La lingua batte …

di Nicola Parodi, da un colloquio con Paolo Repetto, 18 ottobre 2025

Sono abbastanza vecchio da aver prestato servizio di leva obbligatorio (quello pre-riforma, quindici mesi di naia), e abbastanza poco raccomandato da averlo prestato come soldato semplice, non dietro il tavolo di un ufficio ma secondo il modello old style, marcia o crepa: e per di più in un reparto dell’artiglieria someggiata (muli e mortai). Tutto sommato, al netto dei residui quasi solo linguistici del nonnismo (nel frattempo era arrivata la contestazione sessantottina), delle prevaricazioni e dell’imbecillità diffusa nelle gerarchie di comando (cose che peraltro non sono affatto scomparse, si sono soltanto ulteriormente diffuse in altri ambiti della società), di quella esperienza ho un ricordo positivo: tanta fatica, disagi, a volte arrabbiature, ma anche tanto sano cameratismo, tanta reciproca solidarietà, un po’ di avventura: la consiglierei oggi ai nostri nipoti (naturalmente in tempi di pace), per evitare loro la ricerca di prove fisiche a volte insensate, di rischi fini a se stessi, di guerriglie urbane.

Comunque: oggi le chiacchiere con un amico convalescente hanno fatto riemergere un ricordo vecchio di oltre mezzo secolo. Sono ai campi estivi, ormai quasi in chiusura, con la 8a batteria del Gruppo artiglieria da montagna Pinerolo. Abbiamo trascorso diversi giorni sulle Dolomiti Friulane senza incontrare un paese e nutrendoci solo delle famigerate razioni K, e stasera ci siamo accampati presso una diga della val Tramontina. A me e ad un commilitone è toccato il primo turno di guardia. Ci aggiriamo così fra le tende che ospitano un piccolo plotone di artiglieri, mentre poco più in là sonnecchiano le file dei muli.

Nelle tende sparse aspettano il sonno giovanotti ventenni robusti e di sani appetiti, che conversano pacatamente, anche per via della stanchezza cumulata durante la marcia del giorno precedente. Quel che ci sorprende (ma neanche poi tanto) è che l’unico argomento di conversazione sia il cibo. Non che ci aspettassimo disquisizioni filosofiche, ma da ragazzi di quell’età sarebbe lecito attendersi qualche struggente riferimento al sesso, alle donne, ai motori. Invece si parla esclusivamente di pesto, magari associato alle trenette o alle trofie, di torte pasqualine, di lardo (circa la metà dei soldati proviene dalla Liguria).

Siamo stupiti ma, ripeto, non troppo: in fondo anche nella nostra testa (e per il nostro fisico) la priorità è quella. Rimarchiamo la cosa, ci scherziamo sopra, senza tuttavia avventurarci in considerazioni più generali. Ciò che invece vado a fare ora.

Si tratta di una gerarchia naturale di priorità. La prima preoccupazione di qualsiasi essere vivente è la propria sicurezza, e in quel frangente in rischio era contenuto, fatta salva l’eventualità di un calcio di mulo. Subito dopo viene la necessità di nutrirsi adeguatamente e abbondantemente: il miraggio era quindi in quel caso una bella tavola imbandita. Solo quando sono soddisfatti i primi due istinti si passa al resto. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza possiamo dire che, almeno dalle nostre parti, questi istinti prioritari sono sufficientemente garantiti: momentaneamente nessuno corre il rischio di essere sbattuto in trincea, e nessuno – tranne casi estremi – conosce i morsi della fame. A quell’epoca, e in quella situazione, invece, non lo erano affatto. O almeno, non del tutto. Il servizio militare era obbligatorio, il rancio e, peggio ancora, le razioni K (confezionate in scatole metalliche, per durare anni nei magazzini, e contenenti, fra l’altro, delle gallette così dure che solo i muli riuscivano a rosicchiarle. Per mangiarle bisognava bollirle!), non seguivano le indicazioni del dietologo ma quelle dei marescialli di fureria: quindi facevano schifo. Soprattutto durante le esercitazioni e i campi esterni era normale dover tirare la cinta fino all’ultimo buco. Per questo le chiacchiere sotto le tende giravano tutte attorno allo stesso argomento: era un modo per condividere un bisogno primario impellente, creando socializzazione, ma anche per esorcizzarlo, scaricarlo, scherzandoci magari sopra.

Ora, per non tirarla troppo in lungo e per trarne un paio di considerazioni magari elementari ma pienamente fondate, il fatto è che noi siamo condizionati molto più di quanto vorremmo credere dai nostri istinti. La storia della “umanizzazione” è quella del progressivo controllo sulla nostra istintualità, dell’emancipazione dal dominio biologico: ma è una storia ben lontana dall’essere arrivata a compimento. E anzi, è una storia periodicamente smentita dai fatti, dalle necessità, dalla ricaduta nella precarietà e nella barbarie. Per questo le vicende umane andrebbero lette con minor presunzione: non possiamo hegelianamente spiegarle come vicende “dello spirito”. C’è altro che si muove, e che ci muove, dentro di noi. Questo non significa che siamo delle “bestie”, ma che siamo comunque degli animali, ufficialmente pensanti, ma spesso anche no (basta guardarci attorno): e voler negare questo dato significa metterci in condizione di non capire o di male interpretare le reazioni altrui, di relazionarci sulla base di convenzioni estremamente fragili, diverse nei tempi e nelle svariate aree culturali, e pretendere che le risposte che otteniamo siano sempre conseguenti. Significa negare il nostro sostrato naturale e il condizionamento da esso esercitato. Anzi, ci siamo talmente convinti del potere dell’intelligenza culturale sull’istinto naturale da attribuire la prima anche ai nostri cugini più o meno prossimi, con zampe, ali e piume, e siamo finiti ad adottare nei loro confronti comportamenti stupidamente esasperati.

Mio padre, che il militare lo aveva fatto durante l’ultima guerra, mi raccontava come sul fronte greco/albanese alcuni suoi commilitoni, comandati di pattuglia, stanchi ed affamati, avessero preso a sparare contro i loro stessi compagni in fila per il rancio giù nella vallata. È probabile che la sera, nelle loro tende quei pochi fortunati che ne disponevano, quei ragazzi ragionassero di giacigli caldi, di mura sicure, di volti amici, e cercassero di scacciare dalla mente le immagini dei corpi straziati di morti e di feriti che impedivano loro di chiudere occhio. A volte magari lo facevano nella maniera più stupida, reagivano inconsultamente, ma si trattava appunto di una reazione sfuggita al controllo che chi non ha vissuto quei momenti non è in grado di valutare né di giudicare.

Oggi, alla loro stessa età, i ragazzi stazionano la sera non sotto le tende, tremando di paura o rosi dalla fame, ma nei dehors spuntati come funghi, sorseggiando l’apericena: e quando non si inchiodano al loro iPhone sproloquiano del nulla, annichiliti dal deserto di senso e di idealità che li circonda. Si badi bene: non sto dicendo che siano degli idioti, o abbiano meno risorse mentali delle generazioni che li hanno preceduti. Dico che ogni generazione reagisce in base agli stimoli, negativi o positivi, che arrivano dall’ambiente, e sono questi stimoli a determinare l’ordine delle priorità. Può sembrare un ossimoro, e può sembrare in contraddizione con quanto detto sinora, ma esistono anche “priorità secondarie”, apparentemente solo “culturali”, in realtà dettate anch’esse da un input biologico. In questo caso ad agire è una somma confusa di stimoli, da quello riproduttivo a quello del dominio, tradotti e ricondizionati dal nostro cervello per essere compatibili con i modelli in costante evoluzione della socialità, ma pur sempre basilari per indirizzare i nostri comportamenti.

Insomma, anche là dove non intervengono la fame o il rischio fisico noi reagiamo in primo luogo a bisogni originari, per quanto mascherati e rimossi, e faremmo bene a non dimenticarlo mai, quando parliamo di educazione, di politica, di socialità, di tutto ciò che consideriamo erroneamente di assoluta pertinenza “culturale”, e quindi passibile di un controllo quasi completo. Il pensiero risponde prima di tutto alle istanze della biologia.

Ovvero, come dicevano gli antichi, la lingua batte dove il dente duole.

Un americano alla prova dei truck stop

di Paolo Repetto, 11 aprile 2024

Avevo in mente da un pezzo di riprendere il discorso su Bill Bryson, discorso che in realtà sino ad ora è rimasto limitato a brevissimi accenni nei consigli di lettura. Non l’ho fatto prima perché davo Bryson per scontato, conosciuto da tutti i frequentatori di questo sito, un po’ come Chatwin. Mi sembrava ci fosse in fondo poco da dire, se non rinnovare l’invito a leggere i suoi spassosissimi diari di viaggio, a partire dal celeberrimo Una passeggiata nei boschi.

Bryson non ha scritto però solo taccuini di vagabondaggio. Nella sua bibliografia trovano posto anche opere di tutt’altro genere, cose come Breve storia di (quasi) tutto, Breve storia della vita privata, Breve storia del corpo umano, e ancora, Vestivamo da Superman o Il Mondo è un teatro. Trattano argomenti molto diversi, ma sono unite tra loro e anche ai racconti di viaggio da un piglio e uno stile paragonabili solo a quelli di Mark Twain, da un approccio apparentemente scanzonato ma in realtà capace di cogliere i dettagli essenziali e davvero significativi di ambienti, persone, vicende.

Non sono sicuro che questa parte del suo repertorio di scrittura sia altrettanto conosciuta. Conto dunque di tornarci su, ma non ora: mi piacerebbe allargare un po’ più in generale il discorso alla divulgazione narrativa, che qui da noi non è molto praticata, e per farlo ho bisogno di maggiore concentrazione. Per il momento mi limito invece a proporre una selezione di pagine tratte da America Perduta, libro d’esordio del nostro, che già contiene tutto il Bryson che cerchiamo quando prendiamo in mano un suo scritto.

A me è capitato di rileggerlo a distanza di quasi trent’anni dal primo incontro, e a differenza di quanto accade in genere con la rilettura di testi che ti avevano entusiasmato in un periodo particolare della tua vita, perché direttamente legati ad esperienze o a stati d’animo che stavi vivendo (tre decenni fa ero ancora nel pieno della mia attività di girovago), non mi ha affatto deluso. L’ho riletto naturalmente con occhi nuovi, cercandovi cose che alla prima lettura potevano essermi sfuggite; e mentre all’epoca ricordo di aver provato soprattutto il piacere della scoperta di un’America profonda, quella sterminata e semi-sconosciuta che sta tra le due coste, questa volta vi ho trovato soprattutto delle conferme e delle spiegazioni.

