Alzek Misheff e il compito di Enea

Come se fosse

di Paolo Repetto, 22 maggio 2020

Chi scrive su questo sito (anche chi – come il sottoscritto – scrive decisamente troppo, soprattutto in questi ultimi tempi: tra gli effetti collaterali del Covid-19 va annoverata anche la logorrea) non lo fa per potersi rileggere ogni tanto e congratularsi con se stesso. Il sito non è la vetrina delle nostre vanità o la palestra delle nostre velleità. Se così fosse, avremmo ceffato di gran lunga la ribalta (se preferite, la “location”). È invece, o almeno vorremmo che fosse, l’agorà virtuale nella quale sperimentare e testimoniare la possibilità di incontri e relazioni e scambi spontanei e intelligenti: il luogo insomma di quel famoso “come se” che ciascuno interpreta un po’ a suo modo, ma che in sostanza è la società, o la comunità, nella quale ci piacerebbe vivere. Il divertimento, è innegabile, sta già nel tentativo di immaginarla, questa società: se così non fosse, avremmo chiuso da un pezzo. Ma è più che naturale che a motivarci sia sempre stata anche la speranza di trovare degli interlocutori, qualcuno che leggendoci si senta a sua volta motivato a esprimersi, a concordare con le nostre idee o a discuterle, che è poi la stessa cosa, a proporre uno sguardo diverso sulle stesse cose o lo stesso sguardo su cose diverse: che ci induca comunque a riflettere e a non sederci sulle nostre convinzioni.
A tale speranza, lo ammettiamo, ha sempre fatto da contraltare il timore di una deriva scomposta, come quella paventata qui di seguito da Carlo Prosperi, dello scadimento nella chiacchera, o peggio, nella rissa becera che sembra l’inevitabile esito finale di tutti i blog. Per questo motivo, e anche per le difficoltà tecniche di controllare uno spazio totalmente aperto, non abbiamo fatto del sito un libero pascolo: e in questo modo siamo intenzionati a continuare a gestirlo. Ma, e questo è un altro effetto, in questo caso virtuoso, del virus, abbiamo potuto registrare, proprio nel periodo più nero della crisi e in mezzo alla chiacchera dilagante, voci nuove e intelligenti che ci hanno eletti come interlocutori. Continuiamo quindi a darvene conto, a proporle come esempi di quel dialogo franco e corretto che sta alla base di ogni civile convivenza e, non poniamoci limiti, di ogni vera amicizia. La speranza, a dispetto dei tempi, ha alzato il livello delle sue aspettative: quella attuale è che il dialogo continui e si allarghi a voci sempre nuove. La più recente è quella appunto di Carlo, che non ha bisogno di presentazioni: si presenta egregiamente da solo con questa sua missiva e con le penetranti riflessioni svolte a margine di una mostra orfana, per sua fortuna, di Sgarbi.


