Ceci n’est pas un essai!

par le non auteur Giuseppe Rinaldi, non date 28 settembre 2025

 1. Appena finite[1] le vacanze estive, capita che uno si senta in dovere di fare il punto su come ha trascorso il tempo, sulle eventuali esperienze e su ciò che ha imparato o disimparato. A questo scopo sono impaziente di raccontare ai miei dieci lettori il mio incontro, del tutto casuale, con alcuni esponenti di un nuovo movimento politico culturale che si chiama NNCBV. Ho scritto “alcuni” per ossequio abitudinario alla grammatica convenzionale, ma avrei dovuto scrivere “alcun*”, poiché si tratta di un movimento a composizione prevalentemente non binaria[2] e fluida. Il che è senz’altro un segno dei tempi attuali. La loro è certo una sigla un po’ pesantina, peraltro anche poco pronunciabile. Si tratta ovviamente di un acronimo e, come mi è stato spiegato, sta per «Noi non ce la beviamo!». Si tratta di un motto di sfida contro il tecno-sistema, sempre più onnipervasivo e invadente, che vorrebbe proditoriamente imporre un ordine unico e arbitrario a tutta la realtà.

2. Si tratta di un movimento nato e sviluppatosi proprio nel nostro Paese, soprattutto negli ambiti metropolitani, seppure esplicitamente ricalcato sul modello della woke culture nordamericana. Quella che, ahimè, ha dato una mano indiretta a far vincere le elezioni a Trump. Ma il pericolo rappresentato da Trump, come vedremo, non è certo la preoccupazione principale di costoro. Il movimento sta già cominciando ad avere un certo seguito anche all’estero. Per ora si sta diffondendo principalmente nei Paesi limitrofi della UE ma, si sa, le cose sul Web viaggiano velocemente.

I miei dieci lettori potrebbero eccepire, a questo punto, di non averne mai sentito parlare. Anch’io non ne avevo mai sentito parlare, fino al giorno prima. In effetti, si tratta di un movimento piuttosto riservato, che evita accuratamente le comparsate pubbliche nelle piazze, tipo pride e similari. Questo perché i loro leader tendono ad avere un atteggiamento un tantino underground e, anche se non l’ammetterebbero mai, piuttosto elitario. Sono organizzati soprattutto sul Web, dove cercano di costituire, quasi esclusivamente tramite i social media, delle micro reti di solidarietà e di intervento rapido. Agiscono dunque assai riservatamente e, per accorgersi della loro presenza, bisogna aspettare di essere oggetti, ahimè, della loro attenzione o dei loro interventi provocatori, che sono sempre repentini e furtivi ma tali che lasciano il segno. Oppure bisogna che gli algoritmi dei social facciano qualche deraglio e vi consegnino, magari per errore, qualche spezzone delle loro conversazioni, dei loro documenti o dei loro filmati.

3. L’acronimo che hanno scelto, «Noi non ce la beviamo!», non si riferisce a bevande varie, come Estaté, birra, aranciate o limonate, bensì sta a indicare una posizione risoluta, una contrapposizione senza quartiere, contro certi orientamenti di costume e culturali che oggi vanno per la maggiore e che, in forma tacita, nella odierna società di massa, sono ormai più o meno condivisi da tutti. Il loro campo d’intervento si colloca principalmente a livello linguistico, niente di meno che contro la testualità dominante. Questa viene messa sotto accusa in quanto pura espressione arbitraria di un potere occulto che pervade ormai tutte le società post – industriali. L’obiettivo preciso del movimento è, infatti, quello di colpire la diffusa e onnipervasiva catalogazione dei generi testuali (come, ad esempio, saggio, articolo, lettera, romanzo, sonetto, monografia, tesi, poesia, ma anche generi minori, come la barzelletta, il proverbio, l’aforisma e, certamente, anche il necrologio – genere peraltro assai sottovalutato).

4. Non dovrebbe proprio stupire questa specifica attenzione per le questioni attinenti il linguaggio e la testualità. Sono ormai decenni che, soprattutto nell’ambito della filosofia continentale e in particolare del post-strutturalismo, è stata riservata una notevole attenzione proprio al linguaggio e ai suoi rapporti con le strutture di potere del tecno-sistema. Sul piano teorico queste tematiche sono state sviluppate soprattutto da Michel Foucault[3], il cui pensiero ha avuto ampia diffusione sulle due sponde dell’Atlantico. Sul piano pratico, sono ormai più di tre decenni che gli States (e di riverso anche l’Europa) sono percorsi in lungo e in largo dalle parole d’ordine del politically correct e, successivamente, del decisamente più avanzato crazily correct che, del precedente, è una versione potenziata, come si esprime Luca Ricolfi[4]. Anche se il crazily non sarebbe condiviso dai protagonisti stessi. È risaputo che la correctness ha progressivamente investito tutti i settori o quasi del linguaggio comune. L’uso di determinate qualificazioni o aggettivi, la denominazione di certe categorie di persone o di certe professioni, l’uso dei pronomi personali, o quant’altro. La persuasione di fondo è che attraverso il linguaggio, in modo silente e impercettibile, siano trasmessi e imposti certi rapporti di potere, e che ciò sia determinato principalmente: a) dalle strutture socio tecniche impersonali; b) dai gestori occulti della globalizzazione; c) dal capitalismo finanziario e d) dal potere maschile patriarcale. Forse è questo spiccato anti patriarcalismo che spiega il relativamente alto tasso di partecipazione dei fluidi a questo movimento.

5. Sembrava a un certo punto che la correctness avesse esaurito quasi ogni possibile obiettivo nel campo del linguaggio, avesse cioè raggiunto una specie di copertura totale. Sembrava cioè ormai essersi volta verso l’esaurimento. Pressoché tutto era stato smascherato, tutto era stato attaccato e demolito. O, per lo meno, tutti erano stati messi sul chi vive intorno alle insidie del linguaggio, come del resto recita anche il noto slogan “Stay Woke”. Ebbene, ci eravamo del tutto sbagliati. Sembrava, appunto. Non avevamo capito che il lavoro più importante restava ancora tutto da fare. Dobbiamo proprio al gruppo NNCBV (“Noi non ce la beviamo!”) di avere individuato un nuovo e forse risolutivo campo d’intervento. Come già anticipato, si tratta nientemeno che del campo della testualità.

Immagino che i miei dieci lettori stiano strabuzzando gli occhi. Cosa c’è che non va nella testualità? La testualità è dappertutto. Come faremmo se non ci fosse? È appena il caso di ricordare che, anche per diversi illustri filosofi, la testualità è stata riconosciuta come fondamentale. Un vero e proprio a priori. Ad esempio, per Jacques Derrida[5] «Non c’è nulla all’infuori del testo»[6]. In altri termini, il testo per Derrida è l’elemento ontologico che costituisce la realtà intera. In altri termini, noi stessi siamo testo. Se proprio tutto è testo, allora, dal punto di vista di NNCBV, il nemico sarebbe veramente dappertutto. Avercela con la testualità in fondo è come avercela col mondo intero. Se poi proprio noi siamo testo, a rigor di logica dovremmo avercela anche con noi stessi, ovvero con la nostra profonda natura testuale.

6. Posso confermare che il Movimento NNCBV si rende ben conto della portata radicale e globale delle proprie posizioni. Tuttavia gli esponenti del movimento non sembrano particolarmente attratti dall’aspetto metafisico della questione. Essi adottano, infatti, una teoria materialista dei fenomeni linguistici. Confessano candidamente di avere avuto trascorsi marxisti e di mantenere tuttora una forte ispirazione marxista. Ho sentito più d’uno di loro dichiarare fieramente: «Io sono marxista!». Questo nonostante abbiano “superato”, o del tutto ignorato, alcuni elementi fondamentali del marxismo, come, ad esempio, la classica suddivisione tra struttura e sovrastruttura.

Così sostengono che la testualità è oggi la minaccia per eccellenza, in quanto si trova effettivamente “alla radice” delle disuguaglianze (che loro chiamano “differenze”) che caratterizzano e governano la società post-industriale. La quale società si riduce poi a un mostruoso tecno-sistema. In particolare, secondo loro, sarebbe la vigente configurazione classificatoria della testualità a costituire una trama oppressiva che è utilizzata per giustificare e mantenere gli attuali rapporti di potere. Di qui, lo slogan «Noi non ce la beviamo!». Se è vero che – proprio come sostiene Derrida – non c’è nulla al di fuori del testo, allora è possibile che il nuovo movimento, sporgendosi anche ben oltre Marx, abbia finalmente individuato l’obiettivo risolutivo, che permetterà di intaccare gli attuali rapporti di potere a tutti i livelli. Un movimento totale dunque.

«Vasto programma!» verrebbe da dire a quelli come noi, proni invece da tempo a qualsiasi conformismo testuale e ormai abituati a rinunciare a ogni opposizione. Alle mie modeste e imbarazzate obiezioni sulla fattibilità di un simile totale intervento trasformativo, mi è stato risposto che si tratta di procedere per tappe e di confidare sul fatto che, se si dispone di una strategia corretta, e avendo tempo e energie da investire, allora «una tappa tira l’altra».

7. La prima tappa sarà dunque proprio quella di liberare il testo dalle gabbie della testualità. Si tratta di identificare quelle che sono comunemente considerate come le strutture oggettive della testualità e di mostrare come queste siano soltanto dei dispositivi autoritari al servizio del tecno-sistema imperante. È questa un’azione sistematica di smascheramento, che mette chiaramente in connessione le teorie NNCBV con le famose filosofie del sospetto. Il Movimento crede fermamente nel potere dello smascheramento. Poiché il potere della testualità si basa meramente sulla illusione – qui c’è senz’altro un richiamo a Jean Baudrillard[7] e al segno come merce – il suo smascheramento coinciderà con la sua immediata evaporazione. In realtà, il precursore vero di questa prospettiva – come sanno anche i liceali – è stato Ludwig Feuerbach[8]. Se si pensa poi ad alcune avanguardie artistiche del primo Novecento, si potrebbe anche ritenere che non ci sia granché di nuovo ma, in effetti, vedremo che non è proprio così.

8. La seconda tappa, decisamente più radicale, consisterà nel liberare il testo dalle costrizioni grammaticali, soprattutto dalle strutture sintattiche e ortografiche, da sempre percepite, più o meno da tutti, come un vincolo, una limitazione, e poi tipicamente tecnocratiche, patriarcali e maschiliste. Tutto ciò, oltretutto, darà modo di moltiplicare le capacità espressive e creative di ciascuno di noi. Quelle capacità che abbiamo dovuto progressivamente reprimere nel corso della nostra formazione personale, sui banchi di scuola e attraverso i media. Ciò avrà anche, cosa di non minor importanza, l’effetto di imbrogliare sistematicamente le AI che lavorano soprattutto con modelli linguistici LLM, a previsione probabilistica.

9. La terza fase, la fase finale, sarà la liberazione del testo da ogni tipo di rigidità, in modo da assicurare la più completa fluidità testuale e fluidità comunicativa. Ma perché mai proprio la fluidità dovrebbe diventare l’obiettivo finale? Occorre ricordare che la fluidità – solo ora stiamo cominciando a capirlo pienamente – è una delle fondamentali implicazioni delle numerose filosofie della differenza che hanno caratterizzato per lo meno gli ultimi due secoli. Qui, a sentir queste parole, confesso di avere accusato qualche defaillance, poiché mi sono ricordato, con un profondo gulp, dei miei ripetuti, ma vani, tentativi di leggere Deleuze[9]. Non sono mai riuscito ad andare oltre le venti pagine. Limiti miei.

10. Mi spiegano così che è ormai diventato sempre più chiaro che ci sono differenze buone e differenze cattive. Le differenze dicotomiche non sono vere differenze. Sono imposte dal sistema, fanno parte di un ordine estraneo che è sovrapposto alla realtà, la quale invece è, di per sé, continua e non facit saltus. Si tratta allora di andare oltre la dicotomia, per considerare spettri sempre più ampi di gradazioni di differenze, e ciò – se perseguito rigorosamente – alla fine non potrà che portare alla fluidità totale. Il discreto, in altri termini, si trasformerà in continuo. Ogni elemento del testo (le lettere, le maiuscole, gli spazi, le interpunzioni) sarà, così, libero di fluire a caso, senza alcuna preventiva prevedibilità. Ciò permetterà di produrre sequenze sempre nuove di elementi, massimamente eterogenei ma continui, che interagiranno gli uni con gli altri, mossi soprattutto non dal caso bensì dal desiderio. A questo punto, le differenze fluide si manifesteranno principalmente in base al ritmo, all’accentazione e alla musicalità. Solo la fluidità assoluta permetterà di sfuggire, una volta per tutte, all’ordine deterministico imposto dal sistema, dalla ragione strumentale, dai vincoli della tecnica e del potere maschile. E qui, la maggior parte del lavoro sarà stato fatto.

Va oltretutto ricordato – per chi se ne fosse scordato – che, intanto, è già in avanzata realizzazione un progetto del tutto analogo nel campo della sessualità, che è un altro baluardo del tecno-potere. Al mondo binary della forzatura, degli incasellamenti contro natura, si sta opponendo il nuovo mondo delle infinite gradazioni, rispondente al diritto di ciascuno di modulare all’infinito – e “infinito” è davvero termine impegnativo – senza pregiudizi, la propria identità sessuale. Certo, occorrerà un’infinità di diversi pronomi personali, e un controllo sulla corretta applicazione degli stessi, ma la cosa non è giudicata impossibile.

11. Si tratta di teorie indubbiamente ardimentose, e tuttavia decisamente affascinanti. L’esposizione fattane dai loro militanti è decisamente sciolta e senz’altro fluida. Si tratterebbe, insomma, di smuovere finalmente tutto ciò che era stato immobilizzato dalla logica deterministica del sistema governato dalla ragione strumentale dicotomica. Quella stessa ragione in ultima analisi generatrice del tecno-sistema. Non nascondo che si tratti di concezioni alquanto complesse, che richiedono una notevole capacità di comprensione profonda e di meditazione.

Tuttavia gli esponenti del Movimento, al di là delle loro propensioni underground, ritengono che il nucleo del loro messaggio sia veramente a disposizione di tutti. Si tratta di mettere da parte il pregiudizio intellettualistico, che è sempre dicotomico e sempre in agguato, e di lasciarsi guidare soprattutto dal desiderio. Concetto peraltro già citato. Mentre l’intelletto è una pura sovrastruttura, il desiderio costituisce la struttura profonda e basilare, rizomatica, di ogni soggetto. Quelli del movimento parlano, infatti, proprio di un soggetto desiderante. Il soggetto desiderante è ovunque ormai pesantemente inibito dai processi dicotomici. Si tratta di risvegliarlo, di richiamarlo alla luce. Per fare ciò bisogna procedere dall’interno, lasciare che il desiderio si manifesti. Bisogna sapersi ascoltare. La cosa importante è che ciascuno si liberi delle sovrastrutture dicotomiche normative e impari a seguire il proprio desiderio. Si tratta di mettere da parte ogni intellettualismo e di procedere seguendo la propria intuizione.

12. Di fronte a questo profluvio di teoria, in attesa di approfondire il quadro complessivo, ho pensato bene, nel mio piccolo, di concentrarmi sulla prima tappa prevista dal Movimento. Intorno alla quale cercherò di dire qualcosa di più preciso. Cosa significa liberare il testo dalle gabbie della testualità? Vediamo intanto come vien da loro descritta l’attuale situazione di oppressione. Oggi, principalmente in Occidente, la testualità è imprigionata in una logica di potere che la costringe in una serie di categorie dicotomiche del tutto artificiali. Si tratta dell’articolazione cognitiva del potere classificatorio, ben nota fin dagli studi di Durkheim e Mauss[10]. Classificazioni che riducono i gradi di libertà di chi scrive, costringendo anche chi legge ad avere a che fare per lo più con merce preconfezionata e del tutto prevedibile. Tanto che perfino i modelli LLM riescono a produrre testi perfettamente canonici. Merce imposta, sempre accompagnata da qualche tetra categorizzazione testuale.

13. Ma vediamo in pratica. L’oppressione comincia fin dalla prima infanzia. Ai bambini piccoli vien detto «Scrivi i pensierini», escludendo già, con ciò, che si possano scrivere dei versi liberi, o ci si possa mettere a cantare, o si possa più semplicemente picchiare sul banco con la matita, come farebbe ogni piccolo della specie umana, se fosse spinto soltanto dal puro desiderio. Ogni “pensierino”, poi, è fin dall’inizio strutturalmente determinato, deve cominciare con la lettera maiuscola e finire con un punto a capo. Vien detto loro poi di fare il riassunto dei pensierini. Il riassunto dovrebbe individuare un contenuto prefissato che addirittura si troverebbe già nel testo da riassumere. Ma in ogni testo, come vedremo, c’è sempre un’infinità di contenuti. A rigor di logica, se si riflette bene, anche solo seguendo Derrida, il riassunto è impossibile. Non c’è fuori testo. Anche la composizione del famoso tema prevede un sacco di limitazioni e poi, soprattutto, implica l’imposizione esterna di un enunciato. Il tema poi, notoriamente, risale alla Ratio Studiorum gesuitica, autentico supplizio della mente e del corpo. Qualunque tema, poi, presuppone un destinatario che è, in realtà, un’ipertrofica struttura giudicante cui ci si abitua a sottoporsi. La scuola, da questo punto di vista, svolge la funzione della principale agenzia di controllo e imposizione. Qualcuno la chiama dispositivo della testualità dominante.

14. Crescendo, le limitazioni testuali si moltiplicano, con una sempre maggiore imposizione di regole sempre più assurde e arbitrarie. Così si viene progressivamente costretti nelle stretture dei generi testuali più ufficiali: diario, lettera, telegramma (ora per fortuna un poco in disuso), articolo di giornale, relazione, tesina, saggio breve, SMS, saggio bibliografico, saggio critico, articolo di storia, articolo di attualità, tesi di laurea triennale, tesi di laurea quinquennale, catalogo delle navi, manuale della lavatrice, racconto, sonetto, romanzo. Chi più ne ha, più ne metta. E questa è solo una parte minima delle possibili articolazioni dei generi testuali. Ma questo bestiario dei generi testuali è costituito da un cumulo di prescrizioni arbitrarie.

L’articolo di giornale per esser tale deve avere un certo numero di battute, ma nessuno sa dire davvero quante. Il saggio breve, che si usava all’esame di Stato, doveva avere caratteristiche così vincolanti che erano lesive della libertà di chiunque. Si dovevano mette anche le note a piè di pagina. Meno male che ci ha pensato la ministra Fedeli a sopprimere un tale abominio nel 2019. La tesi di laurea triennale, poi, secondo Vera Gheno[11], potrebbe avere come minimo 15 pagine e come massimo 70. Chi lo ha detto? E se mi volessi laureare con una tesina di 14 pagine? O di 71? Ci sono dei saggi in Montaigne[12] – che pure di saggi se ne intendeva – che sono lunghi una pagina e mezza. Se andate poi a consultare i numerosi manuali di scrittura, che continuano a essere pubblicati a un ritmo incalzante, troverete una miriade di prescrizioni, peraltro spesso in disaccordo tra loro, che costituiscono altrettante intimidazioni nei confronti di chi si appresti anche solo a compilare una lista della spesa, la qual lista poi è forse il più negletto dei generi testuali, seppure tra i più indispensabili. Chiunque legga anche uno solo di questi manuali non può che sentirsi intimidito. Convinzione del movimento NNCBV è che questo sconcio debba finire. Si tratta allora di condurre un attacco al cuore dei generi testuali.

15. Sì, va bene, ma come si fa? Noi, che abbiamo avuto i nostri peccati di gioventù, di primo acchito saremmo tentati, sull’onda di un’antica simpatia per Feyerabend[13], di dire che «Anything goes!», qualsiasi cosa va bene. Sarebbe sufficiente una negazione estemporanea delle regole, ogniqualvolta si venga in contatto con esse. Solo alla fine di ciascuna intensa giornata di disseminazione della contestazione, il militante dedito alla causa NNCBV, potrebbe fare il bilancio del caos testuale che è riuscito a seminare. Si potrebbero fare anche delle gare. Pur accettando pienamente la prospettiva feyerabendiana, il Movimento crede tuttavia particolarmente in paio di specifiche strategie che andrò a illustrare.

16. Uno dei metodi proposti dal movimento NNCBV è il détournement, ossia la diversione. Non si tratta certo di una novità, poiché notoriamente è il recupero di un vecchio metodo lettrista e situazionista. La novità è che ora sarà applicato sistematicamente proprio ai generi testuali. Sono certo che i miei dieci lettori avranno piacere di avere qualche esempio. Potete finalmente mettere in versi, con pieno valore legale, il verbale della riunione di condominio. Potete conferire un risvolto poetico anche ai latrati rivolti alla luna, del vostro cane, dopo una accurata registrazione, masterizzazione e relativa diffusione su Facebook. Potete ordinare una pubblicità alla radio locale che usi lo stesso idioma delle lettere circolari dell’Agenzia delle entrate. Oppure un verbale della Polizia potrebbe cantare in musica: «Lei andava a cento all’ora per trovar la bimba sua!». Si potrà – finalmente – avere un trattato sul modello standard della fisica delle particelle scritto interamente in versi dialettali, e per giunta, finalmente, senza formule matematiche. Il principio generale del détournement è il seguente: poiché tutto è sempre collocato in un contesto (e ogni contesto è sempre vincolante e normativo, cioè autoritario), allora la mutazione inattesa del contesto, il cambiamento repentino del gioco linguistico, come direbbe Lyotard[14], rende palese la dipendenza dal contesto e, nello stesso tempo, produce espressioni del tutto nuove, nello spirito della fluidità creativa.

