadese non è riuscita nei decenni d’oro – e non riuscirà certamente ora, con i chiari di luna che ci attendono – a trovare una nuova identità, o a ritrovare quella antica. I nostri sembrano luoghi destinati al transito, placide colline dove trascorrere al massimo una notte (ma non di più) prima di approdare alla Liguria o alle Langhe.

Sta di fatto che cessato l’iniziale sbigottimento per il rapido diffondersi del virus, e venuta meno anche l’euforia per l’inattesa possibilità di oziare o realizzare ciò che da tempo si rimandava, sembra ora insorgere una generale inerte apatia, indotta dalla consapevolezza che questa situazione andrà avanti per un bel po’. La maggioranza si sta piano piano abituando a seguire gli accorgimenti per rallentare la diffusione del Covid, mascherina e distanziamento in primis, sia pure con diversa convinzione, ma non ha comunque testa per progetti che vadano oltre il giorno dopo. Molti hanno già optato per una fatalistica convivenza col virus, sperando che non li becchi o che lo faccia almeno in forma leggera. Qualcuno poi nega l’esistenza del problema o se ne frega, ma di questi non vale nemmeno la pena parlare, sono lo scotto (pesante) da pagare all’imperfezione e alla specificità umana: solo gli uomini possono essere stupidi.

Per quanto mi riguarda personalmente, constato che l’esigenza del distanziamento ha accentuato in me – ma credo di essere in buona compagnia – una preesistente difficoltà nello stare con gli altri. In effetti, non è che fino a mesi fa fossi un trascinatore di folle, che emergessi per acume o simpatia e che mi trovassi a mio agio nei momenti conviviali: ma sicuramente tolleravo meglio lo stare in mezzo agli altri (a piccole dosi, e in situazioni mediate sapientemente da mia moglie, che catalizzava su di sé le attenzioni). Ora avverto invece quanto sforzo mi costi il riannodare le relazioni con parenti, amici e colleghi: come se l’interesse fosse scemato, lasciando il posto ad una fatica – quasi fisica – a dialogare e manifestare un coinvolgimento.

Prima della clausura una constatazione del genere l’avrei risolta convincendomi che se quelle relazioni si erano concluse un motivo c’era, e che si trattava in fondo di una liberazione. Oggi, alla luce di questo forzato isolamento, devo invece ricredermi sulla loro importanza: in fondo sono esse a creare quell’humus sociale cui attingere nei momenti di solitudine, frustrazione e tedio, quelli appunto che l’attuale stato ci impone. Anche se si tratta perlopiù di legami utilitaristici, di circostanza o di sangue, tutti assieme intessono una sia pur fragile rete di sicurezza, all’interno della quale emergono poi – per dimensioni e resistenza – le poche ma solide funi principali dei rapporti profondi, quelli che davvero rendono la vita sensata.

Le relazioni “futili” riguardano, ad esempio, il fruttivendolo che ti mette una pesca in più nella borsa; il sino a ieri ignorato vicino, che ora mi parla del suo nuovo pavimento in cucina; il sorriso del pizzaiolo che non vedevo da mesi, in quanto anche la pizza mensile familiare era preclusa; la collega che dimostra interesse per le vacanze delle mie figlie, magari mentre sta pensando a come chiedermi le ferie o quale futuro lavorativo avremo (come se fossi un indovino). Bene, tutte queste effimere interazioni plasmano continuamente la personalità, in quanto generano esperienze.

Negli ultimi mesi anche queste relazioni apparentemente inutili si erano rarefatte, così come quelle importanti, in ragione del distanziamento. Purtroppo non hanno trovato in quel periodo adeguate sostitute che garantissero pari appagamento: non c’è social, media o videochiamata che possano rimpiazzare lo sguardo diretto, la postura dei corpi o il contatto fisico, in fin dei conti “la carne” dei nostri simili. Sia chiaro, non sono un caso Weinstein, ma ho aperto necessariamente gli occhi (come molti) su quanto esprimiamo di noi stessi con una stretta di mano, con lo sfiorare una spalla; persino nell’abbracciare e baciare diciamo molto di più di quanto potrebbero fare le parole.

Ci ho riflettuto. Fin da neonati capiamo come gira il mondo attraverso i sensi, in particolare con il tatto, e con quelli cerchiamo di stare al passo. Si sa che la sua privazione ha gravi conseguenza sulla salute, specie per gli infanti. Diventati adulti, escogitiamo altri linguaggi per comunicare le nostre intenzioni, riservando quello fisico solo alle persone più intime. Ebbene: questi mesi di privazione ci hanno dimostrato che siamo sì cresciuti, ma rimaniamo dei lattanti deprivati di un bisogno primario: il contatto fisico con i nostri simili.

Oggi abbiamo imparato che il virus infetta proprio attraverso queste interazioni, fisiche o sociali che siano. E lo si vede dall’incremento dei contagi di questi giorni, causato dalla spensieratezza (leggi “idiozia”) vacanziera. Quindi, senza relazioni il virus morirebbe, ma lo seguiremmo a ruota pure noi, poiché da esse dipendiamo e proprio esse ci caratterizzano. Dobbiamo inventarci una misura di mezzo.

Inoltre, la comparsa della pandemia ha sconvolto non solo i modi dello stare assieme, ma anche la percezione dello scorrere del tempo. Ne impieghiamo molto di più per realizzare ciò che fino a pochi mesi fa sbrigavamo velocemente, fagocitati in una corsa continua: dalla fila per fare la spesa alle interminabili call lavorative, dal cercare di metter giù due idee (come sto facendo ora) al sistemare la legna per l’inverno.

Le restrizioni esterne e lo smarrimento interno ingenerano, come dicevo all’inizio, l’apatia: una non-volontà che ci attanaglia perché le certezze sedimentate nelle nostre vite (e nelle generazioni precedenti) sono state spazzate via. Alla faccia di chi plaude incondizionatamente al rallentamento, però, questa non è una forma di serena tranquillità: nell’apparente stasi fisica e mentale, il nostro cervello cerca in realtà incessantemente una via d’uscita dal pantano, vorrebbe individuare differenti ed originali sicurezze. È vero che non sapendo quando e come ne usciremo viviamo in uno stato di perenne apprensione, e nella speranza di una veloce soluzione (il vaccino?) cui affidarci. Ma sappiamo ormai che una iniezione assolutoria non risolverà i problemi che ci portavamo dietro anche prima, e che hanno condotto a questa attualità.

Forse il grassone spiaggiato sul piazzale non è lì a spronarmi per la sistemazione della legna, ma semplicemente si gode il sole (e i ceppi si seccano), nella consapevolezza quasi mistica dello scorrere placido del tempo: ci attende un inverno lunghissimo, prima del ritorno della primavera. Le rondini non le porterà certamente il vaccino: ma almeno ora abbiamo la consapevolezza (coloro che ce l’hanno, naturalmente) che quello di prima non era il modo ideale di vivere. Forse è ora di assumerci la responsabilità di qualche significativo cambiamento.

Cambiare è sano, inevitabile e funzionale alla vita stessa. Possiamo negare l’evidenza della mutazione, ma avverrà comunque.

Quindi, caro grassone, goditi il sole perché, al primo temporale, ti sistemo io …

Collezione di licheni bottone

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Ma che bella giornata!

di Paolo Repetto, 23 giugno 2020

Scendo con la borsa dei rifiuti domenicali. Il cassettone della plastica è, come al solito, strapieno. Ai suoi piedi sono depositati una decina di sacchetti o di scatole di cartone stipati di ogni cosa. Faccio quattordici passi e arrivo all’altro contenitore, al lato opposto dell’esile striscia di “verde pubblico”. È praticamente vuoto. Sono undici metri esatti: lo so perché un tempo mi allenavo a battere i rigori, e la distanza la misuravo appunto in quattordici passi.
Per recuperare l’auto percorro un tratto di marciapiede lungo lo spalto. Lo scorso anno era presidiato da un simpatico e attivissimo ivoriano, armato di raspino e di paletta, col quale ci siamo anche bevuti un paio di caffè e che avrebbe potuto essere l’uomo ideale per la manutenzione del Capanno e del terreno attorno. Il ragazzo non c’è più, qualcuno deve aver segnalato che lavorava e lo avranno immediatamente rimpatriato. Ora le erbacce possono finalmente esplodere nelle crepe del marciapiede, dandoti la gioiosa sensazione di camminare in un sentiero di campagna. Quanto meno, nascondono le cacate dei cani portati a passeggio (avevo già scritto deiezioni, ma è troppo heideggeriano), così che uno le possa agevolmente calpestare ed apprezzare.
In compenso, al primo semaforo è ricomparso il tizio che passa di auto in auto col bicchierino di plastica per l’obolo. Ormai fa parte della segnaletica, ha memorizzato perfettamente i tempi, quando si ritira dalla strada puoi rimettere in moto. Un pulmino lo scarica puntuale ogni mattina assieme ad altri compagni di sventura e passa a recuperarlo la sera. Va avanti così da un paio d’anni. Tutto regolare, comunque: ha la mascherina. E intanto facciamo i flash mob contro lo schiavismo.
Percorro il viale che porta fuori dalla città. È stato appena riasfaltato, dopo essere rimasto chiuso per sei mesi per l’interramento dei cavi della banda larga. Il tempo sufficiente ai cinesi per costruire un’autostrada transafricana da un oceano all’altro. Qualcosa non ha comunque funzionato nella stesura del nuovo manto, perché sembra una pista da cross. A percorrerlo in bicicletta c’è da lasciarci la prostata, ma anche in macchina è una bella prova, sia per gli ammortizzatori che per le reni del conducente.
Alla rotonda finale un idiota inverte le precedenze e per un pelo non si schianta contro un’utilitaria. Non accenna minimamente a scusarsi e fila via sgommando. Vedo nel retrovisore che la ragazza sull’utilitaria, appena superata la rotonda, accosta di lato e scende a respirare. Se la deve essere fatta addosso.
Finalmente sono fuori città. Non accendo nemmeno la radio, non voglio sentir parlare di Conte o di Zanardi (siamo andati avanti per mesi, e ancora non è finita, con centinaia e centinaia di morti anomale e anonime ogni giorno: tutto questo clamore mi sembra un tantino fuori luogo). Voglio godermi il sole di una mattina radiosa, l’aria ancora frizzante e lo spettacolo di una campagna riesplosa ormai da un pezzo. Quest’ultimo però è un po’ disturbato. Nelle cunette ai lati della carreggiata l’erba è alta quasi un metro, e subito al di là c’è una vera e propria striscia di foresta incipiente che copre la vista sui campi. I proprietari decespugliano fino al limite del coltivo, la provincia ripulisce, quando lo fa, solo un metro di margine, rimane la terra di nessuno intermedia, libera di pullulare rigogliosamente e di occultare le schifezze lanciate dai finestrini. Tempo fa avevo proposto di organizzare per i cantonieri provinciali delle gite di istruzione in Austria, perché si vergognassero alla vista delle cunette rasate e pettinate ogni mattina, e per i coltivatori, che là saranno anche pagati per tenere in ordine i terreni, ma almeno lo fanno.
In compenso la strada è rimasta esattamente come lo scorso anno. Durante tutto l’inverno non è sceso un solo fiocco di neve, per cui le buche sono ancora quelle, solo un poco più profonde, perché ulteriormente erose dalla pioggia. Mentre mi esercito in uno slalom che ormai non è nemmeno più eccitante, perché conosco a memoria il tracciato ideale e gli ostacoli, ripenso a ieri sera. Sono andato a prendere mia figlia alla stazione, in tarda serata. Nel piazzale antistante ho assistito ad una lite tra un paio di ragazze di colore e tre loro connazionali che per certo non appartenevano all’esercito della salvezza, con urla e pianti e minacce. Nell’atrio della stazione due poliziotti non si sono lasciati distrarre, hanno continuato a presidiare stancamente lo sbocco del sottopassaggio, dal quale peraltro non sbucava nessuno, perché i treni erano regolarmente tutti in ritardo. Per fare un flash mob eravamo decisamente pochi.
Sotto la pensilina esterna dove ero tornato per fumare, visto che i treni se la prendevano con calma, tre teppistelli di età e di provenienza incerta, di quelli che portano il cavallo dei pantaloni sotto le ginocchia, stavano motteggiando con toni pesanti una ragazza visibilmente impaurita, implorante nervosamente qualcuno che avrebbe dovuto venire a prenderla ed era meno puntuale ancora delle ferrovie dello stato. Le ho fatto cenno di mettersi di fianco a me e ho provato ad incenerire con gli occhi, al di sopra della mascherina, quegli idioti. Qualcosa del disprezzo e della rabbia che mi agitavano deve comunque essere venuto fuori, perché si sono allontanati, sia pure sghignazzando e sputacchiando a destra e a manca, e centrando in pieno il parabrezza dell’auto di un’attempata signora che guidava col finestrino abbassato.
Quando ho recuperato Elisa la mia gamba destra stava ancora ballonzolando, e questo è sempre stato per me il segnale d’allarme del punto di rottura. Prima che ora la gamba riparta nuovamente cerco di cambiare registro, di riandare a cose più piacevoli. In mattinata ero tornato, dopo quattro mesi, al mercatino di Borgo d’Ale. Un sacco di gente, pochi vuoti anche nelle file dei banchi. Bene organizzato, tutti con la mascherina, igienizzanti per le mani dovunque, percorsi a senso unico lungo le file, guidati da enormi frecce bianche dipinte per terra, per evitare i contatti da incrocio. Peccato soltanto che nessuno li rispettasse.
A questo punto devo interrompere bruscamente il filo dei ricordi per inchiodare e lasciar rientrare un demente che mi sta superando in piena curva. È la stessa nella quale lo scorso anno ho scansato per miracolo un altro demente che stava facendo l’analoga bravata in senso opposto. Ormai sono però quasi in vista di Lerma. Ai lati scorre una fila di capannoni industriali uno più brutto e più fatiscente dell’altro. Ne conto trentaquattro, altri sono nascosti nella parte verso il fiume da provvidenziali macchie d’alberi. Di quelli che ho registrato almeno una dozzina sono abbandonati, qualcuno non è mai andato oltre lo scheletro. D’altro canto, qui tutti sanno che per la gran parte la vera destinazione d’uso non era quella sopra la superfice, ma quella sotto. Un paio d’anni fa l’ente che si occupa dei controlli ambientali ha registrato la presenza di strane sostanze nelle acque del Piota, che a monte di questo insediamento industriale non riceve scarichi di alcun tipo. Ma nessuno si è preso la briga di fare due conti e tirare le somme. In compenso noto che stanno invadendo un altro campo nel quale l’ottobre scorso c’era ancora il granoturco, e livellando il terreno. Chissà quanti rifiuti tossici si sono accumulati in questo periodo, a dispetto della quarantena.
Finalmente lascio la piana e salgo verso il paese. La manutenzione dei bordi della strada è sempre la stessa, ma qui non ci si fa più caso, è la natura che si riconquista i suoi spazi e può persino andar bene. Un ultimo sobbalzo all’ingresso in paese. Sul primo muretto, là dove fino a ieri c’era la scritta “W Bartali”, adesso c’è un logo indecifrabile tracciato con le bombolette spray. Ma stanno rimuovendo il vecchio intonaco, sparirà anche quello.
Quando scendo dall’auto, in cortile, e rivedo le mie piante di rose totalmente spoglie, e le peonie rinsecchite e minuscole (le noto perché lungo tutto il percorso ho visto roseti incredibili traboccare dalle recinzioni delle villette, con fiori grandi come piatti da portata e dalle sfumature di colore più stupefacenti), mi accorgo con sorpresa che sono totalmente rilassato. Davvero mi sorprendo, perché oggi lungo il percorso e ieri in Alessandria di rilassante non ho visto granché.
Poi, mentre salgo le scale di casa, finalmente capisco. Ora so il perché di questa sensazione di tranquillità. È che ho constatato come, al di là di tutte le profezie e le previsioni e le analisi socio-psicologiche, in questi quattro mesi nulla e nessuno è davvero cambiato, tranne forse me, che sono invecchiato di colpo di altri dieci anni. Certo, nel futuro prossimo ci saranno crisi economiche, nuove ondate pandemiche, proteste magari violente, ma noi nella sostanza siamo rimasti gli stessi. Non è necessario reggere cinque minuti di un notiziario o di una qualsiasi trasmissione televisiva per capirlo. Tutto è esattamente come prima, magari un po’ peggio.
In effetti la mia non è tranquillità, ma rassegnazione: e tuttavia, egoisticamente, significa che non sarà il caso di caricare le povere ossa di rinnovate speranze e illusioni. Il legno storto di kantiana memoria continuerà a crescere sghembo, fino a che gli sarà consentito crescere, e per me si tratterà invece di resistere solo un altro poco. Per adesso però mi godo questa splendida giornata di sole. Senza mascherina.