Un americano alla prova dei truck stop 02

Insomma, uno che ha amato la storia degli Stati Uniti in tutte le sue sfaccettature, che si è svezzato coi fumetti e col cinema western, che si è nutrito nell’adolescenza dei libri di Twain, di London e di Steinbeck, e poi di Kerouack e di Salinger, nonché dei gialli di Chandler e di Hammett, non può, a dispetto di tutto ciò che ha poi appreso sulla politica sporca, sulle attività della CIA, o di tutte le evidenze della superficialità dell’american way of life, non conservare in fondo all’anima tracce del mito americano. E allora tanto più si chiede come un paese così grande e così ricco di tradizione democratica possa essere arrivato negli ultimi decenni ad affidarsi a personaggi come Bush jr e come Trump, e a ritrovarsi addirittura quest’ultimo quale probabile futuro presidente per la seconda volta.

Bene, in America perduta era già prefigurato quanto stava per accadere. Dopo quasi vent’anni di assenza (si era trasferito in Inghilterra ventenne, aveva iniziato a lavorare lì come giornalista, lì si era sposato e aveva preso casa) o perlomeno di fugaci rimpatriate, Bryson torna a vagabondare per gli Stati Uniti nei tardi anni Ottanta, intenzionato a ritrovare suoni, sapori e immagini della sua infanzia. Naturalmente non ci riesce, perché è cambiata l’America e soprattutto è cambiato lui: ma con un tragitto a doppio anello di oltre ventimila chilometri, a bordo della vecchia Chevrolet della madre, batte quella parte del paese che ancora non conosceva (e sulla quale aveva tanto fantasticato), oltre a ripercorrere le strade lungo le quali aveva invece viaggiato per le rituali gite familiari. Non riconosce la “sua” America, o meglio, la conosce adesso sia per come veramente era all’epoca che per come è diventata. Non si può dire che non gli piaccia, e neppure che ne sia entusiasta. Parrebbe far suo il giudizio espresso da Jack Nicholson in Easy Rider: l’America è un grande paese, peccato che ci siano gli americani.

Comunque, America perduta è uno di quei libri che non tollerano riassunti e analisi critiche: vanno letti e basta. A coloro che ancora non lo avessero fatto (ma anche agli altri), propongo appunto una serie di frammenti che dovrebbero fornire almeno un’idea di quel che si sono persi. Ho scelto quattro momenti di sosta, quelli destinati alla cena, al rilassamento dopo ore di guida e ad un bilancio della giornata. Naturalmente i locali frequentati sono quelli tipici del viaggiatore di lungo corso. A mio parere qui Bryson dà davvero il meglio: non racconta, non spiega, non dà giudizi, apre dei siparietti spassosissimi ma tutt’altro che fini a se stessi, perché rivelano dei suoi interlocutori (in questo caso, delle sue interlocutrici) molto più di qualsiasi tentativo di descrizione. E rende facile anche a noi percepire attraverso le reazioni scocciate, meccaniche o ossessive (non solo quelle degli interlocutori, anche le sue) quell’atmosfera pregna di monotonia, di solitudine e di distanza che sembra caratterizzare la vita americana, quella che già abbiamo conosciuto attraverso i dipinti di Hopper e soprattutto attraverso innumerevoli film on the road.

Non nascondo infine che sulle scelte ha influito anche l’aver riconosciuto nei modi di fare e di pensare di Bryson certi atteggiamenti propri di un amico col quale ho viaggiato ultimamente (e che già avete potuto conoscere proprio su questo sito). Immaginarlo seduto in quegli improbabili posti di ristoro in mezzo al deserto o in cittadine quasi fantasma ha raddoppiato il divertimento.

Ma non vado oltre: meglio lasciar parlare l’originale.

(i numeri di pagina si riferiscono all’edizione Feltrinelli Traveller 1993)

Un americano alla prova dei truck stop 03

pag. 54 Carbondale (Illinois)

[…] Malinconicamente e faticosamente arrivai al Pizza Hut, e una cameriera mi fece accomodare a un tavolo con vista sul parcheggio.

Tutti mangiavano delle pizze grandi come ruote di un pullman. Proprio davanti a me – non c’era via di scampo – un uomo super-obeso, sui trent’anni, si ficcava in bocca intere fette di pizza, come un mangiatore di spade. C’era una tale gamma di tipi e dimensioni di pizze, tali varietà che mi sentii quasi perso. La cameriera si avvicinò: “Ha scelto?”

“Ancora un momento”, replicai. “Per favore.”

“Non si preoccupi,” aggiunse. “Ritorno più tardi.”

Sparì, uscì dal mio raggio visivo, contò fino a quattro e poi riapparve. “Vuole ordinare?”, chiese.

“Se non le dispiace”, dissi “vorrei aspettare ancora un po’.”

“OK”, disse seccata andandosene. Questa volta contò forse fino a venti, ma, quando si rifece viva, io vagavo ancora nel mare magnum di possibilità e opzioni che il Pizza Hut offriva.

“È un po’ lentino, Lei, vero?” asserì vivace.

Ero imbarazzato. “Mi dispiace. Sono un po’ stordito. Sa … sono appena uscito di prigione.”

Stralunò gli occhi. “Non dirà sul serio?”

“Eh, si. Ho ucciso una cameriera che mi metteva fretta.”

Abbozzando un sorriso indietreggiò, e mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno per decidere. Alla fine optai per una pizza media, ai peperoni, con doppia porzione di cipolle e funghi. Una pizza che vi consiglio vivamente di assaggiare.

Un americano alla prova dei truck stop 04

pag. 165 Littleton (New Hampshire)

[…] Entrai nel ristorante, il Topic of the Town. Gli altri clienti mi sorrisero, la signora alla cassa mi mostrò dove appendere la giacca e la cameriera, una signora piccola e grassottella, si prodigò in tutti i modi per offrirmi il servizio migliore. Era come se avessero somministrato a tutti un meraviglioso tipo di tranquillante.

Quando la cameriera mi portò il menù, commisi l’errore di dire grazie. “Prego”, rispose lei. Una volta innescato questo meccanismo non c’è modo di fermarlo. Poi la signora pulì il mio tavolo con uno straccetto umido. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Mi portò le stoviglie avvolte in un tovagliolo di carta. Esitai, ma non riuscii a trattenermi. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Quindi arrivò con la tovaglietta con sopra scritto Topic of the Town, poi con un bicchiere d’acqua, poi con un posacenere pulito, poi con un cestino con i salatini nella loro confezione di cellophane e a ogni gesto ci scambiammo quelle formali gentilezze. Ordinai del pollo fritto speciale. Mentre aspettavo incominciai a essere a disagio perché i miei vicini di tavolo mi osservavano e mi sorridevano in modo inquietante. Anche la cameriera mi stava osservando, appostata vicino alla porta della cucina. In un certo senso era snervante. A ogni piè sospinto lei veniva al mio tavolo per riempirmi il bicchiere di acqua ghiacciata e per dirmi che avrei dovuto aspettare ancora un minuto per la mia ordinazione.

“Grazie”, dicevo.

“Prego”, rispondeva lei.

Alla fine uscì dalla cucina reggendo un vassoio grande come un tavolo, e iniziò a disporre i piatti davanti a me: minestra, insalata, un piatto di pollo, un cestino di panini caldi. Tutto aveva l’aria di essere appetitoso. Improvvisamente mi resi conto di avere una fame da lupi.

“Desidera qualcos’altro?”

“No, grazie. Va tutto benone”, risposi, impugnando coltello e forchetta, pronto a buttarmi sul cibo.

“Desidera del ketchup?”

“No, grazie.”

“Gradisce ancora un po’ di condimento nell’insalata?”

“No, grazie.”

“Ha abbastanza salsina sul pollo?”

Ce n’era abbastanza per annegarci un cavallo. “Sì, c’è molta salsina, grazie.”

“Che ne direbbe di una tazza di caffè?”

“Şul serio, sono a posto così.”

“È sicuro di non desiderare nient’altro?”

“Potrebbe andarsene fuori dalle palle e lasciarmi mangiare in pace?” avrei voluto rispondere, ma ovviamente non dissi nulla. Mi limitai a sorridere garbatamente e a rispondere: “No, grazie”, e quella dopo un po’ si ritirò. La donna rimase in piedi con la brocca dell’acqua ghiacciata in mano, senza però togliermi gli occhi di dosso per tutto il pasto. Ogni volta che bevevo un sorso d’acqua, si avvicinava al tavolo e lo riempiva fino all’orlo. Quando allungai la mano per prendere il pepe la cameriera fraintese la mia mossa e avanzò con la brocca in mano, ma dovette fare dietrofront. Dopo di che, ogni volta che lasciavo le posate per un qualsiasi motivo, le mimavo ciò che stavo per fare, per esempio “Sto per imburrare il pane”, tanto per evitarle di correre al mio tavolo con la brocca in mano. Nel frattempo le persone del tavolo accanto mi osservarono mangiare con un sorriso d’incoraggiamento. Friggevo dalla voglia di andarmene.

Quando terminai il pasto, la cameriera mi propose i dessert:

“Le andrebbe una fetta di crostata? C’è ai mirtilli, alle more, ai lamponi, alle more selvatiche, ai mirtilli bianchi, ai ribes rossi, ai ribes neri e all’uva spina”.

“Caspita! No, grazie, ho mangiato fin troppo”, dissi mettendomi le mani sullo stomaco. Sembrava che mi fossi nascosto un cuscino sotto la camicia.

“Cosa ne direbbe invece di un bel gelato? Abbiamo stracciatella, cioccolato speciale, cioccolato amaro, cioccolato bianco, bacio, cioccolato e menta, riso soffiato e cioccolato con e senza stracciatella.”

“Non ha del cioccolato semplice?”

“No, mi dispiace, non c’è molta richiesta.”

“Allora credo che non prenderò niente.”

“Che ne dice di una fetta di torta? Abbiamo…”

“Guardi, proprio no, grazie.”

“Caffè?”

“No, grazie.”

“Sicuro?”

“Sì, grazie.”

“Le porterò ancora un po’ d’acqua allora”, e scattò a prendere l’acqua prima ancora che riuscissi a dirle di portarmi il conto. Le persone del tavolo accanto osservarono la scena con interesse, e sorrisero come volessero dire: “Noi siamo completamente fuori di testa. Lei come sta?”.

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pag 176 Elmira (Stato di New York)

[…] Erano quasi le nove quando mi fermai in un motel alla periferia di Elmira.

Andai direttamente fuori a cena ma, poiché quasi tutti i locali che incontravo erano chiusi, finii per mangiare nel ristorante di un bowling in aperta contravvenzione alla terza norma di Bryson sul cenare in una città sconosciuta. Generalmente non credo nel fare le cose per principio e poi si tratta di un principio tutto mio ma ho elaborato sei norme riguardanti la cena al ristorante che cerco di non trasgredire. Eccole:

  1. Mai cenare nei ristoranti che espongono le fotografie delle specialità. (E se lo si fa, mai credere alle fotografie.)
  2. Mai cenare nei ristoranti rivestiti con carta da parati ruvida.
  3. Mai cenare nei ristoranti dei campi da bowling.
  4. Mai cenare nei ristoranti dove si sente ciò che dicono in cucina.
  5. Mai cenare nei ristoranti che offrono intrattenimento dal vivo, il cui nome contenga una delle seguenti parole: Hank, Rhythm, Swinger, Trio, Combo, Hawaiian, Polka.
  6. Mai mangiare nei ristoranti che hanno i muri schizzati di sangue.