17. Ma non basta. Poiché abbiamo citato Derrida, tra i metodi di NNCBV non poteva mancare anche la decostruzione. Per definizione, secondo i decostruzionisti, un testo qualsiasi (si ricordi che, per Derrida, tutto è testo!) non dice mai quel che apparentemente sembra voler dire. Dice sempre altro. Un testo in sé non è mai quel che sembra, è sempre qualcos’altro. Dietro al testo, sempre il sospetto ci cova. Attraverso la déconstruction si tratta di spremere il testo e fargli tirar fuori quello che proditoriamente nasconde. Trasferito questo concetto nel campo dei generi testuali, avremo dei risultati sorprendenti. Un genere testuale non è mai quello che si presenta come tale. Un saggio bibliografico potrebbe essere in realtà – à la Bourdieu – un episodio dello scontro di potere tra fazioni accademiche. Un vocabolario della pronuncia, come il DOP, sarà decostruito e interpretato come un dispositivo (Gestell) heideggeriano. Un apparato cioè che è espressione della tecnica e che consegue dal nascondimento dell’essere. Coloro che sono costretti all’uso del DOP scontano, per intanto, di non essere di madre lingua tedesca – cosa gravissima – e, poi, non possono che palesare così la loro condizione di deiezione e il loro oblio dell’essere. La famosa lista della spesa va interpretata, in realtà, come una denuncia dell’impoverimento del ceto medio, oppure della pericolosa tendenza verso l’obesità di una fascia sempre più ampia della popolazione. Un saggio, qualunque sia il suo contenuto, non può che essere una potente espressione della vana gloria, inevitabile da parte dell’autore: poiché scrivere un vero saggio è impossibile, chi dichiara di averne scritto uno, per di più nell’incipit, non può che essere in perfetta malafede. L’autore, autoproclamatosi tale, poi non sa, non solo che il saggio è impossibile, ma non sa neppure che ormai, da decenni, è stata dichiarata anche la mort de l’auteur[15]. Ma la casistica è infinita, poiché ovunque ci sia genere testuale, lì non può esserci che decostruzione. Per questo non si può mai fare un riassunto: i significati del testo sono in realtà infiniti. Non c’è fuori testo.

18. Un bambino sfortunato crede di star facendo un tema in classe, in realtà la sua è la denuncia di una violenza subita in famiglia. Senza decostruzione, la sua denuncia non sarebbe neanche recepita. La sequenza degli SMS sul telefonino è in realtà qualcosa di ben diverso da quel che comunemente si pensa. Si tratta, infatti, di un vero e proprio testo narrativo, di grande spessore e complessità, da fare invidia a cose come I fratelli Karamazov – si sa che la prosaica vita vera, con i suoi dettagli minimalisti ma autentici, è in grado di fare impallidire la migliore fiction. Gli scontrini del supermercato, opportunamente raccolti e trattati, costituiscono dei realistici saggi di scienza economica. In ogni caso, è la univocità della forma testuale che deve essere messa in gioco. Deve essere smascherata nella sua impossibilità. Attraverso il détournement e la deconstruction si tratta allora di rompere i confini presuntuosamente certi della testualità, mostrare coram populo le strutture di potere ovunque nascoste del pensiero unico. Solo lo smascheramento può dissolvere l’illusione costantemente messa e mantenuta in scena dal tecno-sistema.

19. Ecco che, allora, nessuno degli ingenui beoti che usano allegramente e spensieratamente le consuete classificazioni dei generi testuali, quelli dei vari manuali su “come si scrive”, può più sentirsi veramente al sicuro. Non appena si pubblica qualcosa, ci si espone continuamente agli attacchi di guerriglia linguistica dei NNCBV. Mi permetto di ricordare che uno dei primi a parlare di agonismo linguistico è stato proprio Lyotard. Ci si espone anche perché, in effetti, un qualsiasi tentativo di definizione dei generi testuali – agli occhi del Movimento – non può che rivelare l’impossibilità oggettiva di portare a termine la consegna. Questo per il motivo banale, appena visto, che ogni testo non è mai quello che dice di essere. E gli esponenti del Movimento NNCBV si impegnano a farlo notare con i loro interventi estemporanei, a sorpresa, talvolta anche necessariamente cattivi. Ma un po’ di guerriglia violenta è indispensabile, se vuoi davvero cambiare la situazione e salvare la libertà di espressione di tutti noi.

20. In queste operazioni di guerriglia linguistica, i NNCBV fanno grande uso di un espediente che ha una lunga storia filosofica alle spalle: l’ironia. Non certo quella di Socrate, che non credeva neanche alla scrittura, bensì preferibilmente quella di Rorty[16]. L’ironia rortiana non è quella dell’ingenuo che cerca la verità, come Socrate, bensì quella di chi ha capito com’è fatto davvero il mondo. Di chi si è finalmente pacificato col problema della verità, ammettendo che esistono mille verità, che ciascuno ha la sua verità, per cui possiamo benissimo stare in un mondo di tante verità che si equivalgono, oppure anche del tutto senza verità. Questo però è possibile purché ci mostriamo sempre bene educati e tolleranti. E pratichiamo la solidarietà. Non dovrebbe sfuggire al lettore la stretta parentela con l’ironismo rortiano del rifiuto delle dicotomie e delle classificazioni da parte del Movimento. Nonché la parentela stretta tra le mille verità e le infinite differenze fluide che costituiscono il mondo. Del resto, saper stare agevolmente senza punti fermi è la vera profonda caratteristica del postmoderno.

21. Credi di avere scritto un articolo di giornale? Sei un illuso, perché hai sbarellato sulla lunghezza, manca la descrizione completa di un fatto e c’è in mezzo una figura retorica inappropriata, inaccettabile in un articolo del genere. Il titolo poi non va bene. E poi il giornale su cui scrivi non è veramente un giornale. Come fai a sapere che un giornale è proprio un giornale? Insomma, scrivere un articolo di giornale vero è impossibile. Credi di avere scritto un racconto? Ma cosa è davvero un racconto, che requisito deve avere per esser tale secondo le regole? Nessun racconto sarà mai davvero esaustivo dei precetti testuali. Credi di avere scritto un saggio? Povero illuso. Il tuo saggio ha in realtà la stessa struttura sequenziale (cioè, tanti orrendi capoversi numerati!) della lista della spesa. Credi di star facendo della satira? Niente di più sbagliato, la tua non è satira, hai solo prodotto una elementare serissima descrizione di persone e comportamenti che hai appena incontrato nel piatto mondo ordinario. Hai tenuto una relazione? Ma come facciamo a sapere che si trattava proprio di una relazione, quando hai speso metà del tempo a divagare sul significato di un solo concetto? Perché ci sia una relazione, ci dovrebbe essere un contenuto, ma si dimostra facilmente che, essendo i contenuti infiniti, non ci può essere alcun contenuto prevalente. Dunque o hai relazionato su tutto, cosa impossibile, oppure su niente, cosa del tutto inutile. E poi, qual è il pubblico minimo perché si possa dire di avere “tenuto una relazione”? Su quest’ultimo punto ci viene in mente il famoso argomento del sorite, ben noto ai liceali di un tempo.

Insomma, di fronte alle solerti, puntuali, acute e ironiche (seppur non sempre bene educate, solidali e tolleranti) contestazioni di NNCBV, qualunque definizione darai del tuo testo sarà considerata pretestuosa, imperfetta, inattendibile e, dunque, prova ultimativa che i generi testuali sono soltanto imposizioni arbitrare del potere e del patriarcato. Se tu dovessi perseverare nelle tue ingenue convinzioni, saresti additato al pubblico ludibrio come servo del potere. Servo così stupido da essere perfino inconsapevole. Così la derisione collettiva (altrimenti detta gogna testuale) incombe sugli ingenui praticanti delle dicotomie testuali e delle loro varie pretese impossibili classificazioni autoritarie. Colpiscine uno, per educarne cento!

22. Ai miei dieci lettori verrà tuttavia da domandarsi: «Che fine farà allora il contenuto testuale?». È abbastanza chiaro che le provocazioni del Movimento mettono in primo piano l’elemento formale ed evitano di concentrarsi sul contenuto del testo. É questa una questione davvero non secondaria. Secondo NNCBV, prima di pensare al contenuto eventuale, si tratta di vedere sempre se la forma è autentica. Ma poiché nessuna forma può essere davvero autentica, per definizione, allora a considerare il contenuto non si arriverà mai. E questa è senz’altro una conseguenza consapevolmente voluta dal Movimento. Liberare il testo dalla sua forma significa anche liberarsi dalla schiavitù del contenuto. Diciamolo pure: «Il contenuto è una roba da vecchi!». Una roba da Boomer. In effetti, il contenuto non è certo la principale preoccupazione del Movimento. Il Movimento, a quanto ci è parso di capire, è di fatto del tutto indifferente rispetto ai contenuti. Liberati finalmente dalla forma, i contenuti divenuti privi di forma saranno abbandonati al loro destino. Al loro posto, si lascerà spazio a una benevola e gratuita ironia rortiana nei confronti di qualsiasi contenuto. Del resto, la fluidità espressiva, mossa dal desiderio, produrrà contenuti fluidi sempre nuovi e sarà così del tutto inutile soffermarsi su qualsiasi contenuto particolare. I contenuti di ieri, oggi sono già scaduti, da dimenticare o da buttare.

23. Dopo queste lunghe argomentazioni e spiegazioni, son rimasto quasi senza parole. Di stucco. E ho fatto un altro paio di gulp. Devo dire che, per quanto provocatoriamente radicale, il Movimento sembra possedere una base teorica alquanto lucida e consapevole, ben più di altri movimenti similari. Una base teorica difficilmente attaccabile. Impossibile da attaccare. Anche perché attaccare le loro teorie significherebbe attaccare, più o meno, tutta la filosofia continentale degli ultimi secoli. Naturalmente, poi, è innegabile che la loro pratica sia un’immediata conseguenza della teoria. Qui, veramente, la filosofia si capovolge e diventa pratica per trasformare finalmente il mondo.

24. Tuttavia devo ancora riferire di un piccolo dettaglio di costume che forse getta qualche ombra sulla lucidità della teoria e, soprattutto, sulla pratica del movimento NNCBV. Visto che la realtà, come dice Derrida, è interamente testuale, “Non c’è fuori testo”, ne consegue che l’impegno dei militanti fluidi è piuttosto pesante e questo fatto – si ammetterà – genera un certo stress psicologico. Oltretutto, la loro negazione pratica dei generi testuali crea un serio disturbo alla loro stessa vita sociale – che, al di fuori del gruppo di riferimento, è praticamente inesistente.

Allora, forse proprio per questo stress, accade che, a ogni fine stagione, quando altrove sarebbe il momento dei saldi, i militanti del gruppo celebrino, ahimè, la loro settimana del testo. Si tratta di una specie di rito carnevalesco che ricorda ai militanti, in forma decisamente orgiastica, l’altro lato del mondo, l’altra faccia della luna. Nientemeno che la testualità proibita. Questo forse per mantenere una qualche consapevolezza di quanto viene combattuto e represso tutti gli altri giorni. Freud avrebbe forse parlato di un ritorno del represso. L’antropologia culturale, su questo costume, avrebbe notevoli materiali su cui indagare.

25. Si tratta di un rituale da loro chiamato festa della testualità totemica, dove i militanti – in collegamento webcam – indossano ciascuno la maschera di uno dei generi testuali tanto esecrati, tanto considerati come impossibili. E così mascherati, si danno a produrre, tra lazzi e schiamazzi, coriandoli e trombette, in forma esagerata e compulsiva, barzellette, temi in classe, articoli di giornale, poesie, saggi e saggi brevi, tesi triennali, iscrizioni sepolcrali, necrologi e quant’altro. Fanno anche i riassunti! Insomma, una specie di ebbro mondo alla rovescia, dove Penelope disfa la tela che ha appena tessuto, dove potrete vedere (se sarete stati fortunati ad avere l’accesso, attraverso Facebook e i social media) i duri militanti, ora mascherati come satiri, diventare i più ortodossi cultori delle distinzioni tra i generi testuali. Li vedrete cioè intenti a tracciare e mantenere enfaticamente le prima tanto odiate distinzioni dicotomiche. Ma questo accade solo per pochi giorni. Tornando alla normalità della vita reale, il mondo illusorio “totemico” appena creato si dissolve e quegli stessi video e materiali prodotti saranno accuratamente riposti e conservati per il carnevale della stagione successiva. Quindi – un avviso ai miei dieci lettori – dovete stare bene attenti. Se su qualche social vi imbatterete in qualche esponente NNCBV, dovrete per prima cosa cercare di capire se si tratta del normale periodo di attività oppure di quello dei saldi di fine stagione. Personalmente, mi hanno fatto venire in mente gli australiani descritti da Durkheim[17], i quali per tutto l’anno si proibiscono di mangiare l’animale totemico, ma poi, nel giorno della festa, ne fanno una scorpacciata.

26. Comunque – nessuno è perfetto – lunga vita a Noi non ce la beviamo! Si tratta senz’altro di un Movimento nostrano che non ha nulla da invidiare alla cancel culture, a Me Too, a BLM, a Stay Woke o al più noto onnicomprensivo politically correct, o anche magari crazily correct. Resta un piccolo problema, ma solo per me, umile cronista di un incontro casuale durante una vacanza estiva. Dopo le sollecitazioni del Movimento, non oso proprio più asserire cosa sia questa cosa che ho appena scritto per i miei dieci lettori. E quindi mi trovo in estrema difficoltà, anche soltanto a trovare un titolo. Satira? Barzelletta? Manuale della lavatrice? Cronaca filosofica? Diario di viaggio? Articolo di giornale? Batracomiomachia? Trattato di morale? Non-fiction? Paradosso? Racconto di fantascienza? Flusso di coscienza? Saggio à la Montaigne? Saggio di linguistica? Racconto breve? Sogno di una notte di mezza estate? Così, spinto dal dubbio, mi è venuto in mente che, per schivare le giuste rampogne del Movimento NNCBV, non mi restava che nascondermi dietro a una nota tattica surrealista[18]. Tanto per riuscire a essere politically correct almeno una volta.


Note

[1] Se “questo non è un saggio”, ne deriva che anche l’autore non è un autore. La cosa non è del tutto impossibile. Abbiamo ben presente la sofisticata problematica relativa alla morte dell’autore (a partire da Roland Barthes, 1984,“La mort de l’auteur”, LesÉditionsduSeuil, Paris.  Tr. it.: “La morte dell’autore”, in Barthes, Roland   (a cura di), Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino, 1988). Infatti, il non autore di questo non saggio non ci ha messo proprio niente di suo. Si è limitato a guardarsi intorno, a osservare qualche personaggio ridicolo dei nostri tempi e a rubacchiare qualche spunto, qua e là, nella letteratura che va per la maggiore e che sta friggendo le menti delle vecchie e nuove generazioni. Nella stesura di questo non saggio il non autore non si è servito di alcuno strumento di AI, ovvero di intelligenza artificiale. Anche perché, qualora lo avesse fatto, si sarebbe trattato piuttosto di IA, ovvero di Ignoranza Artificiale.
Pubblicato su Finestre rotte il 31 agosto 2025.

[2] Non binary è un neologismo che si sta diffondendo sempre più, e sta a contraddistinguere coloro che rifiutano di stare nella strettoia delle dicotomie e delle classificazioni.

[3] Michel Foucault (1926-1984). Qualificato come filosofo e (ahimè) sociologo francese.

[4] Cfr.: 2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

[5] Jacques Derrida (1930-2004), filosofo francese post strutturalista, inventore del decostruzionismo.

[6] La frase che molti citano suona come “Non c’è fuori-testo” e si trova alla pag. 219 in: 1967, Derrida, Jacques, De la grammatologie, LesÉditions de Minuit, Paris.  Tr. it.: Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1998.

[7] Ci si riferisce a Jean Baudrillard (1929-2007), sociologo, filosofo, politologo e saggista francese.

[8] Ludwig Feuerbach (1804-1872), filosofo della sinistra hegeliana.

[9] Mi riferisco al filosofo francese post – strutturalista Gilles Deleuze (1925-1995).

[10] Mi riferisco ovviamente al noto saggio: 1903 Durkheim, Émile&Mauss, Marcel, “De quelquesformesprimitives de classification”, in L’annéesociologique, n. 6, 1903.  Tr. it.: “Alcune forme primitive di classificazione”, in Durkheim, Émile&Mauss, Marcel   (a cura di), Sociologia e antropologia, Melita, La Spezia, 1981.

[11] Nota esperta di linguistica, peraltro aperta a molte innovazioni, come la “schwa”. Dice la Gheno: «In alcuni atenei [la lunghezza ndr] è di 20 pagine, con una tolleranza di più o meno 5 pagine; ma di solito, se non è diversamente specificato, la lunghezza attesa è compresa tra le 35 e le 70 pagine». Cfr.: 2019, Gheno, Vera, La tesi di laurea, Zanichelli, Bologna (pag. 8). Questo mio non saggio ammonta in tutto a circa 39 000 battute. A 2000 battute per pagina, potrei già prendere, da qualche parte, una non laurea triennale!

[12] Michel de Montaigne (1533-1592). Celebre autore dei Saggi. Cfr.: 1986 De Montaigne, Michel, Saggi (a cura di Virginio Enrico), Mondadori, Milano. [1580-1588]. C’è una traduzione nuova da Bompiani.

[13] Mi riferisco a Paul Feyerabend (1919-1994), noto epistemologo che ha sostenuto l’anarchismo metodologico. La sua posizione è davvero sottile, poiché l’anarchismo metodologico rende del tutto superflua l’epistemologia stessa.

[14] Francois Lyotard (1924-1998) filosofo francese post-strutturalista, considerato come il principale esponente del postmodernismo filosofico.

[15] Vedi nota n. 1.

[16] Il riferimento va a Richard Rorty (19341-2007), filosofo neo pragmatista americano, assai vicino al postmodernismo.

[17] Mi riferisco a: 1942 Durkheim, Émile, Lesformesélémentaires de la vie religieuse. Le systémetotémique en Australie, Alcan, Paris.  Tr. it.: Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton, Roma, 1973.

[18] Mi riferisco a René Magritte (1898-1967) e alla lettura anti fondazionale e relativista che Michel Foucault ha fatto della di lui opera titolata “Ceci n’est pas une pipe”.

La via per il cavagno colmo

diario di una giornata tra funghi e piccole filosofie boschive

di Fabrizio Rinaldi, 14 settembre 2025

Quando lo propongo a mia figlia, lei accetta ad una condizione: “solo se viene anche il nonno”. Una formula che dice tutto: la fiducia riposta in me vacilla, mentre la figura del vecchio resta intatta, nonostante gli ottant’anni passati e un’autorevolezza che neppure gli acciacchi scalfiscono.

Dunque, non ho più scampo: “Andiamo a funghi?”. Ecco di che si tratta: cercare il più prezioso frutto del bosco. Mio padre non ci va da tempo perché consapevole delle sue diminuite capacità fisiche; d’altra parte, non trovo mai il tempo neppure io: il lavoro, la famiglia, le scuse pronte che giustificano l’inerzia. È però scontato che accetterà la proposta: un po’ perché non riuscirebbe a negarsi al “ti prego, ti prego” di mia figlia, un po’ perché – lo leggo dai suoi occhi – ha una voglia matta di andarci, specie da quando ha intuito che quest’anno ce ne dovrebbero essere.

Perché il fungo, lo sappiamo, non si concede facilmente: pioggia al momento giusto, umidità calibrata, terreno adatto (“terra rossa chiama cocone[1]”), distinte specie boschive (castagni, rovere, faggi, …), arbusti di brugo, erba stciapoia[2] e rovi. Un’alchimia rara in un tempo sospeso e incerto, rapido e aleatorio, dove l’attesa, la delusione e la sorpresa, fanno parte dell’esperienza. Cercare funghi è quindi un inno all’imprevedibilità e alla contingenza di un’infinità di condizioni di cui, spesso, non siamo consapevoli, ma che percepiamo quasi istintivamente. A chi li cerca capita di pensare che intorno ad un determinato cespuglio o albero ci saranno sicuramente, mentre nove volte su dieci non c’è nulla; oppure, inaspettatamente, eccoli dove non avresti immaginato.

Appuntamento fissato: sabato, ore sei zero zero, sotto casa dei miei. Missione impossibile: riempire il cavagno d’anveriöi[3].