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Alzek Misheff e il compito di Enea

Come se fosse

di Paolo Repetto, 22 maggio 2020

Chi scrive su questo sito (anche chi – come il sottoscritto – scrive decisamente troppo, soprattutto in questi ultimi tempi: tra gli effetti collaterali del Covid-19 va annoverata anche la logorrea) non lo fa per potersi rileggere ogni tanto e congratularsi con se stesso. Il sito non è la vetrina delle nostre vanità o la palestra delle nostre velleità. Se così fosse, avremmo ceffato di gran lunga la ribalta (se preferite, la “location”). È invece, o almeno vorremmo che fosse, l’agorà virtuale nella quale sperimentare e testimoniare la possibilità di incontri e relazioni e scambi spontanei e intelligenti: il luogo insomma di quel famoso “come se” che ciascuno interpreta un po’ a suo modo, ma che in sostanza è la società, o la comunità, nella quale ci piacerebbe vivere. Il divertimento, è innegabile, sta già nel tentativo di immaginarla, questa società: se così non fosse, avremmo chiuso da un pezzo. Ma è più che naturale che a motivarci sia sempre stata anche la speranza di trovare degli interlocutori, qualcuno che leggendoci si senta a sua volta motivato a esprimersi, a concordare con le nostre idee o a discuterle, che è poi la stessa cosa, a proporre uno sguardo diverso sulle stesse cose o lo stesso sguardo su cose diverse: che ci induca comunque a riflettere e a non sederci sulle nostre convinzioni.
A tale speranza, lo ammettiamo, ha sempre fatto da contraltare il timore di una deriva scomposta, come quella paventata qui di seguito da Carlo Prosperi, dello scadimento nella chiacchera, o peggio, nella rissa becera che sembra l’inevitabile esito finale di tutti i blog. Per questo motivo, e anche per le difficoltà tecniche di controllare uno spazio totalmente aperto, non abbiamo fatto del sito un libero pascolo: e in questo modo siamo intenzionati a continuare a gestirlo. Ma, e questo è un altro effetto, in questo caso virtuoso, del virus, abbiamo potuto registrare, proprio nel periodo più nero della crisi e in mezzo alla chiacchera dilagante, voci nuove e intelligenti che ci hanno eletti come interlocutori. Continuiamo quindi a darvene conto, a proporle come esempi di quel dialogo franco e corretto che sta alla base di ogni civile convivenza e, non poniamoci limiti, di ogni vera amicizia. La speranza, a dispetto dei tempi, ha alzato il livello delle sue aspettative: quella attuale è che il dialogo continui e si allarghi a voci sempre nuove. La più recente è quella appunto di Carlo, che non ha bisogno di presentazioni: si presenta egregiamente da solo con questa sua missiva e con le penetranti riflessioni svolte a margine di una mostra orfana, per sua fortuna, di Sgarbi.


Stupirsi di tutto

di Carlo Prosperi, 27 aprile 2020

Carissimo, ho ricevuto quest’oggi il tuo graditissimo messaggio, con il ricco corredo dei tuoi scritti, sempre acuti e liberi (per quanto possano dirsi liberi i nostri punti di vista, sempre ancorati a un retroterra – esistenziale, culturale, sentimentale, ideale, ecc. – che, più o meno consciamente, li ispira – stavo per dire: li nutre – e li condiziona), piacevoli e quasi sempre interessanti. Io non sono un patito del web, anzi, per quel poco, pochissimo di esperienza che ne ho, lo trovo una sentina in cui si annidano i moderni spettri heideggeriani della “chiacchiera”, della “curiositas” e dell’“equivoco”. Preferisco frequentare i miei classici, i miei maestri. O gli amici che – come te – apprezzo per il loro spirito critico, non fazioso, non sentenzioso, non apodittico, bensì problematico, aperto al dubbio: che fanno pensare. Condivido molte, moltissime delle considerazioni che la lunga quarantena ti ha suggerito (in particolare, la risposta a Baricco, del quale non ho la tua stima, a cominciare dallo scrittore, che trovo melenso. Tu stesso, del resto, finisci per… demolirlo. Ciò detto, si può imparare da chiunque ed io, come Gramsci, – si licet -, mi vanto di saper “cavare il sangue anche dalle rape”). Qualcosa del genere ho fatto anch’io nella mia quotidiana corrispondenza con i miei amici (ma non ne serbo copia o memoria) o negli “appunti di lettura” che da un paio di anni – visto la fallacia della memoria – mi sono messo a tenere (cose molto personali: una specie di diario che prende spunto dai libri, dai saggi, dai romanzi e dalle poesie che leggo). So bene che Machiavelli, prima di “entrare nelle antique corti degli antiqui uomini”, si intratteneva e “s’ingaglioffava” all’osteria di San Casciano con quelli che lui definiva “pidocchi”: il web ne potrebbe essere un moderno surrogato, utile per saggiare e conoscere le diverse maniere e le diverse fantasie della fauna umana. Ma la vita è così breve che preferisco, oggi, evitare di perdere tempo con grafomani, mitomani ed esibizionisti di vario genere, con i loro turpiloqui e le loro sgangherate opinioni. Mi basta e, ahimè, mi avanza la mia biblioteca. Credimi: il mio non è elitario disprezzo; tanto più che le mie origini, di cui sono orgoglioso e di cui mai mi dimentico, sono più umili delle loro. Né, per quanto mi sia impegnato, presumo di averne capito – della vita, del mondo, della realtà – più di loro. Anzi, mi riconosco nell’auto-epitaffio di Xavier de Maistre, che ti cito: Ci gît, sous cette terre grise / Xavier, qui de tout s’étonnait; / demandant d’où venait la bise / et pourquoi Jupiter tonnait. / Il étudia maint grimoire, / il lut du matin jusqu’au soir / e but enfin à l’onde noir / tout surpris de ne rien savoir.* Che è poi saggezza socratica. Dai tuoi scritti, di cui spero, quando che sia, di avere da te un esemplare a stampa, mi vengono molti stimoli e mi sono sorpreso di avervi trovato citato Lawrence Durrell, di cui vado in questi giorni rileggendo il celebre “quartetto di Alessandria” (avevo comperato i libri al tempo del Liceo, ma non ne avevo allora apprezzato la genialità, forse non li avevo nemmeno capiti, a giudicare da qualche postilla a margine dell’epoca). È uno scrittore sontuoso e perspicace, di una finezza, psicologica e verbale, che oggi è merce rara. Leggere mi aiuta a vincere il senso di claustrofobia che a volte mi prende. Trovo assurde certe prescrizioni governative: mi dici, fermo restando l’invito a mantenere le distanze e magari a portare la mascherina in pubblico, che senso ha vietare di andare a passeggiare nei boschi, nei prati, a coltivare l’orticello fuori mano (nel nostro caso a Rivalta), a dare il verderame alle viti, a curare il giardino? Che senso ha la quotidiana imbonitura che ci propinano, ossessivamente, dalla tv? E la retorica arcobaleno, stupida e offensiva, di slogan come “Andrà tutto bene”, quando le morti di coronavirus si moltiplicano intorno a noi? “Andrà tutto a bagasce”, mi vien da rispondere. E la giornaliera minestra di menestrelli e di strimpellatori – questa è per loro la cultura – che ci dispensano? Per non parlare delle commissioni, dei comitati, delle “task-force” di tecnici e di esperti di cui si è circondato il governo per non assumersi le sue responsabilità e rimandare “sine die” o comunque prendere e centellinare senza la debita tempestività le proprie decisioni? Quanto agli esperti, mi sai dire donde viene la loro esperienza, se è vero – come è vero – che questa pandemia è un fenomeno inedito, mai prima sperimentato? Lo studiassero, in silenzio e con attenzione, prima di discettare su di esso, di cui tutto, o quasi, ignorano; prima di sparare stupidaggini come hanno fatto, tra i tanti, Stefano Montanari e Maria Rita Gismondo. E Colao? Sarà pur bravo, ma quali competenze ha sull’argomento? Non sarebbe il caso, visto l’andazzo dell’economia, di cominciare a risparmiare, invece di elargire propine a dubbi esperti? Qui poco c’entrano le competenze, molto il buon senso. Sulla tecnologia, da sempre ancipite, la penso come te; sulla scienza, che non ci dà certezze, ma procede per congetture e confutazioni, la penso come Popper. Condivido con te che sia una pia illusione quella di confidare in un miglioramento dell’umanità, in un cambiamento di mentalità e di stile quale esito di questa crisi: temo che, a parte l’impoverimento generale, non vedremo grandi metamorfosi e nemmeno significative resipiscenze. Tra un po’ saremo solo più feroci di prima… Ma non voglio tediarti oltre. Ti mando un articolo, che uscirà sul prossimo numero de “L’Ancora”, in cui potrai, fra le righe, vedere come la penso su vari temi che ti hanno ispirato. Un abbraccio, fraterno ma virtuale (di questi tempi non si sa mai), e a presto.