Nella fattispecie il ristorante del bowling risultò abbastanza accettabile. Attraverso le pareti si sentiva il rimbombo smorzato dei birilli che cadevano, le urla delle parrucchiere e dei carrozzieri di Elmira che si divertivano. Ero l’unico cliente del ristorante. Per cui ero l’unico ostacolo tra le cameriere e la fine del loro servizio. Mentre aspettavo di essere servito, le ragazze sparecchiarono gli altri tavoli, tolsero posacenere, zuccheriere e tovaglie, cosicché dopo un po’ mi trovai a cenare solo, in una grande sala, con una tovaglia bianca, una candela baluginante in una lampada rossa, in mezzo a un’arida distesa di tavoli di laminato.

Le cameriere, appoggiate alla parete, mi osservavano mentre masticavo. Dopo un po’ iniziarono a bisbigliare e ridacchiare, sempre senza togliermi lo sguardo di dosso, cosa che trovai francamente scocciante. Avrei dovuto immaginarmelo, ma ebbi anche la netta impressione che qualcuno stesse girando un interruttore, perché la luce della sala si abbassava gradatamente. Alla fine del pasto riconoscevo il cibo al tatto e, a volte, dovevo abbassare la testa sul piatto per annusare. Prima ancora di terminare, quando mi fermai un secondo per bere un bicchiere d’acqua ghiacciata, nel buio dietro il lume di candela, la cameriera mi sfilò via il piatto e mi lasciò il conto sul tavolo.

“Desidera altro?”, mi chiese, con un tono che suggeriva che sarebbe stato meglio rispondere di no. “No, grazie”, dissi gentilmente. Mi pulii la bocca con la tovaglia, dato che il mio tovagliolo si era perso nell’oscurità, e aggiunsi la settima norma alla mia lista: mai andare nei ristoranti dieci minuti prima dell’orario di chiusura. Tuttavia, un pessimo servizio non mi dà mai fastidio. Non mi fa sentire in colpa se non lascio la mancia.

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pag. 263 Sonora (California)

[…] D’umore perfido, presi l’auto e andai a cena in città in un ristorante da poco. Dopo un bel po’ arrivò la cameriera a prendere l’ordinazione. Aveva un’aria volgare e la fastidiosa abitudine di ripetere tutto ciò che le dicevo.

“Vorrei un petto di pollo impanato”, dissi.

“Desidera un petto di pollo impanato?”

“Sì. E un contorno di patatine fritte.”

“Desidera un contorno di patatine fritte?”

“Sì. E desidererei anche un’insalata ben condita.”

“Desidera anche un’insalata ben condita?”

“Sì, e una Coca Cola.”

“Desidera una Coca Cola?”

“Mi scusi signorina, ma ho avuto una brutta giornata e se non la smette di ripetere tutto ciò che dico, prendo la bottiglia di ketchup e gliela rovescio tutta sulla camicetta.”

“Prende quella bottiglia di ketchup e me la rovescia tutta sulla camicetta?” A dir la verità non la minacciai col ketchup; per il semplice fatto che la signorina poteva sempre avere un fidanzato grande e grosso che mi avrebbe picchiato. Inoltre, una volta conobbi una cameriera che mi disse che quando un cliente era maleducato con lei, andava in cucina e gli sputava nel piatto. Da allora non sono più stato sgarbato con una cameriera e non ho più mandato indietro un piatto poco cotto (perché in questo caso è il cuoco a sputare) ma ero così di malumore che appiccicai immediatamente la gomma da masticare nel posacenere, senza incartarla in un tovagliolino come mi ha sempre insegnato mia mamma, e la schiacciai col pollice cosicché non sarebbe caduta svuotando il posacenere, ma avrebbero dovuto staccarla con una forchetta. E sapete una cosa – che Dio mi perdoni – mi tolsi una piccola soddisfazione.

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Appendice bibliografica

Per dare una parvenza di “servizio pubblico” a questo articolo lo arricchisco di una breve e personalissima bibliografia, dedicata ai libri di viaggiatori che hanno percorso gli States alla maniera di Bryson, o anche in altri modi, e hanno comunque raccontato in epoche diverse quegli spazi e quelle genti. La bibliografia sull’argomento sarebbe in realtà sterminata. Io segnalo qui solo alcuni dei testi che conosco direttamente, scritti da indigeni o da viaggiatori provenienti d’oltreoceano, e del cui valore posso farmi garante.

Luigi Castiglioni – Viaggio Negli Stati Uniti Dell’ America Settentrionale, fatto negli anni 1785-1787 – Classic Reprint, 2019

Paolo Andreani – Viaggio in Nord America – Scheiwiller, 1994

René de Chateaubriand – Viaggio in America – Pintore, 2007

Washington Irving – Viaggio nelle praterie del West – Spartaco, 2013

Alexis de Tocqueville – Viaggio in America. Stati Uniti e Canada (1831-32) – Humboldt Books, 2023

Alexis de Tocqueville – Quindici giorni nel deserto americano – Sellerio, 1989

Giacomo Costantino Beltrami – La scoperta delle sorgenti del Mississippi – Biblioteca del Vascello, 1983

Xavier Marmier – Lettres sur l’Amérique, 2 vol. – Felix Bonnaire, 1851

Henry David Thoreau – Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack – La Vita Felice, 2020

John Muir –Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – Ed.dei Cammini, 2015.

Mark Twain – La mia avventura nel West – Mattioli 1885, 2018

Rudyard Kipling – Oltre la porta d’oro. Un viaggio negli Stati Uniti da costa a costa – Muzzio, 1996

Maksim Gorkij – L’America – Mastellone Ed., 1952

Knut Hamsun – La vita culturale dell’America moderna – Arianna, 2009

Jack London – La strada – Elliot, 2015

John Steinbeck – Viaggio con Charley – Rizzoli, 1969 (o Bompiani, 2017)

William Least Heat Moon – Strade blu. Un viaggio dentro l’America –Einaudi, 1989

William Least Heat Moon – Nikawa – Einaudi, 2000

Bill Bryson – Notizie da un grande paese – Guanda, 2017

Alex Roggero – La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles – Feltrinelli 2002

Alessandro Portelli – Taccuini americani – Manifestolibri, 1991

Emanuela Crosetti – Come ti scopro l’America. Da Sant Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark – Exòrma, 2016

Un americano alla prova dei truck stop 06

Ma perché non me ne sto a casa, a volte?

Cronaca di un viaggetto dicembrino (con 14 foto dell’autore)

di Vittorio Righini, 6 gennaio 2024

Una domanda tipo ‘‘che ci faccio qui’’, enunciata da un famoso scrittore, fa il paio con ‘‘cosa sto a casa a fare, accidenti’’. Cosa caspita ci faccio a casa a menarmela in questi mesi gelidi? perché non faccio un viaggetto, breve ed economico, certo; mia moglie non ha nulla in contrario e lei lavora ancora, non è in pensione come me, i figli sono autonomi, quindi perché non andare? mi consenta, come diceva il Cavaliere.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 02

La parte più bella del viaggio è l’idea. Poi segue la preparazione, che comprende la consultazione dello scibile informatico che ormai è alla portata di tutti. Però, attenzione: se ci basiamo su quello che leggiamo oggi sul web rischiamo cocenti delusioni, errori, imperfezioni varie, superficialità e ogni altro tipo di banalità. Se ci appoggiamo ai libri, come faccio spesso io, anche libri come si deve, beh, siamo obsoleti, perché probabilmente ci presentano situazioni che nulla hanno a che vedere col presente (io leggo spesso libri non proprio recenti, su certe destinazioni almeno).

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 03

L’ho fatto di recente con un brevissimo viaggio dicembrino; sono andato fino all’isola di Madeira, cinque ore di aereo con scalo a Lisbona, con la scomodissima e tremenda compagnia low cost che non nomino per evitare ripercussioni, che sì, ti fa spendere poco, ma ti tratta come bestiame. Ci hanno imbarcato delle hostess con alti stivaloni in pelle nera e frustini di bambù, guai a sgarrare nella fila. Ci hanno fatto fare il check, poi ci hanno ammassati in un tunnel in piedi per venti minuti, ad aspettare la pulizia dell’aeromobile e il rifornimento (non potevamo stare seduti al gate, dovevano liberare l’area per il volo successivo, ci hanno spiegato, spaziren!); ci hanno pregato di non fumare per via del rifornimento (ho mai visto nessuno fumare nel tunnel in vita mia, bah …) e naturalmente prima di salire misuravano i bagagli col calibro, e quelli che sgarravano pagavano una cifra extra generalmente superiore al costo del viaggio. Io mi muovo con una sportina morbida con dentro uno spazzolino, il dentifricio, due mutande e due calzini, e finora l’ho scampata. I libri li tengo sotto il braccio, la fotocamera al collo, addosso ho maglietta+polo+felpa+gilet+giaccone, e quando entro, come la cipolla, mi spoglio.

Madeira è nell’oceano Atlantico, a nord dell’Equatore, a ovest del Meridiano di Greenwich. Più a nord delle Canarie, gode di un clima temperato, difficile scendere in dicembre sotto i 15°, difficile salire oltre i 22°. In linea d’aria è all’altezza circa della bellissima città marocchina di Essaouira, 400km. a est.

Eppure, avevo trovato, nello stesso mese negli anni scorsi, un clima molto più gradevole alle Isole Azzorre, ma anche a Tenerife, nelle Canarie. Forse è solo un caso, devo essere capitato qui in alcuni giorni in cui il vento si faceva sentire e il clima non era quello così invitante che l’isola solitamente offre, mentre il sole era velato sempre da uno strato di nubi.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 04

Non avendo idea delle temperature che mi attendevano, avevo già stabilito di affittare uno scooter, ma non la sera dell’arrivo. Era tardi, avrei aspettato il giorno dopo e avrei ritirato lo scooter sul lungomare in tarda mattinata, dopo una bella dormita. Perché cinque ore di aereo, il viaggio da casa alla Malpensa, l’attesa in aeroporto e poi allo scalo sono comunque tempi lunghi, noiosi e sfiancanti, e ti salvi con un libro, uno spuntino, ma viaggi quasi un giorno nelle ore diurne; e quando arrivi ti prendi un bel taxi, e tranquillo ti fai portare nel bed & breakfast che hai scelto sulla collina di Funchal, e il premio è una splendida vista della baia. Si, ma 38 euro di taxi per fare 14 km. non li spendi neanche a Milano nell’ora di punta, per cui comincio già a incazzarmi. Grazie al fuso orario che mi fa guadagnare un’ora, arrivo al B&B in un orario decente per cenare. Chiedo alle gentile ostessa, che mi indirizza al “Rustico”, una vicina trattoria, e ben felice mi incammino: sono solo cinquecento metri, mi dice. Il problema è che se vado a sinistra scendo a precipizio verso il porto e il centro, e ci sono oltre due chilometri, se salgo a destra ho cinquecento metri di salita semplicemente folle, tanto è ripida (scoprirò il giorno dopo, dal frastuono, che il mio B&B è sul percorso dei carretti a ruote in paglia che esperti guidatori locali precipitano giù da Monte verso il porto, con sopra turisti scesi dalla nave da crociera di turno e arrivati fin lassù con la funivia che parte dal porto e sale a Monte).