Metto la sveglia alle 5:20 solo per mia figlia; io non ne avrei bisogno, visto che mi sveglio sempre molto presto (tanto “molto”: 3:30-4:00). A quell’ora neppure i cani si muovono dal loro giaciglio. Il caffè diventa allora il gradito rituale che mi concedo davanti al portatile, nel tentativo — prima del quotidiano andare al lavoro o del frastuono femminile familiare — di ritagliarmi un po’ di tempo per leggere, scrivere o sistemare il sito. A proposito: sto creando le singole pagine dei molti autori che stanno contribuendo al nostro inutile ma caparbio contributo di idee.

Mettiamo nello zaino la borraccia, due felpe e i guanti. Non prendiamo neppure il cavagno, certi che ci penserà mio padre: e comunque non ci facciamo grandi illusioni sul bottino che ci aspetta. Alle sei recuperiamo il nonno. Iris mugugna per la levataccia, ma so che sotto sotto è contenta. E non è la sola.

Destinazione: boh! Il fungo è il Santo Graal del bosco: la geografia dei “posti buoni” si tramanda di generazione in generazione ed esige un’adeguata iniziazione, che prevede ruzzolate fra i rovi e imprecazioni quando non si trova il posto che ci si era prefissati. Oppure si va a casaccio, come è capitato molte volte a mio padre e a me. Posso solo dire che siamo dalle parti del Monte Colma, a Tagliolo Monferrato, ma su quale versante, lungo quale canalone ve li scordate. Altrimenti poi dovrei uccidervi.

Dopo una po’ di chilometri in auto, su strada prima asfaltata e poi sterrata, arriviamo ad uno slargo da cui anni fa eravamo partiti per una ricerca che aveva riservato misere soddisfazioni, pur essendo buone le premesse: boschi di castagno e rovere e sufficiente umidità.

Attraversiamo un prato e ci infiliamo nel bosco. Sono le 6:40, buio pesto. “A chi è venuto in mente di uscire così presto?”, mi chiedo, pur conoscendo la mia responsabilità. Iris si ostina a tenere la torcia del cellulare accesa, mentre noi procediamo a lume di fiducia.

Continuiamo fra i rami e tronchi fino a raggiungere e attraversare un ruscello e, sempre nel semibuio, cominciamo a salire. Già, perché la ricerca del fungo è sempre in salita: nell’attraversare il bosco in quel modo lo sguardo va sempre dal basso verso l’alto, così da intravvedere meglio l’eventuale e ambito gambo. Difficilmente si trovano percorrendo la discesa, accade solo se ce ne sono davvero parecchi. D’altra parte, la salita non si affronta mai in verticale seguendo un sentiero o facendo la diretta (vedi Tobbio), ma in diagonale: si prosegue con piccoli zig zag a salire, passando attorno all’albero, all’arbusto, alle foglie smosse.

“Eccone uno!”, esplode Iris. Ma no, dai è impossibile: è buio, li cerca a casaccio e con la torcia! Invece sì, ha scovato il primo porcino della giornata. La fortuna della principiante … È un po’ mangiucchiato dalle lumache, ma tant’è l’ha trovato.

La logica impone di sminuire i ritrovamenti altrui, così da non intaccare la smania di chi resta a mani vuote. Ma subito dopo, ecco che anche mio padre ne trova due. Io niente. Porca miseria.

Errore madornale da evitare sempre: non parlare ad alta voce se non vuoi che altri fungau arrivino come mosche, ma a quest’ora siamo i soli a cercarli. Più tardi ronzeranno fastidiosi.

L’incontro fra escursionisti nei boschi è normalmente, piacevole e accompagnato da un cordiale saluto, riconosci nell’altro la stessa passione nel camminare e – fra l’altro – l’inconfessato desiderio di esser ricordato qualora ti smarrissi; la persona incontrata potrebbe dare ai soccorritori le indicazioni giuste per il ritrovamento, possibilmente in vita.

In stagione di funghi, invece, il diffidente fungaiolo vede l’altro come invasore del proprio “posto buono”. Il saluto si riduce a un mugugno, seguito dalla menzognera svalutazione del proprio bottino: “poca roba e camulöi[4]; siamo saliti da questo versante e ci spostiamo di là”. Ovviamente non c’è da credere alle indicazioni ricevute. In tali circostanze emerge la gelosa preservazione dei “posti buoni”, anche se la raccolta è stata infruttuosa. Non sia mai che altri scovino l’agognato bottino.

La logica dell’esclusiva appropriazione ricorda i redivivi nazionalismi, la difesa ossessiva delle risorse e della propria (o presunta tale) identità cultura e sociale. Le comunità serrano i confini e pochi individui accumulano privilegi a discapito della moltitudine. Il patrimonio pubblico sottratto al benessere comune, come la giusta posizione della fungaia celata alle attenzioni degli altri, dei foresti. Il micelio, lui che condivide tutto, se fosse in grado di giudicare, riderebbe della nostra meschina avidità.

Tornando allo stare nel bosco di notte, a nessuno è venuto in mente che eravamo i soli nel bosco fitto e praticamente buio. Un aspetto che, in situazioni differenti, avrebbe sicuramente spaventato mia figlia. Sarà la sicurezza nei gesti del nonno, sarà il procedere con tranquillità nella boscaglia, sarà l’obiettivo ben chiaro, ma nessuno è stato sfiorato dal timore di inoltrarci in un territorio sconosciuto e senza la possibilità di chiedere aiuto in caso di difficoltà, tantomeno Iris. È il potere che conferisce l’avere la finalità da perseguire ben chiara e la motivazione alta. E, non ultimo, il piacere di cominciare a trovarli. Pure io!

La luce lentamente rischiara e finalmente Iris ripone il cellulare che usava come torcia per immergersi nella ricerca del porcino, il quale si mimetizza fra le foglie meglio dei Navy SEAL.

Iris finalmente la smette di commentare ogni cespuglio e tace: pure lei è in modalità fungaiola. E ne trova, anzi ne troviamo tutti. Dopo i primi, s’innesca la caccia insaziabile che fa macinare chilometri senza sentire la stanchezza. La voglia è compulsiva; scatta la febbre dell’accumulo, pure di quelli divorati da lumache o altri animali. L’appagamento non si placa neppure quando il cavagno è pieno. Mi tocca tirar fuori la borsa di fortuna che avevo portato per scaramanzia.

Tutti e tre proseguiamo salendo in quello stato di quasi trance che s’innesca quando si comincia a scovarne un po’: si prosegue guardinghi; si passa da una parte e dall’altra dell’albero; si alzano piano le foglie; si segue l’odore come un segugio; si interpreta l’ombra e la lama di luce che supera la barriera della chioma per raggiungere proprio quel rigonfiamento che cela, forse, l’agognato porcino; in sintesi, si segue l’istinto (per chi ce l’ha).

Interpretare il bosco, comprenderne gli infiniti gradienti e segnali, ha bisogno di osservazione acuta e di propensione al dettaglio minimale. Le certezze qui evaporano mettendo in evidenza la nostra infinita insignificanza rispetto al processo evolutivo, morfologico e sotterraneo in atto mentre lo attraversiamo. A pensarci bene piegare la schiena e l’orgoglio (inchinarsi) per cercare funghi è un gesto necessario ma anche altamente simbolico, è il riconoscere la nostra insignificanza al cospetto di un processo che ci supera in tutto. Possiamo cogliere solamente alcuni aspetti di questa infinita complessità, che regalano, a volte, l’agognato fungo. E, per questo, dobbiamo ritenerci fortunati, perché avremmo potuto tornare a casa man scrullanda, senza sapere neppure il perché. Il bosco, per definizione, è l’antitesi della razionalità umana: è un intreccio fitto di vita e di decomposizione, di crescita e di morte. Chi vi cammina attraverso ha una mappa del territorio solo abbozzata, con qualche intuizione ed indizio frutto dell’esperienza e degli studi, ma sicuramente incompleta.

Tra l’altro, si sa, il vero fungo è nel sottosuolo ed è in simbiosi con specifiche piante in una correlazione complessa di interscambio di informazioni e nutrimenti. Ciò che vediamo e apprezziamo è solo il corpo fruttifero, la punta di un sistema sotterraneo sterminato, il micelio, appunto, che è, per lo più, invisibile e inafferrabile, come le ragioni profonde che reggono la nostra esistenza. Noi, eterni abitanti della superficie, viviamo di queste apparizioni temporanee, senza padroneggiarne mai davvero il senso.

Altra piccola disgressione. La ricerca delle fungaie acquisisce significato – prima ancora dell’assaporarne il frutto – se accompagnata dalla sua narrazione, subita da parenti e amici in casa, al bar o sui social, dove i dettagli sono sviscerati (tranne ovviamente i luoghi dei ritrovamenti) e spesso le quantità si moltiplicano. La condivisione del porcino ancora nel bosco è stata una caduta anche per me: non sono riuscito a resistere dal mandare qualche foto al gruppo whatsapp “Family” …

Sono ormai le dieci passate e siamo nel pieno della ricerca, ma cominciano ad arrivare gli usurpatori del nostro territorio. Maledetti! Per segnalarci i ritrovamenti ci scambiamo fischi, versi gutturali e il “Mapo” di mia figlia — unico, o almeno così mi illudo — che dovrebbe risultare indecifrabile agli invasori. Ogni porcino stanato genera speranza in altri ritrovamenti; la si potrebbe chiamare avidità, se solo volessimo riconoscerla, ma al momento siamo immersi nella nostra spasmodica caccia.

Quella che era divenuta per noi una pratica quasi meditativa — cullati dall’attenzione al dettaglio, scandita dal passo lento, e consapevoli della limitatezza del nostro gesto — si è trasformata in un cercare compulsivo. Anche la borsa di riserva, dentro la quale avevo messo una scatola di cartone per non schiacciare i delicati esemplari (i veri fungaioli mi lincerebbero se lo sapessero), è ormai piena. A malincuore dobbiamo tornare indietro: non sappiamo più dove infilare i funghi e rischiamo di rovinarli se scivolassimo.

Scendere si rivela un’impresa non facile: il terreno è esposto e friabile. Tocca spostarsi a sinistra e risalire un tratto per cercare un canalone meno scosceso o una strada. Iris comincia a brontolare, lamentando la sua stanchezza e sostenendo che ci siamo persi. Finito l’entusiasmo del cercare e trovare funghi, le gambe protestano. E non è la sola. Mio padre è dolorante per una piccola storta ed io sono sfinito.

Non posso ammettere a mia figlia che una guida naturalistica e uno che va a funghi da quando era bambino non sanno ritrovare la strada del ritorno. Per fortuna non è così: sappiamo esattamente dove siamo (???). Infatti raggiungiamo la traccia di una strada usata per portare via la legna e la percorriamo per un po’. Iris ed io arranchiamo con i cavagni colmi; mio padre ci precede sorreggendosi al bastone. Si vede che è dolorante per la caviglia, ma non demorde e avanza dritto. Nonostante la prospettiva di ore di cammino e la certezza delle sgridate delle rispettive mogli, pare (la certezza non c’è mai) felice. Vengono in mente i versi di Primo Levi presenti ne L’approdo:

Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
che lascia dietro di sé mari e tempeste,
i cui sogni sono morti o mai nati,
e siede a bere all’osteria di Brema,
presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
felice l’uomo come sabbia d’estuario,
che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
e riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
ma guarda fisso il sole che tramonta.

Raggiungiamo poi due cascine perfettamente ristrutturate; non le ricordavo così, ma sicuramente sono state sistemate di recente. Alla fine della strada ci troviamo davanti a un cancello chiuso: siamo entrati in una proprietà privata — o, più probabilmente, in uno di quegli abusi che nascono quando chi vive nel bosco vuole proteggersi da malintenzionati chiudendo un’antica mulattiera che dovrebbe rimanere di passaggio per chiunque. Ma lasciamo perdere, non posso permettermi di polemizzare con la vecchia e rancorosa proprietaria che ci sta sbraitando contro. Chiediamo scusa e questa ci apre il cancello nel momento fortuito in cui passa un conoscente di mio padre, anche lui qui per funghi.

Per mezzogiorno siamo di ritorno all’auto: poi, arriviamo da mia madre, cui affidiamo il bottino. Il cercare funghi non necessariamente è correlato ad un equivalente piacere nel mangiarli. Mio padre li vorrebbe pure a colazione, mentre per me il fungo è più simbolo che piatto: il frutto proibito del bosco, che appare solo a chi ha la pazienza di cercare. Gli champignon in vaschetta del supermercato non danno emozione né nel trovarli né nel gustarli; il porcino, invece, è un’apparizione che ci ha regalato una giornata che rimarrà nella mente di tutti noi. Mia figlia, lo so, quando leggerà questo pezzo mi rimprovererà per qualche omissione o per aver dimenticato qualche dettaglio. Fa parte del gioco della memoria e della condivisione: la fungaia diventa subito racconto, e il racconto si moltiplica in narrazioni ogni volta più suggestive, omettendo, naturalmente, di nominare il “posto buono” delle fungaie.

Arrivato a casa, ho riguardato due libri che mi sono cari: la Guida pratica ai funghi in Italia a cura di Hans Haas (Selezione dal Reader’s Digest, 1983), un classico fondamentale per gli estimatori, e La via del bosco di Long Litt Woon (Iperborea, 2019). Questo ultimo non è solo un manuale di micologia, né soltanto un percorso di redenzione: è il resoconto di un attraversamento dell’autrice, alla quale è mancato l’amato compagno, verso una differente visione della propria intimità. Leggendolo m’è tornata l’idea che la ricerca — qui quella dei funghi, ma estensibile a molti aspetti della vita — non è riducibile al possesso, bensì alla capacità di tollerare la perdita. Imparare a vivere con l’assenza è già un obiettivo di tutto rispetto.

Ora però bisogna inventarsi altro per riuscire a stornare l’attenzione delle figlie dal cellulare … la prossima volta si va a pesca!


NOTE

[1] Ovolo (Amanita caesarea).

[2] Molinia caerulea.

[3] Termine dialettale ovadese per definire i funghi porcini.

[4] Le camole dei funghi sono dei minuscoli insetti detti “ditteri” ed appartengono al genere Diptera ed alla famiglia dei Mycetophilidae

 

La fine di un Mondo

La deriva culturale del popolo della sinistra

di Giuseppe Rinaldi, 13 settembre 2025[1]

1. Ci sono[2] dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti, ma che non vengono mai esplicitamente portati all’attenzione e fatti oggetto di analisi. Perciò restano conoscenza implicita, senza alcuna riflessione[3]. Questi fenomeni corrispondono un po’ a ciò che Raffaele Simone ha chiamato fenomeni vaghi[4]. Solo in particolari occasioni, in seguito a qualche evento critico, pubblico o privato, ci si rende conto – “si prende coscienza”, si diceva una volta – dell’esistenza di qualcosa di nuovo, anche se magari di assai vecchio nella sostanza. Solo a questo punto, il fenomeno vago può essere circoscritto, diventa familiare, può avere una sua denominazione, può essere analizzato, magari anche compreso nella sua portata.

2. Un caso tipico è quello dell’attuale deriva culturale della sinistra italiana[5]. Intendo qui la sinistra come categoria sociologica, la gente della sinistra o il popolo della sinistra. Si tratta di un fenomeno da tempo collocato sotto gli occhi di tutti, pur non avendo mai avuto alcuna ufficializzazione. Fenomeno vago, appunto. Deriva culturale non vuol dire semplicemente che si perdono le elezioni, come peraltro avviene da un pezzo. Non sto parlando neanche di un eventuale tradimento dei principi e valori della sinistra da parte dei suoi dirigenti, oppure di un abbandono da parte dei partiti della sinistra del proprio popolo. Questi sono fatti che, in qualche misura, sono stati ampiamente rilevati e commentati, come ha fatto, ad esempio, Luca Ricolfi[6]. Io stesso, nel mio piccolo, ho scritto noiosi articoli e saggi in merito, anche se a un certo punto mi sono stancato, visti gli scarsi riscontri. Deriva culturale qui fa piuttosto riferimento alla evaporazione inesorabile della cultura politica della sinistra, come era diffusa e radicata in gran parte del Paese. Sto parlando proprio di un degrado della materia prima, cioè di un degrado intrinseco allo stesso popolo della sinistra. In breve: non siamo più quello che eravamo una volta.

3. Vorrei trattare qui, insomma, della condizione materiale e morale del popolo della sinistra. È una questione intorno alla quale ho sempre creduto, magari a torto, di saperne abbastanza. Sono infatti cresciuto in un ambiente di sinistra, in mezzo a tanti altri come me, in mezzo ai cosiddetti compagni. La qualifica di “compagni” in realtà non ha mai significato un granché, poiché, anche tra i compagni, quelle che emergevano erano sempre le differenze: teorie, ideologie, punti di vista, “sensibilità”, programmi politici e così via. Anche differenze di atteggiamento. Differenze che spesso portavano a rotture, frammentazioni, troncatura di amicizie di rapporti. C’erano anche le invidie e le antipatie personali. C’erano poi anche i furbetti che riuscivano sempre a farsi trovare nel posto giusto, nonostante i tempi cangianti e le incertezze del momento. Tuttavia, al di là della sempre difficile navigazione, al di là dei diversi schieramenti e contrasti, restava sempre la vaga percezione che tutte quelle persone avessero un quid comune, magari davvero assai tenue, capace tuttavia di accomunare, di distinguere dal resto. Di fare la differenza. Si trattava dell’individuazione di un noi collettivo. Un lievissimo comune sentire che si poteva appena avvertire e nel quale si poteva tuttavia confidare. Che magari sarebbe senz’altro emerso, nell’analisi di un fatto politico, nazionale o internazionale, oppure in un momento critico dello scontro politico, in una campagna elettorale importante. Ma sarebbe emerso anche discutendo di libri, oppure discutendo di cinema. Oppure in occasione di una raccolta di firme per qualche iniziativa. Anche la scelta circa la modalità di passare il fine settimana, o di fare le vacanze estive, poteva avere un implicito sottofondo comune. Anche certi hobby avevano un che di distintivo.

4. Su questi vaghi elementi, invero assai indefiniti, superficiali, occasionali ed evanescenti, si basava un senso del noi, un sentimento identitario che derivava da una scelta compiuta, implicita ma anche consapevole, di far parte e di voler continuare a far parte di un certo Mondo[7]. Un Mondo sentito, più intuito che ragionato, ma che per questo non era meno reale[8]. Anche perché gli altri “mondi” erano considerati negativi fuori ogni discussione, erano considerati come dei perfetti disvalori. E, bene o male, questo senso del noi era davvero diffuso. Percepito e condiviso da un numero davvero ampio di persone. Quando c’era qualche iniziativa comune, quelle iniziative davvero basilari, qualificanti, quelle cui non si poteva mancare, ci guardavamo intorno soddisfatti: eravamo comunque in tanti. Magari anche intimamente diversi, ma tanti. Naturalmente qui si sta parlando soprattutto dei tempi andati, del fantastico Mondo dei Boomer[9] e della loro cultura politica. Costoro hanno una descrizione sociologica abbastanza precisa. Sono i nati tra il 1946 e il 1964 e sono stati così chiamati in riferimento al boom demografico (baby boom) indotto dalla fine della guerra[10]. Si tratta oggi della generazione più anziana ancora vivente, che si è particolarmente distinta per una sua specifica cultura politica e per uno straordinario coinvolgimento attivo nelle vicende politiche nazionali e internazionali. Le culture politiche precedenti sono ormai in gran parte trapassate, ahimè, con i loro stessi portatori fisici, e quelle successive, come dirò, costituiscono, proprio sul piano della cultura politica, un notevole punto interrogativo.

5. Premetto qui due righe di teoria sulle questioni generazionali. La nozione sociologica di generazione è incentrata intorno all’esperienza collettiva di un gruppo di età[11]. In questo senso, gli appartenenti a una generazione, accanto al possesso di analoghe caratteristiche di tipo anagrafico, economico e sociale, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati da quella esperienza stessa. Si fa dunque riferimento a qualche tipo di esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo chi l’ha compiuta. Esperienze che abbiano avuto un profondo carattere formativo ed educativo. Si suppone che queste modifiche rimangano in qualche misura come permanenti, sia pure in forma compatibile con lo svolgersi della vita ulteriore. Anzi, queste modifiche dovrebbero costituire un background capace di determinare un comune modo di reagire di quella generazione alle più diverse occorrenze della vita pubblica e privata.

6. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché hanno condiviso una qualche comune esperienza, hanno anche avuto modo di sviluppare una loro auto rappresentazione (una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una loro propria memoria collettiva). Esse, inoltre, proprio in quanto entità bene individuabili, grazie alle caratteristiche che hanno maturato, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle narrazioni di altri soggetti (altre generazioni, i media, la letteratura o talune ideologie). Le generazioni dunque sono dei costrutti sociali, ma sono ben lungi dall’essere arbitrarie, poiché sono un prodotto preciso della storia, dell’azione collettiva e della memoria collettiva.