Qui giace, sotto questa terra grigia, / Xavier, che di tutto si stupiva; / chiedendosi da dove arrivasse la tramontana / e perché Giove tuonava. / Studiò ogni libro sapienziale, / lesse da mattina a sera / e arrivò infine all’onda nera / sorpreso di non sapere ancora nulla.

Alzek Misheff e il compito di Enea

di Carlo Prosperi

Al vedere i 9 interni di Palazzo Thea di recente realizzati da Alzek Misheff in verderame e matita, siamo rimasti ammirati sia della sapienza tonale sia dell’impaginatura che dà respiro agli ambienti e nello stesso tempo ne sa rilevare le strutture architettoniche e la stratificazione storico-culturale. La dimora aristocratica sopravvive alle generazioni che tuttavia le imprimono il loro sigillo e ne preservano l’aura. È lo specchio della Tradizione, che non è un fossile, ma un lascito di valori da declinare in sintonia coi tempi, un patrimonio che dal passato si protende dinamicamente verso il futuro, garantendo una continuità e prospettando un senso, contro la marea montante del nichilismo. In un rifiuto tanto dell’idolatria quanto dell’amnesia del passato, visto e vissuto come sprone di emulazione, come esempio da attualizzare: in vista di egregie cose o, come si suol dire, ad maiora.
Crediamo che non si comprenda appieno l’intenzione dell’artista se non si tiene conto dei tempi che stiamo vivendo. E della sua stessa parabola evolutiva, dall’avanguardismo più spinto alla ragionata riscoperta della tradizione, che ha il carattere di una palinodia. Dovessimo ricorrere a un’immagine esemplare, per farci capire, non sapremmo trovare di meglio che evocare quella di Enea in fuga da Troia, immortalata da pittori come Raffaello e Federico Barocci, da scultori come Bernini e Chia. Enea che regge sulle spalle il padre Anchise e mena per mano il figlioletto Ascanio è simbolo di una pietas sempre più rara. Dietro di sé l’eroe troiano lascia una città devastata, in fiamme, davanti a sé ha un futuro quanto mai aleatorio, ma sa che per dare un futuro al figlio deve farsi carico del passato: del padre e dei Penati che egli reca con sé.
Si dice che il poeta Giorgio Caproni traesse ispirazione per il suo poema Il passaggio di Enea da un gruppo statuario di Francesco Baratta da lui casualmente intraveduto nel 1948 a Genova, tra le macerie della città bombardata. Quella scultura lo colpì, perché rifletteva la drammatica incertezza del tempo, sospeso tra le rovine di un passato che rischiava di andare perduto per sempre e l’angoscia di un futuro estremamente fragile e precario. Enea cerca insomma di salvare il salvabile e, tutto preso dal senso del dovere, si avvia, anche a costo di smarrire la moglie (l’amore), verso un imbarco, nella speranza di trovare «un altro suolo». Ecco, ci sembra che Misheff rappresenti al meglio lo spirito di Enea, che lo incarni anzi, rinnovandolo, alla luce dell’attualità.
Il suo discorso muove da una aperta critica alla modernità e a quella sua (in)versione in negativo, se fosse possibile, che è la post-modernità. Se il moderno aveva negato la Tradizione, il postmoderno – che è la negazione della negazione – inizia quando la modernità ha distrutto tutti gli aspetti premoderni. La postmodernità – a dire di Aleksandr Dugin, “un futuro che è già presente” – è l’apocalisse della civiltà, “una forma di satanismo e di nichilismo in cui proliferano il politicamente corretto, l’ideologia gender, il femminismo e il post-umanesimo”. La modernità è fiorita sull’oblio dei padri, prima rinnegati e poi uccisi. In nome di quelle “magnifiche sorti e progressive” già irrise da Leopardi: in nome cioè di una forsennata volontà di potenza, di un progresso senza limiti e senza misura.
Walter Benjamin ne ha dato una impeccabile illustrazione: «C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».
Ebbene, nonostante queste e altre sinistre premonizioni, si è fatto finta di niente, si è continuato in una sfida faustiana che ha portato a due guerre mondiali, a immani carneficine. Illusi dalla tecnologia trionfante e convinti di essere finalmente padroni del proprio destino, gli uomini hanno prima brindato alla “morte di Dio” e poi si sono votati al “vitello d’oro”, idolatrando il Mercato, il consumismo, la moda. La moda è lo specchio fedele della modernità che si autodivora, che di continuo deve rinnegarsi per sussistere, un’immagine di quella che Hegel giustamente chiamava “cattiva infinità”. L’assurdità di una economia basata sul circolo vizioso produzione-consumo è la stessa del cane che si morde la coda.
Nel deserto dei valori – ma già siamo nella post-modernità – l’unico valore superstite è quello della merce: il valore di scambio. Il mercato mondiale è stato prospettato come preludio alla pace universale, superamento dei confini, cancellazione delle barriere. Si è così avviato un processo di globalizzazione finanziaria, economica, tecnologica e culturale che ha portato alla disgregazione delle comunità tradizionali, alla rottura dei legami sociali familiarmente consolidati, a quella “confusion de le persone” che per Dante è sempre “principio […] del mal de la cittade”. Dimenticando che, quando la natura dei legami sociali è percepita come estranea, gli uomini si sentono inibiti alla piena realizzazione di sé. Già Isaiah Berlin aveva intuito l’astrattezza e l’artificialità, soprattutto in ambito morale, degli appelli all’universalità. Specialmente quando presuppongono la cancellazione dell’identità. O ad essa preludono.
La modernità ha sradicato gli individui dalle comunità di appartenenza, ammassandoli nei falansteri urbani, riducendoli a numeri, a tessere anonime di un mosaico informe, privandoli dell’anima. Ci si è così dimenticati dell’ammonimento di Bergson, che già agli albori del ’900 auspicava proprio “un supplemento d’anima” quale antidoto alla umana perdita d’identità nell’epoca dominata dal progresso tecnologico. Ci si è illusi che bastasse il benessere a riempire il vuoto esistenziale, ignorando che non di solo pane vive l’uomo. “Dategli, all’uomo, – diceva Dostoevskij – tutte le soddisfazioni economiche in modo tale che non abbia alcuna preoccupazione che dormire, mandar giù brioches e darsi da fare per prolungare la storia universale, riempitelo di tutti i beni della terra, e immergetelo nella felicità fino alla radice dei capelli: alla superficie di questa felicità, come su quella dell’acqua, scoppieranno delle piccole bolle”. È appunto quello che sta avvenendo.
Nella tracotanza con cui l’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio c’è alcunché di luciferino. Si pensi alle odierne megalopoli, a quegli avveniristici grattacieli che stanno fiorendo, spesso per volontà di nuovi satrapi, come suadenti fleurs du mal, frammezzo allo squallore che li circonda, da New York a Dubai, da Baku a Shangai, da Astana a Bangkok. Si pensi al Bosco Verticale progettato dallo Studio Boeri nel Centro direzionale di Milano, ai margini del quartiere Isola. Siamo di fronte a nuove torri di Babele, a sfide che suonano oltraggio: al buon senso prima ancora che a Dio. Un certo capitalismo ha sradicato l’uomo dalla Natura, ne ha esaltato il carattere prometeico, ma questa hybris preannuncia e prepara – come ben sapevano i Greci – la catastrofe.
Via via che “la gabbia d’acciaio” della modernità si è imposta, con lo sviluppo della scienza e della tecnica, con il distacco dalla terra, con l’esodo dalla campagna, con l’affermazione delle varie rivoluzioni industriali (e post-industriali) che si sono susseguite, lo sradicamento degli individui si è intensificato. L’urbanesimo ha fatto il resto. Una diaspora di atomi ha fatto seguito al declino delle comunità. Gli individui, così sradicati, sono stati ridotti a numeri, a codici, a esseri anonimi, senza qualità. Dove sono finiti – si chiedeva Garcia Lorca in Poeta en Nueva York – gli oliveti, il mare, le campagne dorate, le conchiglie?
L’aurora di New York possiede / quattro colonne di fango / e un uragano di colombi neri / che sguazzano nell’acqua imputridita. // L’aurora di New York geme / su per le immense scalinate / cercando in mezzo agli spigoli / nardi di angoscia disegnata. / L’aurora arriva e nessuno l’accoglie nella bocca / perché là non c’è domani né speranza possibile. / Talvolta le monete fitte in sciami furiosi / traforano e divorano bambini abbandonati. // I primi ad affacciarsi comprendono nelle ossa / che non avranno l’eden né gli amori sfogliati; / sanno che vanno al fango di numeri e di leggi, / a giochi privi d’arte, a sudori infruttuosi. / La luce è seppellita da catene e frastuoni / in impudica sfida di scienza senza radici. / Nei quartieri c’è gente che barcolla d’insonnia / come appena scampata da un naufragio di sangue”.
È di qui – crediamo – che bisogna partire per comprendere l’ultimo Misheff e i suoi interni domestici. Questi nascono infatti contemporaneamente e in dialettica antitesi ad altre sue opere dedicate a folle oceaniche angosciate sullo sfondo di città-simbolo (New York, Parigi, Milano), in attesa o in procinto di essere travolte da uno tsunami devastante, da un turbine vorticoso. Folle solitarie, senza identità, sullo sfondo di città alveari, di città formicai, delle quali solo Caino poteva essere il fondatore. In queste opere di Misheff si avverte l’eco di un dramma collettivo che trova analogie nell’Ansia e nell’Urlo di Edward Münch, nelle “maschere” di James Ensor, in altre opere d’area simbolistico-espressionistica. L’espressionismo – dal latino exprimere – riflette infatti sull’esterno uno stato d’animo generalmente perturbato e commosso, così che a dominare è sempre un senso di marcata solitudine, anche quando ad essere raffigurata è una moltitudine di persone. Il simbolismo mira invece a imprimere carattere esemplare, di universalità, a quanto vi può essere di (auto)biografico o di aneddotico in un’opera. Ed è a questo, appunto, che mira Misheff, con tecnica peraltro affatto personale, nei suoi ultimi lavori nati all’ombra del flagello biblico del coronavirus.

    

Nell’insieme e mutatis mutandis, gli interni, austeri e maestosi ad un tempo, di Palazzo Thea ci ricordano le Antichità romane di Piranesi, la cui grandiosità dà l’idea dell’imponenza di una civiltà, di fronte alla quale gli uomini d’oggi tendono a scomparire o, se non altro, a passare in secondo piano. Perché è vero che, forti della potenza che si sprigiona dalla tecnica, abbiamo l’impressione di essere superiori ai nostri padri, di spingere il nostro sguardo più lontano e più a fondo di loro, ma non ci accorgiamo che questo non è merito nostro: ciò in realtà avviene – come aveva intuito l’acume di San Bernardo – perché, pur essendo noi dei nani, poggiamo sulle spalle di giganti. Non è un caso che per designare gli antenati i Latini usassero il termine di maiores. «Chi fuor li maggior tui?» chiede Farinata a Dante nel decimo canto dell’Inferno. È una domanda, questa, che anche noi dovremmo porci più spesso, magari solo per verificare se ne siamo degni eredi.
In tempi di clausura e – per alcuni, ahimè – di claustrofobia, la casa, oltre che ricettacolo di affetti e di memorie, può anche riassumere connotazioni sacrali. Non a caso il latino, con il termine aedes – da cui i nostri “edile”, “edilizia”, “edificio”, etc. – designava tanto la casa quanto il tempio. Ambedue spazi “augusti”. E d’altra parte che altro è il duomo, se non la domus dei Latini, nel senso di domus Dei, di “casa di Dio”? La casa è anche un asilo, dal greco asylon, “luogo inviolabile, dove non vige il diritto di cattura”: nido, quindi, e rifugio. Ma, per esser davvero tale, dev’essere ospitale, piena di attrattive, ingentilita dall’arte. Luogo d’intimità e di sublimità, dove le sister arts – la pittura, l’architettura, la musica, la scultura, la poesia e la letteratura (qui evocate dai libri, dalla libreria) – sono pronte ad accogliere, a consolare, a intrattenere, a prefigurare un “mondo nuovo e una terra nuova”, più umana perché meno obliosa del senso della misura, del limite, del giusto mezzo. La funzione, insomma, che nel Decameron del Boccaccio, durante la terribile “peste nera”, è demandata al racconto. La casa come buen retiro, come angulus da cui guardare al formicaio del mondo. Odi profanum volgus et arceo [“Odio il volgo profano e me ne tengo a distanza”], diceva infatti il grande Orazio, che dell’angulus fu sommo cantore.