Se volete andare a Funchal prenotate sul lungomare, fidatevi.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 05

Comunque, fatti i cinquecento metri verticali fino alla trattoria Rustico, entro col respiro affannato, il cuore a mille (non sono allenato in questi ultimi tempi) e, data l’ora, chiedo se posso cenare; nessun problema, sono gentili, mi accomodo. Ordino un polpo con salsa. Spiego loro di mettere poca o nessuna salsa, solo di portarmi un morbido polpo e basta, e una birra locale, con un pezzo di limone dentro. Stramazzo sulla sedia in legno e sul vecchio e rustico tavolaccio, tanto sono rimasto solo io a quell’ora. Dopo poco, mi arriva la prima birra che prosciugo con lo sguardo … poi arriva il polpo. Una bestia da almeno un chilo, tutto intero con la testa, eviscerato, ovvio. Una piovra. Morta affogata in tre dita di olio e centinaia di verdure varie sminuzzate. Mi impongo e mi faccio portare un grande piatto pulito, dove, dopo ampia scolatura, depongo la bestia, e me lo mangio tutto, ma proprio tutto. Non so il sugo che gusto avesse, io mi sono goduto solo la bestia. Pago una sciocchezza, e mi riavvio verso il B&B, ma ora la strada è in discesa, e la birra aiuta, scendo che neanche Messner al campo 1 dell’Everest … Svengo semivestito nel letto e faccio una dormita colossale, con sogni che riguardano Cassin, Shipton e Bonatti e io ultimo in cordata sulla parete nord dell’Eiger.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 06

La mattina mi alzo con calma, scendo a fare colazione nel gradevole giardino del B&B, in mezzo a fiori e piante di ogni genere, simpatici canarini in gabbia, e stranieri vari che hanno già sbafato il 90% del cibo disponibile, ma a me va bene così (io fuori casa a colazione prendo un caffè e una brioche, se a casa un caffè e un pezzo di focaccia), quindi mi comporto in modo sobrio (dopo la piovra, ci mancherebbe, direte voi), ma la gentile titolare del B&B si preoccupa per il mio scarso appetito. La tranquillizzo, e mi avvio al lungomare, a ritirare lo scooter. Sono due chilometri e mezzo, in discesa, tipo KL, il kilometro lanciato a Cervinia. Riesco ad arrivare in fondo senza cadere ma ho le ginocchia che fanno giacomo-giacomo, per usare un vecchio modo dire. Quando, finalmente, ritiro la Honda 125 PCX, mi sembra di essere Tony Cairoli che parte in un MXGP di quelli vittoriosi. Mi avvio verso il B&B, per recuperare la fotocamera e partire per un giretto nell’entroterra, e mi perdo … Sì, perché la via del mio B&B è a senso unico in discesa, è lunga più di due chilometri e mezzo e io non riesco a capire come fare a salire e provo a intersecare da diversi lati, niente, non riesco. Credetemi, non sono scemo completo, ma è veramente complicato, soprattutto a causa di una quattro corsie che attraversa la collina e ti disorienta completamente. Lo so che è difficile da credere, ma spero che capiti anche a voi, così vi renderete conto che la viabilità in quell’area è estremamente laboriosa. Non ho mappe cartacee, l’unica è il GPS sul cellulare, ma non ho un posto dove fissarlo sul manubrio, allora mi fermo in continuazione. Dopo mezz’ora, leggendo Google Maps, mi accorgo che parallela alla mia via che scende (Camino do Monte), ce n’è una che sale (Combojo). Logico, penserete voi. La imbocco, due chilometri e otto di rampa verticale senza curve, lo scooter (125cc lui, 95 kg io) arriva in cima con l’ultimo hp residuo, svalico verso destra (all’altezza dell’ormai noto Rustico) poi scendo cinquecento metri e sono al B&B.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 07

Recupero le mie cose e parto per una visita dell’interno, che presenta la salita totale al Monte, poi fino a Riberio Frio (Torrente Freddo), salgo a 1400, scendo a 900 mt., sono mezzo congelato e mi fermo in un bar. A fianco uno shop da turisti che vende maglioni tradizionali portoghesi in lana, pesanti e poco costosi. Sono tentato ma il proprietario è talmente stronzo che mi dico: al diavolo, piuttosto che darti soldi resisto fino al mare della costa nord, e così faccio, perché in meno di dieci chilometri sono sulla costa, dove il clima torna gradevole. Questa zona, Faial, Santana, Porto da Cruz, non è nulla di che, e riparto in direzione di Machico, sulla costa sud, poco distante dall’aeroporto. Anche Machico non è assolutamente nulla di che, in particolare una bellissima (!?!) spiaggia di sabbia finissima (portata con le navi dal Sahara) dove alcuni bagnanti sguazzano nell’acqua bassa. Suppongo siano lapponio inuit, perché io quando parcheggio lo scooter mi tolgo il Barbour, la felpa e, rimasto con la polo maniche lunghe, rimetto subito la felpa perché non trovo che faccia così caldo. Mi fermo a mangiare in un posto dove fanno un piatto di lapas (patelle di mare) che è la specialità locale; buone, ma non rifarei cinque ore di volo per mangiarle. Buone invece le vongole, da mangiare in zuppetta, una delle poche cose digeribili che ho gustato.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 08

Rientro nel tardo pomeriggio al B&B e mi concedo un the caldo (buono, lo producono sull’isola oppure lo importano dalle Azzorre; le Azzorre sempre Portogallo sono). A cena al Rustico, prendo uno stufato di carne di vacca (meglio la fassona ma non voglio fare troppo il difficile, se era per mangiare piemontese potevo restare a casa, che diamine). Assaggio il vino locale ma torno alla birra, ottima, leggera e fresca. Mi propongono una bottiglia di Mateus rosè, che ho bevuto l’ultima volta nel 1974 in Italia per la cena della maturità, ma rifiuto categoricamente. Stavolta segue una bella e sana dormita, senza sognare scalate o passeggiate improbabili, con la finestra aperta e una temperatura ideale.

Al mattino mi sveglia un fischio tremendo e intensissimo: è una delle tante navi da crociera che richiama il gregge al reimbarco. Li mando solennemente a fare in quattro, mi lavo e faccio la solita colazione. La gentile oste, slovacca di origine, taglia 54 (potremmo scambiarci i vestiti, se non fosse donna) si preoccupa di nuovo della mia modesta colazione, e le spiego che in Italia (non è vero) non si usa fare colazione, anzi è segno di arretratezza e miseria, le persone à la page bevono al massimo un caffè. Intanto di italiani non ce ne sono intorno, così spero che lei non mi rompa più le palle con ‘sta storia della colazione. Mi avvio verso Camarados Lobos, che forse è il posto che ho gradito di più, sebbene parecchio turistico. Una bella baia, colorata di barche da pesca, ben protetta dai marosi, con una bella statua di Churchill che dipinge uno dei suoi quadri in tarda età (in effetti Churchill si fermò dieci giorni all’hotel Reids, e oggi quella zona la chiamano anche Churchill’s bay). Pranzo molto male in un ristorante osannato da Trip Advisor (altro luogo comune da evitare), e parto poi per una gita sulla costa sud, rocciosa, alta e spesso lontana dal mare, priva di località particolarmente interessanti.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 10

Il terzo ed ultimo giorno lo dedico alla visita di Funchal, la capitale, complice una fine pioggerellina, quella che io chiamo confidenzialmente pioviggine, che non disturba poi più di tanto, finche non rientri e ti accorgi che sei bagnato fino al midollo. La città mantiene qualche angolo ancora interessante, ma quello che ho visto non mi ha entusiasmato. Come d’abitudine visito il mercato del pesce, interessante più per la quantità che per la varietà, e finalmente pranzo come si deve al ristorante del mercato Peixaira No Mercado, dove ad uno splendido seviche di branzino segue un ottimo pesce alla griglia (una dorada, mi pare), e finalmente bevo due bicchieri di vino bianco… edibile! Una passeggiata sul lungomare (davvero lungo) nella zona del porto, ma evito accuratamente il Museo dedicato a Cristiano Ronaldo. Anche l’aeroporto si chiama così, ma quello non posso evitarlo e, dato il maltempo, rinuncio a fare una corsa andata e ritorno con la funivia (la teleferica), perché le nuvole sono basse, e fotografare dall’alto è improbabile. Salto la cena, per paura di guastare il primo pranzo buono del viaggio.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 11

Il giorno dopo arrivo con largo anticipo in aeroporto, questa volta con l’autobus, cinque euro a tratta: se fossi stato più attento l’avrei scoperto anche all’andata. Il fatto di arrivare molto prima in aeroporto a voi non dirà nulla, invece per me significa che ne ho le palle piene e non vedo l’ora di rientrare. Ma perché? perché questo viaggio non mi è piaciuto, come avrete notato.

L’isola, dal punto di vista panoramico, è bella; ci sono dei punti, detti miradouro, che consentono delle viste spettacolari su vallette nascoste e sulle frastagliate catene montuose del centro dell’isola, che raggiungono anche i 1820 metri col Pico Ruivo. Grandi panorami sull’oceano, che poi, visto uno, visti tutti. Le strade sono in ordine, l’asfalto è sicuro e lo scooter il mezzo ideale per girare l’isola, che è 60 km. circa di lunghezza e 25 di larghezza. E poi niente altro; se vi piacciono i fiori, direi che il Jardim Botanico è bello, proprio vicino al B&B dove ero io, ma io non sono un gran cultore. Se vi piace fare trekking, bello tosto si intende, ci sono vari sentieri estremamente ripidi da seguire, e anche in questo caso non sono un cultore. Se vi piace la cucina, e di questa sono invece un cultore, restate pure a casa; anche perché la cucina portoghese continentale è un’altra cosa. Qui è tutto stracotto, stracondito, unto e bisunto. Per quanto riguarda i musei, l’unico per me interessante è il “Universo de Memórias João Carlos Abreu”; Abreu, poeta e scrittore, ha donato circa 14.000 oggetti di ogni genere a Madeira, raccolti nella sua lunga vita e nei suoi viaggi, e ci sono delle stanze veramente interessanti, sarebbe piaciuto molto anche a Paolo e agli assidui frequentatori dei mercatini dell’antiquariato.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 12

La cosa peggiore è che su tutta la costa sud ci sono decine di migliaia di ville, villoni e villette, appartamenti, loft, mansarde, più o meno grandi. La maggior parte è di proprietà di europei (alcuni sono portoghesi, ma soprattutto domina il centro-nord europeo) che le occupano pochi mesi l’anno. Queste seconde case hanno creato un’atmosfera da turismo totale, e i prezzi ne hanno risentito. Nelle Azzorre, sempre isole portoghesi ma più a nord, si trova ancora la tranquillità del villaggio di pescatori o di contadini, senza troppe contaminazioni, con gente più calma e paziente, e consiglio mille volte le Azzorre rispetto a Madeira.