Se è vera la nostra ipotesi, che sia cioè in corso, o sia addirittura in fase avanzata, una progressiva deriva culturale del popolo della sinistra, allora questa deriva culturale dovrebbe, come minimo, essere fatta risalire indietro nel tempo, a cominciare proprio dai Boomer e dovrebbe coinvolgere progressivamente anche le generazioni successive. Naturalmente si tratta, in questa ricognizione, di prendere in considerazione anche le eventuali continuità o discontinuità nella trasmissione culturale tra le generazioni.

7. Un dato di fatto, per intanto, è che il senso del noi dei Boomer aveva ancora un carattere trans generazionale. C’erano gli anziani (tecnicamente ora definiti come Silents[12]) da cui si poteva sempre imparare qualcosa. C’era una tensione spasmodica nel tentativo di trovare tra loro delle figure guida, dei riferimenti di valore. Dei Maestri[13]. C’erano poi i più giovani di noi, ai quali ci sembrava di avere qualcosa di importante da trasmettere. C’era poi chi aveva all’attivo esperienze significative e magari esemplari da proporre. Quelli della Resistenza, quelli della nuova sinistra dei primi anni Sessanta, come ad esempio quelli dei Quaderni Rossi. C’era il mondo degli intellettuali, ampio, variegato e diffuso anche a livello locale, ma c’erano anche quelli del sindacato e c’era il vasto mondo del lavoro. E poi c’eravamo noi, gli studenti, che eravamo affacciati su questo Mondo. C’erano quelli del volontariato. C’erano poi gli iscritti e i militanti di numerose organizzazioni single issue. Oppure anche soltanto quelli che non sono mai riusciti a prendere una tessera, nemmeno una volta. Quelli, cioè, impietosamente definiti come cani sciolti. Erano sciolti ma avevano un tasso elevato di coinvolgimento e di partecipazione politica.

8. La sinistra, dunque, aveva allora un profilo nettamente pluri generazionale. La cultura politica, le conoscenze, i principi e i valori, le esperienze si cumulavano e si trasmettevano. E la sinistra pareva comunque in crescita. A un certo punto però è subentrata quella che può essere definita come una rottura generazionale. Non mi riferisco tanto alla Generazione X, ancora legata ai postumi del Sessantotto e alle complesse problematiche del riflusso, e peraltro ancora estranea alle nuove tecnologie, bensì soprattutto alla Generazione Y, quelli che sono detti anche Millenial. È quella la generazione che ha, di fatto, accantonato il patrimonio delle generazioni precedenti. Sono coloro che hanno cercato, attivamente e consapevolmente, di costruire una cultura politica completamente diversa, che doveva essere nuova e alternativa. Una politica che fosse antipolitica, di movimento, caratterizzata da un attivismo pragmatico e anti ideologico. Il che finiva per concretizzarsi in cose strane, come il non partito, il non statuto, il mandato imperativo e, soprattutto, il rifiuto della distinzione tra destra e sinistra. La politica, per intenderci, del Vaffa, che poi ha avuto la sua più rilevante espressione nel movimento di Grillo. Il Vaffa non si riferiva soltanto ai santuari del potere, ma anche all’intera cultura della sinistra precedente. Non a caso, come manifestazione estrema del nuovo che avanzava, c’era l’infrastruttura della rete e la famosa piattaforma di Casaleggio, che ebbe poi degli sviluppi tragicomici[14]. Sono loro i veri e definitivi sciolti dal giuramento. Direi, sciolti da ogni giuramento. Con loro la deriva stava cominciando a divenire tangibile. Tutto questo mentre il PD cercava di raccattare confusamente le frattaglie della vecchia destra (la DC) e della vecchia sinistra (il PCI), in una nuova cultura politica detta “democratica” che, in realtà, non è mai nata.

9. Abbiamo allora cominciato a capire che i più giovani, tra quelli delle generazioni successive, non avevano più quell’impercettibile senso del noi di cui s’è detto. Se ne infischiavano del senso del noi, del magico quid che a lungo aveva unito le nostre generazioni e le altre precedenti. Non consideravano la cultura cumulativa delle generazioni, guardavano principalmente al presente. Il passato e il futuro cominciavano a cadere fuori dal campo di attenzione. Era anche quello un fenomeno vago che avrebbe dovuto allarmare, ma che è stato digerito senza troppo scompiglio. Ma non è di questi esiti che intendo occuparmi. M’interessa inseguire che fine ha fatto quel senso del noi che era così diffuso tra i Boomer, che ci ha segnato abbastanza profondamente e che, bene o male, ha caratterizzato una intera stagione politica del nostro Paese. L’ultima stagione che ha visto di fatto, nel bene o nel male, una forte politicizzazione della sinistra.

10. Dicevo che non siamo più quelli di una volta. C’è oggi, sotto il naso di tutti, un fenomeno emergente, proprio tra i vecchi “compagni”, quelli per lo meno che, compatibilmente con l’età, sono ancora attivi, che ancora leggono, scrivono, discutono, partecipano, ciascuno a suo modo. E forse anche tra coloro della Generazione X – i cosiddetti quarantenni – che stanno faticosamente prendendo in mano quel che resta della politica. Questo fenomeno è il senso di estraneità (cioè l’esatto opposto del senso del noi) che emerge subito, ogni qualvolta si cominci appena ad accennare a qualche tipo di questione che abbia, anche solo vagamente, a che fare con la politica e la cultura, vuoi locale, nazionale o internazionale. In altri termini, non ci si capisce proprio più. Il magico quid è evaporato. È andato a ramengo. Quello che una volta era stato per noi Boomer il “Mondo della sinistra” è diventato un mondo di estranei. Determinando così, appunto, la prospettiva demartiniana della fine di un Mondo. Tralascio qui, per motivi di spazio, le implicazioni psicopatologiche che De Martino attribuiva alla sua “fine del mondo”. Sarebbe interessante, in proposito, trattare ampiamente della nozione di de-storicizzazione. Chi fosse interessato, può ricorrere al mio saggio già citato nella nota n. 7.

11. La cultura politica delle fasce più anziane, come i Boomer, è oggi decisamente cambiata. Lo scambio politico tipico, quando c’è, è configurato come una serie di chiacchiere superficiali[15] unite a una mitragliata di slogan sempre più brevi, emozionalmente carichi e dal carattere intransigente. L’impressione è che i pochi Boomer che sono rimasti attivi sulla scena della cultura politica della sinistra credano per lo più di esser giunti a conclusioni definitive. Solo che queste conclusione sono tutte diverse, non coincidono proprio. E queste conclusioni le buttano fuori, le eruttano così come viene, senza alcuna voglia di esaminare e discutere le conclusioni altrui. Certezze ormai consolidate, ma anche fossilizzate e incancrenite. Al posto di qualsiasi attitudine alla riflessione e alla discussione, sembra essersi sostituito l’impulso a produrre una espressione qualsiasi, urgente e necessaria. Alla stregua della classica parresia[16]. È come se le complesse articolazioni della vecchia cultura politica avessero lasciato il posto a poche enunciazioni schematiche. Le antiche disparità di opinione sono ricondotte a poche stanche formule dogmatiche, del tutto rituali. Ciò rende gli attuali consessi dei Boomer ormai sempre più carichi di posizioni schematiche, di noiose ripetizioni e di quel senso di estraneità reciproca di cui si diceva.

12. Questa deriva incombente verso la fossilizzazione non facilita il rapporto con le altre generazioni, anzi lo rende quasi impossibile. La cultura politica dei Boomer sopravvissuti appare oggi, agli occhi delle generazioni successive, del tutto fuori luogo. Notoriamente, la qualifica di Boomer è sempre più usata in forma spregiativa. Essa è salita alla ribalta, e ha fatto il giro del mondo, in una data precisa. Si tratta del novembre 2019, quando il famoso motto “OK Boomer!” è stato usato, nel Parlamento neozelandese, come qualificazione negativa, da una deputata venticinquenne contro un altro deputato, peraltro della Generazione X. Il gergo dispregiativo anti Boomer, dicono le cronache, era tuttavia già in circolazione sui media da almeno una decina di anni.

Così, dopo esser stati a lungo ignorati, i Boomer da almeno un decennio stanno cominciando a divenire – come generazione – oggetto di attenzione da parte delle altre nuove generazioni, che tendono sempre più a considerarli come un blocco residuale dotato di alcuni tratti comuni eminentemente negativi e inopportuni. In altri termini, i Boomer, da soggetti di una complessa e articolata cultura politica quali erano, diventano ora principalmente oggetti di contumelie e invettive. Qui non si tratta solo più di una rottura generazionale, un mancato passaggio della cultura politica cumulata, bensì di un conflitto generazionale che si sta facendo sempre più palese e aperto. I Millenials e la Generazione Z sembrano sempre più infastiditi anche solo dalla presenza dei Boomer[17]. Il conflitto è ovunque sempre più evidente. Non c’è, a sinistra, una sola formazione politico culturale che sia in grado di costituire uno spazio comune di discorso tra i Boomer e le successive generazioni.

13. Nell’ambito della sinistra, ci troviamo dunque di fronte a un fenomeno di estraneità generalizzata, oppure, se vogliamo, a una doppia estraneità. Anzitutto quella ormai ricorrente entro la generazione dei Boomer ancora in attività e poi, secondariamente, anche e soprattutto, quella tra i Boomer e le generazioni successive. Quest’ultima sta prendendo l’aspetto non solo di una rottura ma anche di un vero e proprio conflitto. La prospettiva di un conflitto delle generazioni più giovani contro i Boomer emerge in maniera abbastanza chiara e preoccupante nel lucido e corrosivo OK Millenials! di Brice Couturier[18]. Emerge anche, in forma assai preoccupante, in termini sociali ed economici, dall’analisi di Luca Ricolfi contenuta ne La società signorile di massa[19].

14. Il mio intento tuttavia è quello di caratterizzare soprattutto la deriva dal lato dei Boomer. Facciamo un esempio. Non amo parlare in pubblico delle mie esperienze personali, poiché credo che, in fin dei conti, siano del tutto irrilevanti. Ma questa volta, farò una piccola eccezione. Ho avuto modo di provare il senso di estraneità intra generazionale di cui sto parlando, qualche tempo fa, nel corso di una conversazione con una persona della mia stessa generazione, appartenente in qualche modo a quel Mondo comune, politico e culturale, di cui sto descrivendo e lamentando il progressivo e forse definitivo deterioramento. Stavamo discutendo dei fatti di Gaza, di Netanyahu e quant’altro. In quel contesto, essendomi pronunciato su alcune questioni, peraltro di dettaglio, mi sono sentito rivolgere l’epiteto di antisemita. La cosa mi ha dato un qualche fastidio, anche perché, alla mia età e con la mia storia alle spalle, quella era davvero la mia prima volta nei panni dell’antisemita.

15. Mi sono reso conto in quel frangente, in termini esistenziali più che intellettuali, della perfetta inutilità della discussione che stavo facendo. È proprio così, più o meno con una specie di intuizione, che i fenomeni vaghi diventano fatti reali. Il comune percorso generazionale e il senso del noi, il magico quid, non erano più sufficienti a trovare uno straccio di terreno di discorso comune, peraltro su una questione a proposito della quale ormai c’è una storiografia consolidata e una bibliografia enorme, oltre a innumerevoli prese di posizione di studiosi, intellettuali e opinion leader. Una questione oltretutto che, per quelli della mia generazione, esiste da sempre, fin da quando eravamo bambini. Insomma, mi trovavo esattamente come se il mio interlocutore, Boomer anch’esso, fosse un estraneo qualsiasi incontrato per caso, in treno o al bar. Esattamente come se il famoso quid non fosse mai esistito.

16. Ho citato questo fatterello perché mi pare emblematico e perfettamente generalizzabile. Nel campo di discorso della sinistra, soprattutto dal lato dei Boomer – ma la cosa vale certamente a maggior ragione anche per le generazioni successive – ormai, al posto di una esperienza formativa e costitutiva comune, al posto di una cultura politica cumulativa, ci sono solo più innumerevoli questioni divisive, che vengono “risolte” apostrofando l’altro come un nemico, rovesciandogli addosso le più improbabili accuse, utilizzando l’insulto e lo screditamento morale. Siamo diventati tanti piccoli fondamentalisti che, invece di studiare le questioni e di argomentare, si beano di aggiungere delle reazioni, come se fossimo costantemente su Facebook. O in un talk show permanente. Il termine reazione è perfetto, per qualificare questa modalità deteriorata e residuale di rapporto.

17. Si dice, in sede di psicologia sociale, che i social media avrebbero avuto l’effetto di produrre, nei loro utenti, un pensiero schematico e semplificato, oltre ad averli abituati ad avere reazioni emotive amplificate e di pancia. Ma i Boomer dovrebbero essere oggi quelli meno contagiati di tutti. Sono ormai gli unici, tra i rimasti ancor vivi, ad avere passato ben più di mezza vita senza computer, senza smartphone e senza social media. In più, il Movimento del Sessantotto aveva avuto, come sua caratteristica, l’impiego massiccio della parola scritta, dalle scritte sui muri fino all’interminabile serie degli opuscoli politici e degli articoli e saggi pubblicati nelle riviste. Passando attraverso una miriade di ciclostilati e fotocopie. Fino ai malloppi dei vari Maestri della teoria che circolavano come non mai. Ho esaminato in dettaglio questo aspetto della cultura dei Boomer nel mio saggio: Un Sessantotto gutemberghiano[20]. Tutto questo curricolo formativo è silenziosamente caduto nel dimenticatoio. Come non fosse mai esistito.

18. Era ovviamente da un bel po’ che questo senso di estraneità aveva pieno effetto, che era ormai onnipresente e si infilava più o meno in tutte le questioni. Più o meno in tutti i rapporti interpersonali. Ma sembravano sempre estraneità di volta in volta particolari, specifiche e occasionali. Estraneità di cui si prendeva magari atto, ma magari come “contraddizioni in seno al popolo”, per usare un frasario un po’ datato. Ora sembra proprio il caso di prender atto che sta sopravvenendo una estraneità generalizzata.

Bisogna riconoscere che, ben oltre alla questione palestinese, in effetti, veniamo da stagioni divisive davvero straordinarie. Vediamone alcune, a mo’ di esempio. La sarabanda delle scissioni avvenute intorno al PD e all’ineffabile Renzi. Il conflitto contro tutti del movimento del Vaffa, nato proprio entro la Generazione Y. Il senso di estraneità reciproca con i No-Vax, nato intorno alle discussioni sulla questione delle vaccinazioni. E più in generale intorno alla valutazione della scienza e della tecnologia. Oppure sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina. Uno degli argomenti più divisivi è ancora oggi costituito dalle cause della guerra tra Russia e Ucraina. La NATO poi è in assoluto uno degli argomenti più divisivi. La definizione di cosa sia il regime di Putin è un’altra questione altamente divisiva. Più o meno come era stata divisiva la questione intorno alla vera natura della Unione Sovietica, negli anni Venti e Trenta. Per non parlare delle questioni relative alla pace e alla guerra, con tutti gli annessi e connessi, tra cui la questione delle spese militari. Tutte le volte che parlo della democrazia, quella sostanziale, non quella formale, vedo intorno a me sguardi di pena e commiserazione. Per la maggior parte dei Boomer la democrazia era sempre stata “borghese” e sempre lo sarà! Meglio poi non parlare di magistratura, di legge elettorale, di regolamentazione dei partiti e dei sindacati. Mi dicono che anche nel movimento femminista ci sono oggi delle profonde spaccature.

19. Non parliamo poi ancora di Jobs Act e di questioni legate al mondo del lavoro e al ruolo del sindacato. Il recente Referendum del giugno 2025 ha visto profonde divisioni interne alla sinistra, come una valanga che nessuno più riesce a fermare[21]. Sulle questioni ambientali ci sono poi innumerevoli dissidi, come sulla cosiddetta democrazia diretta e sui beni comuni. Non parliamo poi dei diritti civili e del politically correct. Anche sulla immigrazione siamo riusciti a creare nemici e fronti contrapposti. Possiamo aggiungere anche le ricorrenze del calendario civile, con punte estreme il 25 aprile. Non parliamo poi dell’Europa. Non parliamo poi ancora dell’America e dell’Occidente, sempre colpevoli, secondo alcuni, di qualsiasi nefandezza. Si riesce anche a litigare, in campo filosofico, in maniera piuttosto irriducibile, sui principali filosofi degli ultimi tre o quattro secoli.

Insomma, ci ritroviamo divisi su tutto. Ripeto, su tutte queste questioni è del tutto legittimo esistano punti di vista diversi. Meno comprensibile è che non ci siano più chiavi interpretative minimamente condivise e che ormai nessuno abbia più voglia di dibattere, di studiare, e che le opposte fazioni si affrontino a colpi di insulti, condanne moralistiche e interdizioni perpetue. Ovviamente tutte queste questioni divisive rendono impossibile la formulazione di un qualsiasi programma elettorale progressista di sinistra. Tutto ciò, ovviamente, si è tradotto e si tradurrà in pessimi risultati elettorali. Il 2027 non è poi così lontano. Ma questo sembra non importare a nessuno. Gli effetti concreti della deriva culturale si sono visti nel 2022, quando la sinistra disunita ha fatto vincere la destra.

20. E qui vengo alla questione dell’Occidente senza pensiero, nella sua versione più idiosincrasica. Nel particulare cioè delle nostre vite e dei nostri rapporti quotidiani. Se appena si cerca di approfondire qualcuna delle questioni in gioco, ci si troverà di fronte sempre e soltanto a pezzi di ragionamenti, talvolta di senso comune, talvolta provenienti da epoche passate, talvolta raccattati sui social o presso qualche sito di riferimento di nicchia. Tutte le posizioni, anche le più strampalate, hanno oggi il loro sito di riferimento che coordina i loro adepti. Le analisi (che riguardano magari questioni di grande complessità) sono spesso ridotte all’osso. Spesso si tratta di semplificazioni difficilmente accettabili e del tutto inutili. Al posto dell’approfondimento, abbiamo le ripetizioni martellanti. Le poche e vecchie cause motrici della storia e della società, ossificate, vengono invocate per spiegare le conseguenze più varie, per proporre politiche del tutto improbabili. Scattano sempre gli stessi modelli esplicativi. Colpa dei padroni, degli americani, delle banche, della UE, della finanza internazionale, dei rigurgiti neofascisti, del neoliberismo, del patriarcato, dell’antisemitismo[22], degli immigrati[23] e di quant’altro.

21. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? Io mi do la seguente spiegazione. Finché c’erano le ideologie[24], nel Mondo di cui ci stiamo occupando, c’erano anche le agenzie di produzione ideologica, c’erano gli intellettuali di riferimento, c’erano innumerevoli corpi intermedi che si occupavano intensamente della produzione delle idee. E le idee che circolavano avevano un carattere decisamente professionale. E di idee in circolazione ce ne erano assai. Alcune erano sicuramente pessime, ma alcune decisamente illuminanti, capaci di dar senso alla nostra vita e alla nostra storia. C’era di che scegliere. Tra gli intellettuali c’erano – come dice Aldo Schiavone nel suo saggio – i Maestri, coloro che erano in grado di analizzare le grandi questioni e di operare le grandi sintesi prospettiche che davano senso alle nostre vite e al nostro impegno nella storia. Nonostante le differenze di analisi e di opinione, si aveva l’impressione di una qualche omogeneità, per lo meno nei presupposti di metodo, che consentivano un qualche dibattito civile. Le nuove interpretazioni, quando c’erano, venivano soppesate, i dibattiti procedevano con un certo ordine. Tutti avevano l’impressione di occuparsi all’incirca delle stesse questioni, quelle all’ordine del giorno, che erano perciò considerate da tutti come le più importanti. Magari ci si divideva, ma c’era la consapevolezza che le questioni erano quelle. In genere, ci si divideva per delle ragioni. Se non si era d’accordo con qualcuno o qualcosa, si sapeva sempre spiegare perché. Questo anche perché investivamo tempo e denaro per informarci, per studiare.

22. Bastava leggere qualche rivista o qualche libro ben scelto, per tenersi aggiornati sugli sviluppi dei dibattiti nazionali e internazionali. Magari c’erano dei benemeriti che ogni tanto si peritavano di fare delle sintesi ad usum delphini. Magari anche ricche di copiosi riferimenti storici e con repertori bibliografici che avrebbero ammazzato chiunque. Oppure bastava frequentare le numerose e diffuse conferenze in cui si faceva il punto delle principali questioni. Si poteva dibattere con i relatori, fare delle domande. Ma poi, come ho già accennato[25], c’era un sacco di gente che scriveva. Lettere, articoli di giornale, saggi di vario genere, inchieste, denunce, relazioni a convegni, documenti politici. Habermas avrebbe detto che c’era qualcosa che somigliava al suo modello della opinione pubblica democratica. Al modello del Diskurs. Oggi, a sinistra, non ci sono più dibattiti, non c’è più opinione pubblica, ci sono solo risse da stadio.