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Camera con vista sul futuro

di Paolo Repetto, 9 aprile 2020

Da un mese e mezzo vivo confinato in un terrazzino al settimo piano. Fortunatamente è orientato a sud, e aggetta su un fazzoletto triangolare di verde, al di là del quale corre un ampio viale e si allarga poi una distesa periferica di costruzioni basse. Non mi è quindi impedita la vista in lontananza, a centottanta gradi, dei profili dell’Appennino retrostante Genova: del Tobbio, delle alture della Val Borbera e di quelle della valle dell’Orba. Consolazione magra, ma di questi tempi ci si aggrappa a tutto.

Più che all’orizzonte, però, anche per non rinfocolare troppo la nostalgia, quando alzo la testa dai libri guardo in questi giorni di sotto, in cerca di forme di vita che si muovano tra lo spalto e il rettilineo di via Testore e mi rassicurino che non è esplosa una bomba al neutrino. La via appare sgombra e inutilmente scorrevole, mentre di norma è intasata da auto in doppia fila, ed è vuoto e silenzioso anche il marciapiede sul quale estate e inverno sostano e schiamazzano gli avventori del bar (e proprietari delle auto in doppia fila), tutti rigorosamente col bicchiere in mano. Solo negli orari consentiti dal decreto c’è una piccola e compostissima fila davanti al minimarket d’angolo.

Quando riguadagno l’interno cerco di rimpicciolirmi il più possibile e di muovermi come un astronauta, lento e levitante. La condizione di quarantena impone naturalmente di trovare linee nuove di compromesso con lo spazio in cui vivi e con chi lo condivide con te. Tre persone per ventiquattro ore al giorno per cinquanta giorni sono più di tremilacinquecento persone, anche al netto delle uscite per i rifornimenti o per le mie mezz’ore quotidiane d’aria attorno all’isolato: uno sproposito, per ottanta metri quadri. A breve saranno a rischio di crollo i palazzi più ancora che i viadotti – anche se questi ultimi, pur sgravati del traffico, continuano allegramente ad afflosciarsi,). Diventa un’arte lo scansarsi.

Non solo: il “distanziamento sociale” induce a cercare nella televisione un surrogato di quel contatto con l’esterno che è venuto drammaticamente a mancare. Ti riduci, non fosse altro per l’aggiornamento sulle perdite giornaliere e sul progredire del contagio, a sedere davanti alla televisione, e stenti poi a rialzarti, perché in effetti non hai altro di urgente da fare. Insomma, se si conserva un po’ di coscienza critica si può verificare su noi stessi cosa significa rimbambimento depressivo.

Questo spiega forse perché mi sforzo di rappresentare invece la mia attuale condizione come un’opportunità, secondo la moda ormai invalsa di considerare opportunità qualsiasi disgrazia o accidente capiti. Non è facile, e infatti ci sto girando attorno senza risolvermi sin dall’esordio di questo pezzo: ma voglio provarci.

Mettiamola così: io godo di un punto d’osservazione privilegiato, rispetto a tutti gli amici che vivono in campagna o dispongono almeno di un piccolo giardino, e soffrono in maniera molto attutita gli “effetti collaterali” di questa crisi. Io vivo nel cuore della battaglia, come un reporter di guerra. Loro non sanno cosa si perdono, perché quando il tran tran quotidiano muta così drasticamente si attivano, per forza di cose, dei sensori diversi, e si colgono aspetti del reale che nella normalità sfuggono o appaiono assolutamente insignificanti.

Ora, senza pretendere a discorsi filosofici o ad analisi psicologiche o sociologiche, per i quali conviene rivolgersi ad altri, vorrei limitarmi a fornire qualche esempio di ciò che una condizione di normalità non ci indurrebbe mai a considerare significativo. Vado in ordine sparso, e lascio aperte queste pagine, come già i miei precedenti interventi antivirali, a ogni sorta di integrazione, correzione e aggiunta.

 

1)    Parto proprio dalla televisione. Non mi sarei mai atteso di scoprire attraverso la tivù quanto è grande il patrimonio librario degli italiani. Con questa storia dello streaming, per cui si interviene da casa, vedo fiorire ovunque insospettabili librerie domestiche. Mi si obietterà che è abbastanza normale, uno non si collega dando le spalle al lavandino della cucina o alla cassetta dello sciacquone, ed è vero: ma vi invito a fare caso, nel corso dei collegamenti, non all’intervistato, che in genere non ha granché di interessante da dire, ma al tipo di scaffalature che ha alle spalle e alla disposizione dei volumi, anche senza cadere nella mia maniacale pretesa di riconoscere dal dorso le case editrici, e quindi gli orientamenti culturali del proprietario, o di leggere addirittura i titoli (questo si può fare meglio sul monitor del computer, ingrandendo e mettendo a fuoco i particolari). A volte il gioco è davvero mal condotto. Ieri ho visto una povera Billy nella quale pochi volumi totalmente anonimi, tipo quelli usati dai mobilieri nelle esposizioni, erano sparsi in assembramenti ridottissimi su ripiani per il resto desolatamente vuoti (non c’erano nemmeno vasi o teste di legno africane o altre suppellettili), e questo solo nella colonna immediatamente alle spalle del parlante. Avendo il tizio calibrato male l’inquadratura si scorgevano le colonne ai lati completamente deserte.  Penso che a un certo punto abbia preso coscienza dell’assurdità della situazione, o qualcuno gliela abbia fatta notare, perché ha cominciato a impappinarsi e ha chiuso frettolosamente il collegamento. Sono rimasto con l’angoscia per quegli scaffali vuoti.

In altri casi, invece, regìe più accorte predispongono una inquadratura di sghimbescio, facendoci intravvedere infilate di scaffali grondanti libri lungo tutta una parete. In realtà ci tolgono l’unico piacere, quello appunto del gioco al riconoscimento.  Si tratta in genere di filosofi o liberi pensatori. I rappresentanti della vecchia guardia, le figure istituzionali, si coprono invece le spalle con solide enciclopedie, trentacinque volumi tutti uguali e tutti ugualmente intonsi, forse per mantenere un profilo neutrale, o trasmettere un’immagine di solidità, ma più probabilmente perché non possono esibire altro. Mentre i direttori di riviste e quotidiani sono preferibilmente incorniciati dalle raccolte cartacee delle loro creature, alla faccia di tutti gli archivi digitali, o dalle intere collane edite in allegato. Insomma, tutto piuttosto pacchiano. C’è un futuro per giovani che volessero specializzarsi in Scenografia delle Screaming, anziché in Storia. Elisa ha perso un’occasione.

Comunque, non mi si venga a dire che l’editoria è in crisi. Non so se gli italiani leggono, ma senz’altro hanno comprato libri. Forse lo hanno fatto recentemente, avendo sentore della crisi e prevedendo i collegamenti in remoto. Ma lo hanno fatto.

In compenso, mia figlia Chiara, che lavora in Inghilterra nel settore finanziario, mi racconta che nelle videoconferenze i suoi colleghi si presentano quasi sempre dando la schiena a quadri di autori in qualche modo riconoscibili e riconosciuti (almeno a livello locale). In Inghilterra va l’arte, in Italia la letteratura (ma proprio stasera, nel salotto-streaming della Gruber, alle spalle della vicepresidente della Confindustria campeggiava un’opera di Gilardi, mentre dietro tutti gli altri convitati virtuali le librerie sembravano in terapia intensiva, tanto il loro respiro era artificiale).

Mi sono anche chiesto come me la caverei io, dovendo collegarmi da casa (non dal terrazzino di Alessandria, ma da Lerma). Sarei in grave imbarazzo, perché in qualunque ambiente e da qualsiasi angolatura avrei alle spalle libri, e tutti libri ai quali tengo e che farebbero la gioia di un riconoscitore, nonché scaffalature autoprodotte. Quindi, o dovrei programmare una serie di interventi con inquadrature diverse, o sarei tenuto per equità a rinunciare. Forse mi conviene adottare quest’ultima soluzione.

 

2)   Per dimostrare che non sono poi così prevenuto nei confronti della televisione, eccomi a riconoscerle dei meriti, quando ci sono. Uno dei più grandi, nella gestione di questo terribile momento, è senz’altro l’oscuramento di Sgarbi. Lo stiamo pagando ad un prezzo altissimo, trattandosi tra l’altro solo di una parziale e tardiva riparazione a una schifezza che andava avanti da anni, ma insomma, aggrappiamoci anche alle piccole consolazioni. Se assieme al virus avessimo dovuto sopportare anche lui la tragedia sarebbe diventata del tutto insostenibile. Rimane purtroppo il timore che non appena cessata l’emergenza possa ricomparire. Dicono che usciremo da questa prova migliori: bene, il suo ritorno o meno sui teleschermi sarà la cartina di tornasole.

 

3)   Un altro merito della tivù è quello di aver dato fondo al magazzino dei film western (quelli veri, intendo). Purtroppo però sto scoprendo che li avevo già visti tutti, e non solo la gran parte, come pensavo. Mara si diverte, ogni volta che durante lo zapping si imbatte in un cappello a larghe tese e in un cavallo, a chiamarmi per verificare se lo riconosco, e a sentirsi elencare all’istante titolo e interpreti, spesso anche il regista. A molti questo esaurimento delle scorte non parrà una cosa di particolare rilievo, ma per me lo è. È sintomatico, simbolico di un ciclo che si è esaurito e di un mondo che ha fatto il suo tempo. Può andare definitivamente in archivio (non mi riferisco solo al western). Il fatto è che dentro quel mondo ci sono anch’io.

 

4)   Cambiano i rituali. Fino a un paio di mesi fa nella mia liturgia mattutina, subito dopo il caffè e la prima sigaretta, veniva il siparietto di Paolo Sottocorona, con le previsioni meteo fino a due giorni avanti, offerte con garbo e ironia, sottintendendo sempre: “se non andrà proprio così non prendetevela con me, faccio quello che posso”. Ho smesso completamente di seguirlo, anche perché di come sarà il tempo nei prossimi due giorni non mi può fregare di meno, visto che li trascorrerò comunque in casa. Ho introdotto invece un rituale vespertino, quello del collegamento con la Protezione Civile, con tanto di snocciolamento delle cifre dei contagi e dei decessi. So che le cifre sono approssimate e virtuali, e che i costi umani reali di questo dramma li conosceremo davvero, forse, solo dopo che si sarà totalmente consumato: ma mi dà l’illusione di partecipare in qualche modo ad una cerimonia collettiva di addio, assieme ad altri milioni di telespettatori, per evitare che sei o settecento persone ogni giorno se ne vadano insalutate, senza un funerale, senza qualcuno che le accompagni, inghiottite immediatamente dalle statistiche.  Che è esattamente il contrario di quanto cercano di fare, ed è anche comprensibile perché lo facciano, coloro che danno l’informazione.

 

5)   Ho provato a tenere una conta differenziata per età e per genere delle persone che incontro al supermercato, che vedo passare dal terrazzino o che incrocio durante i duemila passi quotidiani extra moenia. È probabile che le mie statistiche siano viziate da una deformazione prospettica, da un campionamento troppo parziale, ma io riporto solo quanto ho potuto constatare, e cioè che le percentuali per genere sono inversamente proporzionali a quelle ufficialmente rilevate dei tassi di contagio.  Le donne in sostanza contraggono il virus due volte meno degli uomini, e stanno in giro due volte di più. Forse proprio perché rassicurate dalle statistiche, o forse più semplicemente perché nelle situazioni critiche sono meno ipocondriache e più spicce dei maschi, o magari perché nel fare la spesa non si fidano dei mariti e vogliono avere l’ultima parola nella scelta dei prodotti. Sia come sia, sono protagoniste nella quotidianità dell’emergenza.  Mi faceva notare Nico Parodi che al di là della crisi il tema del nuovo ruolo femminile e delle prospettive che disegna sarebbero da affrontare non più con il cazzeggio degli psicologi e dei sociologi da talk show, ma andando a sommare tutta una serie di evidenze e di proiezioni scientifiche. Credo che qualcuna, di tipo nuovo, verrà fuori anche da questa situazione.