Il problema delle Azzorre è che sono tante isole (9), quasi tutte distanti una dall’altra, non facilmente raggiungibili. Se c’è vento forte, l’aereo non parte da Lisbona, difficile atterrare in quei piccoli ed esposti aeroporti. Però se vi capita andateci, magari partendo da Horta, poi Pico infine Ponta Delgada, e vi assicuro che non ve ne pentirete.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 13

Ecco perché mi faccio la domanda del titolo: perché non me ne sto a casa, a volte? ora devo pentirmi e espiare, soprattutto pensando che in Sicilia, in quei giorni, c’erano 18/20 gradi e io in Sicilia vado sempre molto molto volentieri, magari a Catania, a farmi un giretto intorno alla Muntagna.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 14

Nell’Ellade profonda

Note a margine di una scappata in Macedonia

di Paolo Repetto, 30 settembre 2023

In genere le note corredano un testo “importante”, di argomento storico o scientifico: difficilmente vengono inserite nei resoconti di viaggio. Nel mio caso però la cosa funziona diversamente. Io non so raccontare i viaggi, almeno i miei, perché non ho capacità di sintesi: sono eccessivamente cosciente di quanto in una narrazione di questo tipo va perduto, mentre non vorrei tralasciare nulla. E allora il racconto del viaggio diverrebbe lungo quanto il viaggio stesso. Faccio dunque prima a saltare a piè pari il testo e andare direttamente alle note.

In realtà sono un appassionato lettore dei viaggi altrui, proprio perché non sapendo cosa mi perdo riesco a godermi quel che mi viene offerto: ad appassionarmi però non è la parte strettamente diaristica, quanto piuttosto le considerazioni, spesso tutt’altro che pertinenti, che il viaggio induce. Brevi illuminazioni, flash, accostamenti peregrini, analogie, ecc. Quando si viaggia si è costantemente spiazzati, e questo porta a vedere le cose, non solo quelle che ci scorrono davanti, ma anche quelle che scorrono dentro, da angolazioni inedite. Le note che seguono sono per l’appunto frutto di questi spiazzamenti.

Alcune coordinate essenziali devo però fornirle, perché un improbabile lettore possa poi ricostruire l’itinerario con l’ausilio di un atlante o di una carta stradale. Dunque. Ho girovagato con Vittorio per la Grecia “continentale”, dall’Epiro alla Macedonia ellenica, alla Tessaglia settentrionale e alla Calcide, per nove giorni, nell’ultima decade di settembre. Da Atene abbiamo percorso in costa il Peloponneso sino a Patrasso, poi su a nord per Neapoli e Giannina, quindi dritto a est fino a Salonicco e di lì sino a Sithonia e al monte Athos. Successivamente abbiamo puntato la barra tutta ad ovest verso i laghi di Prespa, abbiamo toccato in barca i confini con la Macedonia del Nord e con l’Albania, e poi virato nuovamente a sud-est per arrivare all’Olimpo, Ci siamo ripetutamente bagnati in un Egeo quasi tiepido, durante la risalita del golfo Termaico e il periplo di quello di Cassandra, abbiamo valicato per dritto e per traverso i passi del Pindo e attraversato le afose pianure tessale. Tutto questo a bordo di una spompatissima Peugeot 108, praticamente una scatola di sardine. Nel corso di questo giro non abbiamo visitato né siti archeologici né musei, ci siamo dedicati piuttosto alle indagini gastronomiche e a quelle antropologiche. Insomma, siamo andati a zonzo. D’altro canto, quello che “dovevamo” vedere della Grecia “classica” l’avevamo già visto in visite precedenti.

Non aspettatevi dunque granché. Quanto segue non sarà di alcuna utilità per chi abbia in mente di muoversi sulle tracce di Pausania, e tutto sommato per nessun altro. In linea con l’assunto del nostro viaggio, risponde solo alla poetica del vagabondaggio.

Nell’Ellade profonda 02

Sulle strade. Oltre che dalla facile reperibilità di servizi igienici, per il viaggiatore automunito una civiltà si misura anche dallo stato delle strade. Uno si aspetta dunque che una Grecia da sempre economicamente in ginocchio sia quasi impercorribile, che il fondo stradale sia dissestato, che la segnaletica sia obsoleta o latitante (oltre che ostica, per via dei caratteri alfabetici). Invece è tutto il contrario. Manti asfaltati lisci come biliardi, e questo vale per tutta la rete stradale, anche quella che corre in zone dove non si scorge un casolare per decine di chilometri. Da chiedersi che tipo di bitume adottino, come già mi era accaduto in Islanda, in Spagna, persino in Turchia (ma soprattutto, che schifezza viene sparsa sulle strade in Italia). Tutto questo a fronte del fatto che lungo l’intero percorso non abbiamo trovato nessun restringimento per lavori in corso (da noi, sull’A26, nel solo tratto tra Voltri e Casale ne ho contati quattordici). E che non ho mai visto qualcuno lavorare alla manutenzione. Non solo: quasi ovunque, dove sia previsto il duplice senso di marcia, persino nei viottoli più stretti, le corsie sono divise da una doppia riga bianca. Non ho capito se questo serva a rafforzare il concetto, se cioè le autorità non si fidano del rispetto degli automobilisti per le norme: resta il fatto che la doppia riga già solo visivamente dissuade dal superarla, almeno noi che non siamo abituati.

Una parziale spiegazione di tanta scorrevolezza me l’hanno fornita le fila di pali di legno per le linee telefoniche ed elettriche che corrono ai lati delle strade, quelli che in Italia sono stati sostituiti da tempo da linee intubate sotto il manto stradale. Sembra di tornare indietro di almeno trent’anni, ma all’atto pratico da noi ad ogni novità (fibra, allacciamenti idrici e fognari, ecc…) le strade vengono sconquassate e poi rappezzate alla meno peggio, finendo per trasformarsi in autentici percorsi da cross. E per i servizi igienici? Beh, in questo la Grecia è più in linea con l’Italia che con i paesi nordici. Irreperibili. Per chi non può bere più di un paio di caffè al giorno sono problemi.

Rimanendo in tema di auto e di strade, non ho visto una sola Cinquecento L (ne possiedo una, e questo mi porta per riflesso condizionato a notarne la presenza o l’assenza). Le auto in circolazione sono nella stragrande maggioranza tedesche. Mi aspettavo, visto che la Merkel era ritenuta una decina d’anni fa la maggiore responsabile dello strozzamento dell’economia greca e che il risentimento antitedesco dura dalla seconda guerra mondiale, una qualche forma di boicottaggio, di rifiuto. Non è affatto così, la Germania è ancora la maggiore partner commerciale della Grecia. Forse questo fatto dovrebbe far riflettere i nostri più accaniti antieuropeisti sulle dinamiche reali dell’economia.

Con i cani. Varrebbe la pena riflettere (e far riflettere) anche su un altro problema, che in Grecia si presenta immediatamente, appena posi i piedi fuori dall’auto. Qui i cani randagi sono come le mucche sacre in India. Vagano per i paesi e persino al centro delle grandi città, pattugliano le spiagge e si appostano ai bordi delle strade di montagna, ti si affiancano supplichevoli o minacciosi ai tavolini dei caffè. Pare siano quasi un milione, e che la crisi galoppante ne stia moltiplicando il numero. Tra l’altro, per una legge naturale di sopravvivenza del più forte, sono tutti di grossa taglia, e non tutti sono pacifici. Il fenomeno mi aveva già colpito dieci anni fa, ma allora pensavo fosse transitorio: invece è diventato un problema endemico. Destinato purtroppo a presentarsi (e in molte regioni già presente) anche da noi.

La trama si ripete infatti ovunque sempre identica. Appena cresciuti un po’ i meravigliosi cuccioli che calamitavano e restituivano tanto affetto, che giocavano coi bimbi e alleviavano le solitudini, o che semplicemente facevano status, diventano un peso: e questo vale tanto più quando anche gli umani devono cominciare a tirare la cinghia. Li si abbandona allora senza troppi complimenti alle cure della comunità, che in realtà con questi chiari di luna non può permettersi di farsene ufficialmente carico, e neppure di sterilizzarli. Eliminarli significherebbe incorrere nelle ire degli animalisti, e allora li si lascia al proprio destino, sperando che incidenti e aggressioni rimangano entro limiti percentuali “tollerabili”. Anche da queste cose si misura lo stato di salute di una civiltà. E direi che c’è molto di cui preoccuparsi.

Geometrie post euclidee. Durante i precedenti viaggi in Grecia avevo maturato la convinzione che il paese si fosse risparmiata l’età dei geometri, quella che ha sconvolto il paesaggio italiano negli anni del boom: e ciò non in virtù di una scelta estetica ma a causa di una arretratezza economica prolungatasi sin quasi alla fine del secolo scorso. Percorrendo però le zone più prossime alle spiagge dell’Egeo ho dovuto ricredermi. C’è stata, e sembra molto recente o addirittura in corso, una fioritura di villette di una bruttezza imbarazzante, con tutta evidenza costruite in economia, ma senza risparmio alcuno di soluzioni architettoniche bizzarre e presuntuosamente avveniristiche. La crisi recente ne ha lasciate inoltre molte incompiute, e così piccoli scheletri di cemento irti di tondini rugginosi occhieggiano tristemente dalle aperture vuote: ruderi senza storia, un’archeologia da day after. Le une e le altre sorgono poi in genere su terreni spogli, con nessuna cortina di verde a nasconderle, per cui si ha l’impressione di un effetto sia voluto, di una stravaganza orgogliosamente esibita.

Nelle zone montuose dell’interno, invece, ma anche nelle vaste pianure coltivate della Tessaglia, è inquietante l’assenza di case coloniche o di piccoli nuclei abitati. Per lunghissimi tratti non si scorge l’ombra di un tetto, anche là dove si susseguono i campi, gli uliveti, i frutteti. Mi chiedo dove abitino gli agricoltori, dove ricoverino i loro attrezzi e macchinari. Mi riesce difficile ipotizzare per questa terra un’antica storia di latifondi e di concentrazioni abitative, come accade invece per la Sicilia. So troppo poco dei sistemi di proprietà bizantino prima e ottomano dopo. Immagino comunque lo sgomento di un viaggiatore che fosse rimasto in panne prima dell’avvento dei cellulari: e anche oggi dev’essere un’esperienza tutt’altro che divertente.