23. Con la fine delle ideologie, questo universo culturale comune, questo universo pubblico di discorso, è progressivamente venuto meno. Non sto qui a esaminare in dettaglio perché e come questo sia avvenuto. Sarebbe troppo lungo. Di fatto gli intellettuali pubblici sono diventati dei chiacchieroni televisivi, le riviste hanno chiuso, le case editrici hanno cominciato a sfornare paccottiglia per le nuove generazioni dalla bocca troppo buona. Perfino i corsi scolastici e gli esami sono stati drasticamente semplificati. Oggi si può pigliare una laurea triennale con una tesina di 25 pagine. Così, è accaduto che ciascuno dei Boomer, neanche più tanto giovani, si è trovato a dover ricominciare a camminare con le proprie gambe. Gestire in proprio (cioè da soli) la ricerca delle informazioni e la loro interpretazione. Gestire in proprio la costruzione e il mantenimento di uno straccio di visione del mondo. Tanto per sapere cosa si vive a fare.

24. Di fronte al venir meno di un comune universo di discorso, i più “deboli” (mi sia permesso questo aggettivo, che nell’intenzione vuol essere di grande simpatia) si sono subito persi per strada. Magari anche sommersi dalle accidentalità e dalle incombenze, sempre più difficili, della vita quotidiana. Un riflusso lento e progressivo che in generale ha significato comunque un impoverimento della partecipazione. I più tenaci, sempre più pochi, hanno invece cercato di concentrarsi sulle questioni più commestibili, quelle più alla loro portata, lasciando da parte gli aspetti più ostici, quelli che avrebbero richiesto competenze e linguaggi specializzati. Direi che – contro Lyotard[26] e la schiera dei post-marxisti postmoderni – sia sopravvenuta un’incapacità generalizzata di produrre grandi narrazioni che fossero appena decenti[27], la qual cosa ha assicurato il proliferare delle piccole narrazioni, particolaristiche e identitarie, come quelle della cultura woke. O quelle dei tanti cespugli della sinistra minoritaria nostrana.

25. Avvenne così che, da quella che era sempre stata una galassia, si è dato luogo alla formazione di tanti piccoli micro sistemi – “giochi linguistici” di tipo pragmatico, direbbe il solito Lyotard – sempre più isolati e incomunicabili, sempre più concentrati a cuocere nel proprio brodo. Le idiosincrasie individuali e il progredire delle età anagrafiche hanno fatto il resto. Gruppi di irriducibili, sempre meno numerosi, entro cui ormai si perpetuavano pochi spezzoni di cultura politica, sempre più ripetitivi, sempre meno efficaci a cogliere nel segno i processi e i cambiamenti sociali, e le grandi vicende internazionali. Sempre meno efficaci a indicare prospettive credibili per affrontare la grande trasformazione tecnologica ed economica di fronte alla quale ci troviamo. Ciò ha prodotto anche l’allontanamento dal pensiero scientifico, dalle scienze economico sociali in particolare. Dalle scienze umane. E l’allontanamento dalla filosofia e dai valori dell’umanesimo. Umanesimo, oltre a democrazia, è un’altra parola che suscita ilarità e compassione nel mio circondario, tutte le volte che la pronuncio. Con l’aggravante del fatto che il pensiero politico ha comunque fondamentali risvolti filosofici. La filosofia è nata con la polis, ma la polis non sta in piedi senza una qualche passabile filosofia politica condivisa.

26. Coltivare in proprio anche solo qualche spezzone di discorso approfondito diventava sempre più oneroso, sempre meno remunerativo. E così è venuto il momento in cui ci siamo arresi. Siamo diventati tutti ritualisti nel senso di R. K. Merton. Coloro cioè che, essendo ormai del tutto impossibilitati nei mezzi, continuano inutilmente a vagheggiare i vecchi fini. Si pensi, ad esempio, al degrado subito dal dibattito nel campo delle scienze dell’educazione. Che pure è un campo che coinvolge innumerevoli professionisti, dotati di un certo livello di istruzione, nelle scuole di ogni livello. La qualità scadente della istruzione che trasmettiamo alle giovani generazioni è allarmante, ma nessuno si preoccupa. Neanche le giovani generazioni stesse. Tutti contenti.

27. All’appartenenza viva a un Mondo – la cultura politica della sinistra funzionava proprio come un Mondo demartiniano – con tutte le sue variegate sfaccettature, è così succeduta la coltivazione di costellazioni di identità rituali, rigide, impermeabili a ogni cambiamento. Lasch parlerebbe di Io minimo[28]. Che queste identità siano confinate in piccoli gruppi di irriducibili (destinati a sciogliersi solo con la sopravvenuta inabilità dei singoli appartenenti) oppure confinate entro la soggettività di singoli cani sciolti. Finché c’era un Mondo, era facile partecipare, discutere, scegliere tra le diverse alternative, magari anche cambiare posizione, ingenuamente anche infinite volte. Venuto meno il Mondo, l’economia del cambiamento non poteva più funzionare. Cambiare prospettiva da soli[29] era diventato sempre più oneroso, sempre più difficile. Non restava che rinchiudersi in una sorta di Fortezza dei Tartari. Ormai si costruiscono solo più cinte difensive, fortificazioni per difendere quelle quattro idee in croce che qualcuno ancora conserva gelosamente. Cimeli di un passato che una volta era stato vivo ma che ora è poco più che ridotto a un fossile museale. In generale, possiamo dire che alle elaborazioni complesse delle analisi e dei punti di vista che erano propri di un Mondo, è subentrato il fai da te individualizzato e, soprattutto, disperato. È subentrata la presunzione autoreferenziale di albergare e mantenere un residuo di cultura politica senza un autentico confronto, senza elaborazione, senza pubblico discorso, ma semplicemente sventolando una bandierina.

28. Se qualcuno poi cerca faticosamente di mantenere qualche standard culturale appena un po’ più elevato, magari affine a quei Maestri cui pure si era ispirato in passato, oppure se cerca di armeggiare con qualche forma di pensiero meno semplicistico, un po’ più articolato, oppure se cerca di tenersi aggiornato al panorama culturale internazionale, ebbene costui sollecita e suscita, nel circondario, l’incredulità e poi le immediate diffidenze. E talvolta aperte ostilità. Financo aggressività. L’Io minimo, oggi così diffuso, non può che produrre il rancore contro i diversi. Perché l’appiattimento cui siamo soggetti è una cosa che si deve consumare tutti insieme. Chi non si appiattisce come tutti, è decisamente un provocatore. Mal comune, mezzo gaudio. Sono reazioni in fin dei conti comprensibili, sebbene non giustificabili. Non si hanno ormai più gli strumenti per capire ciò che appena si distanzia dal senso comune. Costui sta dalla mia parte oppure è contro di me? Devo dargli ragione o devo dargli torto? Nel dubbio, è sempre meglio tenersi alla larga, meglio bannare senza esitazione. L’Io minimo è implacabile.

29. Quando vengono progressivamente meno i criteri di valutazione in termini di cultura politica, cioè criteri legati a un comune universo di discorso, a un universo di principi e valori, a un’enciclopedia di concetti condivisi, a un Mondo, come si diceva poc’anzi, allora si fa strada con prepotenza la logica realistica dell’amico/ nemico. Quella che è piaciuta tanto a certi nostri marxisti post-marxisti. Che hanno mollato Karl per avere in cambio l’altro Carl. Non contano più le idee, bensì i rapporti tra le persone. Si passa, ahimè, come dice Lyotard, dalla semantica alla pragmatica. La tendenza allora è quella a costituire piccole consorterie di sodali, che discutono di niente al proprio interno, ma che sono convinti di avere alcune comuni ideebandiera, alcuni vessilli simbolici da sventolare, qualche vecchia canzone da ascoltare, qualche rito periodico da compiere. Qualche causa assurda da sostenere. Appunto, cose come i “giochi linguistici” e le “piccole narrazioni” di Lyotard. Da brandire contro tutto il resto del mondo. Soprattutto da brandire contro i concorrenti interni alla sinistra stessa. Il che avviene oggi ancora esattamente come nella vecchia Unione sovietica. Il capitalismo poteva anche aspettare, ma quello che dovevi combattere, e far fuori subito, era il tuo immediato concorrente interno. Al di sotto degli striminziti e spesso assurdi vessilli simbolici, se si va a ben guardare, spesso ci sono soltanto piccoli interessi di bottega. Occupare qualche posto nella pletora di piccole organizzazioni che non contano più nulla, piazzare gente della tua lobby negli incarichi e organismi dirigenti, far venire qualcuno dei tuoi a tenere una conferenza da fuori, o a presentare un libro, mandare qualche post su Facebook per intrattenere la tua cerchia, rilasciare qualche intervista a nome della tua organizzazione, fare delle cene per raccogliere fondi, farsi invitare a tenere qualche pubblico dibattito. In tutto questo attivismo da amico/ nemico, accade così inevitabilmente che il famoso merito, tanto blaterato in teoria quanto sempre ignorato in pratica, vada a farsi benedire e si generi quella caratteristica selezione degli incapaci, così tipica ormai ad ogni livello delle organizzazioni superstiti del popolo della sinistra. Deriva culturale e selezione degli incapaci sono un miscuglio tossico che caratterizza sempre più il panorama tardo della fine di questo Mondo.

30. Spero di avere adeguatamente motivato che un Occidente senza pensiero[30], l’argomento del mio precedente saggio, non è solo un vezzo intellettualistico. O un argomento salottiero di moda. È piuttosto qualcosa che ha riguardato da vicino le nostre vite, quel che eravamo e quel che siamo purtroppo diventati. E che determina oggi la chiusura delle nostre prospettive e delle nostre speranze rispetto al futuro. Per noi e per quelli che verranno (anche se a costoro la cosa sembra davvero poco importare!). Si tratta di una deiezione nella quale siamo scivolati, senza neppure accorgercene. Senza neppure gridare. Senza neppure invocare aiuto. Semplicemente perché stavamo precipitando tutti nella stessa direzione, e ci sembrava allora una cosa del tutto normale.

In questo saggio mi sono occupato soprattutto del Mondo che ho conosciuto meglio, quello dei Boomer di ieri e di oggi. Se questo è però il quadro della deriva della cultura politica nell’ambito dei Boomer – cioè, quella generazione ancor vivente che nel contesto della propria formazione ha avuto le maggiori iniezioni di cultura politica – ci si può seriamente domandare allora quale sia la situazione presso le generazioni successive. Su questo argomento ho avuto qui solo il modo di fornire qualche flash estemporaneo. Magari tornerò sull’argomento. Qualche tempo fa mi sono ampiamente occupato della questione[31] e posso dire che, in merito, è ormai disponibile una vasta letteratura e che questa non è delle più confortanti. Peraltro, basta guardarsi intorno.


OPERE CITATE

1983 Anderson, Benedict, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.

2021 Couturier, Brice, OK Millenials! Puritanisme, victimization, identitarism, censure. L’enquête d’un baby-boomer sur les mytes de la génération “woke”, Éditions de l’Observatoire, Paris.

1984 Lasch, Christopher, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.

1979 Lyotard, Jean-François, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.

1952 Mannheim, Karl, The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London. [1923]

2000 Putnam, Robert D., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York. Tr. it.: Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna, 2004.

2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

2019 Ricolfi, Luca, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.

2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.

1969 Riesman, David & Glazer, Nathan & Denney, Reuel, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven and London. Tr. it.: La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999. [1950]

2012 Rinaldi, Giuseppe, “La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino”, in Anima e Terra, n. 2, ottobre, pp. 133-157.

2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.


NOTE

[1] Pubblicato su Finestre rotte il 28 agosto 2025.

[2] Recentemente ho scritto un saggio di analisi intitolato Occidente senza pensiero. In quel saggio, in dialogo ideale con Aldo Schiavone (Cfr. Schiavone 2025), mi occupavo di una questione un poco astrusa, cioè del destino culturale dell’Occidente, nella attuale tormentata fase storica. Devo dire che il mio saggio, tranne lodevoli eccezioni e qualche latrato fuori luogo, non ha suscitato grandi reazioni, né positive né negative. Il saggio che qui presento, tratta esattamente e pervicacemente gli stessi argomenti dell’altro, non più però dal punto di vista generale, bensì dal punto di vista idiografico, cioè particolare. Diciamo che qui mi occupo del lato particolare del vuoto di pensiero dell’Occidente, quello che ci riguarda da vicino e ci tocca direttamente come individualità storiche. Mi aspetto pertanto almeno qualche reazione negativa, ma staremo a vedere. Preciso, dati i tempi, che nella stesura di questo testo non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.

[3] Senza concetto, avrebbe detto Hegel.

[4] Ho provveduto a spiegare dettagliatamente la nozione di fenomeno vago nel mio saggio Il fenomeno vago della postverità.

[5] Userò il termine “sinistra” in senso ampio, senza alcuna distinzione interna, riferendomi soprattutto agli elementi basilari della cultura politica sinistrese. Circoscrivo per semplicità il discorso alla sinistra italiana. Quanto al termine deriva, così recita il Passerini Tosi: «Andare alla deriva = Detto di nave che non si può più governare ed è trascinata dalle correnti. […] In senso figurato […] lasciarsi trascinare senza reagire. Esser come in completa balia degli eventi».

[6] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.

[7] Uso qui il concetto di Mondo, che ha avuto una rispettabile tradizione filosofica, a cominciare da Kant e Schopenhauer per continuare con Dilthey e Husserl, e che, specificatamente nel campo storico sociale, culmina con uno dei miei Maestri virtuali, Ernesto de Martino. Sulla nozione di “mondo” in Ernesto De Martino si può vedere il mio saggio Rinaldi 2012. Il saggio è stato da poco rivisto e ripubblicato sul mio blog: Finestre rotte: La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012).

[8] Su questo punto, il riferimento ovvio è Comunità immaginate di Benedict Anderson. Cfr. Anderson 1983.

[9] Uso questo termine, anziché termini similari, solo perché è più preciso e permette così il raffronto con le altre generazioni. Sociologicamente, i Boomer sono coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 61 e 79 anni. La generazione successiva è la cosiddetta Generazione X, che comprende i nati tra il 1965 e il 1979. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 46 e 60 anni. Sono costoro a rappresentare il contingente più ampio dell’attuale personale politico. La generazione successiva è quella dei Millenial (detti anche Generazione Y) che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1994 e che, nel 1925, hanno una età compresa tra 31 e 45 anni. Costoro – vista la gerontocrazia tipica del nostro Paese – si apprestano a costituire la schiera new entry nell’ambito del personale politico. La generazione successiva è la Generazione Z, nata tra il 1995 e il 2012. Oggi nel 2025 hanno un’età compresa tra 13 e 30 anni. Data la loro età, sono ancora in gran parte coinvolti nei processi di formazione. Sono coloro cui dovrebbero essere rivolte formidabili e obbligatorie iniziative di formazione alla cultura civica e alla vita politica. Sarebbe questo il solo investimento che potrebbe provare a invertire la deriva di cui stiamo parlando. Ma nessuna forza politica nostrana ha all’ordine del giorno qualcosa di simile.

[10] Il boom demografico vale soprattutto per gli Stati Uniti. Un po’ meno per l’Italia.

[11] Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.

[12] Sociologicamente così è stata denominata la generazione dei nati prima del 1946, tra il 1928 e il 1945.

[13] Sembra strano oggi, ma queste figure guida c’erano, erano numerose e distribuite anche a livello locale. Le si poteva incontrare, si poteva discutere con loro, si potevano ascoltare le loro conferenze o leggere i loro articoli sulle riviste. Oggi, a destra e a sinistra, tutti credono di saperne abbastanza e di non aver alcun bisogno di figure guida. Chi si presentasse come figura guida sarebbe perfettamente ignorato. Ovviamente, fanno eccezione i leader populisti.

[14] Tutto ciò è ormai caduto nel dimenticatoio. Il danno arrecato è stato grave, ma costoro uno straccio di analisi e di autocritica non la faranno mai. Scurdammoce o’ passato!

[15] Non posso non evocare qui il mondo della chiacchiera come descritto da alcuni filosofi esistenzialisti.

[16] La parresia è l’impulso irrefrenabile a dire pubblicamente quella che si ritiene essere la verità, a qualsiasi costo.

[17] La mia impressione è che le radici ultime di questa conflittualità siano assai profonde. Non ho spazio qui per entrare in argomento. Altrove ho parlato di mutazione antropologica. Cronologicamente, i primi a rilevare qualcosa di simile a questa mutazione sono stati David Riesman (1909-2002) e Marshall McLuhan (1911-1980). A seguire poi molti altri studiosi, come ad esempio Cristopher Lasch (1932-1994). Si tratta di una diversa strutturazione dell’Io dovuta a processi sociali e soprattutto culturali. Riesman, nel suo The Lonely Crowd, contrappone il tipo psicologico degli inner-directed a quello degli other-directed. Ho trattato diffusamente di questa problematica nel mio saggio David Riesman e l’individuo ben socializzato, peraltro mai pubblicato su Città Futura. Cfr. Finestre rotte: David Riesman e l’individuo ben socializzato. Si veda eventualmente Riesman 1969 [1950].

[18] Cfr. Cuturier 2021.

[19] Cfr. Ricolfi 2019.

[20] Si veda il mio saggio Un Sessantotto gutemberghiano.

[21] Si veda eventualmente la mia analisi dei risultati referendari nel mio recente saggio: Finestre rotte: Referendum 2025.

[22] Oggi anche l’ONU è da taluni considerato come antisemita. Mi sento dunque in buona compagnia.

[23] In occasione del Referendum 2025, è accaduto spesso di sentire rudi militanti della “rivolta” landiniana sostenere che la presenza, nel pacchetto dei Referendum, della questione della cittadinanza agli immigrati avrebbe alimentato l’assenteismo elettorale e fatto perdere voti ai referendum sul lavoro. Un chiaro invito a non ripetere più l’errore di simili connubi contro natura.

[24] Assumo qui – seguendo l’opinione corrente – che ci sia stata effettivamente una fine delle ideologie, anche se la questione è davvero assai discutibile e controversa. È senz’altro riscontrabile che siano finite giustamente alcune ideologie decisamente dannose e financo perverse. Insieme a loro sono state buttate ideologie invece del tutto indispensabili, come l’umanesimo, la democrazia, l’eguaglianza oppure il cosmopolitismo Non ho spazio qui per trattare questa problematica.

[25] Vedi nota 18.

[26] Cfr. Lyotard 1979. Lyotard è un filosofo post-strutturalista e postmodernista.

[27] Il problema non è se le narrazioni siano piccole o grandi, bensì se siano giuste o sbagliate. Siccome Lyotard è un relativista, guarda soltanto alla dimensione delle narrazioni (grandi o piccole) e non al loro contenuto.

[28] Cfr. Lasch 1985.

[29] Mi riferisco qui allo studio di Robert Putnam Bowling Alone. Cfr. Putnam 2000.

[30] Vedi la nota n. 2.

[31] Ho, da tempo, un saggio in sospeso su questo argomento. Non ho grandi incentivi a completarlo.

 

Ariette 26.0: Ripensandoci

di Maurizio Castellaro, 6 settembre 2025

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Per lavoro mi rapporto quasi quotidianamente con il sistema regionale e con i suoi enti strumentali. Per sopravvivere ad anni di dolorose cornate contro i muri della burocrazia mi sono adattato in una prima fase ad un approccio Zen, mentre attualmente ricorro come contro veleno a dosi massicce di autoironia. Le righe seguenti rientrano quindi nel quadro di questa autoterapia.

Recentemente mi è capitato di telefonare ad un ente di supporto regionale per risolvere il problema X. Rispondendo alla voce registrata digito il tasto 2 ed espongo la questione ad una gentile operatrice, che inizialmente prende appunti, ma poi mi informa di non essere l’ufficio giusto: “torni al centralino e digiti il tasto 4”. Eseguo, e al tasto 4 mi risponde la stessa operatrice di prima, che questa volta risolve il problema senza fare una piega. Lo riscrivo. Mi risponde la stessa operatrice al tasto 2 e al tasto 4. Al tasto 2 non poteva aiutarmi, al tasto 4 invece sì.

La storiella paradossale ha un retrogusto di tristezza, perché per l’operatrice la situazione era normale, mentre per me non lo era affatto. Ma ho fatto finta che lo fosse, per portare a casa il risultato.

Ripensandoci, questa è una perfetta metafora della ragion burocratica che stritola le nostre vite in reti formali svuotate di senso e di umanità, rigide procedure perfette per essere consegnate a intelligenze non senzienti (sono già in mezzo a noi). Ripensandoci, per rimanere umano avrei dovuto almeno ridere in faccia all’operatrice. Ma non l’ho fatto, forse ho anche ringraziato. E ripensandoci ancora meglio, questa non è per niente un’arietta. Anche l’autoironia trova i suoi limiti, in questo sanguinoso inizio di settembre.

Perché non possiamo non dirci democratici

di Giuseppe Schepis, 4 settembre 2025

Democrazia: (dal greco dèmokratia, da dèmos, popolo e kràtos, autorità) Autogoverno del popolo. Preponderanza del potere popolare in un qualunque governo, o controllo di questo governo da parte del popolo.

