L’arte alla prova del coronavirus

di Carlo Prosperi, 8 giugno 2020

Per Sigmund Freud l’artista è un «uomo che si distacca dalla realtà perché non sa adeguarsi al primo scotto che essa esige: la rinuncia a soddisfare le pulsioni; e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia». Dichiarazione, questa, che sembra agli antipodi di quanto sostiene Tony Godfrey nella sua recente e corposa indagine su L’arte contemporanea edita da Einaudi, in cui tra l’altro scrive: «L’arte contemporanea riecheggia i problemi che affrontiamo nelle nostre vite quotidiane: come dobbiamo comportarci, pensare, a cosa credere». A ben riflettere, però, la contraddizione è più apparente che reale. E basta gettare uno sguardo sugli ultimi olî di Concetto Fusillo, ispirati dalla pandemia del coronavirus, per rendersene conto. Nessuno sfugge al proprio tempo, ai drammi e alle stigmate che lo contraddistinguono, nemmeno quando, per reazione ad essi, l’artista s’involi, sulle ali della fantasia, verso altri mondi. Foss’anche l’Isola che non c’è. O la Luna a cui approda, con l’ippogrifo, l’ariostesco Astolfo, per scoprire, con sua grande sorpresa, che lassù, nel vallone delle cose perdute, «vi son tutte l’occurrenze nostre: / sol la pazzia non v’è poca né assai: / che sta qua giù, né se ne parte mai».

Per anni la critica ha visto nell’Orlando Furioso una fuga dal reale verso il mondo della «pura arte», «dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore, e non amore» (De Sanctis). Un abbaglio che in epoca a noi più prossima si è riproposto per Tolkien e la sua saga, scambiando per evasione fine a se stessa, per “escapismo”, quella che, nelle intenzioni dell’autore, era un controcanto al tempo presente, alla “nostra miseria fatta da sé” (cfr. Tales from the Perilous Realm), una reazione, se vogliamo, alle miserie dell’età dei robot, alla povertà, alla fame, alla morte. Non è un caso che una parte dell’epistolario tolkieniano sia stato pubblicato con il titolo de La realtà in trasparenza. Le vicende della “Terra di Mezzo” miravano infatti a prospettare «un riscatto dal pensiero di tutta la miseria umana che [esisteva ed] esiste attualmente nel mondo: i milioni di persone divise, angosciate, che sprecano giornate inutilmente – senza contare la tortura, il dolore, la morte, le perdite, l’ingiustizia. Nessun uomo può giudicare quello che sta veramente accadendo al momento sub specie aeternitatis. Tutto quello che sappiamo, ed anche questo in larga parte per diretta esperienza, è che il male agisce sempre con grande potenza e successi continui – inutilmente: preparando sempre e solamente il terreno affinché il bene inaspettatamente germogli. Così accade in generale e così accade anche nelle nostre vite». Per Tolkien, che era credente, la Resurrezione era la più grande “eucatastrofe” possibile. Nei secoli d’acciaio dei totalitarismi, del loro spietato ateismo, della massificazione ideologica, egli contribuì a socializzare valori inattuali – il coraggio, l’amicizia, la comunità, il rifiuto del potere, l’onore, la fede – nella convinzione che l’immersione in un mondo “altro” ci consentisse di rientrare ritemprati nel nostro mondo. Allo stesso modo la vera arte, lungi dall’essere una vana e gratuita fuga dalla realtà, da quelli che Jack Kerouac chiamava il «miserabile qui» e il «pidocchioso adesso», aspira sempre ad essere una intensificazione di essa.

Per tornare a Concetto Fusillo, diremo che egli si sta tuttora misurando con il dramma dei nostri giorni, con la realtà del Covid 19, e lo fa nei modi e nelle forme che gli sono più congeniali: partendo dall’oggi, ma senza assolutizzarlo, senza astrarlo dal suo legame con il passato e con il futuro. Il suo è un atteggiamento che potremmo definire manzoniano, giacché egli rifugge da un’arte meramente emozionale e, per ciò stesso, epidermica, di facile effetto; no, egli ama riflettere e invitare alla riflessione, senza peraltro nascondere il peso emotivo che la situazione esercita su di lui. «Sentire e meditare», insomma. E se, da un lato, questo ne ingigantisce l’angoscia, giacché a quella presente si agglutina quella immane dei secoli e dei millenni trascorsi, quasi a sancire inesorabilmente la miseria della condizione umana, da sempre esposta a mille rischi di morte e di distruzione, dall’altro, però, proprio dall’anamnesi storica ci viene un messaggio di speranza. Sia pure a prezzo di uno scialo terribile di vite e di incredibili sofferenze, l’umanità è sempre riuscita, finora, a scamparla, a superare cioè le prove alle quali la sua fragilità l’ha esposta. Anche a quelle più apocalittiche. C’è in Fusillo, di fronte alla sequela di pandemie che sugli uomini si sono nei secoli riversate e che tante tracce (e ustioni) hanno lasciato nei libri, nelle testimonianze di storici e poeti, ma anche nei documenti d’archivio, lo stesso stupore che faceva dire a Guicciardini: «Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza, e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona, non è cosa di che io mi maravigli più che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile».