Stupirsi di tutto

di Carlo Prosperi, 27 aprile 2020

Carissimo, ho ricevuto quest’oggi il tuo graditissimo messaggio, con il ricco corredo dei tuoi scritti, sempre acuti e liberi (per quanto possano dirsi liberi i nostri punti di vista, sempre ancorati a un retroterra – esistenziale, culturale, sentimentale, ideale, ecc. – che, più o meno consciamente, li ispira – stavo per dire: li nutre – e li condiziona), piacevoli e quasi sempre interessanti. Io non sono un patito del web, anzi, per quel poco, pochissimo di esperienza che ne ho, lo trovo una sentina in cui si annidano i moderni spettri heideggeriani della “chiacchiera”, della “curiositas” e dell’“equivoco”. Preferisco frequentare i miei classici, i miei maestri. O gli amici che – come te – apprezzo per il loro spirito critico, non fazioso, non sentenzioso, non apodittico, bensì problematico, aperto al dubbio: che fanno pensare. Condivido molte, moltissime delle considerazioni che la lunga quarantena ti ha suggerito (in particolare, la risposta a Baricco, del quale non ho la tua stima, a cominciare dallo scrittore, che trovo melenso. Tu stesso, del resto, finisci per… demolirlo. Ciò detto, si può imparare da chiunque ed io, come Gramsci, – si licet -, mi vanto di saper “cavare il sangue anche dalle rape”). Qualcosa del genere ho fatto anch’io nella mia quotidiana corrispondenza con i miei amici (ma non ne serbo copia o memoria) o negli “appunti di lettura” che da un paio di anni – visto la fallacia della memoria – mi sono messo a tenere (cose molto personali: una specie di diario che prende spunto dai libri, dai saggi, dai romanzi e dalle poesie che leggo). So bene che Machiavelli, prima di “entrare nelle antique corti degli antiqui uomini”, si intratteneva e “s’ingaglioffava” all’osteria di San Casciano con quelli che lui definiva “pidocchi”: il web ne potrebbe essere un moderno surrogato, utile per saggiare e conoscere le diverse maniere e le diverse fantasie della fauna umana. Ma la vita è così breve che preferisco, oggi, evitare di perdere tempo con grafomani, mitomani ed esibizionisti di vario genere, con i loro turpiloqui e le loro sgangherate opinioni. Mi basta e, ahimè, mi avanza la mia biblioteca. Credimi: il mio non è elitario disprezzo; tanto più che le mie origini, di cui sono orgoglioso e di cui mai mi dimentico, sono più umili delle loro. Né, per quanto mi sia impegnato, presumo di averne capito – della vita, del mondo, della realtà – più di loro. Anzi, mi riconosco nell’auto-epitaffio di Xavier de Maistre, che ti cito: Ci gît, sous cette terre grise / Xavier, qui de tout s’étonnait; / demandant d’où venait la bise / et pourquoi Jupiter tonnait. / Il étudia maint grimoire, / il lut du matin jusqu’au soir / e but enfin à l’onde noir / tout surpris de ne rien savoir.* Che è poi saggezza socratica. Dai tuoi scritti, di cui spero, quando che sia, di avere da te un esemplare a stampa, mi vengono molti stimoli e mi sono sorpreso di avervi trovato citato Lawrence Durrell, di cui vado in questi giorni rileggendo il celebre “quartetto di Alessandria” (avevo comperato i libri al tempo del Liceo, ma non ne avevo allora apprezzato la genialità, forse non li avevo nemmeno capiti, a giudicare da qualche postilla a margine dell’epoca). È uno scrittore sontuoso e perspicace, di una finezza, psicologica e verbale, che oggi è merce rara. Leggere mi aiuta a vincere il senso di claustrofobia che a volte mi prende. Trovo assurde certe prescrizioni governative: mi dici, fermo restando l’invito a mantenere le distanze e magari a portare la mascherina in pubblico, che senso ha vietare di andare a passeggiare nei boschi, nei prati, a coltivare l’orticello fuori mano (nel nostro caso a Rivalta), a dare il verderame alle viti, a curare il giardino? Che senso ha la quotidiana imbonitura che ci propinano, ossessivamente, dalla tv? E la retorica arcobaleno, stupida e offensiva, di slogan come “Andrà tutto bene”, quando le morti di coronavirus si moltiplicano intorno a noi? “Andrà tutto a bagasce”, mi vien da rispondere. E la giornaliera minestra di menestrelli e di strimpellatori – questa è per loro la cultura – che ci dispensano? Per non parlare delle commissioni, dei comitati, delle “task-force” di tecnici e di esperti di cui si è circondato il governo per non assumersi le sue responsabilità e rimandare “sine die” o comunque prendere e centellinare senza la debita tempestività le proprie decisioni? Quanto agli esperti, mi sai dire donde viene la loro esperienza, se è vero – come è vero – che questa pandemia è un fenomeno inedito, mai prima sperimentato? Lo studiassero, in silenzio e con attenzione, prima di discettare su di esso, di cui tutto, o quasi, ignorano; prima di sparare stupidaggini come hanno fatto, tra i tanti, Stefano Montanari e Maria Rita Gismondo. E Colao? Sarà pur bravo, ma quali competenze ha sull’argomento? Non sarebbe il caso, visto l’andazzo dell’economia, di cominciare a risparmiare, invece di elargire propine a dubbi esperti? Qui poco c’entrano le competenze, molto il buon senso. Sulla tecnologia, da sempre ancipite, la penso come te; sulla scienza, che non ci dà certezze, ma procede per congetture e confutazioni, la penso come Popper. Condivido con te che sia una pia illusione quella di confidare in un miglioramento dell’umanità, in un cambiamento di mentalità e di stile quale esito di questa crisi: temo che, a parte l’impoverimento generale, non vedremo grandi metamorfosi e nemmeno significative resipiscenze. Tra un po’ saremo solo più feroci di prima… Ma non voglio tediarti oltre. Ti mando un articolo, che uscirà sul prossimo numero de “L’Ancora”, in cui potrai, fra le righe, vedere come la penso su vari temi che ti hanno ispirato. Un abbraccio, fraterno ma virtuale (di questi tempi non si sa mai), e a presto.