Menù turistico. Le zone che abbiamo attraversato non presentano particolari attrattive turistiche, almeno per quanto concerne il turismo di massa, salve le fasce costiere del golfo di Salonicco e della Calcide. Abbiamo conosciuto però una frequentazione diversa, per certi aspetti inaspettata: il turismo bulgaro. La cosa di per sé non sarebbe strana, tutto il lembo di Grecia che si spinge lungo la costa dell’Egeo sino alla Turchia europea confina con la Bulgaria, e la distanza di quest’ultima dal mare non supera mai gli ottanta chilometri: quindi per la gran parte dei bulgari l’Egeo è più vicino che non il mar Nero (e senz’altro è più caldo). È invece l’idea stessa di un turismo bulgaro a risultare spiazzante. In effetti siamo portati per molti motivi a dimenticare l’esistenza della Bulgaria: al momento non è invasa da nessuno, non ci manda quasi immigrati, non è una partner commerciale particolarmente significativa. Ce ne ricordiamo al più quando le statistiche ci dicono che il salario minimo in Bulgaria è il più basso d’Europa (un euro e mezzo l’ora), che lo stipendio medio di un bulgaro è meno di due terzi di quello di un greco, che a sua volta è poco più della metà di quello di un italiano. Rimane difficile dunque immaginare la famigliola bulgara che parte per fare le proprie vacanze in un paese in cui vige l’euro (in Bulgaria sarà adottato solo tra un paio d’anni). Probabilmente sarà un’infima minoranza a potersele permettere, sufficiente comunque a dare l’impressione che la Calcide sia la riviera adriatica dei bulgari. E la cosa non può che rallegrare.

Nell’Ellade profonda 03

Il turismo bulgaro non è la spia di un costo della vita particolarmente basso. La benzina costa in Grecia esattamente quanto nel nostro paese (il che smentisce la credenza che le accise ci siano solo in Italia), e di conseguenza le tariffe dei servizi pubblici, le consumazioni al bar e i prezzi nei supermercati sono più o meno sullo stesso livello. Solo le sigarette costano meno, ma questo riguarda esclusivamente la minoranza oppressa di cui faccio parte. Per la ristorazione il discorso è più complesso. Nelle tabernas il costo di ogni portata è grosso modo paragonabile a quello medio italiano, ma è la consistenza a fare la differenza: un secondo piatto greco ha il valore proteico e calorico di un intero pasto italiano, per cui quando l’hai capito ci sopravvivi per tutta la giornata. E comunque, un piatto colmo di ottime olive in un ristorante in riva al mare ci è costato due euro: in Italia per quella cifra ti davano giusto il piattino.

Il valore nutrizionale della cucina greca lo si può dedurre anche dalla taglia tendenzialmente robusta della popolazione, di quella maschile ma soprattutto di quella femminile. È una robustezza “solida”, da cibo, diversa da quella nordica da birra. Questo spiega anche perché le atlete greche siano particolarmente presenti e brave nelle discipline più pesanti (peso, disco, martello e giavellotto).

Nero ellenico. Un’altra caratteristica che balza immediatamente agli occhi è la preferenza dei greci, maschi e femmine, per il colore nero nell’abbigliamento. Nulla di strano, c’è dietro una tradizione millenaria e non è un costume esclusivamente ellenico, è comune nel Nordafrica, nel vicino e nel Medio Oriente e anche, da quanto ho potuto constatare, tra i bulgari. Ma in questa occasione mi ha colpito particolarmente, forse perché mi ero portato appresso lo studio sul “Nero” di Michel Pastoureau, che ne illumina tutta la storia. Non so perché, continuava a ricorrermi in mente il titolo di una tragedia di O’Neil, Il lutto si addice ad Elettra (novenario perfetto). Pare comunque che quella della mise nera sia una moda crescente anche dalle nostre parti; lì dava però l’idea di non obbedire, nemmeno nei giovanissimi, ad un capriccio stagionale. Sembrava piuttosto esprimere una rivendicazione identitaria, il che indurrebbe a supporre che i giovani greci sentano ancora fortemente il legame culturale col passato del loro paese. Che non è solo quello classico, ma quello tragico e accidentato degli ultimi duemila anni. Voglio dire che il nero delle magliette e dei pantaloncini italiani arriva dai social, quello greco dai libri di storia.

Nell’Ellade profonda 04

Montagne sacre (ortodosse). Il principale movente per questa nuova scappata in Grecia è stato senza dubbio il monte Athos. Mi intrigava l’idea di una repubblica semiautonoma tutta maschile, ma non riuscivo a immaginarla e propendevo a liquidarla come folklore tenuto artificialmente in vita a scopi turistici. Non avevo in realtà idea di quale fosse l’effettivo peso della chiesa ortodossa nella vita del paese. In pochi giorni me ne sono fatta una, e anche senza mettere materialmente piede entro i confini del monte Athos, e vedendolo anzi solo dai cinquecento metri di distanza imposti ai battelli, ho realizzato che la cosa è molto più seria di quanto pensassi. Almeno a livello di impatto dell’immagine, perché poi di come materialmente si svolga la vita dei duemila e cinquecento monaci che ancora lo abitano ne so naturalmente quanto prima.

Comunque, ho constatato che almeno localmente la chiesa greco-ortodossa è una potenza, e interferisce nella vita pubblica e nel gioco politico quanto e forse più del Vaticano in Italia. Questo perché, come tutte le altre chiese che, pur essendo “autocefale” fanno comune riferimento all’ortodossia, predica una sorta di nazionalismo religioso. Ne abbiamo visto qualcosa in Russia negli ultimi tempi, ma mentre là è l’autorità politica a condizionare (e a scegliere, addirittura) quella religiosa, qui sembra funzionare diversamente. La chiesa è tra le istituzioni più apprezzate, e può contare su un sentimento religioso diffusissimo: metà dei greci adulti si dichiarano “altamente religiosi”, e lo dimostrano tangibilmente. Seduto un tardo pomeriggio a poca distanza dal sagrato di una chiesa, ho visto decine di persone di ogni età farsi il segno della croce nel transitare lì davanti. E ho notato che sui parabrezza degli autobus, come di moltissime auto private, accanto alla bandiera bianco-azzurra compaiono comunemente le icone ortodosse.

La religione qui è considerata una cosa seria, anche perché ha una forte valenza identitaria, riconducibile al modo stesso in cui è nato lo stato greco, da una rivoluzione contro gli ottomani. Il clero ortodosso è stipendiato dallo stato, ma non esita a prendere posizione contro qualsiasi “modernizzazione” i governi tentino di introdurre. Tsipras ha perso le elezioni del 2019 proprio per aver insistito sulle riforme, e il clero ortodosso non ha preso le distanze da Alba Dorata quando il partito dell’estrema destra si è fatto paladino della tradizione in suo nome. I pope hanno una presenza discreta, ma vuoi per la barba vuoi per l’obbligo di indossare l’abito tradizionale (la rjasa, una tonaca “esterna” – nera, naturalmente – con cintura, che s’indossa sopra un’altra tonaca interna, più leggera) mantengono un aspetto fortemente ieratico, malgrado siano in realtà molto più “secolarizzati” di quelli cattolici (possono anche sposarsi).

Insomma, comunque la si pensi sui suoi monaci e sulle icone, il monte Athos non ha nulla a che vedere con i mega-complessi per la produzione di miracoli sul tipo di Pietralcina, o con le Madonne che piangono (giustamente) in ogni angolo del nostro paese: e già il fatto di non ammettere la presenza femminile costituisce una garanzia in questo senso.

Nell’Ellade profonda 05

Montagne sacre (pagane). Sempre a proposito di luoghi sacri (ma pagani), ho visto finalmente il monte Olimpo. Non l’ho asceso, e non per una qualche proibizione esterna o reverenza interna, ma semplicemente perché il dislivello da superare per arrivare in vetta era decisamente proibitivo per lo stato attuale delle mie gambe. L’ho quasi soltanto intravisto, e sono stato fortunato, perché è nascosto da ogni lato da una corona di altri monti e perché in via, a quanto pare, eccezionale non era coperto di nubi. Ho capito comunque perché gli antichi Elleni ne avessero fatto la dimora degli dei. Una volta superati lungo una serie di cenge i corridoi delle vallate di accesso, ti si para davanti con una prominenza di oltre duemila metri, fino a sfiorare i tremila, e la sommità non è più visibile. Dal basso sembra davvero inaccessibile, il luogo ideale per nascondersi agli occhi e alle piccinerie degli umani. Il nome stesso sembra significasse anticamente barriera, impedimento. E almeno ufficialmente pare che la sua sacralità sia stata rispettata sino al 1913, data della prima ascensione ufficiale. Penso che chi l’ha realizzata avrebbe potuto risparmiarsi la fatica: i vecchi inquilini se n’erano andati da un pezzo.

Sì, viaggiare. L’impressione che ho riportata dell’Olimpo sarebbe sufficiente a giustificare tutto il viaggio. Ma in realtà il nostro vagabondare ci ha gratificati di altre bellissime immagini: le sterminate e semideserte spiagge dell’Egeo; le montagne del Pindo, che presentano paesaggi diametralmente opposti nel volgere di pochi chilometri, nel passaggio da una valle all’altra; i laghi di Prespa, più vasti del lago Maggiore e racchiusi tra sponde pressoché disabitate; i villaggi costieri e le fantastiche baie della penisola Calcidica. E mi fermo qui, per evitare di scadere nello spot.

Piuttosto, mi sono posto per l’ennesima volta la domanda cruciale: ha ancora senso viaggiare? In genere me la ponevo prima di intraprendere un viaggio, e la risposta arrivava dall’eccitazione per l’uscita dalla consuetudine, dal flusso di adrenalina prodotto dallo spostamento. Era dunque una risposta provvisoria, occasionale. Stavolta lo faccio invece a posteriori, e forse riuscirò a darmi motivazioni meno effimere. Per il momento mi limito però ad una raccomandazione. Questi luoghi saranno ancora lì, tra cinque o dieci o cento anni, ma forse già dal prossimo non saranno più gli stessi. E difficilmente cambieranno in meglio. Vale la pena quindi vederli ora, subito, e farlo senza assilli e programmi e aspettative. Non per spuntare qualche nome dalla lista delle mete obbligate, ma per riconciliarci in tutta serenità col mondo che ci circonda, per renderci conto di quanta bellezza ci è stata concessa. Potremmo farlo senz’altro anche dietro casa, ma il paesaggio e i costumi abituali perdono per forza di cose il potere di stupirci. E così anche le loro trasformazioni. Credo che il confronto con le meraviglie di una natura inconsueta risvegli il nostro senso estetico intorpidito, così come quello con la diversità nei costumi mette alla prova il nostro sentire etico: e credo che tutto questo ci aiuti a guardare ogni volta con occhi nuovi, più attenti e critici, a ciò che c’è e a ciò che accade nel nostro cortile. Ad apprezzare diversamente quanto abbiamo, e a trovare lo stimolo e la forza per difenderlo.

Quanto a me, non ho nemmeno disfatto la valigia.

Nell’Ellade profonda 06

Piccole Panda crescono

di Paolo Repetto, 13 marzo 2023

Negli ultimi tempi soffro di uno strano disturbo, che non saprei qualificare diversamente da “apparizione mentale”. È difficile da descrivere: in sostanza percepisco inquietanti segnali che arrivano da cose, persone, situazioni apparentemente normalissime, segnali che poi si amplificano e poco a poco aprono varchi e spalancano scenari assurdi e sconvolgenti.

