Volevamo la tuta blu

(Riflessioni a margine di “Signorine?”)

di Nicola Parodi, 8 giugno 2021

Caro Paolo, ho letto con estremo piacere le tue considerazioni su alcune paladine di certo femminismo d’assalto politicamente iper-corretto. Tra queste hai giustamente incluso la “Lilli” (la cui trasmissione guardo spesso, valutando gli ospiti), e ti confesso che anch’io mi irrito di fronte a certe sue scontatissime arringhe, che spesso mi portano a cambiare canale.

Le tue considerazioni mi hanno anche indotto a domandarmi: cosa spinge oggigiorno donne più o meno colte a competere con gli uomini? Noi abbiamo ormai (purtroppo) un numero sufficiente di anni per ricordare che decenni fa nessuna donna si sarebbe sognata di rivendicare il diritto di fare il camionista. All’epoca i camion non avevano servomeccanismi vari e si guastavano facilmente, le autostrade non c’erano, ecc. Insomma, non era un mestiere per donne. I camionisti erano addirittura emblema di “machismo”. Con i mezzi moderni invece anche le “signorine” possono (e lo fanno benissimo) guidare un camion. La differenza sta evidentemente nello sviluppo della tecnologia.

Fino a poco più di mezzo secolo fa un “lavoratore” era soprattutto una macchina biologica produttrice di energia (in fisica, energia=lavoro). Il maschio era in grado di produrre più energia/lavoro maneggiando asce, mazze e attrezzi vari, di trasportare pesi maggiori, ecc… Per questo motivo, e non per una volontà perversamente discriminatoria, era un lavoratore più richiesto e meglio pagato. Poi, naturalmente, quando l’evoluzione tecnologica e l’impiego di macchine hanno reso meno determinante il peso della forza fisica, e il divario nel potenziale di produzione di energia si è quasi azzerato, una mentalità e una consuetudine affermatesi lungo millenni non si sono adeguate con la stessa velocità. Lo stanno facendo, ma ci vorranno almeno un paio di altre generazioni perché si affermi un nuovo equilibrio. Che arriverà dalle mutate condizioni del lavoro, o meglio ancora da una natura completamente diversa del lavoro stesso, e non certo dalle impuntature lessicali della Gruber o della De Stefano.

In sintesi: un tempo il prestigio e la considerazione sociale (e la ricchezza) erano prevalentemente dovuti a comportamenti ed azioni legati alla forza fisica, ad una accezione “aggressiva” dell’idea di coraggio ecc, caratteristiche del fisico e della mentalità maschile. E su questi terreni le donne, ovviamente, non hanno mai cercato di competere.

In una società come quella attuale invece prestigio, considerazione sociale, ricchezza, non sono più legati a caratteristiche mascoline, ed ecco che le donne si fanno avanti a cercare di avere la loro parte, avendo coscienza di essere in grado di competere in un campo di battaglia profondamente mutato (la vita cerca di occupare ogni nicchia ecologica disponibile).

Ora, già da bambino sentivo gli adulti (maschi e femmine) compiangere le donne che per mancanza di indipendenza economica erano costrette a sopportare uomini spregevoli. Quindi so bene che garantire alle donne la possibilità di ottenere in ogni caso l’indipendenza economica è una battaglia di civiltà che va portata avanti e vinta. Ma rivendicare “quote di genere” per i posti in politica o nei consigli di amministrazione serve solo a donne di ceto sociale elevato; e per giunta non garantisce che i posti siano occupati dai candidati più meritevoli, quale che sia la percentuale di uomini e donne.

Volevamo le tute blu 02

E mi faccio anche un’altra domanda: la voglia di competere e di raggiungere gli stessi risultati dei maschi non finirà per spingere le donne più intelligenti a riprodursi poco o nulla (ciò che in effetti sembra stia già accadendo), e di conseguenza ad innescare un meccanismo selettivo che riserverà la riproduzione a donne meno dotate, cosa deleteria per il futuro dell’umanità? Vorrei non essere frainteso. Primo: la domanda me la pongo riguardo alle donne non per partito preso, ma perché è evidente, e inoppugnabile sul piano biologico, come in un maschio e in una femmina l’investimento riproduttivo sia ben diverso. Voglio dire che un maschio intelligente ha possibilità di Volevamo le tute blu 03riprodursi senza sacrificare granché delle sue potenzialità di “realizzazione”, in senso lato (anche se, a guardarci attorno, si direbbe che questa possibilità è poco o male sfruttata). Secondo: non sto dicendo che le donne più capaci (intesa questa caratteristica non come la capacità di sfornare venti figli, ma di allevarne ed educarne positivamente almeno due, tanto per salvaguardare gli equilibri demografici) dovrebbero essere destinate eugeneticamente alla riproduzione, ciò che tra l’altro non consentirebbe loro di esplicare e valorizzare nell’ambito lavorativo le proprie capacità, ma che fino a quando non si sarà completata la trasformazione delle modalità produttive (ciò che avverrà indipendentemente dalle battaglie “femministe”: vedi ad esempio ciò che sta accadendo col Covid), e con essa quella della mentalità sottesa che hanno generato, le donne corrono il rischio di competere forzosamente in un gioco che è sempre stato pensato per soli maschi, di adeguarsi alle sue regole e di smarrire per strada quella carica di originalità e differenza che davvero potrebbe cambiare il sistema dei rapporti, di quelli produttivi come di quelli sociali.

Va bene quindi stigmatizzare gli atteggiamenti e le abitudini (anche linguistiche) più discriminatorie, ma farlo ritoccando e censurando semplicemente un quadro vecchio invece che proponendone uno nuovo mi sembra una soluzione alla foglia di fico di controriformistica memoria. Val più l’ironia, a volte persino la appropriazione, la rivendicazione e la valorizzazione di caratteristiche attribuite in negativo, così come fa la natura con certi organi apparentemente superflui, di ogni puntigliosa censura. Certo, l’argomento richiederebbe considerazioni ben più approfondite: ma confido che non mancherà l’occasione per tornarci su.

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