E dai, proviamoci ancora. Torniamo un’altra volta su tema della democrazia. Non che su questo sito l’argomento sia mai stato trascurato, direi anzi che praticamente sin dall’inizio non si è parlato d’altro, da tutte le angolazioni e in tutte le declinazioni possibili: ma siamo ormai talmente abituati a sparare noi stessi addosso alla democrazia, o a vederla bersaglio di ogni possibile critica o attacco, che rischiamo di perdere di vista la formula fondante, il significato originario del termine. Ben venga dunque una riflessione pacata ed essenziale come quella proposta di seguito da Giuseppe Schepis. Giuseppe è una delle persone più limpide e intellettualmente oneste che io conosca: il che non significa affatto ingenue, al contrario: significa capaci di affrontare un tema così controverso con umiltà e coraggio, non proponendo e giustificando delle risposte già confezionate, ma ponendosi delle domande. Che è poi l’unico, semplice metodo della conoscenza. (p.r.)

È convinzione comune che la democrazia sia il migliore dei governi possibili, ma occorre chiedersi se una qualche democrazia pienamente compiuta sia mai stata costruita; dobbiamo interrogarci circa la sua reale attuazione passata, lo stato di salute delle democrazie presenti e gli sviluppi futuri che si possono intravvedere a partire da eventi quali le ultime elezioni statunitensi, che hanno riportato al potere Donald Trump e quella squadra per certi versi sgangherata e per altri inquietante che forma il suo governo.

Partiamo dal principio di funzionamento che dovrebbe caratterizzare un sistema democratico: in un tale sistema tutti i cittadini che formano la comunità democratica in analisi partecipano al governo dell’entità statale. Ogni cittadino partecipa alle decisioni e all’indirizzo politico del governo della comunità o direttamente (come nelle democrazie arcaiche formate da pochi cittadini riconosciuti tali, o come nei referendum popolari che vengono correntemente utilizzati in molte democrazie moderne) o indirettamente, eleggendo propri rappresentanti che porteranno la voce degli elettori in parlamenti e governi di varia forma e natura.

Un dato di fatto che mi sento di dare per scontato, ma che sovente non viene preso in considerazione nei piatti dibattiti politici odierni, è che in una società complessa gli interessi dei singoli cittadini non sempre coincidono e quindi l’indirizzo politico e le scelte di governo della comunità dovrebbero tenere conto e mediare tra tutti gli interessi, differenti e sovente contrastanti, di cui i singoli cittadini sono portatori. Un sistema simile privilegerà, teoricamente, i gruppi di cittadini più numerosi – che potranno avere più peso diretto nelle scelte simil-referendarie o avere più rappresentanti per le proprie istanze nei sistemi rappresentativi. Tutti, comunque, dovrebbero avere la possibilità di far sentire la propria voce e di avere una qualche tangibile rappresentanza.

Qui nasce un primo problema: perché una società si possa definire evoluta, forse umana in contrapposizione alle brutali leggi di natura, ci sono delle condizioni e delle regole pre-democratiche che dovrebbero rappresentare le basi intangibili sulle quali costruire ogni forma di sistema democratico ipotizzabile. Tra queste condizioni vedrei innanzi tutto la salvaguardia dei diritti della persona, da considerare inalienabili, quali dignità, riparo dalla violenza fisica e psicologica, minime condizioni di assistenza sempre garantite (in una società degna queste sarebbero da garantire anche per chi – pur umano – non fa parte della comunità stessa), regole che evitino le potenziali degenerazioni o involuzioni che il gioco democratico può potenzialmente (anche praticamente se prendiamo in analisi ciò che ci sta accadendo attorno) presentare.

Il gioco democratico non deve mai trasformarsi nella dittatura della maggioranza, che potrebbe facilmente ridurre o eliminare totalmente i diritti pre-democratici appena menzionati, a discapito di minoranze anche sostanziose e in ultima analisi di tutti. Faccio solo un cenno a sistemi elettorali a mio avviso pericolosi, che in nome della governabilità trasformano nei parlamenti e nei governi minoranze organizzate in maggioranze assolute – che sovente si sentono investite di un mandato divino illimitato.

Voglio aprire una piccola parentesi: tra le condizioni sopra elencate ve ne sono alcune che prevedono norme comportamentali senza richiedere la gestione di beni o servizi, altre che invece prevedono che una parte di ciò che la comunità produce – in termini di beni o di lavoro – venga dedicata al mantenimento di uno stato sociale minimo che permetta di preservare la dignità di ogni cittadino, mettendolo al riparo dai rovesci del fato. Perché ciò possa essere realizzato, ogni appartenente alla comunità dovrà partecipare al supporto materiale dello Stato, ogni cittadino dovrà generare attivamente il benessere giustamente preteso e nessuno dovrà evitare di condividere una parte di suoi beni prodotti – materiali o immateriali che siano – con la comunità tutta. I problemi di fedeltà fiscale, ben noti nel nostro paese, sono uno degli ostacoli principali alla creazione di un sistema democratico compiuto, al pari peraltro della mancanza di senso civico, senso civico che dovrebbe spingere ogni cittadino a condividere oneri e responsabilità – senza approfittare mai impropriamente dei diritti acquisiti.

Un sistema democratico che dovesse essere privo di questi prerequisiti non sarebbe in grado – a mio avviso – di costruire una democrazia compiuta; il semplice atto di mettere una croce sul nome di un candidato abbandonando la scheda in un’urna non è una condizione sufficiente per poter parlare di democrazia.

Dunque, perché un sistema democratico funzioni i cittadini che decidono – con metodi diretti o indiretti – del governo della comunità, devono poterlo fare scientemente e con responsabilità: ciò presuppone che tutti siano a conoscenza delle regole fondanti della comunità e che le condividano, che siano coscienti e siano tenuti a preservare – innanzitutto – il bene comune; i partecipanti alla comunità dovrebbero avere chiari anche quali siano i propri interessi e come questi vadano salvaguardati senza ledere quelli altrui. La formula è elementare, la sua applicazione pratica ha sempre recato difetti e vizi tali da rendere quasi utopica la costruzione di una democrazia compiuta.

Molte elezioni che hanno designato i rappresentanti del popolo svoltesi di recente sembrano contraddire il fatto che chi ha esercitato il suo diritto di voto abbia effettiva coscienza di quali siano i propri interessi, né di quali siano i reali problemi della comunità – se non del pianeta – che andrebbero affrontati e risolti; la vittoria elettorale di Donald Trump è solo l’esempio più evidente e emblematico di ciò: masse appartenenti alle classi lavoratrici, escluse non solo dalla redistribuzione ma sovente anche dalla creazione della ricchezza, hanno deciso di affidare il loro futuro ad un miliardario rappresentante degli interessi di una ridottissima élite di super-ricchi, che da subito ha iniziato a legiferare contro gli interessi della maggior parte dei suoi elettori. Si potrebbe obiettare che anche i naturali rappresentanti di quelle classi lavoratrici hanno tradito sistematicamente i propri elettori, facendosi portavoce di interessi corporativi e a volte anche in maniera più semplice e volgare degli interessi propri; ciò non giustifica comunque – a mio avviso – il fatto che i consensi vadano in alternativa a chi ha, anche anticipatamente in fase di campagna elettorale, dichiarato che avrebbe fatto a pezzi quel poco di stato sociale presente negli USA (vedi la timida ma pur presente riforma Obama in favore di un’assistenza sanitaria diffusa).

La spiegazione più logica di quanto accaduto potrebbe risiedere nel fatto che i populisti, imperanti non solo negli Stati Uniti, fanno efficacemente leva sulle paure e sul senso di abbandono; la paura di perdere quel benessere che ha comunque caratterizzato i paesi occidentali a favore di masse di immigrati che premono alle frontiere e il senso di abbandono di lavoratori dei più tradizionali settori produttivi che hanno visto – nel corso degli anni – sparire i loro posti di lavoro a causa di delocalizzazioni, competizione insostenibile da parte di colossi emergenti quali Cina e India, finanziarizzazione dell’economia dalle svolte economiche del governo Thatcher a seguire. La perdita di centralità del lavoro e del suo potere associativo, la sua precarizzazione, la trasformazione dei cittadini in consumatori effimeri sulla quale ha puntato il Mercato – trasformando radicalmente anche aspirazioni e bisogni degli umani, l’abbandono della cultura come valore e come riscatto sociale a vantaggio di evanescenti carriere basate su intuizioni miracolose o speculazioni prive di scrupoli, tutte queste cose hanno certamente contribuito a costruire il mondo non idilliaco nel quale ci troviamo a vivere. Tutto questo, comunque, potrebbe spiegare un astensionismo non condivisibile (se non partecipi al gioco elettorale altri decideranno anche per te) ma comprensibile con la delusione; risulta comunque incomprensibile come affidarsi a chi è stato, negli anni, attore di tutti i cambiamenti sopra elencati (il grande Capitale, gli interessi di élite corporative) possa essere presa in considerazione come possibile soluzione: una forte dose di inconsapevolezza – o dabbenaggine – deve per forza esserci. Quanto detto, rende evidente il fatto che non possiamo certamente parlare di democrazia compiuta quando i cittadini si fanno rappresentare da chi conculca i loro interessi.

A questo punto: che fare? Continuando a volare basso vengono in mente due ricette classicamente contrapposte: la prima, conservatrice, prevederebbe una democrazia ristretta, cui ammettere solo un limitato gruppo di individui illuminati; costoro sapranno operare le migliori scelte per sé stessi e per la comunità tutta! Resta il non trascurabile problema di come individuare questi aristocratici, immaginando che ogni potenziale categoria perorerà la propria causa: dovranno essere classicamente i più facoltosi, benedetti dal divino in quanto esseri superiori come nella migliore tradizione Puritana? Dovranno essere i più colti, e in questo caso i seguaci della cultura umanistica o quelli della cultura scientifica? Ed infine: chi avrebbe la capacità di insignire costoro in assenza di un’autorità divina onnisciente e condivisa? In ultimo: questa soluzione non sembra molto diversa da ciò che sta già accadendo: élite economiche in grado di manipolare folle disorientate stanno già sedendo, direttamente o tramite loro rappresentanti, sugli scranni più alti di governi e parlamenti, soggiogando a loro vantaggio i logori strumenti della democrazia orfani di cittadini coscienti.

La seconda possibilità, progressista per evitare di dare brutali connotazioni politiche, prevederebbe proprio l’edificazione della democrazia a partire dalla costruzione di cittadini coscienti, quanto più colti possibile, educati in maniera rigida al senso civico e alla difesa del bene comune; la scuola dovrebbe essere lo strumento principe per questa costruzione, una società coesa a trama fitta il sostrato ideale per la sua crescita – società capace di premiare i comportamenti positivi e reprimere quelli devianti e asociali. Mentre scrivo la scuola mi evoca senza fraintendimenti sensazioni positive, sempre ricordando gli insegnanti capaci e relegando nell’ombra quelli non in grado di trasmettere né nozioni né visioni del mondo; i restanti punti dell’elenco suonano sinistramente familiari e rievocano coercizione e irregimentamento già tentati in passato con esiti che conosciamo. Mi vengono in mente vetuste platee costrette all’ascolto di Tchaikovsky che – una volta libere – sarebbero corse ai concerti di Al Bano: per questo particolare esempio uno dei miei spiritelli, quello più antidemocratico, cadrebbe nella considerazione che almeno una volta – costretti o no – ascoltavano Tchaikovsky, mentre ora degradano naturalmente verso lo stato energetico inferiore e le musichette fastidiose che popolano le nostre emittenti radio.

Dismettendo i panni del giullare, che indosso sempre in maniera sgraziata, è chiaro che ci sono terze o quarte vie più edificanti, che la tenace costruzione culturale che alcuni docenti ancora praticano e l’esempio che possiamo tutti fornire nelle nostre attività quotidiane – le più disparate – appaiono i soli argini che possono rallentare la discesa verso il caos; le reti di amicizie, i tentativi di analisi della realtà e i timidi abbozzi di soluzioni condivise possono migliorare il clima generale, o quantomeno il clima nel quale ci troviamo personalmente a vivere. Resta il fatto che il sistema, che non ha bisogno di essere eterodiretto da nessuno e che tende naturalmente – seguendo il secondo principio della termodinamica – verso l’aumento di entropia, pare virare decisamente verso la creazione di imperi poco democratici, con l’obiettivo di massimizzare i profitti nel breve e medio periodo ignorando le conseguenze a lungo termine delle scelte odierne. I cittadini di ogni paese appaiono sempre più disposti a cadere vittime di sirene quali il populismo, il rifiuto del pensiero scientifico, il nazionalismo, la delega all’uomo forte che deresponsabilizza e affida il futuro a personalità malate di mitomania e sempre rappresentanti di oligarchie autoreferenziali e decisamente poco democratiche.

Le scelte operate da personaggi come Elon Musk appaiono irrazionali in un’ottica di lungo periodo: le crisi ecologiche, climatiche, sociali, che potrebbero travolgere anche gli imperi di questi ricchissimi e i loro eredi, non vengono nemmeno prese in considerazione come potenziali problemi. Probabilmente ciò che guida queste scelte ha a che fare con un senso di onnipotenza derivante dall’immenso potere economico: la fideistica certezza che la ricchezza salverà certamente loro – unita magari a un positivismo insensato, che immagina futuribili soluzioni dell’ultimo minuto affidate alla tecnica che certamente rovesceranno le sorti del pianeta in senso positivo. Purtroppo pare che costoro stiano acquistando sempre più potere e autonomia, e che siano destinati a guidare – in un futuro non lontano – entità statali che poco avranno a che fare con ciò che chiamiamo democrazia, modificando progressivamente cultura e senso comune su un piano inclinato che già ci vede acquistare velocità verso il baratro.

Ciò che mi resta, al termine delle mie usuali ottimistiche considerazioni, è un desiderio insoddisfatto di partecipazione politica, per poter incidere e cambiare lo stato delle cose; insoddisfazione molto probabilmente colpevole – perché non ho mai aderito a nessuna organizzazione per tentare di dare il mio contributo – o forse meritevole, dato che non vorrei mai far parte di un club che accetti tra i suoi membri uno come me!

Lo sapevo: quest’ultimo passaggio smaschera il marxista che è ancora in me!

Tsundoku – Breve Respiro

di Vittorio Righini, 1° settembre 2025

Tsundoku, in giapponese, più o meno significa: l’abitudine di accumulare libri con l’idea di leggerli in futuro. Esiste un’ossessione corrispondente, e più accentuata, che è quella di accumulare i vinili. Componenti fondamentali per i libri, e ancor più per i dischi in vinile, sono: a) l’edizione b) le condizioni c) la copertina. Ma con i libri conta anche la qualità e l’odore della carta.

Il contenuto è il più delle volte già noto nei vinili, è quindi un dato scontato, non si compra un vinile raro se sappiamo che il contenuto non è nelle nostre corde; più casuale il libro.

Ma qui arrivano le differenze: su un mercatino si trovano libri a 1, 2 o 3 euro, che comprati al tempo della loro pubblicazione sarebbero costati 10 o più migliaia di lire, o decine di euro. Il mercato è quello dello sgombero, lo dico in senso oggettivo, si fanno magnifici affari (ieri, mercatino di Acqui, trovato Napoli ‘44 della Adelphi, di Norman Lewis, a 2 euro … Signori, di cosa stiamo scrivendo!? Al banco di fronte mio figlio compra il vinile L’Indiano di De Andrè, copertina buona, vinile discreto, a 30 euro e il tipo sembra gli faccia un regalo).

I vinili sono già finiti in mano ai commercianti; conosco persone che, smesso il loro lavoro abituale, lo fanno di professione.

Baristi modesti, messi comunali in pensione, saltimbanchi d’ogni genere e forma che di musica hanno sempre saputo e capito poco o niente, e che oggi si ritrovano alle fiere del vinile e pontificano, convinti di avere di fronte a loro degli ignari, da imbonire con stronzate micidiali. Quando li incontro, faccio un sorriso e passo oltre, a favore di vecchi malati di musica, che vendono per campare ma sanno cosa propongono. Certo, i vinili sono più rari dei libri, ma c’è un limite a tutto.

Invece nel mondo dei libri l’offerta è tale che è difficile da valutare. Io spesso compro senza conoscere quel libro … sì, ma a 1 euro, 2 o 3. Non a 30/40/50 come ti chiedono per un vinile. Ne sto facendo una questione di vil denaro? anche.

Compulsivo, un termine di moda oggi; chi si compra una valanga di libri ad ogni mercatino spenderà poche decine di euro, ma a meno che non sia Matusalemme avrà ben poche possibilità di leggerli tutti. Però il piacere di possederli (e la gioia dell’Ikea che vende migliaia di librerie Billy, pur incocciando a volte con la pazienza delle mogli) è impagabile.

Un compulsivo del vinile deve avere un reddito notevole per paragonarsi a un compulsivo del libro (del libro normale per intenderci, non certo il collezionista di libri antichi e rari, quello vive su di un altro pianeta).

E la pigrizia dove la mettiamo? io non sono definibile “esagerato” per la quantità di libri che possiedo (vinili ne avrò 1500, ma li compro dal 1970, mentre i libri sono tantissimi, ma in parte per averli ereditati dai genitori, lettori accaniti, e in parte acquisiti negli ultimi 30 anni), eppure ho 7/8 librerie piene. Ho provato a tenerli in ordine, ma ormai i libri non letti sono in parte finiti in mezzo a quelli da leggere, c’è un certo caos, complicato da gestire in fase di ricerca.

L’altra sera prendo in mano Un sorriso nell’occhio della mente di Lawrence Durrell; il racconto narra di un conoscente cinese di Durrell che gli prospetta la filosofia Tao, e lo inizio con entusiasmo, per rendermi conto dopo le prime pagine che l’ho già letto e che mi era pure piaciuto … beh, che c’è di male? niente, basterebbe solo essere più ordinati, ma chi se ne fotte.

Tsundoku, termine nato nell’era Meiji (1868-1912), per la verità ha un significato più sottile di quello che ho indicato all’inizio: significa accumulare libri in casa senza sapere se mai li leggeremo, e questa interpretazione ci apre la mente ad altre e ben più curiose riflessioni. C’è chi ritiene che si tratti di una forma di dipendenza (ecco l’acquisizione compulsiva di cui scrivevo prima), chi ritiene invece che si tratti di una forma di umiltà, avere tanti libri per migliorare se stessi. Io ne propongo una terza, una via di mezzo: una insaziabile curiosità che spinge ad accumularli, i libri.

Leggo, in un articolo sul web, che l’altra parte della barricata è quella che dice che avere troppi libri in casa genera ansia, nella convinzione della brevità della vita, per la nostra incapacità di leggerli tutti, quindi per la nostra mancanza di tempo. No, non sono d’accordo; ottimista di natura, vedo l’accumulo dei libri in casa mia come Paperon de Paperoni vede il mucchio di monete nel suo mega salvadanaio a forma cubica (impresto i libri, non ho problemi, ma li timbro con l’ex-libris e sparo con un fucile a canne mozze a chi non me li rende, perché sono uno di buon cuore e non voglio far soffrire).

Sempre nello stesso articolo, leggo che lo psicologo, nel caso, consiglia di farsi un sacco di domande prima di comprare l’ennesimo libro, e rispettare regole come l’ordine, l’elencazione, la motivazione, la registrazione di ogni acquisto … no, no grazie. Mi perderei tutto il meglio, che razza di Tsundoku sarei?

Ps: esiste un libro che si chiama: Tsundoku. L’arte giapponese di accumulare libri, Raito Taiki, editore Giunti 2025, ma non ho la più pallida idea se ne valga la pena. A me basta andare due o tre volte l’anno da Paolo Repetto, a Lerma, dove il mistero viene svelato in tutta la sua pienezza.

Pps: cosa c’entra Breve Respiro? più di venti anni addietro, in occasione di una sosta nel Comune di Zogno (BG), mi invitarono a pranzo in una vecchia trattoria proprio sotto i monti, con a fianco un ponticello in pietra che scavalcava un minuscolo torrente, per poi inoltrarsi in una ripidissima mulattiera. I montanari, nel passato, si fermavano a bere un bicchiere o mangiare un piatto di casoncelli caldi prima di affrontare la salita, cioè prendevano un breve respiro. È quello che propongo anche io con la lettura di queste due semplici paginette: purtroppo mi mancano casoncelli e vino. Come dire: dopo aver letto dedicatevi a cose più serie.

Fine della pacchia

di Paolo Repetto, 23 agosto 2025

E tuttavia …. Devo tornare su Berselli e sulle “giovani promesse”. In Doppiozero trovo una recensione al suo libro appena riedito, scritta da Alessandro Banda. S’intitola Venerati stronzi. La leggo, mi piace, vado a cercare altri pezzi dello stesso autore. Una rivelazione.

Comincio da Il mio mercatino di Natale, sui mercati natalizi di recentissima e tutta inventata “tradizione”, come le sagre paesane estive. In questo caso si parla del mercatino meranese, frequentato anche da alcuni miei conoscenti quando non hanno la voglia o la benzina per arrivare fino a Salisburgo o addirittura a Danzica. Banda non ha bisogno di insaporire l’evento, è già abbastanza sapido di per sé: “Baracche, baracchette e baraccone lignee si disponevano ai due lati del Corso suddetto in una teoria pressoché infinita. Ognuna di queste baracche e baracchette e baraccone vendeva determinati prodotti, natalizi e affini. Per esempio candele al profumo di speck, stecche d’incenso automatico (si accendevano da sé non appena faceva buio), alberelli di Natale in vetroresina con lucine psichedeliche intermittenti incorporate, palle di Natale fluorescenti levigatissime, angeli di marzapane e angeli di panpepato, nonché angeli di biscotto e cannella. Poi, prodotto particolarmente fortunato, simpatici colbacchi in pelo di pony avelignese, guanti foderati di pelo di pony avelignese, pantofole di feltro, rivestite di pelo di pony avelignese, nonché sciarpe e scialli in pelo di pony (avelignese).