Come stamane, ad esempio. Ho guadagnato verso metà mattinata il piazzale-parcheggio antistante il Bellavita, un “centro benessere” con sei sale cinematografiche, la piscina tropicale e un albergo a 4 stelle, oltre alla palestra che ogni tanto frequento per cercare di tenere assieme quel che rimane delle mie ossa. A differenza delle altre volte ho faticato a trovare posteggio, e mentre cercavo un buco ho cominciato ad avvertire una strana sensazione. Poi ho capito: stavo rasentando file di auto tutte uguali e anonime, una serie infinita di Panda color grigio-guardia di finanza (un colore non presente nella normale gamma Fiat), che occupavano ogni angolo del piazzale. Una volta sceso, la curiosità ha avuto il sopravvento e ho cominciato a contarle: quarantaquattro, come i gatti, e probabilmente qualcuna mi è sfuggita.

La cosa appariva singolare, perché dalle targhe si desumeva che erano auto tutte molto recenti ma non immatricolate in successione, ciò che escludeva l’apertura di un deposito decentrato della Fiat (d’altro canto, col sistema di produzione just-in-time gli immensi parchi macchine di un tempo non esistono più). Il mistero dunque si infittiva: fino a che, mentre dimentico dei miei esercizi mi aggiravo per il piazzale in preda ad un crescente turbamento, dalle porte dell’hotel ha cominciato ha sciamare una turba di persone d’ogni età, in maggioranza giovani, che indossavano o un giubbotto o una felpa grigi, di colore identico a quello delle Panda ma recanti sul pettorale destro una piccola scritta: Bofrost.

Allora ho realizzato. La Bofrost è un’azienda che distribuisce a domicilio prodotti alimentari, in particolare surgelati. Ho poi verificato: in catalogo ha veramente di tutto, dai primi piatti alle carni ai pesci e ai dolci, e non mancano i prodotti bio, quelli per vegani e vegetariani e quelli per celiaci e intolleranti a prescindere. Probabilmente tutti hanno già visto in giro i suoi furgoni frigo. Si trattava quindi di una convention aziendale (l’hotel è attrezzato di apposite megasale per le riunioni di massa), forse a livello nazionale, visto il numero dei convenuti. Ho dunque immaginato una normalissima riunione, di quelle in cui si presentano agli agenti i prodotti e si mettono a punto le strategie di vendita porta a porta, coordinati da esperti di marketing che sparano una banalità dopo l’altra. Tutto banalmente regolare, insomma.

E invece no. Mentre mi recavo svogliatamente nello spogliatoio non ho smesso di pensare e rimuginare. Intanto, mi sono detto, è abbastanza improbabile che l’azienda abbia convocato una convention nazionale a Spinetta Marengo, anziché, che so, a Rimini o in Versilia, che sono decisamente più equidistanti da ogni regione della penisola e nella stagione invernale praticano prezzi stracciati. Anche se l’hotel Diamante ospitasse questi eventi quasi gratis, magari per pubblicizzarsi, assicuro che è difficile trovare una “location” meno attrattiva (sempre che la scelta non sia voluta, per evitare ai convenuti ogni distrazione e obbligarli a socializzare tra loro e a non disertare gli incontri).

In secondo luogo, le auto là fuori non erano destinate al trasporto dei prodotti: per quelli ci sono i frigo-car, e nel posteggio non ne stazionavano. Quindi erano auto “di primo approccio”, una flotta nuova di zecca messa a disposizione dei venditori: e a dispetto della modestia dei singoli mezzi, vista tutta assieme suggeriva l’idea di un investimento tutt’altro che trascurabile.

Il primo dubbio mi è stato immediatamente risolto da un altro frequentatore dello spogliatoio, uno addirittura più svogliato di me ma informatissimo e sin troppo disponibile a condividere il suo sapere, che mi ha spiegato come Bofrost abbia aperto una importante filiale a Casale Monferrato, e come dunque quella riunione con ogni probabilità fosse riservata ai venditori dell’area occidentale del Nord Italia.

Il chiarimento, come si può immaginare, non ha fatto che aumentare la mia inquietudine. Due conti spiccioli mi hanno portato a pensare che in altri quattro o cinque grandi alberghi sparsi per la penisola si siano riunite altre torme di venditori, con rispettive vetturette grigie nuove di zecca. Il che ci porta ad una flotta di duecento e passa auto, un parco macchine che lo avesse a disposizione Putin avrebbe già completato l’invasione dell’Ucraina.

E qui cominciano i guai. Mentre pedalavo sulla fantascientifica cyclette che ti rileva oltre alle pulsazioni anche i cambiamenti di umore, con lo sguardo perso sull’enorme discarica che sta al di là della vetrata, l’apparizione si è lentamente insinuata. Ho iniziato a immaginare duecento Panda grigie che si sguinzagliavano lungo le arterie del nostro sistema stradale, risalendone anche le più sottili venuzze, quelle che portano a casolari isolati o a masi montani, guidate da omini della Lego grigio-vestiti che suonavano ad ogni campanello e ripetevano ogni volta più o meno a memoria la lezioncina appresa durante la convention, comprese le tecniche amicali ma professionali di approccio. Dopo pochi minuti quelle Panda erano diventate piccoli droni che si infilavano dovunque, seguiti a ruota da droni più grandi che sganciavano direttamente, come le cicogne, i prodotti surgelati. Mi stavo traghettando nell’incubo.

Mi ha risvegliato uno dei ragazzi che ci fanno da badanti nella palestra, chiedendomi se mi sentivo bene, dal momento che le pedalate più che gesti agonistici sembravano ormai lenti spasmi agonici. In compenso ero tutto sudato.

Piccoli panda crescono 02

Ora mi sono ripreso, ma l’impressione è rimasta. E, come al solito, per liberarmene tento di razionalizzare. Dunque: per prima cosa, come mai vado soggetto a questi fenomeni? Ho provato ad individuare cause prossime e cause remote. Tra le cause prossime potrebbe starci il fatto che la sera precedente avevo mangiato per la prima volta un Big Mac, un’esperienza che tutti dovrebbero fare nella vita, anche i più decisi negazionisti, perché racconta molto della nostra realtà odierna. Ma potrebbe giocare anche l’aver visto in tivù, sempre la stessa sera, Red Ronnie, un caso clinico che neppure la parodia di Crozza riesce a sdrammatizzare. Certe cose mi avvelenano il sangue, sono combattuto tra la pietà dettata dalla miseria umana e la rabbia contro Basaglia e i basagliani.

Per quanto concerne le cause remote, posso metterci il fatto di aver letto da giovane troppi Urania e più recentemente di aver frequentato troppo i complottisti, sia pure per combatterli, finendo per essere contagiato dal loro virus. Anche nei momenti di lucidità non riesco a liberarmi dalla malsana idea che persino dietro Mario Giordano possa esserci un progetto.

Non penso tuttavia che le mie allucinazioni non abbiano proprio alcun aggancio, per quanto confuso, con la realtà. Proviamo a vedere su cosa si basa la “strategia aziendale” di cui gli omini sono gli interpreti e le Panda i vettori. Non punta certamente sulla convenienza economica, perché i prezzi praticati sono decisamente alti: ad esempio, i famigerati “quattro salti in padella” cui ricorro anch’io nei momenti di depressione costano almeno il doppio che al supermercato. La pubblicità dell’azienda punta sulla presunzione di una superiore qualità, ma a certificare quest’ultima è solo l’azienda stessa; per i consumatori la scelta può venire solo da un atto di fede, perché, diciamolo chiaro, la maggior parte di loro (io compreso) non è più in grado dopo decenni di atrofizzazione delle papille gustative di distinguere un fungo da una melanzana, figuriamoci le sfumature di qualità di qualsiasi prodotto. La presunta qualità superiore è dunque solo una facile autogiustificazione offerta all’acquirente per digerire e legittimare il maggiore esborso.

La pista da seguire a mio giudizio è un’altra. Cosa ti vendono gli omini, assieme al prodotto? In cosa consiste davvero il “valore aggiunto”? Non c’è dubbio: è la sicurezza. E allora immagino motivatori ed esperti di marketing che dicono agli ascoltatori in divisa grigio-finanza: “Decantate la superiore qualità del prodotto, i modernissimi processi di sterilizzazione e di congelamento, la varietà, tutto quel che volete, ma soprattutto fate uscire ad un certo punto l’asso dalla manica. Ve lo portiamo direttamente a casa, non dovrete uscire, mettervi per strada, rischiare di imbattervi in pazzi in libera uscita, in terroristi islamici, in automobilisti ubriachi, in tossici fuori controllo, in portatori di covid, in cornicioni che crollano, in telecamere che vi spiano, e via così”. Probabilmente forniscono anche tabelle statistiche degli omicidi, delle rapine, degli incidenti stradali, da mandare a memoria e da snocciolare al momento giusto della conversazione, quando questa raggiunge il climax: ma lo sa signora quante persone vengono rapinate in ogni ora nel nostro paese?

Il che spiega tra l’altro la scelta del colore delle auto (e dei giubbotti): è un grigio “istituzionale”, rimanda alle forze dell’ordine. Quindi, da un lato rassicura, dall’altro mette anche in soggezione: è un ulteriore “incentivo” psicologico all’acquisto. Diciamo che scatta l’effetto “calendario dell’arma”.

Questo è dunque ciò che viene venduto, in parallelo con tutta una serie di altri prodotti d’ogni altro tipo, all’insegna del “noi garantiamo la vostra sicurezza”: dagli aspirapolvere e dai materassi alle vacanze virtuali, complete, oltre che di immagini, degli odori, dei suoni, dei cibi delle località più sperdute, da godersi evitando la fatica e il rischio di mettersi in viaggio. In questo panorama, davanti alla crescita travolgente del commercio on line il destino di aziende come la Bofrost parrebbe segnato: ma non è così. Il tocco di classe, la gratificazione in più offerta dalla Bofrost (e da tutte le ditte che operano in maniera analoga) è quella dell’appartenenza ad una comunità “reale”, e non solo virtuale, rappresentata in carne ed ossa dai promoters, che vengono a trovarti a casa, e magari scambiano anche due chiacchiere con persone che ne hanno raramente l’occasione, e sono ben felici di cogliere questa in piena tranquillità; una comunità tra l’altro a suo modo elitaria, perché può permettersi di spendere qualcosa in più anziché rincorrere le offerte speciali nei supermercati.

Non so chi ci sia a capo di questa azienda, ma non mi stupirebbe se tra qualche anno decidesse di “scendere” in politica. Anzi, no, in realtà c’è già sceso. E il suo esercito è già in moto.

Mi fermo qui, perché sento che sta per arrivare un’altra “apparizione”. O forse non è mai svanita del tutto la prima, anche una volta lontano dal Bellavita. E, a proposito, anch’io sono arrivato stamattina al parcheggio in Panda: ho la mia auto in carrozzeria e me ne hanno data una di cortesia. Ma è bianca. Red Ronnie direbbe che è un segno. Sono già un dissidente nei confronti del regime venturo.