Qui giace, sotto questa terra grigia, / Xavier, che di tutto si stupiva; / chiedendosi da dove arrivasse la tramontana / e perché Giove tuonava. / Studiò ogni libro sapienziale, / lesse da mattina a sera / e arrivò infine all’onda nera / sorpreso di non sapere ancora nulla.

Alzek Misheff e il compito di Enea

di Carlo Prosperi

Al vedere i 9 interni di Palazzo Thea di recente realizzati da Alzek Misheff in verderame e matita, siamo rimasti ammirati sia della sapienza tonale sia dell’impaginatura che dà respiro agli ambienti e nello stesso tempo ne sa rilevare le strutture architettoniche e la stratificazione storico-culturale. La dimora aristocratica sopravvive alle generazioni che tuttavia le imprimono il loro sigillo e ne preservano l’aura. È lo specchio della Tradizione, che non è un fossile, ma un lascito di valori da declinare in sintonia coi tempi, un patrimonio che dal passato si protende dinamicamente verso il futuro, garantendo una continuità e prospettando un senso, contro la marea montante del nichilismo. In un rifiuto tanto dell’idolatria quanto dell’amnesia del passato, visto e vissuto come sprone di emulazione, come esempio da attualizzare: in vista di egregie cose o, come si suol dire, ad maiora.
Crediamo che non si comprenda appieno l’intenzione dell’artista se non si tiene conto dei tempi che stiamo vivendo. E della sua stessa parabola evolutiva, dall’avanguardismo più spinto alla ragionata riscoperta della tradizione, che ha il carattere di una palinodia. Dovessimo ricorrere a un’immagine esemplare, per farci capire, non sapremmo trovare di meglio che evocare quella di Enea in fuga da Troia, immortalata da pittori come Raffaello e Federico Barocci, da scultori come Bernini e Chia. Enea che regge sulle spalle il padre Anchise e mena per mano il figlioletto Ascanio è simbolo di una pietas sempre più rara. Dietro di sé l’eroe troiano lascia una città devastata, in fiamme, davanti a sé ha un futuro quanto mai aleatorio, ma sa che per dare un futuro al figlio deve farsi carico del passato: del padre e dei Penati che egli reca con sé.
Si dice che il poeta Giorgio Caproni traesse ispirazione per il suo poema Il passaggio di Enea da un gruppo statuario di Francesco Baratta da lui casualmente intraveduto nel 1948 a Genova, tra le macerie della città bombardata. Quella scultura lo colpì, perché rifletteva la drammatica incertezza del tempo, sospeso tra le rovine di un passato che rischiava di andare perduto per sempre e l’angoscia di un futuro estremamente fragile e precario. Enea cerca insomma di salvare il salvabile e, tutto preso dal senso del dovere, si avvia, anche a costo di smarrire la moglie (l’amore), verso un imbarco, nella speranza di trovare «un altro suolo». Ecco, ci sembra che Misheff rappresenti al meglio lo spirito di Enea, che lo incarni anzi, rinnovandolo, alla luce dell’attualità.
Il suo discorso muove da una aperta critica alla modernità e a quella sua (in)versione in negativo, se fosse possibile, che è la post-modernità. Se il moderno aveva negato la Tradizione, il postmoderno – che è la negazione della negazione – inizia quando la modernità ha distrutto tutti gli aspetti premoderni. La postmodernità – a dire di Aleksandr Dugin, “un futuro che è già presente” – è l’apocalisse della civiltà, “una forma di satanismo e di nichilismo in cui proliferano il politicamente corretto, l’ideologia gender, il femminismo e il post-umanesimo”. La modernità è fiorita sull’oblio dei padri, prima rinnegati e poi uccisi. In nome di quelle “magnifiche sorti e progressive” già irrise da Leopardi: in nome cioè di una forsennata volontà di potenza, di un progresso senza limiti e senza misura.
Walter Benjamin ne ha dato una impeccabile illustrazione: «C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».
Ebbene, nonostante queste e altre sinistre premonizioni, si è fatto finta di niente, si è continuato in una sfida faustiana che ha portato a due guerre mondiali, a immani carneficine. Illusi dalla tecnologia trionfante e convinti di essere finalmente padroni del proprio destino, gli uomini hanno prima brindato alla “morte di Dio” e poi si sono votati al “vitello d’oro”, idolatrando il Mercato, il consumismo, la moda. La moda è lo specchio fedele della modernità che si autodivora, che di continuo deve rinnegarsi per sussistere, un’immagine di quella che Hegel giustamente chiamava “cattiva infinità”. L’assurdità di una economia basata sul circolo vizioso produzione-consumo è la stessa del cane che si morde la coda.
Nel deserto dei valori – ma già siamo nella post-modernità – l’unico valore superstite è quello della merce: il valore di scambio. Il mercato mondiale è stato prospettato come preludio alla pace universale, superamento dei confini, cancellazione delle barriere. Si è così avviato un processo di globalizzazione finanziaria, economica, tecnologica e culturale che ha portato alla disgregazione delle comunità tradizionali, alla rottura dei legami sociali familiarmente consolidati, a quella “confusion de le persone” che per Dante è sempre “principio […] del mal de la cittade”. Dimenticando che, quando la natura dei legami sociali è percepita come estranea, gli uomini si sentono inibiti alla piena realizzazione di sé. Già Isaiah Berlin aveva intuito l’astrattezza e l’artificialità, soprattutto in ambito morale, degli appelli all’universalità. Specialmente quando presuppongono la cancellazione dell’identità. O ad essa preludono.