Per quanto concerne invece le classi di età, gli anziani sembrano decisamente molto più girovaghi dei giovani, a dispetto del fatto di essere maggiormente a rischio. Probabilmente anche questo dato ha spiegazioni plurime, compatibili comunque l’una con l’altra. Intanto, già sotto il profilo prettamente demografico in città come Alessandria vivono molti più anziani che giovani, per motivi logistici. Questi ultimi tendono a decentrarsi nella cintura dei paesi attorno, hanno maggiore facilità di spostamento e frequentano probabilmente anche in questo periodo, per gli approvvigionamenti, i grandi centri commerciali periferici. Poi sembra che gli anziani abbiano perfettamente inteso il senso del messaggio lanciato dal governo e rimbalzato da tutte le reti televisive, che non è “Abbiate riguardo per la vostra salute” ma “Non cercatevi guai perché non abbiamo le risorse per curarvi”, e vogliano ribaltarlo, dimostrando di sapersela cavare comunque. Infine c’è il fatto che i giovanissimi, anche se liberi da incombenze scolastiche, non li si incontra al supermercato, perché sono esentati per statuto dal farsi carico del vettovagliamento o di altre incombenze spicciole. È probabile abbiano escogitato luoghi e modi diversi per ritrovarsi, oppure si brasano beatamente davanti al computer o al telefonino (come del resto facevano anche prima).

6)   E i cani, che avevamo lasciato come grandi protagonisti della resistenza allo stress da quarantena?  Continuano stoicamente a reggere agli straordinari cui sono sottoposti, ma rilevo un calo nella frequenza delle uscite, forse connesso a quanto dicevo sopra. Erano infatti soprattutto i giovani a offrirsi come conduttori, e nel frattempo questi hanno trovato scuse diverse per le uscite, o si sono definitivamente poltronizzati. Un’altra cosa piuttosto voglio segnalare. È naturale vedere nelle aiuole qui sotto solo animali di piccola taglia, come si addice a bestiole che vivono in appartamento.  Ma allora, mi chiedo, che fine hanno fatto i pittbull e i mastini tibetani che giravano un tempo? Dispongono tutti di confortevoli giardini? E se no, dove li portano a pisciare? E se si, che ci facevano in giro, prima?

 

7)   Chiudo, per il momento, accennando al rischio molto concreto per tutti dell’abitudine all’ozio. L’ozio forzato snerva, per due principali motivi: da un lato perché dopo aver scatenato una prima insofferenza insinua sottilmente l’idea che i progetti che avevi in mente non siano poi così importanti e così urgenti, visto che comunque non puoi dare loro corso e devi fartene una ragione. Dall’altro, la prospettiva di molto altro tempo vuoto a disposizione spinge a rimandare anche le cose che potresti fare subito, e che ti eri sempre chiesto se mai sarebbe capitata l’opportunità di farle. È quanto mi sta accadendo con tutti i propositi di completamento dei lavori lasciati a metà sul computer, o di lettura dei libri accumulati, cose per le quali persino quando ancora ero in servizio riuscivo a trovare un paio d’ore la sera o di notte, mente adesso giro attorno e inseguo da un libro o da un sito all’altro sempre nuove distrazioni. Sono al punto che l’idea di quel che mi aspetta al rientro a Lerma, dei lavori di riassetto del giardino e del frutteto sconciati dai nubifragi autunnali mi spaventa, e ad ogni nuova dilazione imposta tiro quasi un sospiro rassegnato di sollievo. Non è una sindrome da poco, e non credo di essere l’unico a viverla.  Se un po’ può servire a smorzare l’ansia di accelerazione continua che si viveva in precedenza, oltre un certo limite rischia di convincere alle beatitudini del letargo.

In me quest’ultima pulsione sta già vincendo. Spero di non averla indotta anche in chi, già fiaccato dalla noia, ha provato sin qui a seguirmi.

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Essere obiettivo

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Il racconto nell’album fotografico

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.
Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. …

Fotografia e utopia (di Paolo Repetto)

Il pezzo di Fabrizio sulla fotografia ha casualmente incrociato lungo il mio percorso di letture un breve saggio di Pietro Bellasi comparso trentacinque anni fa su Prometeo (rivista che ancora esiste, o almeno esisteva sino ad un paio d’anni fa) …

La fotografia immemore

Dobbiamo muoverci e pensare ad una velocità sempre maggiore: questo ci chiedono i ritmi imposti dalla modernità. In realtà la nostra mente non è evolutivamente preparata alla brusca accelerazione impressa negli ultimi cento anni, pochissimi se paragonati all’intero arco della storia antropica …

Che i digitali diventino analogici

I bambini ospitati a turni settimanali nella struttura educativa dove lavoro vivono un altro modo di fare scuola. Sperimentano attività e fanno esperienze (le escursioni naturalistiche, ad esempio) che non sono previste nel contesto scolastico abituale …

Riconosciute assenze

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità…

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Il racconto nell’album fotografico

di Fabrizio Rinaldi, 19 gennaio 2018

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.

Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. L’occasione diventava ancor più piacevole in quanto poteva imparare qualche trucco in più da un ex collega che, dopo un passato in fabbrica, si era improvvisato a stampare foto.

Gli scatti erano vincolati dal numero di foto che un rullino poteva contenere: prima 12, poi 24 ed infine 36. Era un numero finito, e ogni operazione costava, sia in termini di tempo, dalla carica della macchina all’attesa della stampa, sia economicamente: quindi si usava lo strumento con parsimonia. Di un evento (come ad esempio una comunione) si portava a sviluppare al massimo un rullino, 36 foto.

Il ritiro del materiale sviluppato avveniva giorni dopo. Nel frattempo si vivevano altre esperienze, che smorzavano gli entusiasmi dell’attimo dello scatto. La valutazione delle immagini era di conseguenza più fredda, meno viziata da sentimentalismi, a volte addirittura caustica. A casa si procedeva poi alla selezione delle immagini migliori (o di quelle meno peggio), alla datazione e la sistemazione negli album fotografici.

Quegli album, prima dell’era digitale, hanno narrato lo scorrere degli anni della mia famiglia: una storia semplice, senza fronzoli e senza traumi particolari, sicuramente concreta; insomma, come molte altre.

Il piacere – anche tattile – che c’è nello sfogliare quei raccoglitori con foto che ingialliscono non lo si ritrova quando si fanno scorrere le immagini su uno schermo, dove si riconoscono solo volti invecchiati.

Si fissavano in quelle pagine degli istanti, magari non essenziali (battesimi, compleanni, gite, matrimoni, momenti sereni insomma): ma almeno quelli erano fermati in una modalità materiale e non su un supporto aleatorio come può essere una cartella informatica. Quelle immagini concrete raccontavano storie personali e intime, il cui senso era ristretto alla cerchia familiare. Non ne avrebbero avuto alcuno se fossero diventate di pubblico dominio.

Sedersi sul divano, o attorno ad un tavolo, a guardare e riguardare le foto di noi bambini, dei genitori giovani o delle gite al fiume e al mare, e rievocare aneddoti e personaggi, era un vero e proprio rito, esclusivamente familiare. Si evitava di tirare fuori gli album quando c’erano ospiti, per non incorrere nell’imbarazzo di vedere volti annoiati di persone per le quali quelle immagini non significavano nulla. A casa mia non vi sarebbe accaduto di imbattervi in quei “protagonisti dell’assoluto” che propinano le loro raccolte di foto, adeguandole via via alle diverse modalità, prima l’album cartaceo, poi la sequenza di diapositive, oggi la visualizzazione virtuale. Non avreste desiderato cominciare a starnutire violentemente per indurre il torturatore a richiudere terrorizzato gli album. Non avreste visto nemmeno le copertine.

Mio padre continua ancora oggi a scattare, utilizzando una scatoletta digitale, con la stessa passione di un tempo nell’immortalare le gite con mamma, nel fissare i paesaggi e ciò che lo emoziona – magari le nipoti –; quello che non fa più è mandare in stampa le foto e sistemarle negli album. Come lui, tutti noi rimandiamo la stampa e l’organizzazione delle immagini a quando avremo tempo, cioè a mai più, salvando gli scatti fatti in cartelle digitali, sul computer o sul cellulare, e scordandocene fino a che finiranno per essere cancellati o per diventare illeggibili.

Ma cosa va messo in un album?

L’archetipo del fotografare è congelare l’istante intrinsecamente connesso all’epoca in cui l’immagine è stata fatta, quindi nel soggetto fotografato è riconoscibile anche lo scorrere del tempo stesso.

Susan Sontag in Sotto il segno di Saturno scriveva: “ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della mutabilità e della vulnerabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo”.

Stampare una fotografia significa darle un futuro che prescinderà da altri supporti tecnologici: quando è stampata la foto rimane, e salvo eventi catastrofici (incendi, alluvioni, eredi indifferenti, ecc …) si conserva per parecchio. Solo così i pronipoti potranno sapere che volti avevano i loro avi.

Personalmente, grazie a scatole da scarpe piene di vecchie fotografie dei nonni, sono riuscito ad associare ai nomi i volti dei membri della mia famiglia, a partire dalla fine dell’Ottocento. La cosa non interesserà il popolo digitale: infatti non mi sogno minimamente di condividere quegli scatti (tranne quelli che corredano questo articolo), se non con parenti stretti. Interessa invece a me, come semplice ricerca personale. Non credo che la stessa cosa sarebbe possibile ai miei pronipoti, se le foto che scatto venissero conservate solo in formato digitale. Vi sarà già capitato di ritrovare immagini in “pcx”, un formato che già oggi è praticamente illeggibile, oppure di ingrandire fotografie scattate alcuni anni fa che risultano sgranate e non stampabili. Per questo non me la sento di affidare gli scatti a me più cari al “cloud”, a chiavette o a dischi rigidi, rischiando di perdere intere generazioni di foto.

In Blade Runner (quello del 1982) i replicanti avevano ricordi di altri fissati in fotografie. Conservavano quei supporti fisici come simulacri, perché rappresentavano il legame con un passato, con una storia personale che, anche se non era la loro, dava in qualche modo un valore alla loro stessa esistenza: la coscienza di sé passa attraverso un processo di osservazione dell’altro.

Oggi le nostre piccole storie non sono quasi mai documentate fisicamente, ma solo digitalmente, con algoritmi che tra qualche anno non saranno più interpretabili. Come i replicanti, anche noi saremo senza una storia e senza un passato. Faremo nostre le fotografie e le storie di altri?

La mia non è nostalgia per un retaggio del passato, ma la constatazione che stiamo affidando la memoria visiva a macchine che invecchiano più velocemente del prodotto che creano.  Se l’intento è l’oblio, siamo sulla buona strada, ma se volessimo preservare almeno una parte dei ricordi, sarà necessario dar loro una concretezza fisica. Il software non basta, è necessario l’hardware.

Quando la foto racconta?

La fotografia ha sempre due protagonisti, non uno: c’è il soggetto fotografato, che sia un volto, un paesaggio o un oggetto, e c’è chi sta dietro la macchina fotografica, e vuol dare all’immagine un senso e spera che quel senso rimanga impresso nel risultato finale.

Per prima cosa quindi chi fotografa deve scegliere di “vedere”: decidere cioè cosa inquadrare nell’obiettivo. Deve individuare un soggetto e scegliere da quale angolazione, in quale prospettiva coglierlo. Può farlo sulla scorta di un progetto, di un’idea che ha in mente, oppure l’idea può essergli suggerita direttamente da qualcosa che attrae il suo occhio e la sua attenzione. Così facendo già ha in mente, sia pure a volte in maniera confusa, cosa e come vuole fotografare. Questa consapevolezza è in genere ciò che fa la differenza fra uno scatto insignificante ed uno che resta nel tempo. Tutto lì.

A volte però il progetto nasce a posteriori, a cose già fatte, davanti a foto che accostate sembrano suggerire un percorso. In questo caso a valere è la capacità di cogliere la suggestione evocata da certe immagini: questa rappresenta lo spartiacque tra il mettere assieme una mera accozzaglia di scatti – per lo più selfie narcisisti – e il raccontare una piccola storia.

Il risultato “tecnico” della foto può dare certamente soddisfazione, ma ai fini della “narrazione” a volte è poco rilevante. Una fotografia è riconosciuta come “artistica” non per la perfezione degli aspetti formali, ma in relazione alla sua attualità sociale: non conosco esempi di foto che, per quanto belle, siano state avvalorate come “opere d’arte” anni dopo la loro realizzazione. Forse c’è solo il caso di Vivian Maier, ma credo ci sia dietro una grossa operazione di mercato. È difficile che possa accadere ciò che è invece avvenuto per molti pittori, come Van Gogh, che sono entrati nel pantheon degli artisti riconosciuti solamente anni dopo l’effettiva realizzazione dei quadri, addirittura dopo la morte. La fotografia è forse l’unica espressione artistica strettamente connessa al momento dello scatto, alla realtà che documenta e alle attrezzature per realizzarla.

Il supporto digitale ci sta però disabituando alla fatica di attribuire senso alle cose, nello specifico alle foto che realizziamo. Non siamo più abituati ad attendere, o creare, l’occasione per lo scatto; stiamo perdendo la capacità di scegliere tra le centinaia di scatti quelli davvero significativi da mandare in stampa.