Piccoli panda crescono 03

PS. Il pezzo non è corredato da immagini delle Panda aziendali perché stupidamente stamattina non le ho fotografate (ero troppo turbato) e cercando stasera nel sito dell’azienda non ne ho trovato traccia. Sono presenti solo i furgoni e le auto di rappresentanza, di classe decisamente superiore. Come temevo: è un’operazione segreta.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

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Coincidenze

di Stefano Gandolfi, 5 ottobre 2022

Che “il mondo sia piccolo” è una delle più banali e scontate frasi fatte, tanto banale che nessuno vorrebbe mai usarla se non in caso di estrema necessità…come quando viaggi per un po’ di tempo e scopri che ovunque tu vada, e soprattutto qualunque tentativo tu faccia di scegliere una meta poco banale, poco appetibile per l’orda di “italiani erranti” in Lacoste e Timberland, non solo ti ritrovi fianco a fianco, in coda al check-in, in sala d’attesa, sull’aereo, sul traghetto, sul pulmino scassato nel posto più improbabile del mondo, un connazionale agguerritissimo pronto a spiegarti tutto, ma proprio tutto su ciò che stai per visitare, mangiare, comprare, fotografare, ma, spesso e volentieri, il connazionale è anche un concittadino, e, se le circostanze sono favorevoli (?), magari lo conosci pure.. e non è detto che ti stia particolarmente simpatico, forse anche ricambiato, e comunque sia ti ritrovi al primo scambio di convenevoli ri-immerso in una realtà che faticosamente pensavi di riuscire ad abbandonare per qualche giorno, una realtà da cui non cerchi di fuggire, beninteso, perché senno tu stesso saresti una patetica controfigura di Puerto Escondido, ma semplicemente desideri abbandonare per un po’ di tempo per far emergere energie vitali, positive, per cambiare prospettiva e punto di vista sulle cose, per il solo piacere di sintonizzarti su quanto ti circonda e con la curiosità di confrontarti con qualche cosa di diverso, e magari, perché no, anche con un discreto desiderio di mettere in discussione abitudini e consuetudini della vita quotidiana, metterti alla prova per vedere quanto sei in grado, anche solo per gioco e per poco tempo, di modificare il tuo comportamento.

C’è sicuramente un velato atteggiamento aristocratico e presuntuoso nel desiderio di non imbatterti in un tuo connazionale o concittadino in un viaggio importante, ma non tanto per l’orgoglio “ferito” di non essere l’unico “dei paesi tuoi” ad avere scelto quella meta e con quelle determinate modalità, perché oggi è ridicolo pensare che chiunque non possa, se vuole, raggiungere qualsiasi posto in qualsiasi momento: l’era degli esploratori è finita da un pezzo e, tutt’al più, solo la personale motivazione può spingere il viaggiatore verso mete relativamente meno battute..

No, non è questione di orgoglio e presunzione aristocratica, e non è nemmeno una questione legata agli italiani: probabilmente se fossi inglese, americano, giapponese, penserei la stessa identica cosa dei connazionali; la questione è un’altra.

Probabilmente il fatto di incontrare all’estero un connazionale, un compaesano, uno che parla la sua stessa lingua, per molte persone costituisce uno stimolo irrefrenabile a fare ciò che in patria non farebbe mai, ovvero attaccare bottone con uno sconosciuto, quasi come se fosse Stanley che incontra Livingstone, sicuramente con il sollievo di trovare un volto amico in una terra sconosciuta…e fin qui non ci sarebbe ancora (quasi) niente di male, perché, ripeto, qui non si parla di snobismo; il fatto è: di che cosa ti parla il tuo connazionale? Del suo approccio psicologico al viaggio? Delle emozioni che gli hanno fatto vibrare i neuroni di fronte ad un tramonto nella savana? Dello smarrimento provocato dall’immensità del vuoto pieno di vento della steppa patagonica?

No, il tuo connazionale ti esibisce trionfante davanti al muso il suo nuovo telefonino quadri-band col quale è riuscito a telefonare agli amici del bar (in Italia) e in anteprima assoluta, perlomeno per quanto riguarda l’altopiano tibetano, ti mette al corrente del nuovo centravanti acquistato dall’Inter e dell’aerodinamica del prototipo di Ferrari per la prossima stagione di Formula 1; se sei fortunato ti comunica anche il colore della nuova capigliatura di Valentino Rossi. Poi ti chiede se a Lhasa c’è un buon ristorantino dove mangiare gli spaghetti all’amatriciana, perché è da ben quattro giorni che mangia da far schifo, nient’altro che cucina tibetana (e già perché in Tibet capita di mangiare cucina tibetana!), alla fine, un po’ deluso perché non te ne frega niente né del campionato di calcio né del Motomondiale, si allontana sbiascicando qualcosa del genere: “che strani individui che si incontrano in giro per il mondo, non vedo l’ora di tornare dagli amici del Bar Sport!”

Il tuo connazionale all’estero (e, ripeto, non vorrei essere troppo severo verso gli italiani, probabilmente direi le stese cose di chiunque) è pervaso costantemente da una spasmodica necessità di riprodurre in ogni dettaglio, nei limiti del possibile ma spesso ben oltre questi limiti, tutti gli aspetti della sua quotidianità: il caffè ristretto alla mattina, la pausa-pranzo a mezzogiorno con abbiocchino e relativa pennica, la doccia prima di cena col rituale cambio d’abito che fa tanto chic a prescindere da dove ti trovi, la ricerca della Gazzetta dello Sport, anche se vecchia di giorni, non appena entra in un centro abitato.

Sembra quasi che il viaggio esalti, paradossalmente, ancora di più la ricerca del quotidiano, del familiare, del rassicurante e che ogni minimo cambiamento, ogni dettaglio diverso, ogni alimento e sapore differente dai nostri costituisca un fastidio, un peso che non si va ricercando, quasi un impiccio, un fardello da pagare e non un arricchimento, una scoperta…

Per taluni addirittura costituisce un ostacolo insormontabile che preclude totalmente il viaggio stesso: “io non posso partire perché sto male se non mangio la pastasciutta tutti i giorni a pranzo, se non bevo il caffè all’italiana, se non dormo nel mio letto, se non posso leggere la Gazzetta dello Sport, se non posso vedere il campionato di calcio (o, a scelta, il Motomondiale o il Festival di Sanremo o le ultime puntate di qualche serie televisiva).

Quello che decide di non partire tutto sommato dimostra ancora buon senso e fa un’efficace autoanalisi dei propri limiti e del proprio carattere, ma quello che parte??

Coincidenze 02

Primi anni novanta, vacanze di Natale, Wurzburg, Germania appena riunificata, al termine della Romantichestrasse, la bellissima strada “romantica” di Baviera e Franconia che attraversa alcuni dei meglio conservati paesi medievali tedeschi nel paesaggio fatato invernale, percorsa in auto con gli abituali compagni di viaggio dell’epoca, i due amici Antonio e Katia.

Grande freddo, poca neve, l’inverno nordico che cala come una mannaia alle tre di pomeriggio e ti fa assimilare subito la consuetudine locale di fiondarti in un pub, all’uscita dal lavoro e prima del rientro a casa: appena dentro ti immergi in una sorta di sauna, caldissima, quasi soffocante, trovi a stento un tavolino, ti spogli di tutti gli abiti indispensabili per girare a piedi per ore a otto-dieci gradi sotto zero, quindi via il piumino, il pile o il maglione di lana, ti rimbocchi le maniche della camicia, sudi, ti senti tutti gli sguardi addosso, poi cominci a rilassarti, ti guardi attorno e vedi che ognuno fa gli affari suoi, tutti bevono enormi boccali di birra, tamponano i succhi gastrici con spuntini locali a base di wurstel, salsicce, omelettes di varia fattura, ogni tanto sostituiscono la birra con un bicchiere di vino, poi riempiono di nuovo il boccale … passano mezz’ora, un’ora così, uomini e donne, poi escono nel buio da notte fonda della giornata cortissima e si dirigono a casa, attrezzati a sostenere l’urto del clima gelido di gennaio.

A quel punto o ordini un succo di frutta e due noccioline … oppure ti adegui alle usanze locali, vagamente preoccupato per il carico calorico di questa merenda alla quale seguirà dopo alcune ore la cena, che oltretutto sarà il pasto principale della giornata.

Dopo una sosta in albergo, di nuovo per strada, a cercare un ristorante; nessuno in giro, i locali sono tutti a casa o al pub, turisti ben pochi, praticamente solo noi, o forse no.

Nel buio della notte invernale di Wurzburg incontriamo dei ragazzi di Modena:

– Sapete dove possiamo trovare un ristorante italiano?
– Veramente no, noi stiamo cercando un ristorante locale…
– Siete pazzi? All’estero si mangia così male!
– Forse, ma è anche vero che in un ristorante locale sanno cucinare bene i loro cibi, mentre se vi ostinate a chiedere lasagne o pizza, è molto probabile che non li sappiano preparare bene.
– Siete pazzi! Buona serata!
– Bè … buona serata a voi!

Finalmente troviamo un ristorante che ci suscita simpatia, entriamo, cominciamo a scrutare il menù, escludiamo le cose italiane, Augusta, Antonio e Katia si impegnano nella lettura per ordinare qualche buon piatto di carne e patate, io sono più fatalista e dopo pochi secondi decido di mangiare una misteriosa “chef salade”: la mia ordinazione sembra scatenare un grande entusiasmo nei camerieri, esce anche il cuoco dalla cucina per vedere in faccia colui che mangerà la sua specialità, sembra quasi commosso, forse non gliela ordina mai nessuno: fatto sta che mi arriva un monumentale piatto con tutto ciò che, alla rinfusa, rientra nella categoria “frutta e verdura di stagione” con aggiunta di fette di formaggio e di diversi tipi di affettati locali; superata la leggera inquietudine di accostare al palato simultaneamente prosciutto, fette d’arancio, emmental, kiwi, pomodori e quant’altro, il piatto è buono (qualcuno potrebbe contestarmi il fatto che comunque per me qualunque piatto sarebbe buono), gli ingredienti sono freschi e gustosi, la birra è fredda al punto giusto, tutto è OK, anche gli altri tre piatti sembrano soddisfacenti.

Coincidenze 03

Appena ci apprestiamo a mangiare, entrano nel locale i ragazzi di Modena, non hanno trovato un ristorante italiano (o forse non ne hanno trovato uno di loro gradimento?), sono un po’ abbacchiati:

– Cosa mangiate?
– Io una chef salade, gli altri qualcosa di tipico …
– Siete pazzi!
– Non ci sembrano male …
– Siete pazzi, speriamo che facciano qualcosa di buono.

Si siedono rassegnati, quando noi siamo alla fine della cena li vediamo già alzarsi per uscire, ci passano accanto e ci salutano:

– Avevamo ragione noi, all’estero non sanno cucinare, le lasagne facevano veramente schifo!!

Per loro fortuna, dopo pochi giorni sarebbero tornati in Italia.

Per nostra fortuna, non li abbiamo più incontrati.

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