La modernità ha sradicato gli individui dalle comunità di appartenenza, ammassandoli nei falansteri urbani, riducendoli a numeri, a tessere anonime di un mosaico informe, privandoli dell’anima. Ci si è così dimenticati dell’ammonimento di Bergson, che già agli albori del ’900 auspicava proprio “un supplemento d’anima” quale antidoto alla umana perdita d’identità nell’epoca dominata dal progresso tecnologico. Ci si è illusi che bastasse il benessere a riempire il vuoto esistenziale, ignorando che non di solo pane vive l’uomo. “Dategli, all’uomo, – diceva Dostoevskij – tutte le soddisfazioni economiche in modo tale che non abbia alcuna preoccupazione che dormire, mandar giù brioches e darsi da fare per prolungare la storia universale, riempitelo di tutti i beni della terra, e immergetelo nella felicità fino alla radice dei capelli: alla superficie di questa felicità, come su quella dell’acqua, scoppieranno delle piccole bolle”. È appunto quello che sta avvenendo.
Nella tracotanza con cui l’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio c’è alcunché di luciferino. Si pensi alle odierne megalopoli, a quegli avveniristici grattacieli che stanno fiorendo, spesso per volontà di nuovi satrapi, come suadenti fleurs du mal, frammezzo allo squallore che li circonda, da New York a Dubai, da Baku a Shangai, da Astana a Bangkok. Si pensi al Bosco Verticale progettato dallo Studio Boeri nel Centro direzionale di Milano, ai margini del quartiere Isola. Siamo di fronte a nuove torri di Babele, a sfide che suonano oltraggio: al buon senso prima ancora che a Dio. Un certo capitalismo ha sradicato l’uomo dalla Natura, ne ha esaltato il carattere prometeico, ma questa hybris preannuncia e prepara – come ben sapevano i Greci – la catastrofe.
Via via che “la gabbia d’acciaio” della modernità si è imposta, con lo sviluppo della scienza e della tecnica, con il distacco dalla terra, con l’esodo dalla campagna, con l’affermazione delle varie rivoluzioni industriali (e post-industriali) che si sono susseguite, lo sradicamento degli individui si è intensificato. L’urbanesimo ha fatto il resto. Una diaspora di atomi ha fatto seguito al declino delle comunità. Gli individui, così sradicati, sono stati ridotti a numeri, a codici, a esseri anonimi, senza qualità. Dove sono finiti – si chiedeva Garcia Lorca in Poeta en Nueva York – gli oliveti, il mare, le campagne dorate, le conchiglie?
L’aurora di New York possiede / quattro colonne di fango / e un uragano di colombi neri / che sguazzano nell’acqua imputridita. // L’aurora di New York geme / su per le immense scalinate / cercando in mezzo agli spigoli / nardi di angoscia disegnata. / L’aurora arriva e nessuno l’accoglie nella bocca / perché là non c’è domani né speranza possibile. / Talvolta le monete fitte in sciami furiosi / traforano e divorano bambini abbandonati. // I primi ad affacciarsi comprendono nelle ossa / che non avranno l’eden né gli amori sfogliati; / sanno che vanno al fango di numeri e di leggi, / a giochi privi d’arte, a sudori infruttuosi. / La luce è seppellita da catene e frastuoni / in impudica sfida di scienza senza radici. / Nei quartieri c’è gente che barcolla d’insonnia / come appena scampata da un naufragio di sangue”.
È di qui – crediamo – che bisogna partire per comprendere l’ultimo Misheff e i suoi interni domestici. Questi nascono infatti contemporaneamente e in dialettica antitesi ad altre sue opere dedicate a folle oceaniche angosciate sullo sfondo di città-simbolo (New York, Parigi, Milano), in attesa o in procinto di essere travolte da uno tsunami devastante, da un turbine vorticoso. Folle solitarie, senza identità, sullo sfondo di città alveari, di città formicai, delle quali solo Caino poteva essere il fondatore. In queste opere di Misheff si avverte l’eco di un dramma collettivo che trova analogie nell’Ansia e nell’Urlo di Edward Münch, nelle “maschere” di James Ensor, in altre opere d’area simbolistico-espressionistica. L’espressionismo – dal latino exprimere – riflette infatti sull’esterno uno stato d’animo generalmente perturbato e commosso, così che a dominare è sempre un senso di marcata solitudine, anche quando ad essere raffigurata è una moltitudine di persone. Il simbolismo mira invece a imprimere carattere esemplare, di universalità, a quanto vi può essere di (auto)biografico o di aneddotico in un’opera. Ed è a questo, appunto, che mira Misheff, con tecnica peraltro affatto personale, nei suoi ultimi lavori nati all’ombra del flagello biblico del coronavirus.