Questo perché in una frazione di secondo possiamo scattare una raffica di foto. Ho usato il termine “raffica”, ed è ciò che facciamo: spariamo fotografie non con un archibugio ad avancarica (quindi facendo attenzione a non sprecare colpi) come faceva mio padre con la sua macchina analogica, ma con un revolver automatico, senza riflettere su ciò che inquadriamo. Fatta una foto, o meglio una serie, si passa a quelle successive, senza soffermarci su quale senso abbiamo dato alle immagini scattate.

È opportuno interrogarci anche sul tipo di immagini che immagazziniamo come ricordi della nostra vita. Siamo nell’epoca del sorriso: se inquadrati da un congegno fotografico (reflex, smarthphone o altro), tutti sorridono, scordando che quel ghigno quasi mai autentico è destinato a rimanere così congelato per l’eternità. La modernità è destinata a essere ricordata sempre sorridente? I greci e i romani avranno riso pure loro, ma le testimonianze iconiche che sono arrivate fino a noi, per lo più, non li rappresentano così. Ve li immaginate i bronzi di Riace immortalati mentre sorridenti si fanno un selfie?

Quale condivisione è sincera?

Sembra che ogni evento, o l’esistenza stessa, siano accreditati come reali solamente quando risultano fissati in immagini o in parole scritte, e questa raffigurazione deve essere anche condivisa con altri, altrimenti semplicemente il fatto non avviene o la persona non esiste. Per confermare una circostanza è imprescindibile comunicarla, anche se ai destinanti non dovrebbe importare molto di un fenomeno strettamente personale quali sono, nella fattispecie, le fotografie familiari.

Invece sono in moltissimi coloro che pubblicano su Facebook o altri social le foto di feste di compleanno, le pietanze che stanno per essere divorate, i volti dei figli o i musi di cani e gatti. In realtà non “raccontano” nulla, ma anche quel nulla ha da essere avvalorato attraverso la visione, l’approvazione e la condivisione di persone che stanno per lo più al di fuori della cerchia familiare. L’immagine deve ricevere dei “like” per soddisfare il nostro bisogno di lasciar traccia, al di là del senso che ha: non importa ciò che dico e sono, solo che per un attimo si sappia che esisto.

L’etimologia della parola “condividere” indica una propensione a “spartire, dividere insieme con altri” un bene proprio. E allora quella parola va cancellata dal dizionario del web. Quali “beni” si condividono, quando si documenta ogni stupidaggine? E qual è il confine di “altri”: la famiglia, gli amici, la popolazione terrestre? L’opportunità di far visionare immagini private a perfetti sconosciuti è addirittura un controsenso, quando non si traduce in un rischio. Non può essere una soluzione sperare che la sovrabbondanza di immagini crei alla lunga assuefazione, disinteresse o addirittura rigetto. È opportuno chiederci per tempo se è davvero questo che vogliamo.

Condividere significa anche dividere: ma cosa si fraziona con gli altri, che cosa sottraiamo a noi stessi? Susan Sontag scriveva in Sulla fotografia: “Una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. Ha bisogno di fornire quantità enormi di svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso. E ha bisogno di raccogliere quantità illimitate d’informazioni, per meglio sfruttare le risorse naturali, aumentare la produttività, mantenere l’ordine, fare la guerra e dar lavoro ai burocrati”. Ciò che condividiamo sono la nostra personalissima vita privata, i ricordi più intimi e le nostre convinzioni sociali e politiche. In pratica: siamo merce in mano a sciacalli.

Possibile che a nessuno venga da starnutire, nel vedere l’ennesima foto di un bambino sorridente?

Collezione di licheni bottone

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Mazze e silenzi

(a proposito di utopie)

di Paolo Repetto, 2017

Per piantare i pali mio nonno Paulin usava una mazza da undici chili. Chi ha provato ad alzarne una normale, di quelle da cinque o da sette, sa di cosa sto parlando.

La prima volta che ho preteso di usarla anch’io mi sono disarticolato una spalla. È vero, non avevo ancora quindici anni, ma a quell’età ero già piuttosto scafato, e soprattutto ero molto convinto di me. Ci ho quindi riprovato e ho continuato a servirmi di quella mazza fino a non molto tempo fa: poi è misteriosamente scomparsa, evitandomi l’imbarazzo di ammettere che non era più alla mia portata. Lo sforzo che imponeva era insensato, come sosteneva mio padre. Se ci lavoravo per un’ora, e a volte erano anche mezze giornate, finivo come i pupazzetti di Ken, ai quali mia figlia staccava regolarmente le braccia. Ma per me un senso lo aveva: in quei momenti non ero più Paolo, ma Paulin, e il peso e il significato della fatica li misuravo su un’altra scala.

Ho nutrito per mio nonno una devozione tutta particolare. Non era un colosso come mio padre: anzi, era alto e magro, tutto nodi e nervi. Somigliava molto al John Carradine di Furore. Se di mio padre ammiravo la forza di volontà, l’ironia e la capacità di trasmettere ottimismo a tutti, di mio nonno mi colpivano invece lo stoicismo, il riserbo, l’accettazione delle prove della vita, compreso il lavoro più duro, come momenti necessari di un ciclo naturale. Ma mi affascinava soprattutto la genuina semplicità con la quale faceva bene ogni cosa, dal dissodare un terreno al costruire una sedia o insaccare un maiale, e teneva in perfetto ordine i suoi attrezzi: lo faceva perché così deve essere, non conosceva altri modi, e non ne provava un particolare orgoglio, o almeno non lo ha mai esibito. Sembrava uscito pari pari da un mondo non solo preindustriale, ma addirittura precristiano.

Tutto quello che gli era arrivato dalla scoperta dell’America erano il tabacco, il granoturco, i pomodori e le patate. Ogni altro aspetto della modernità, la politica, la meccanica, l’alfabetizzazione, la spettacolarizzazione dell’esistenza, gli era assolutamente estraneo. Aveva bisogni elementari, non frequentava il bar, non ha mai visto un film, nemmeno quando ero io a proiettarli al cinema parrocchiale. Fosse ancora vivo se ne starebbe rintanato al Capanno, e io avrei il pezzo di terra meglio curato dell’intera provincia.

Ricordo ogni sua parola, e non è difficile, perché gliene avrò sentite pronunciare si e no cinquanta. La sordità guadagnata al fronte gli evitava il fastidio di essere importunato e di dover rispondere. Ma ho ancora qualche dubbio, perché nei rarissimi casi in cui la faccenda lo toccava davvero dava l’impressione di sentirci benissimo. Amava il vino, non però al punto di abbrutirsi: l’ho visto qualche volta barcollare, ma mai dare fuori o incattivirsi, e meno che mai naturalmente parlare a vanvera.

Lavorando al suo fianco ho imparato presto a capire cosa voleva senza bisogno che lo chiedesse: normalmente era la cosa più logica da farsi, anche quando a me non sembrava tale e avrei voluto introdurre una certa modernizzazione. Le volte che l’ho fatto ho dovuto alla fine ricredermi, e ammettere che il suo buon senso spicciolo valeva più di qualsiasi mia pretesa innovativa.

Del tempo trascorso assieme (troppo poco, purtroppo) rimpiango soprattutto le rare soste nel bel mezzo di uno scasso, o di una vendemmia, quando sedeva a cavallo di un fossato e si arrotolava una sigaretta. Negli ultimissimi anni ero io ad arrotolargliele, perché gli tremavano le mani; è lì che ho cominciato a rollarle anche per me, e non ho più smesso. Fumavamo assieme, in assoluto silenzio, io guardando al lavoro ancora da farsi, lui a quello già fatto. Una volta, proprio durante una pausa dell’impalatura, volgendomi di colpo l’ho sorpreso a fissarmi, e mi è parso di cogliere un lampo di compiacimento nei suoi occhi, prima che li distogliesse: credo che pochi abbiano ricevuto nella vita una gratificazione pari a quella.

Quando in una tarda serata di novembre andai a cercarlo nel suo vigneto lo trovai seduto, appoggiato ad uno dei pali che avevamo piantato assieme, con la cicca spenta ancora tra le dita. Avevo diciott’anni e quell’immagine, malgrado tutto il dolore del momento, mi ha riconciliato per sempre con l’idea della morte. Due giorni prima si era recato in Ovada a piedi, come sempre, per la fiera di sant’Andrea, e ne era tornato con un fascio di lisca per impagliare. Quel fascio lo conservo ancora, dopo mezzo secolo, assieme ai suoi ferri da falegname, anche se ormai è quasi solo polvere.

Ecco, ero partito con l’intento di parlare di crisi delle utopie e ho finito invece per ricordare mio nonno. Ma c’è un nesso: in effetti, credo che le utopie potessero avere dimora solo in un mondo abitato da gente come lui, e che la loro crisi odierna sia dovuta alla coscienza che abbiamo di non poter più tornare indietro, e conoscere ancora quella condizione.

Non sto parlando naturalmente della condizione sociale. Il mondo in cui ha vissuto mio nonno era tutt’altro che un eden, ingiusto e duro ancor più di quello attuale. Non ho di queste nostalgie. Ne ho invece per uomini che possedevano un innato senso della dignità e del dovere, e lo conservavano a dispetto di quella realtà. Anche di loro ho già parlato, raccontando di anarchici, di viaggiatori, di eretici e di scienziati, o più semplicemente di “quasi adatti”. Ebbene, mio nonno, sia pure a modo suo, rientra nella categoria. Evidentemente quelli come lui sono sempre stati una minoranza, vessata e sfruttata, ma c’erano. Magari disponevano di poche conoscenze, ma quelle poche erano solide: e di ciò di cui non sapevano preferivano non parlare.

In questa minoranza Paulin figurava tra gli ultimi, tra quelli che almeno in apparenza non avevano mai avuto l’ardire o la forza di ribellarsi. In realtà, come Bartleby lo scrivano, opponeva una forma particolare di resistenza passiva. Aveva dovuto guadagnarsi il diritto di stare al mondo sin da bambino, con le sue braccia, un giorno dopo l’altro: lo avevano poi strappato a una magra affittanza e a una famiglia appena costruita per spedirlo a combattere sull’Isonzo, una carneficina lunga quattro anni, contro gente di cui sapeva nulla e per una patria che si era fatta viva solo al momento di mettergli in mano un fucile, promettendogli un pezzo di terra: ma al ritorno si era ritrovato con una manciata di medaglie di bronzo e la mezzadria affidata ad altri. La stessa promessa gli era stata fatta trent’anni dopo dai partigiani, e non era cambiato nulla. Arrivò a possedere un fazzoletto di terra solo a settant’anni, e solo perché glielo acquistò mio padre. E tuttavia non l’ho mai udito lamentarsi, recriminare, rivendicare qualcosa.

Ho capito dopo, quando ho provato a ricostruire la sua storia, senza che lui vi avesse mai fatto cenno, che il silenzio non era frutto della sordità, ma della dignità: si rendeva conto che tutti coloro che gli facevano promesse lo stavano semplicemente usando, e non avendo alcuno strumento culturale per difendersi aveva scelto di isolarsi, di evitare almeno di farsi prendere in giro. Ho ancora viva un’altra immagine: lui appoggiato ad un muro nella piazza del castello, con le cartine e la scatola del tabacco in mano, e dal lato opposto un comiziante, forse democristiano, tutto infervorato, che nell’assenza totale di altri uditori gli si rivolgeva direttamente. Mentre risalivamo verso casa gli chiesi un po’ maliziosamente di cosa parlasse quel tizio, e mi rispose nel suo dialetto secco: “Us vendeiva (Si vendeva)”. Aveva capito tutto senza udire niente.

Per questo mi è tornato subito in mente: perché malgrado io gli strumenti culturali bene o male li possegga (o forse proprio in ragione di questo), e ci senta ancora discretamente, sta crescendo in me una gran voglia di imitarlo. Arrivato all’età che mio nonno aveva quando ho cominciato davvero a conoscerlo, mi sento altrettanto a disagio. Credo di averne motivo. Vivo in un mondo nel quale tutto, dalla televisione allo sport, dalle reti “sociali” alla pubblicità, ha congiurato ad abbattere le mura che ancora cinquant’anni fa contenevano gli idioti, e questi dilagano e sono legioni, ed esibiscono un’arroganza spudorata, direttamente proporzionale all’ignoranza. È chiaro che su questa mia sensazione pesa anche la componente anagrafica, una naturale e giustificata intolleranza prodotta dall’età: ma non penso che tutto lo sconfortante spettacolo di miserie intellettuali e morali cui sono costretto ad assistere sia solo una fantasima generata dalla ipersensibilità senile. La trionfale ascesa di incompetenti che non si limitano più a parlare di calcio, il moltiplicarsi di “antagonisti” che non hanno la minima idea di cosa sia il dovere, nei confronti di se stessi e degli altri (e si riempiono quindi la bocca solo di malintesi diritti), l’esibizionismo becero dei reality e dei forum pomeridiani, sono purtroppo tutte realtà oggettive, un termometro agghiacciante dell’istupidimento di massa. E se fossero necessarie ulteriori conferme, è sufficiente fare una passeggiata e considerare lo stato dei bordi delle strade, dei luoghi pubblici, dei muri e dei monumenti. Badando anche, naturalmente, a non farsi falciare da un automobilista nervoso o ubriaco. Che utopie si possono ancora concepire, con un simile materiale umano?