Erano tutti prodotti tipici meridianesi, che, come tutti i prodotti tipici di tutti i posti del mondo (tranne Hong Kong e Taiwan) venivano direttamente da Hong Kong e Taiwan. (A Hong Kong e Taiwan non perdono tempo con i loro propri prodotti tipici, occupati come sono a produrre quelli degli altri)”.

In effetti la ratio dei mercati di Natale (se di una ratio si può parlare) è esattamente all’opposto di quella che spinge a frequentare i mercatini dell’usato. Non è la speranza di imbattersi in qualcosa che avvii una personalissima “recherche”, o di rinvenire un oggetto (nel mio caso, naturalmente, un libro) del quale magari si ignorava l’esistenza o che si considerava ormai irreperibile, e che improvvisamente ci accorgiamo di aver sempre desiderato: è piuttosto l’adempimento dell’ennesimo rituale consumistico che si è sovrapposto ai vecchi rituali religiosi, una pratica che dà punteggio nella graduatoria “main stream”, e tanto più quanto più esotico. È insomma la voglia di poter dire: “ci sono stato anch’io”.

Trovo poi la segnalazione di un libro che parla dei trecento del battaglione sacro di Tebe (Eran trecento giovani e forti). Non solo mi era sfuggito il libro, ma avevo anche dimenticato il battaglione. Non lo avevo inserito nella rassegna di Trecento che ho postato pochi mesi fa. Il battaglione tebano era una formazione militare particolare, centocinquanta coppie di amanti (naturalmente omo, ma siamo nella Grecia classica, parliamo di rapporti di una natura completamente diversa).

Banda qui cita Plutarco: “Nessun amante tollererebbe di mostrarsi codardo di fronte al proprio amato, ed è esattamente per questo che un battaglione, composto da uomini reciprocamente legati da vincoli di passione, diventa invincibile e incrollabile”. Potrebbe essere un’idea per il nuovo esercito europeo. Tra l’altro, il lungimirante Epaminonda spostò il peso dell’attacco di quella formazione dalla tradizionale ala destra a quella sinistra, e questo gli consentì di confondere gli spartani a Mantinea e di sconfiggerli. Una sinistra combattente. Altro che battaglione Azov!

Sempre più piacevolmente incuriosito risalgo un po’ indietro, e leggo in successione un bel pezzo su Lucrezio (Lucrezio apocalittico), uno su Nicola Chiaromonte, uno su Saviane (Sergio Saviane e l’invenzione del mezzobusto). Le consonanze si moltiplicano.

Ma il bello deve ancora venire. Alessandro Banda ha in cantiere un libretto sull’arte di camminare in città, che dovrebbe titolarsi Il camminante malinconico e raccogliere una serie di considerazioni postate con cadenza settimanale. “Io non ho intenzione di occuparmi di camminate e camminatori in luoghi paradisiaci. No, per niente. A rigore non mi occuperò nemmeno di camminatori. È del camminante che parlerò… io intendo il camminante come uno che cammina in situazioni reali. Consuete. Quotidiane. Cittadine.

E qui si entra direttamente nel nostro campo.

Da dove inizia Banda? Alla grande: va dritto al problema, al rapporto tra il camminante e le merde dei cani (La schiavitù canina), cui succede quello tra il camminante e i padroni dei cani (La celeberrima passeggiata Tappeiner); per poi tornare indietro a Rousseau e a Walser (Il patrono dei camminanti) e rimbalzare nell’oggi con L’invasione degli ultraveicoli, la Metafisica del Suv e Crisi e biciclette.

Trovo tutti questi quadretti pienamente condivisibili, e penso dovrebbero esserlo anche da parte dei più sedentari. In realtà, immagino che con essi Banda si sia fatto un sacco di nemici, che lo tempesteranno di tweet indignati: un po’ perché l’ironia non abita più i nostri lidi, un po’ perché la verità è costretta da sempre a navigare controcorrente; ma soprattutto perché nella “swipe era”, o sfera dei social media, a provare irrefrenabile l’imperativo di esprimersi sono gli imbecilli. Comunque, mi scuso subito: ho usato la locuzione “padroni dei cani”, che non è più considerata corretta. Avrei dovuto sostituirla con pet mate, compagni dei cani, a sottolineare il rapporto di amicizia e rispetto tra umani e animali. Questo tra l’altro spiega perché gli ex-padroni tendano a declinare, contestualmente alla proprietà, anche la responsabilità di rimuovere le deiezioni dei loro compagni. Speriamo non arrivino a volerne condividere anche l’interpretazione fecale della libertà.

Ragazzi, quanto bisogno avremmo non di uno, ma di mille Berselli!

Nel corso di questa divertente scorribanda, che viaggia tutta fuori dagli schemi del “politicamente corretto”, mi imbatto infine in interventi sparsi lungo una decina d’anni, che mi aggiornano sullo stato della scuola da quando l’ho lasciata. Avevo deciso di non tornare su questo argomento, non mi ci riconosco più: può sembrare strano per uno che per la scuola e nella scuola ha vissuto sessant’anni, ma la vedo ormai da una distanza siderale. Eppure, appena vi si fa cenno, e non per la solita manfrina celebrativa dell’inizio e della fine dell’anno scolastico, con tanto di interviste alle madri appena scese dal suv, qualcosa continua a scattare. E allora, qualche riflessione non guasta.

Su moltissime delle cose di cui Banda parla, prima tra tutte l’insensatezza dell’esame di maturità, concordo perfettamente.

Scrive: “La prima maturità classica fu superata dal cinquantanove per cento dei candidati. Il governo fascista corse allora ai ripari. Negli anni a seguire l’esame fu, more italico, annacquato e edulcorato. […] È da molti anni che i promossi superano il 99 per cento. Io sono contento di questi dati. Non sono un insegnante che boccia. Non ho la bava alla bocca quando metto un’ insufficienza. Non ne metto quasi mai. Ma, se un esame non opera un minimo di selezione, che senso ha? […]

La maturità no. Passano regolarmente tutti. Da anni. Da decenni. In trent’anni che insegno ho visto un solo respinto. Che poi ha fatto ricorso e l’ha vinto. Quindi nessuno in trent’anni”. (Maturità: persino Franz Kafka barò all’esame, 2020)

Quest’anno a ravvivare un po’ la scena è arrivata anche la sceneggiata del “gran rifiuto” (del voto, non della promozione), a denunciare l’assenza di “empatia” da parte degli insegnanti (quella ormai la mostrano solo i cani): rifiuto che è valso agli eroici nuovi martiri di Belfiore decine di migliaia di followers, viatico per entrare nel mondo dorato degli influencer.

La penso esattamente come Banda anche riguardo le riforme che si succedono ad ogni cambio di ministro, perché tutti vogliono lasciare la loro impronta. “Di riforme autentiche, nella scuola italiana post-unitaria, ce ne sono state unicamente due: quella del 1923 e quella del 1962. La cosiddetta riforma Gentile e la riforma che introduceva la scuola media unica.

Una presentata come fascistissima, ma in realtà, come riconobbe lo stesso Gentile in parlamento, d’impianto liberale, l’altra ispirata alla stagione riformista del centro-sinistra. Queste due riforme possono piacere o non piacere. Però nessuno può negare che nascessero da idee”.

Da allora: “Le riforme della scuola non sono riforme. Sono ritocchi parziali, spesso scoordinati e raffazzonati, tendenti ad un unico fine, triplicemente modulato: tagliare, tagliare, tagliare. Ore, posti di lavoro, siano cattedre o segreterie e dirigenze”.

Altre cose invece mi lasciano perplesso: ad esempio il fatto che Banda approvasse l’introduzione dello smartphone nelle aule (il pezzo in cui ne parla risale ad otto anni fa. Ma la cosa è coerente con la sua convinzione di fondo che ogni resistenza al nuovo nella scuola non abbia senso): “Non so i colleghi (anzi lo so, ma faccio finta di non saperlo, perché a scuola si procede così), ma io lo smartphone sono almeno sette anni che lo faccio usare. Se dico una cosa e gli alunni non mi credono, aggiungo: controllate in rete. Verificate le mie affermazioni in tempo reale, secondo l’abusata espressione”. (Lo smartphone a scuola, 2017)

Sette più otto quindici. Quindici anni fa eravamo in era pre-covid, ancora non era arrivata a compimento la pervasione totalizzante dei social, ma quale sarebbe stato l’uso futuro dello smartphone era già ben chiaro (chissà cosa pensa Banda della loro proibizione, in vigore dal prossimo anno. Al di là del fatto che rimarrà lettera morta). Non credo che oggi i suoi allievi si informino su Wikipedia: è più probabile che si affidino a qualche piattaforma di AI sfacciatamente condizionata e orientata. Ma soprattutto, non impareranno mai che la cultura non consiste in ciò che sai, ma nello sforzo che fai per arrivare a saperlo.

Non condivido affatto, poi, un atteggiamento generale che definirei “rinunciatario” nei confronti del ruolo della scuola, anche se ad avallarlo viene chiamato un “venerato maestro” (e riferimento costante di Banda): “Non vedo errore certo, irreparabile, se non nell’acconsentire ad avere un primo giorno di scuola. Da quel momento incomincia la sistematica vessazione”. (citazione da Giorgio Manganelli, ne Il primo giorno di scuola, 2017)

Mi spiace che Manganelli l’abbia vissuta come una vessazione sistematica. Forse la vivono così le menti davvero geniali, quelle che non sopportano i ritmi lenti imposti dal gruppo, o, al contrario, le menti meno sveglie, che non reggono nemmeno quei ritmi. Ma la gran parte dei ragazzi, magari per ragioni completamente diverse e con atteggiamenti ed esiti i più disparati, credo non l’abbiano vissuta così. Almeno fino a ieri, fino a quando la scuola la frequentavo, sul versante cattedra, anch’io.

Per questo mi suonano troppo liquidatorie queste affermazioni: “Perché lamentarsi che la scuola soffochi il genio? È esattamente quello il suo compito. Perché lamentarsi degli insegnanti impreparati, o ingiusti, o dai nervi labili? Sono come devono essere. Perché lamentarsi dello scadimento degli studi? Gli studi scadono da sempre, e sono scaduti da sempre, se è vero, com’è vero, che già Tacito e Petronio la stigmatizzano, quest’eterna decadenza degli studi […]. Sono sicuro che la lagna scolastica proseguirà. Con gli stessi argomenti. Con le stesse parole. Con le stesse identiche frasi, che si ripetono da duemila anni e che si ripeteranno per altri tremila.” (Il lamento dell’insegnante, 2015)

Non credo affatto che siamo di fronte alla “solita lagna”. Per chi ha vissuto nella scuola gli ultimi sessant’anni lo scadimento è quanto mai palpabile e reale, e corre a una velocità mai conosciuta prima. Non riguarda solo la realtà scolastica, naturalmente, ma la scuola ne è il primo e più evidente sensore. Può darsi si tratti di un normale adeguamento, della transizione ad una realtà culturale e sociale del tutto inedita, a modi completamente nuovi di trasmissione del sapere. Ma nessuno può negare che al momento ci si trovi davanti ad una istituzione allo sfacelo. Perché non è stato sempre così.

Sul muro della terrazza sovrastante la palestra, nell’istituto in cui ho insegnato per un quarto di secolo, campeggiava una scritta in caratteri cubitali: “La pacchia è finita, arrivano le vacanze”. Era l’unico luogo in cui all’epoca ci fosse concesso fumare, frequentatissimo dai tabagisti ma nella bella stagione anche dai non fumatori. Una piccola agorà dove, molto più che nell’aula magna, trovava espressione il libero pensiero. Faticai molto a convincere il preside a non fare cancellare la scritta, ma alla fine la spuntai. Non so che fine abbia fatto dopo il mio trasferimento.

Trovavo quelle parole estremamente significative. Al di là dell’intenzione beffarda, inconsciamente situazionista, esprimeva a mio giudizio una profonda verità: gli allievi a scuola in fondo si divertivano, e la pacchia non consisteva nella possibilità di fare una mazza, perché ancora non erano state inventati i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, i Bisogni Educativi speciali e tutte le altre immaginifiche sindromi attestate da psicologi compiacenti, cui non par vero coltivare nuovi orticelli (o meglio, i disturbi dell’apprendimento c’erano, e quelli tra noi più coscienziosi se ne accorgevano benissimo, e li tenevano nel debito conto, ma non era ancora partito lo squallido mercato delle certificazioni volute dai genitori per rifiutare ogni responsabilità educativa).

Posso affermarlo con cognizione di causa perché tutti gli allievi coi quali sono rimasto in contatto, e sono molti, me lo confermano: ma lo sapevo già all’epoca, altrimenti non sarebbe stato spiegabile perché cinque neo-maturi, all’indomani dell’orale conclusivo, chiedessero di potermi raggiungere nel luogo dove quell’anno facevo la maturità da commissario, in quel caso in Toscana. Erano disposti a dormire nei sacchi a pelo in un vecchio seminario abbandonato e a seguire il mattino le sessioni d’esame dei loro colleghi (soprattutto colleghe) toscani. Alla domanda: ma non avete niente di meglio da fare? la risposta fu: sentiamo già la nostalgia della scuola. E il bello è che erano sinceri. Ora, va precisato che quei cinque non erano affatto dei secchioni, viravano anzi parecchio sul lavativo: ma quando uno di loro, il re dei lavativi, una tarda sera, di ritorno dal mare dove avevamo trascorso tutto il pomeriggio e di fronte al paesaggio che ci su spalancava davanti, le colline di Volterra inondate dalla luce lunare, ruppe il nostro silenzio estatico citando Foscolo: “Lieta dell’aer tuo veste la Luna/ di luce limpidissima i tuoi colli”; ebbene, allora compresi che persino lui a scuola si era divertito e ne aveva tratto ciò che può rendere più ricca e piacevole la vita. Altro che soffocare il genio. Fino a ieri era così: io mi divertivo, loro anche. Diversamente, avrei cambiato subito mestiere. Non so se oggi questo è ancora possibile. Per tutti i motivi che Banda cita: perché è diverso il mondo, perché sono diversi i ragazzi, perché cercano altrove quello che un tempo trovavano nella scuola, perché quest’ultima, che era rimasta l’ultimo baluardo contro l’ingresso dei “Barbari” tanto auspicata do Baricco, è stata ridotta in pochi anni a parcheggio per una fascia d’umanità altrimenti ingestibile.

Penso che comunque in cuor suo queste cose Banda le sappia. Altrimenti non avrebbe descritto così il protagonista di un libro recensito in un altro intervento (Scuola di felicità, 2016): “È un insegnante vero, non un impiegato, non uno di quelli che viene per fare le ore, scrivere programmi, registri … Un insegnante che insegna qualcosa in più rispetto alla sua insignificante materia”.

E che senz’altro si diverte quanto i suoi allievi.

Nei momenti di malumore

di Paolo Repetto, 20 agosto 2025

In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”.
Alberto Arbasino

Allora: è stato ripubblicato Venerati maestri di Edmondo Berselli. Per chi non lo avesse ancora letto, o addirittura non sappia chi era Berselli, è un’occasione da non perdere. Ma anche per chi già lo conosce la rilettura rimane comunque uno spasso, e soprattutto rinnova la convinzione che il giornalismo e la professione intellettuale siano qualcosa di diverso da quello che oggi conosciamo. La nuova edizione esce per i tipi di Quodlibet, e arriva a quasi vent’anni dalla prima (di Mondadori). Personalmente ne sono strafelice, e vedremo poi il perché, ma come aspirante da una vita al ruolo di editore mi chiedo se sotto un profilo prettamente commerciale sia un’operazione azzeccata.

Voglio dire: avrà ancora un mercato? Questo non perché dubiti del valore dell’opera, della sua eccezionalità documentaria e anche linguistica: sono anzi convinto che Berselli meriti di figurare nella top ten (o only ten) degli autori italiani dell’ultimo mezzo secolo meritevoli di essere letti e ricordati. Ma da chi potrà essere letto, oggi? Quelli che erano in grado di apprezzarne l’intelligenza, e più ancora il sarcasmo, il libro ce l’hanno da quel dì: quelli che vengono ora e che verranno domani, a parte una sparutissima minoranza, avranno enormi difficoltà a orientarsi nella gimkana di Berselli, che fa riferimenti a protagonisti e vicende di ieri e dell’altro ieri, già messi in soffitta dall’urgenza di concentrare l’attenzione sul presente di stamattina; e probabilmente non avranno neppure le gambe per stargli dietro, abituati come sono a letture non più impegnative di un tweet o di un post.

Comunque, onore alla casa editrice e al suo coraggio. Spero di essere smentito e che la nuova edizione conosca un successo pari a quello della precedente. Almeno non dovrò più preoccuparmi di scovarne copie nei mercatini per regalarle agli amici più giovani. Fornirò solo indicazioni per l’acquisto.

Qualcosa va detto però anche del libro. Non di cosa parla, naturalmente, perché non è materia che si possa riassumere: mi limiterò a dare un’idea di come lo fa. Avete presente l’Ulisse di Joyce? Non dico se l’avete letto, perché non conosco nessuno, me compreso, che sia davvero arrivato sino in fondo. Ma ci avete almeno provato? Ebbene, Berselli procede un po’ allo stesso modo, saltando in apparenza continuamente di palo in frasca, in realtà srotolando la bobina di un unico film, un documentario concitatissimo e affollato costruito attraverso una galleria di ritratti, di scorci ambientali, di baracconi culturali tenuti in piedi da complicità tutt’altro che amicali, fondate anzi sulle invidie e sul livore.

I “venerati maestri” sono per Berselli gli intoccabili della cultura del secondo Novecento (e del primissimo spicchio del nuovo secolo). Ce n’è per tutti, e i ritratti che si susseguono nella galleria sono tratteggiati passando di volta in volta dall’ironia benevola nei confronti di alcuni al sarcasmo feroce per i più, con un criterio che Berselli stesso confessa, e anzi rivendica, come totalmente umorale: “Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia”. Tuttavia questo criterio non fa mai scadere il racconto nell’invettiva: il quadro che ne viene fuori è una tavola alla Jacovitti, una somma di “mostruosità” quotidiane trattate con irriverente schiettezza, col gusto del pettegolezzo sapido, ma senza mai indulgere ad un atteggiamento inquisitorio. Siamo fatti così, dice Berselli, io compreso: solo che il malumore mi fa vedere le cose più lucidamente, e mi spinge a non accettarle supinamente.

Al contrario, l’atteggiamento della “classe intellettuale” è sempre ipocritamente compiacente: “Noi sappiamo che tutti loro, là fuori, stanno trastullandosi con forme inferiori dell’arte e della cultura, con figurine di un album infantile: ma dall’alto della nostra superiorità mostriamo un volto che si degna di manifestare una specie di simpatia intellettuale, di comprensione, quasi di affetto. Quel sentimento di benevolenza che si rivolge di solito ai parenti non troppo stretti, che si incontrano ai matrimoni o ai funerali: una compiacenza volonterosa quanto distratta, senza un vero coinvolgimento psicologico e affettivo, tanto si sa che ci si ritroverà solo fra quattro o cinque anni, e si rifarà la solita manfrina”.

Berselli si chiede: “[…] come è stato possibile che abbiamo accettato il diktat di un paternalismo critico così ignobile, un peccato di gusto talmente colpevole da risultare senza remissione, un’ipocrisia generale tanto inqualificabile?” E si dà anche la risposta, chiara e perfettamente condivisibile.

Il qualcosa che non va è il conformismo diffuso, l’ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra aver coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare, l’Italia contemporanea, in ragione del quale tutti sono ‘d’accordo con tutti, e nessuno obietta mai niente. In privato si parla male di tutti, e si fanno sghignazzate sui grandi capolavori che vengono proposti dai media e sui protagonisti santificati dallo stereotipo; in pubblico, e cioè sui mass media e nelle occasioni ufficiali, ci si guarda bene dall’incrinare anche solo con un graffio il luogo comune e l’oleografia”.

Tanto per non fare nomi: “Erano i tempi in cui andava moltissimo Bertold Brecht, nella particolare mediazione socialista di Giorgio Streheler, e all’Italia intera venivano inflitti drammi brechtiani a iosa, che dovevano piacere a tutti e in effetti a tutti piacevano, o almeno tutti dicevano che gli piacevano, specie quando c’era Milva la rossa … E con Brecht eravamo ancora sul versante colto, quasi accademico. Se si voleva eccedere nella sofferenza e nella cultura, un gradino oltre l’impegno, nello spazio ideale della tortura, c’erano Luciano Berio e Luigi Nono, comminati e inflitti nel segno della grande avanzata culturale di massa”.