    

Nell’insieme e mutatis mutandis, gli interni, austeri e maestosi ad un tempo, di Palazzo Thea ci ricordano le Antichità romane di Piranesi, la cui grandiosità dà l’idea dell’imponenza di una civiltà, di fronte alla quale gli uomini d’oggi tendono a scomparire o, se non altro, a passare in secondo piano. Perché è vero che, forti della potenza che si sprigiona dalla tecnica, abbiamo l’impressione di essere superiori ai nostri padri, di spingere il nostro sguardo più lontano e più a fondo di loro, ma non ci accorgiamo che questo non è merito nostro: ciò in realtà avviene – come aveva intuito l’acume di San Bernardo – perché, pur essendo noi dei nani, poggiamo sulle spalle di giganti. Non è un caso che per designare gli antenati i Latini usassero il termine di maiores. «Chi fuor li maggior tui?» chiede Farinata a Dante nel decimo canto dell’Inferno. È una domanda, questa, che anche noi dovremmo porci più spesso, magari solo per verificare se ne siamo degni eredi.
In tempi di clausura e – per alcuni, ahimè – di claustrofobia, la casa, oltre che ricettacolo di affetti e di memorie, può anche riassumere connotazioni sacrali. Non a caso il latino, con il termine aedes – da cui i nostri “edile”, “edilizia”, “edificio”, etc. – designava tanto la casa quanto il tempio. Ambedue spazi “augusti”. E d’altra parte che altro è il duomo, se non la domus dei Latini, nel senso di domus Dei, di “casa di Dio”? La casa è anche un asilo, dal greco asylon, “luogo inviolabile, dove non vige il diritto di cattura”: nido, quindi, e rifugio. Ma, per esser davvero tale, dev’essere ospitale, piena di attrattive, ingentilita dall’arte. Luogo d’intimità e di sublimità, dove le sister arts – la pittura, l’architettura, la musica, la scultura, la poesia e la letteratura (qui evocate dai libri, dalla libreria) – sono pronte ad accogliere, a consolare, a intrattenere, a prefigurare un “mondo nuovo e una terra nuova”, più umana perché meno obliosa del senso della misura, del limite, del giusto mezzo. La funzione, insomma, che nel Decameron del Boccaccio, durante la terribile “peste nera”, è demandata al racconto. La casa come buen retiro, come angulus da cui guardare al formicaio del mondo. Odi profanum volgus et arceo [“Odio il volgo profano e me ne tengo a distanza”], diceva infatti il grande Orazio, che dell’angulus fu sommo cantore.

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