(per saperlo dovete sorbirvi anche l’appendice. Ma potete anche non farlo)

 

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Volersi bene

di Paolo Repetto, 2017

Riporto l’aneddoto come lo raccontava mia madre, che era filologicamente correttissima (a differenza di mio padre, che partiva sempre da fatti veri ma tendeva poi a ricamarci sopra), integrato magari da qualche brandello di memoria infantile.

All’epoca, primi anni cinquanta, frequentavo l’asilo delle signorine Gandino, due sorelle molto anziane e poco più alte di noi, ma non per questo prive di polso. La casetta che ci accoglieva è ancora oggi la sede dell’asilo e ha visto passare nel tempo i miei figli e mio nipote. Le vecchie sorelle sono invece un ricordo solo mio.

Bene, un giorno, avrò avuto quattro o cinque anni, comparve al cancelletto d’ingresso un fotografo ambulante, un tipo con baffetti e occhiali, che propose alle Gandino di ritrarre uno ad uno i bambini. Non c’erano ancora tutte queste storie della privacy, non era necessario chiedere consensi a nessuno, e credo che sotto sotto le nostre maestre, il cui ultimo ritratto doveva risalire all’età del dagherrotipo, fossero ben felici di far immortalare noi pulcini nel piccolo giardino, vicino all’altalena. Mia madre sosteneva che i genitori non erano stati assolutamente informati, né prima né dopo.

Sta di fatto che in capo a due settimane il fotografo si presentò a casa, con i baffi, gli occhiali e una bellissima cartellina in cuoio, dalla quale estrasse una mia foto a mezzo busto a colori (non particolarmente vivaci, ma comunque a colori, cosa che per l’epoca era un lusso) in formato venti per trenta. Disse a mia madre che la foto era stata selezionata dal suo studio per la particolare fotogenicità del soggetto, che costava solo cinquecento lire (il giornale e il caffè costavano allora trenta lire) e che dava il diritto a partecipare – con ottime chanches – ad un concorso per bimbi belli, le cui immagini sarebbero poi state pubblicate su non so quale rivista.

Ora, bisogna sapere che per certi versi mia madre era una donna intelligente e scafata (mio padre diceva che avrebbe zittito in tribunale anche Carnelutti, il principe del foro): ma era pur sempre una madre, e la sua lucidità si appannava quando in ballo c’erano i figli. Pur senza arrivare agli eccessi della Magnani in “Bellissima”, aveva addosso la sindrome del figlio più bravo, migliore a scuola, capo dei chierichetti, ecc… Era anche comprensibile, del resto, con l’infanzia che le era toccata e con la voglia di riscatto che si portava appresso, riversata in una ambizione culturale da autodidatta e nella partecipazione da protagonista di prima fila alla vita religiosa.

Insomma, le cinquecento lire al momento non le aveva – e probabilmente non aveva nemmeno idea di dove trovarle in seguito – ma di fronte a quella foto, e soprattutto di fronte alla prospettiva di una sua pubblicazione, non poteva tirarsi indietro. Così quando il tizio, mostrando molta comprensione, le sottopose un paio di fogli da firmare per non perdere l’offerta eccezionale e l’iscrizione al concorso, assicurandole che avrebbe ricevuta la foto non appena effettuato il pagamento, non seppe resistere.

Nel frattempo era però arrivato mezzogiorno, e mio padre stava rincasando. Sentimmo le sue stampelle su per le scale, e mia madre annunziò al fotografo che avrebbe potuto comunicare anche a lui la bella notizia. Quest’ultimo non mostrò molto entusiasmo, anzi, ricordo che cominciò ad agitarsi e a pulire nervosamente gli occhiali, scusandosi perché aveva un altro appuntamento in Ovada e doveva scappare di corsa.

Immagino che proprio questa fosse la sua intenzione: ma ormai mio padre era sulla porta. Mamma lo rese immediatamente partecipe del mio primo successo, chiamando il fotografo a dare conferme e spiegazioni, e trovando in verità un supporto piuttosto reticente e imbarazzato. Ma non era necessario: mio padre è sempre stato molto veloce a capire e a decidere di conseguenza, e anche in quel frangente non si smentì. Lo fece però in un modo che avrebbe potuto avere conseguenze indelebili sulla mia vita. E qui passo direttamente la parola alla voce materna: «Ti guardò per quattro o cinque secondi, poi fece girare la chiave nella toppa, la estrasse e se la mise in tasca. Quindi si rivolse al fotografo: “Mi dia quei fogli”. (Pur avendo una sola gamba mio padre superava gli ottanta chili, con una percentuale di grasso inferiore a quella dei Masai. N.d.R). Il tizio estrasse i fogli firmati e li posò sul tavolo. “Anche la fotografia”. L’ingrandimento andò ad accompagnare i fogli. Io ero mortificata, ma mentre cercavo di scusarmi col fotografo che si precipitava lungo le scale mi sentii rispondere: “Lasci stare signora, va bene così”».

Non ho poi assistito alle loro spiegazioni, fui mandato a giocare in cortile. E sinceramente di tutta la faccenda avevo capito ben poco, anzi, nulla del tutto. Ma furono i racconti successivi di mia madre, che tornavano fuori ogni volta che l’occhio di qualcuno cadeva su quella foto, debitamente esposta sul mobile del tinello, a fungere da tarlo. Quel “ha guardato Paolo per un momento e poi ha detto: mi dia quei fogli!” suscitava le risate, soprattutto di chi conosceva bene mio padre e poteva immaginare la scena, e anche le mie: ma chi non mi dice che abbia intanto scavato nel mio intimo, erodendo una confidenza in me stesso che con l’approssimarsi dell’adolescenza già viaggiava verso il livello zero?

In verità con i miei problemi successivi quell’episodio non c’entra affatto, è anzi diventato un punto di forza della mia aneddotica (e conservo ancora la fotografia, che sta virando sempre più verso il bianco e grigio). Ma mi fornisce un ottimo pretesto per parlare un po’ dell’autostima, di quella vera, quella che uno dovrebbe costruirsi anche a dispetto di un ambiente ostile (che non era certo il caso di quello mio familiare, con due diversi esempi di training autogeno entrambi a loro modo vincenti, e necessariamente contagiosi). Sono solo quattro considerazioni buttate lì in ordine sparso, che arrivano però direttamente dal campo, perché la mia personale “queste” di autoconsapevolezza è sempre aperta.

Autostima è uno di quei termini che sono entrati recentemente, senz’altro da meno di un secolo, nel vocabolario, ad indicare qualcosa che esiste da sempre ma che solo oggi sembra essere diventato un problema, e come tale è stato rinominato. Un po’ come il colesterolo. In effetti agisce per proprio come il colesterolo: è indispensabile sino a certi livelli, ma oltre questi diventa fastidiosa o addirittura pericolosa. Con la differenza che mentre per quello la “quotazione” mira al ribasso, perché i livelli tollerabili vengono determinati dall’industria farmaceutica, e ogni punto in meno significa milioni di nuovi potenziali malati, sull’autostima c’è invece oggi da ogni parte una forte spinta alla crescita.

Facciamo una prova. Digitiamo la parola su Google (chi è più avanti può digitate “self-confidence” o “self-respect”). Prima di arrivare ad una definizione (quella di Wikipedia) compare una sequela di annunci di questo tenore: “Supera i tuoi limiti, scopri una vita di gioia, con RQI”, “‎Diventa Consapevole di ciò che hai dentro, renditi libero e migliora la tua vita”, “Risolvi i Tuoi Problemi. 3 Video In Regalo. Ridurre Lo Stress. Vivere Serenamente”, “Hai Problemi di Autostima? Scopri come risolverli”, “Diventa il Leader di te stesso. Scopri il meglio di te‎”. E ancora “Le regole d’oro per un’autostima super. Come ritrovare e aumentare l’autostima in 10 passi” e “5 azioni pratiche per aumentare la tua autostima”. Si procede così per intere paginate.

Dunque, lo si faccia attraverso tre video, dieci passi o cinque azioni pratiche, quello di ritrovare o aumentare l’autostima è diventato il nuovo imperativo categorico (assieme appunto a quello di abbassare il colesterolo e di mantenersi giovanili e snelli, e in perfetta combinazione con entrambi). Peccato che gli indicatori e i motivi su cui questo imperativo dovrebbe far perno abbiano sempre legami con qualche prodotto o pratica per i quali si vuole creare un mercato, e che la stima di sé sia compresa nel prezzo e nella confezione. Non è naturalmente su questa accezione “mercificata” che intendo fare le mie riflessioni, ma in realtà non si può nemmeno prescinderne del tutto, non fosse altro per rigettarla.

Cominciamo però col circoscrivere lo spazio di osservazione, per intenderci più facilmente. Sono molti coloro che l’autostima non debbono coltivarla o farsela costruire, perché già ne possiedono in eccedenza (questo tipo di autostima è l’equivalente del colesterolo LDL, quello cattivo). Quasi sempre l’hanno ereditata geneticamente o ricevuta come una cresima da genitori che intendevano sublimare attraverso i pargoli i propri fallimenti o perpetuare i propri successi. Costoro evidentemente non rientrano nel nostro discorso, e più in generale in qualsiasi discorso relativo alla stima di sé, perché la loro è pura e semplice idiozia. Sono infatti totalmente incapaci di mettersi (o di pensare di essere messi) in discussione. Ed è anche una forma di idiozia pericolosa, per sé e per gli altri, perché non ammette l’eventualità dell’insuccesso, e tanto meno la possibilità di farne tesoro. Non esiste in tal senso un indicatore del limite massimo tollerabile, perché come ogni altra manifestazione di idiozia è trasversale a ceti sociali, fasce d’età e livelli di cultura, e si esprime quindi in svariatissimi modi.

Dal lato opposto stanno quelli che di autostima sono invece totalmente privi, e non solo, non possiedono alcun piano e alcuno strumento per avviarne la costruzione. Sono gli utenti dei siti appena citati, i lettori di rotocalchi da un euro che offrono ricette per tutto, i pazienti e i seguaci di psicologi che continuano a campare sui salotti televisivi e sulle umane debolezze, i clienti di astrologi e taroccanti vari. Anche per questi, spiace dirlo, non c’è speranza. Non basta mettersi in discussione, se poi non si ha il coraggio di attingere a se stessi per trovare una strada propria.

Il concetto che giustifica queste esclusioni l’ho dunque già esplicitato: l’autostima non te la regala e non te la costruisce nessuno (altrimenti non si chiamerebbe così). Non la si trova in offerta con lo shampoo sugli scaffali di quell’immenso supermercato globale che è diventata la comunicazione di massa. Ciò che può essere venduto o messo in offerta è semmai una “etero-stima”, ovvero l’immagine di sé quale si vorrebbe fosse percepita all’esterno, e anche questo cade fuori dal mio ambito di interesse.

Chi si ritrova in una condizione di incertezza sul proprio “valore” dovrebbe infatti in primo luogo distinguere e capire cosa cerca veramente: perché da un lato c’è l’idea che gli altri hanno di noi, dall’altro l’idea che ciascuno di noi ha di se stesso. E quindi, se l’incertezza nasce da una discrepanza tra come si è e come si vorrebbe essere, è necessario chiarirci se ci importa di come vorremmo essere per noi o di come vorremmo essere visti dagli altri. Le due cose si intrecciano e si intersecano, ma non è detto che coincidano e, soprattutto, che debbano farlo. È vero che siamo esseri sociali, portati a compiacere gli altri, a cercare il consenso, non fosse altro per una necessità di sopravvivenza alla quale meglio risponde la coesione del gruppo: ma siamo anche individui, le cui aspettative nei confronti dell’esistenza non sono necessariamente simili o sempre compatibili con quelle altrui.