Nel paginone jacovittiano alcune figure si stagliano e giganteggiano in negativo; ma non è neanche così, il negativo ha comunque una sua consistenza, mentre di questi Berselli mette a nudo soprattutto l’inconsistenza, l’aria fritta di cui si nutrono e che spacciano alle cerchie dei loro cultori. i[…] come ha fatto Bernardo Bertolucci, raccontare il Novecento in un film di molte ore, talmente ideologico e balordo sul piano storico che a vederlo allora Arbasino scrisse sulla Repubblica un articolo allegramente distruttivo, intitolato L’epica nel pollaio, e a vederlo adesso viene voglia di menarlo.

Insomma, si va di questo passo. Sul red carpet si avvicendano scrittori, registi, musicisti, critici, editori e filosofi, messi allegramente e perfidamente a nudo nel corso della sfilata. Senza, ripeto, che mai si avverta sentore di acidità. Comunque, tutto questo potrete scoprirlo da soli, leggendo il libro: o almeno provarci, come con l’Ulisse.

Quanto a me, confesso che la mia segnalazione non è imparziale. È più umorale ancora, se possibile, del “falò di conformismi, complessi di superiorità, idee sbagliate, revisioni arrischiate, pensieri forti divenuti deboli” acceso da Berselli. Quando ho letto per la prima volta Venerati maestri mi sono quasi commosso: non mi sembrava vero, non ero dunque così solo come di norma mi sentivo nel mettere in dubbio il talento di Bertolucci, o di Nanni Moretti (scritto sempre così, nome e cognome, perché ci sono altri Moretti tristemente famosi, e perché ormai è diventato un marchio, una griffe); o quando davo in escandescenze durante la proiezione de La vita è bella, e bollavo come emerite cagate le Lontananze Nostalgiche di Luigi Nono (per tacere delle composizioni per chiodo e lamiera) e i Circles di Luciano Berio; oppure ascoltavo le canzoni di Bennato o di Fabrizio De André rifiutandomi di leggerci “messaggi”, iniziatici o anarchici che si voglia, e avvertivo sintomi violenti di orticaria al solo sentir nominare i vari Alberoni e Galimberti e Cacciari, tutta la tribù insomma dei filosofi e dei sociologi “sedentari”, con residenza abituale nei salotti televisivi. “[…] L’altro barbuto, Umberto Galimberti, è uno dei filosofi che riscuotono maggiore successo con le donne, con punte incontrollabili di misticismo e di estasi anche tra le razionalissime professoresse democratiche, soprattutto quando nelle conferenze accenna con ispirata espressione oracolare a sconosciute essenze del pensiero greco […]. Qui Cacciari e Galimberti sono due ombre in un racconto di eventi impalpabili, di evanescenze in cui la Mitteleuropa incontra i mari azzurri dell’a Grecia antica, e l’immancabile Lucio Battisti sullo sfondo canta per le zitelle o mare nero mare nero mare ne […]. Li unisce una certa koiné, dice chi sa.

Mi ha solo un po’ sorpreso non trovare nel mucchio Agamben e Severino: ma non si può pretendere tutto; e poi i due in effetti hanno mantenuto sempre un atteggiamento “pubblico” molto più riservato. A sputtanarli ci pensavano già i loro discepoli.

Insomma, Berselli dice quello che tutti sanno (e per tutti intendo tutti coloro che avrebbero i requisiti per leggere il suo libro, compresi in buona parte quelli che vi compaiono come protagonisti) ma fingono di non sapere, per convenienza o connivenza, o si rifiutano di saperlo per una forma di soggezione culturale (in parte astutamente indotta, in parte supinamente accettata, o addirittura voluta, perché scarica in fondo della responsabilità di scelte e giudizi individuali): dice cioè che in una società fondata sulle leggi di mercato anche quella che chiamiamo cultura ne rispecchia le logiche: che tutto il Barnum di eventi grandi e piccoli, dai festival cinematografici a quelli letterari e storici e scientifici, alle mostre che ormai girano in tour come i cantanti, alle prime della Scala, ai convegni commemorativi, fino alle marchette autopromozionali televisive o alla presentazione di libri nelle sagre paesane, sono tasselli di uno stesso spettacolo, messo in piedi non per divertirci o istruirci, ma per indurci al consumo della “merce culturale”.

Per cui editori, galleristi, agenti. “operatori culturali”, non si limitano a vellicare i gusti del pubblico, ma li creano, li orientano, e impongono i loro criteri di valore, le loro “scoperte” o “riscoperte”: ogni minima onda da brezza di mare viene ingigantita dall’enfasi mediatica a mareggiata o a tsunami, capace di sconvolgere e risvegliare le coscienze, e loro la cavalcano come surfer provetti. Il racconto che Berselli fa delle “svolte culturali” pilotate prima da Einaudi e poi da Adelphi è tanto spassoso quanto circostanziato: “È così che nasce Adelphi, da una costola di Einaudi, perché ad un certo punto l’ala razionalista prima si insospettisce e poi si infuria al pensiero che l’ala irrazionalista … tenti il colpo gobbo delle opere di Nietzsche, E che cazzo! […] Adesso lo dicono tutti che Siddharta è una cretinata. Ma in quel momento immenso […] fu quello che si dice uno shock cognitivo.” E in questo gioco scrittori, artisti, musicisti, “intellettuali” a vario titolo, accettano un ruolo di manovalanza per partecipare almeno in parte alla divisione degli utili, e se la raccontano tra di loro, finendo poi prendersi sul serio e crederci essi stessi, e si recensiscono e redigono vicendevoli “coccodrilli”. Ogni loro opera o scritto o parola insuffla aria nella bolla di sapone a loro immagine creata dall’industria culturale.

Mi si obietta: ma è sempre stato così. Mica vero. Senza dubbio già le tragedie di Eschilo così come gli affreschi di Giotto e i concerti di Bach avevano una valenza promozionale, erano orientate da una committenza: ma almeno portavano messaggi comprensibili a tutti, che come tali potevano anche essere contestati e rifiutati, e non conoscenze “esoteriche”, cifrate, da accettarsi a scatola chiusa in nome di una presunta autorevolezza “autoriale”: e poi, se quelle opere sono rimaste, se le ammiriamo ancora oggi, è perché la valenza promozionale l’hanno di gran lunga trascesa. Anche le consorterie degli artisti e degli intellettuali già esistevano, ma questi si davano apertamente addosso, come faceva Aristofane nei confronti dei suoi colleghi, colpendo con quell’ironia che è lo strumento critico più valido ed efficace (e che Berselli risfodera: “[…] a tutti noi, chi scrive e chi legge, quando la fede se ne va, per evitare le trappole della superstizione non resta che il gesto eccentrico, il tocco marginale, lo scarto inatteso dell’ironia”). La logica non era quella del mercato, della concorrenza, dei numeri delle vendite, del successo delle esibizioni, delle recensioni: secondo questa logica Leopardi sarebbe uscito immediatamente di scena.

Berselli mi mancherà. Per fortuna posso rileggermi gli altri suoi libri, a cominciare da Sinistrati, con lo stesso gusto della prima volta. Non ho aspettato le ristampe, me li sono procurati tutti per tempo. Il problema è però che di questo passo, nella (quasi?) totale assenza di eredi in grado di tramandarne la lezione, Berselli rischia di essere imbalsamato come l’ennesimo “venerato maestro”, esposto in un piccolo mausoleo frequentato solo da vecchi stronzi nostalgici come me.

Devo sperare solo in qualche “giovane promessa”, ma l’orizzonte appare sconsolatamente deserto.

Doppio Stevenson

di Paolo Repetto, 16 agosto 2025

Il mio personalissimo Pantheon ospita due personaggi quasi omonimi (la Treccani sentenzia che si potrebbe usare in questo caso il termine “cognonimi”, ma nessuno ha mai osato tanto). Uno, protagonista per la letteratura, fa di nome Robert Louis, mentre l’altro, campione nello sport, porta quello decisamente impegnativo di Téofilo. Il nome di famiglia di entrambi è Stevenson. Non sono parenti, anche se il secondo potrebbe discendere da un qualche mercante o proprietario scozzese di schiavi, avo del primo (e allora che si fa, scatta la cancel culture?).

Di Robert Louis ho già scritto in più occasioni, anche recentemente, mentre Téo credo di non averlo mai citato (rispettando, tutto sommato, la discrezione che ha caratterizzato la sua esistenza). Eppure è stato per me a lungo uno dei santi patroni sportivi (e lo è tuttora): eccelleva in uno sport tra i miei preferiti (ma tra i pochi non praticati: ho indossato i guantoni una sola volta), e nella categoria principe, quella dei pesi massimi, Ad affascinarmi era però soprattutto il modo in cui quello sport lo interpretava. Téo è rimasto al vertice del pugilato dilettantistico per quindici anni, e in questo lasso di tempo, enorme per una attività che ti brucia molto velocemente, ha conquistato tre titoli olimpici (dal quarto è stato escluso per vicende politiche) e tre titoli mondiali dei dilettanti, ha vinto trecentodue incontri e ne ha persi meno di venti. Non è mai passato al professionismo, malgrado le offerte miliardarie che piovevano, in quanto cittadino di uno stato, Cuba, che il professionismo sportivo non lo contemplava. Ha motivato così la sua scelta: “Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di otto milioni di cubani?”. Lasciamo perdere che il suo fosse in realtà un dilettantismo dorato, che abbia potuto godere di privilegi e di liberà sconosciute ai suoi connazionali: conosciamo tutti benissimo il valore attribuito negli stati totalitari allo sport come strumento di propaganda. Di fatto comunque Stevenson aveva la possibilità di scegliere, e ha scelto di rinunciare ad un benessere ben più cospicuo di quello garantitogli dal regime castrista, ma soprattutto di rinunciare a scrivere il suo nome nell’albo maestro della storia del pugilato, quello professionistico. Questo non ne ha affatto sminuito il valore. Tutti gli appassionati e gli intenditori concordano nel pensare che avrebbe tranquillamente dominato anche nella sfera maggiore. Non a caso anche “il più grande”, Muhammad Alì, dopo che era tornato campione dei massimi battendo Foreman rifiutò decisamente l’ipotesi di un incontro “chiarificatore” con Téo, da svolgersi in deroga alle graduatorie delle federazioni ufficiali e con la prospettiva di una vagonata di soldi. Sapeva che Stevenson lo avrebbe ridimensionato, e soprattutto che lo avrebbe fatto giostrando sullo stesso suo piano, quello dell’intelligenza e dell’eleganza.

Credo infatti che a convincere Stevenson a rimanere nell’ambito dilettantistico siano stati anche i diversi criteri di valutazione in vigore nelle due diverse fasce. Tra i dilettanti uno come Mike Tyson non aveva avuto storia, e infatti non si qualificò per la partecipazione alle Olimpiadi, in quanto privo delle più elementari nozioni pugilistiche, ma soprattutto completamente estraneo allo spirito che aveva fatto definire un tempo la boxe come noble art: per lui ogni combattimento non era un momento di sport, ma un pretesto per dare sfogo alla sua attitudine alla rissa. Tèo era l’esatto contrario, una fantastica combinazione di potenza, di velocità, di intelligenza e di eleganza: e lo era tanto sul ring che fuori.

Forse per questo, se vado a cercare sul web la classifica dei più forti pesi massimi di tutti i tempi, non lo trovo neppure citato. Non è per via del fatto che non ha combattuto tra i prof: sono proprio la sua diversità, la sua statura morale, in questa epoca che valorizza solo l’eccesso, a escluderlo dalle graduatorie, quasi a volerlo cancellare dalla memoria. Per fortuna a questo punto interviene a ripristinare i giusti valori il suo illustre cognonimo Robert Louis: “Il tuo coraggio non è meno nobile perché nessun tamburo batte per te e nessuna folla grida il tuo nome”.

Al contrario di London, Stevenson il pugilato non l’ha mai praticato, la sua costituzione e la sua salute non glielo hanno permesso: ma quanto a coraggio era pienamente in diritto di dire la sua, e anche quanto alla scarsa rilevanza della fama come metro del valore di un uomo.

Parlava a tutti, ma soprattutto a chi avrebbe raccolto il testimone del suo nome. Gli Stevenson sono molto solidali tra loro, e molto saggi.

CaviaLinus

di Paolo Repetto, 14 agosto 2025

Possiedo otto annate complete di Linus, più diversi numeri sparsi, e, come l’ex-ministro Scaiola a riguardo dei suoi attici romani, non lo sapevo. Non sto scherzando, non ricordavo assolutamente di averli. Il fatto è che si trovavano nella parte inferiore della scaffalatura a soffitto posta in una camera di sgombero, che nei ripiani a vista ospita buona parte dei miei fumetti mentre in basso è chiusa da coppie di antine, ed è resa difficilmente accessibile da un armadio e da altro mobilio stipato lì contro. Le antine dello scaffale più nascosto non le aprivo da quel dì: pensavo celassero, come quelle accanto, le cianfrusaglie cumulate negli anni e delle quali non riesco mai a disfarmi, cavi elettrici, modem, pezzi del vecchio impianto hi-fi. Solo l’altro giorno, in un impeto di riordino (velocemente poi rientrato). mi sono fatto letteralmente strada spostando sedie, cornici, specchiere, mobiletti tibetani e altri elementi della barricata, e quando ho aperto sono rimasto di sasso. Perché non c’erano solo i Linus, che occupavano un intero metro di ripiano, ma innumerevoli altri albi, superfetazioni come Alter Linus, Pasqualinus, Natalinus, ecc …, o concorrenti come Eureka, oltre a diverse annate de Il Male.

Sulle prime mi sono chiesto da dove arrivasse tutta questa roba, visto che i Linus non li ho mai collezionati (e nemmeno Il Male: al più lo sequestravo ai miei studenti). Poi ho trovato su una copertina il nome di mio cugino, e allora m’è tornato in mente che me li aveva passati in occasione di uno sgombero sentimentale, con conseguente sfratto. Quindi oggi non so se sono miei o se li ho solo in affido. Ma non di questo volevo parlare.

Infatti il riordino l’ho rimandato ad altra occasione e mi sono naturalmente messo a sfogliare le riviste. Cinquant’anni fa Linus non lo collezionavo, ma lo leggevo volentieri. Bene, devo confessare che al primo assaggio quel piacere non si è affatto rinnovato. Le veloci reimmersioni in annate diverse, sparse tra il ‘68 e il ‘78, mi hanno lasciato in bocca un retrogusto di pretenziosità, e mi hanno fatto ricordare che quel sapore lo avvertivo già all’epoca. Si potrebbe obiettare che a sessant’anni di distanza, al di là del fisiologico cambiamento dei gusti personali e di quelli generazionali, è facile vedere cosa funzionasse e cosa no. Ma io non sto parlando col senno di poi, bensì dell’istinto, della sensazione a pelle di prima.

Intendiamoci, non voglio dissacrare Linus. Questi giochi non mi piacciono. La rivista aveva una sua ragione di essere, e lo dimostrano il successo e la durata. Sotto il profilo editoriale era ottimamente impostata. Curata nella grafica, di una eleganza sobria, lontana dal patinato ma anche dall’ostentatamente “povero”. Pure la scelta del formato era azzeccata, perché non penalizzava la leggibilità delle strisce e delle tavole. E infine, anche il prezzo era contenuto (maggiore comunque di quello di una coeva raccolta di Tex o di un albo de La storia del West). Senz’altro era qualcosa di completamente diverso da ciò che circolava fino ai primi anni Sessanta nelle edicole italiane (e che tuttavia non era affatto male: pensiamo a Il Vittorioso o a Il Giorno dei ragazzi).

Tutto ok, dunque: ma volevo solo dire che ho capito perché non mi convinceva del tutto e non ho mai pensato di collezionarla. Oggi mi è chiaro che a disturbarmi era la supponenza di fondo, peraltro avvertita anche da molti dei suoi fedelissimi lettori, come testimonia la rubrica della posta. Era uno snobismo in qualche misura apparentabile a quello delle “avanguardie”: la proposta di contenuti densi di messaggi che in realtà nessuno riesce a decifrare, col sottinteso che se non capisci è un problema tuo, significa che non sei abbastanza “avanti”. D’altro canto viaggiava in linea perfetta con quanto accadeva in quegli anni in tutti gli ambiti culturali (l’arte astratta e poi quella concettuale, il gruppo Sessantatre e le poesie di Sanguineti, il cinema di Antonioni e quello di Godard, la musica di Nono e di John Cage. il teatro di Beckett e quello di Tardieu, …).

L’idea del creatore di Linus, Giovanni Gandini, era tutt’altro che peregrina. Aveva intravisto una fascia di pubblico del tutto nuova ed estremamente composita, comprendente non solo chi si era nutrito dei fumetti del Corrierino e de L’avventuroso nei due o tre decenni precedenti e non intendeva cambiare dieta, ma anche la generazione cresciuta con Tex e con L’intrepido, quella che aveva avuto accesso agli studi superiori con la riforma della scuola media e stava facendo esplodere le università. C’ero dentro anch’io. Questa gente conosceva Salinger e Kerouac, i più informati avevano sentito parlare anche di Marcuse e di Adorno, nessuno aveva letto Il Capitale, ma proprio per questo ciascuno poteva millantarne la conoscenza senza tema di essere colto in castagna. Avevano bisogno di svagarsi con qualcosa che fosse in continuità con quell’impegno, o che addirittura lo sostituisse, e i Penauts e B.C. erano appunto la traduzione in strisce delle atmosfere che viveva e dei modi in cui sentiva di Holden Caufield. Ciò che più importava, poi, è che nel frattempo tutti erano stati legittimati a leggere fumetti dall’autorevole voce di Umberto Eco.

Le scelte di Gandini erano dettate da questi criteri, ma andavano anche un po’ oltre. Volevano offrire il meglio del fumetto “intelligente”. Qualcosa di radicalmente alternativo e assieme sofisticato. Quindi, al di là dell’ironia di Charlie Brown e dei sarcasmi preistorici di Johnny Hart, per i quali dobbiamo essergli indubbiamente grati, erano proposte strisce satiriche di impatto meno immediato, come quelle di Pogo o di Lil Abner, che volevano rivelare la complessità della società americana, le sue zone oscure e le sue arretratezze; oppure venivano riesumate le storie di eroi d’anteguerra, da Gordon a Rip Kirby, che gli appassionati italiani si erano perse per via della censura di regime. E assieme a quelle venivano anche azzardate le produzioni più avanzate in arrivo dalla Francia, da Feiffer a Copi. Tutto ciò fino a quando, nel 1972, la rivista venne acquistata dalla Rizzoli e la direzione passò a Oreste del Buono. A questo punto i contenuti si “politicizzarono” in maniera più chiara, ma erano veicolati piuttosto dalle rubriche, che si moltiplicavano, che dalle comic strip. Venne dato spazio a personaggi e ad autori destinati a diventare leggenda, da Corto Maltese a Valentina, fino ad Ada nella jungla, ma anche qui nell’intento di proporre sempre cose sopra le righe, in qualche modo “destrutturanti” anche nei confronti del fumetto.

Insomma. L’ho già fatta sin troppo lunga. Linus era una rivista che si autopercepiva elitaria (e lo era), si fregiava di un marchio di origine controllata come oggi i prodotti “bio”: ma sin qui niente da eccepire. All’epoca gli amanti del fumetto d’avventura classico non avevano che da scegliere, tra Tex, La storia del West e infinite altre testate, anche se poi, a farsi vedere in giro con Zagor o persino con un Albo Audacia (quelli di Blueberry e di Blake e Mortimer) sottobraccio un po’ si vergognavano. Il problema era che da un lato di questo elitarismo Linus voleva convincere anche i lettori, farli sentire partecipi, dall’altro rivendicava una superiore coscienza “di sinistra” (vedi ad esempio le rubriche sui libri, sul cinema, persino il piccolissimo spazio dedicato allo sport). Voleva educare all’antagonismo, alla scorrettezza politica, e ha invece creato in nome del “pensiero debole” un nuovo canone, una nuova ortodossia, sia pure terribilmente confusa. In fondo discendono di lì, per li rami, il “politicamente corretto”, la cancel culture, l’ipersensibilità wake che imperversa dagli anni Novanta. Linus è stata sì una rivista all’avanguardia, ma di quel radicalismo “chic” che non è un’invenzione delle destre, ma una realtà che ha fatto partire per la tangente le sinistre.

Detto questo, uno immagina che mi accinga a un falò autunnale di tutto questo ben di Dio. Niente affatto. Ho riposto tutti i numeri già esaminati sul loro ripiano, ordinati per date d’uscita e, anzi, sto programmando per la brutta stagione una rilettura o almeno una risfogliatura integrale. Adesso che mi è chiaro da cosa originava il fastidio a pelle, e che non ho più il timore di essere io quello grossolano, che non arriva a capire certe sottigliezze, penso di poter godere di tutte le parti che comunque si salvavano.

Mi dico che anche Linus è un pezzo della nostra storia, e quindi va riletto con la mente sgombra da pregiudizi: ma soprattutto, mi aspetto di divertirmi un sacco.