Il pittore si affaccia alla finestra, allo specchio. E guarda fuori, traguarda lontano. Dietro alla sinistra sagoma del coronavirus, che incombe minacciosa e ossessiva, si stagliano mille altre epidemie che hanno infestato il nostro pianeta. Una pioggia di fogli vergati a mano si rovescia a cascata davanti all’artista che ne contempla e ne misura la dolorosa portata. Sono testimonianze di vite consunte, di flagelli che, per quanto remoti, si rivelano attuali. Sono piaghe cicatrizzate che si riaprono e buttano ancora sangue. È un passato di cui pensavamo di esserci finalmente liberati, confidando nelle formule magiche della scienza, nei portenti della tecnologia. E invece… Viene da dare ragione a Dickson Carr: c’è «una maledizione insita nelle cose in generale». Così, nei corsi e ricorsi della storia, di quando in quando tornano a irrompere i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Tornano i medievali “trionfi della morte”. Il sole stesso si oscura e nella sua spera si disegna il volto grifagno del morbo, lo spettro inquietante del coronavirus. E nella luce crepuscolare, in luogo della hegeliana nottola di Minerva, ecco volitare un nugolo di pipistrelli: gli stessi che volteggiano, malauguranti, intorno all’angelo mantegnesco intento a reggere la scritta dedicatoria ai Gonzaga. L’angelo porta la mascherina e ci fissa con occhi spiritati.

La natura stessa sembra contaminata dal male: non più che qualche albero spoglio su uno sfondo opaco. Di cenere. Memento, homo, quia pulvis es… Nient’altro che un riflesso nello specchio, in un riquadro di finestra. Dentro e fuori si corrispondono, si confondono. Dietro i vetri, sagome indefinite, volti senza nome e senza storia. Destini comuni. Prigionieri costretti alla clausura. Il filo spinato evoca Lager, cavalli di Frisia. Anche questa, in fondo, è una guerra. Ideogrammi cinesi rimandano all’origine della pandemia, adombrano misteriosi messaggi, addensano lo spaesamento. Nemmeno le stelle stanno a guardare. Ed anche l’occhio di Dio, che pure signoreggia dall’alto il creato, sembra assistere impassibile all’opera dissolutrice del morbo. Il mondo, almeno quello che conoscevamo, quello delle relazioni sociali, dell’interconnessione globale, pare andare in frantumi o, meglio, venire obliterato. Di colpo. Qualcuno ha passato una spugna sulla lavagna.

Eppure, ogni morte è (dovrebbe essere) una rinascita. E l’arte non si limita a recitare De profundis, a sigillare epitaffi. L’arte può pure esorcizzare le malattie e la psicosi da coronavirus, può dischiudere nuovi orizzonti, preannunciare – con la Scrittura – «cieli nuovi e terra nuova», prefigurare – chi sa? – un domani diverso, una umanità migliore. Dire insomma una parola di conforto, fare di una tenue sorgente luminosa un’aurora boreale. Come ha detto Jerry Saltz: «La creatività è una strategia di sopravvivenza». E Fusillo non ignora o non dimentica questa lezione. L’angelo del Mantegna – che non a caso proviene dal Rinascimento – ha ali leggiadre di farfalla e già nel mondo greco-romano la farfalla era simbolo dell’anima immortale, di rigenerazione e di resurrezione per i Padri della Chiesa. Dall’albero senza foglie pendono ciocche di ciliegie: azzurre nella loro miracolosa, surrealistica improbabilità. Al globo terracqueo cancellato se ne affianca un altro che, pur segnato dalla calamità sofferta, sembra animato da una nuova volontà di vivere. Pronto a riprendere il suo cammino, sia pure sfrondato da certe deleterie illusioni, da entusiasmi infondati e da folli eccessi di volontà di potenza. Allora, per dirla con le parole rivolte da Enea ai compagni gettati sulle spiagge libiche da una furiosa tempesta, per rincuorarli, forsan et hoc meminisse iuvabit: «forse un giorno proveremo piacere nel ricordarci anche di queste cose». D’altra parte, se è vero che il mondo esisterebbe indipendentemente dall’uomo, non meno vero è che proprio all’uomo, con un atto di coscienza, spetta il compito di dare senso e concretezza alla realtà. Come l’arte da sempre esemplarmente dimostra. Non ultima, anche quella, nutrita di speranza non meno che di consapevolezza storica, di Concetto Fusillo.

 

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