Dicevo che i dubbi e l’insoddisfazione nascono dalla distanza tra la coscienza di come si è e l’immagine di come si vorrebbe essere. Sull’una e sull’altra agiscono sia una predisposizione caratteriale, oserei dire geneticamente determinata, sia il confronto con l’esterno, con l’ambiente, con gli altri, quindi l’adozione di un parametro culturale. Ora, sulla prima c’è poco da fare, pessimista o ottimista ci nasci, ma sul secondo i margini d’azione sono ampi. Non tanto da azzerare il confronto, perché nessuno di noi, per quanto lo neghi, e per quanto nel negarlo possa essere in buona fede, riesce a sottrarsi totalmente, e alla fin fine ci importa della nostra immagine esterna molto più di quanto siamo disposti ad ammettere: ma abbastanza da consentirci di limitarne significativamente la pressione, perché siamo anche in grado di darci un codice etico individuale e di informare ad esso i nostri comportamenti, prima di passarli al vaglio di quello comune: quindi di compiere vere scelte, ed eventualmente difenderle.

A questo punto però il campo di osservazione si restringe ancora. Finisce per comprendere solo coloro che i conti intendono farli innanzitutto con se stessi. E per concernere qualcosa che va al di là di un’autostima trattata come merce (neppure del tutto immateriale).

Per il momento tuttavia continuo ad usare questo termine. Per dire, ad esempio, che avere autostima non significa necessariamente piacersi. Dobbiamo fare infatti un’altra distinzione, quella tra il piacersi e il provare piacere per ciò che si fa, o per come si è. Sono cose diverse. La prima implica il corrispondere ad un modello ideale, la seconda il valorizzare una condizione reale. E se per la prima la distanza rimane sempre e comunque incolmabile, nel secondo caso siamo noi ad avere in mano la chiave per riscattarla. Ma non una volta per tutte.

La stima di sé, così come quella degli altri, non può mai essere data per acquisita: è sempre in gioco, va riconquistata o conservata giorno per giorno. Può piacermi il fatto di essermi comportato in un certo modo, di aver ottenuto un determinato risultato, ma proprio perché lo vedo come una conquista: perché ho saputo magari dominare il mio carattere, motivarmi e poi reggere sino in fondo. Domani dovrò ricominciare da capo, e questo non è affatto un motivo di stress, è anzi l’unico senso da dare ad una esistenza non puramente animalesca. La mia autostima è rafforzata dal sapere che “posso” farcela, mentre non ci sarebbe alcuna ragione di rallegrarmi se pensassi che le cose “debbono” andare necessariamente così.

Dunque l’autostima non crea una condizione vincente, almeno nella lettura che si vuol dare oggi di quest’ultima. In realtà, nella vera stima di sé c’è una percentuale tale di autocritica e di ironia (cioè di distacco) da risultare inibente per la scalata al successo. Non perché non ci induca a credere in noi stessi, ma perché ci spinge a dare importanza a cose molto diverse da quelle che vengono correntemente identificate col successo, e a mantenere attorno a noi uno spazio di autonomia che non si concilia affatto con le incombenze e i condizionamenti creati dalla ricerca di un plauso “pubblico”. Un esempio per tutti, il più immediato e banale: il comparire in televisione, nelle modalità che la televisione consente, quali che siano i travestimenti pseudoculturali, fa letteralmente a pugni con l’autostima, mentre titilla invece la vanità e l’ambizione. E non è affatto vero che sia l’ambizione a muovere il mondo, questa è una favola costruita appunto dagli ambiziosi (e dai frustrati): è invece l’umiltà di non essere mai talmente superficiali da sentirsi completamente appagati, realizzati, e la coscienza di poter sempre fare qualcosa di meglio, o comunque di poter fare bene ciò che si fa. Il riconoscimento esterno, la stima altrui, amplificano senza dubbio e rafforzano ulteriormente il piacere, ma con l’autentica stima di sé hanno un rapporto difficile e puramente occasionale. Valgono solo quando arrivano da chi a nostra volta stimiamo. Rimanendo all’esempio precedente, cosa può avere a che fare l’autostima con la “popolarità” televisiva degli innumerevoli nuovi maîtres à penser che gigioneggiano sui teleschermi, rivolgendosi ad un pubblico che considerano sostanzialmente stupido e che trattano come tale?

Trasferiamoci però in una dimensione meno fasulla, quella che viviamo quotidianamente. Io credo che ad accrescere la nostra auto-considerazione siano essenzialmente quei successi, grandi o piccoli, che non condividiamo con nessuno, che non dobbiamo e non vogliamo esibire. Se questa voglia di riservatezza è autentica (perché quando non lo è rischia poi di esplodere platealmente, e pericolosamente), da essa arrivano incentivi e stimoli liberi da ogni condizionamento. Nasce una confidenza in se stessi che non ha alcun bisogno di conferme dall’esterno. È come sapere di possedere un’arma segreta, i superpoteri di Nembo Kid. Oppure, per volare un po’ più basso e spiegarmi meglio, come la coscienza di saper nuotare. Non è necessario esibire le proprie doti natatorie sfidando gli amici in piscina o al fiume, e meno che mai naturalmente avere un passato da olimpionico. Lo si fa, naturalmente, a diciott’anni, perché per fortuna l’uomo oltre che sapiens è anche ludens, e queste competizioni rientrano nei riti di passaggio: o a quaranta, quando ci si confronta coi propri figli e vederli filare più di noi non ci mortifica affatto (sto parlando naturalmente di persone sensate). Ma non è certo questo il suo contributo significativo all’auto-valorizzazione. La consapevolezza di saper nuotare, una volta acquisita, agirà invece dall’intimo, silenziosamente, per tutta la vita, sorreggendoci persino quando stiamo affrontando una parete di roccia e non c’è un palmo d’acqua per chilometri attorno.

Sono infatti anche convinto che l’autostima mentale si accompagni strettamente a quella fisica. Credo che nessuno si piaccia fisicamente in toto, neppure chi parrebbe avere tutti i requisiti imposti dalle mode passeggere o dai canoni classici, e meno che mai gli idioti di cui sopra, che questa strisciante insoddisfazione riversano anzi costantemente nei rapporti con gli altri. Trovo inoltre insopportabile l’ipocrisia di chi pretende che il problema della fisicità non esista, È un tema complesso, perché da un lato è senz’altro vero che esiste un’insoddisfazione artatamente indotta per indurre al consumo, all’imitazione di modelli imposti con un martellamento a tappeto, ma è altrettanto vero che un sacco di gente ha mille motivi reali per recriminare nei confronti della natura. È evidente che in questi casi la stima di sé ha ben poco a vedere col piacersi, mentre ne ha invece molto con la capacità di adeguarsi: che non significa farsi dominare dai propri condizionamenti fisici, ma fare perno sulla volontà per trarre comunque dalla propria fisicità tutto il possibile, e vivere la soddisfazione e il piacere dello sforzo, prima e più di quello per eventuali risultati.

Torno ad esemplificare col solito riferimento autobiografico, certamente inappropriato perché sono tra quelli che debbono ringraziare il cielo per la salute di cui hanno sempre goduto e per le potenzialità che sono state loro concesse, ma pur sempre significativo dello scarto tra il nostro essere e il nostro voler essere e delle possibilità di una sua pacifica composizione. A vent’anni sognavo di diventare un grande maratoneta (a sedici il modello era Cassius Clay e aspiravo al titolo dei mediomassimi: a diciotto era Rod Laver e volevo Wimbledon. Credevo di avere il fisico per l’una e per l’altra cosa, il che già la dice lunga su quanto fossero chiare le mie idee), ma nelle prime campestri agonistiche che cominciarono ad essere corse anche dalle nostre parti vidi sfrecciarmi accanto gente che pesava venti chili di meno e sembrava volare nell’aria, mentre io pestavo sui sentieri come un cavallo da tiro. Se l’autostima fosse dipesa dai risultati avrei dovuto buttarmi sui superalcoolici – ma all’epoca andava molto anche l’eroina. Non accadde nulla del genere. Ho semplicemente capito che potevo continuare a divertirmi giocando a tennis a Mornese, e più ancora correndo, da solo o con amici, sui sentieri della Lavagnina (non racconto come è finita col pugilato perché preferisco lasciarlo immaginare). La seconda di queste attività è proseguita sino a quando le ginocchia hanno retto e si è addolcita ultimamente, dopo l’addio ai menischi, nei ritmi della passeggiata. In questo modo ho scoperto una dimensione nuova del camminare, quella che ti consente di pensare e di guardarti attorno, e quindi altri piaceri e nuovi stimoli. Per trovare questi ultimi non devo confrontarmi quotidianamente con tabelle di valutazione: arrivano da soli, nei modi più impensati, e se un problema esiste è solo quello del tempo, che purtroppo non mi consentirà di rispondere a tutti.

Lo stesso vale naturalmente a livello mentale. Se scrivo queste pagine senza altra finalità che non sia lo scambio con gli amici, non è né per eccesso né per difetto di autostima. Diciamo che ho sufficiente confidenza con la penna da indurmi a scrivere, e sufficienti motivazioni a farlo, sia per un personalissimo bisogno di ordine e di concretezza (anche fisica, cartacea) delle idee, sia per il piacevole scambio che questa pratica innesca. Non mi compiaccio con me stesso, ma ne traggo un godimento, come quello che posso ricavare dalla conversazione, dallo studio, dall’esplorazione e dalla scoperta della natura. Tutto questo mi basta e avanza, ma soprattutto mi evita modalità di confronto che non mi interessano e che costituirebbero solo una limitazione della mia libertà. Con tutto ciò che di bello e di interessante posso ancora fare e pensare, non ho davvero tempo da perdere a preoccuparmi dell’immagine o dell’idea che altri possono avere di me.

Un capitolo a parte parrebbe infine meritare il peso dell’autostima nei rapporti con l’altro sesso: in realtà, al di là della rilevanza che può avere sotto il profilo della storia del costume (perché non credo che fino a cent’anni fa fossero in molti a porsi il problema), la ritengo una semplice variante tra le molte del tema principale. Credo che in fondo si possano identificare le stesse modalità di approccio di cui ho parlato sino ad ora: quella decisamente idiota, quella insicura e remissiva, quella realistica e disincantata, ma tutt’altro che cinica. Non nego si tratti di un argomento estremamente complesso, perché vi hanno gioco passioni sulle quali è difficile, a volte impossibile, il controllo: ma ai fini di queste riflessioni estemporanee cambia poco parlare di rapporti di lavoro, di amicizia, di sesso o di semplice civile convivenza. In sostanza, il problema rimane sempre lo stesso: ho bisogno di questi rapporti per aggiornare costantemente la mia posizione nella scala di auto-valutazione, o vivo questi rapporti per il piacere immediato, genuino, spontaneo che mi offrono?

Bene, per quanto possa sembrare paradossale, è il rispondere solo a se stessi a rendere possibile questa seconda opzione, perché in realtà non ha che fare con l’egocentrismo (che si nutre invece proprio di scale di valutazione), ma col senso di responsabilità individuale. Cento anni di teoria psicoanalitica e di psicoterapie varie hanno conseguito il risultato di spostare all’esterno ogni forma di responsabilizzazione (e di inventare la stima di sé, con tutto lo strumentario per misurarla). Se ogni nostro comportamento è indotto da un’azione esterna (la famiglia, la scuola, la società,…) che confligge con il nostro “voler essere per gli altri”, è poi naturale che la stima di sé venga concepita come arma di difesa, strumento per reagire ad una ostilità ambientale. O per imporsi, che all’atto pratico non fa una gran differenza.

Rispondere a se stessi significa invece chiamarsi responsabili in prima persona, non in una accezione inquisitoria, ma in quella che dà senso alla nostra differenza di umani. Siamo responsabili perché possiamo scegliere, e possiamo scegliere non tra i modelli automobilistici che danno prestigio o i deodoranti che facilitano le relazioni, ma tra opzioni di esistenza veramente e profondamente diverse, e trovare quella che davvero ci consenta una serena convivenza con noi stessi.

Non è necessaria una vita esagerata come quella di Steve McQueen. Almeno, a me non interessa. Voglio una vita moderata, ma affrontata e vissuta con dignità, e credo che nella mia condizione di uomo fortunato, nato nell’epoca giusta, nella famiglia giusta e dalla giusta parte del mondo, questo non solo sia possibile, ma debba davvero essere un imperativo categorico.

E con questo avrei concluso. Mi accorgo però a questo punto che pur continuando a utilizzare il termine ho smesso da un pezzo di parlare di autostima. A furia di distinguo è riemerso un concetto ultimamente piuttosto in ombra, che con l’autostima ha senz’altro parecchio da spartire, ma non si esaurisce in essa, perché rappresenta qualcosa di molto più antico e più profondo: ho parlato di dignità, della coscienza del valore della dignità, propria e altrui, e del rispetto che merita.

Il mio sarà anche un “moralismo” vetusto, ripetitivo, forse persino un po’ patetico, ma coi tempi che corrono e la confusione che regna a proposito di valori non ritengo inutile tenere il punto su pochi principi basilari.

Se poi il colesterolo rimane sopra i valori tollerati non è il caso di farne un dramma. Nessuno è perfetto.

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