Lettere dalla clausura

di Fabrizio Rinaldi, 17 marzo 2020

Il coronavirus costringe tutti a starsene a casa, questa volta in senso letterale. Non si tratta quest’anno (e probabilmente non solo questo) di scegliere se e dove fare le vacanze. A casa significa proprio “in casa”. È uno stravolgimento sino a ieri inimmaginabile delle consuetudini sociali e degli equilibri economici, alle cui ripercussioni non osiamo nemmeno pensare. E anche volendo, non saremmo in grado di farlo.

Viviamo in un limbo decretato da governanti ai quali nessuno avrebbe dato credito di una qualche capacità decisionale, ma che sono stati costretti a prendere provvedimenti unici a memoria d’uomo, e a renderli operativi con la minaccia delle sanzioni penali. Pare che i più abbiano capito la gravità della situazione, anche se naturalmente è scattata in parallelo la corsa degli idioti a trasgredire le regole, vanificando (speriamo poco) lo sforzo e il sacrificio di quanti le rispettano. Ma quelli, nel conto delle perdite c’erano già da un pezzo.

Per quanto mi riguarda sono ligio alla clausura. Approfitto anzi dell’occasione per starmene un po’ in panciolle: mi capita raramente, perché sono uno dei milioni di pendolari che quotidianamente escono all’alba e tornano al tramonto (e oltre).

Fino alla chiusura del servizio, avvenuta pochi giorni fa, ho praticato il lavoro in remoto, connettendomi con i colleghi in sede per proseguire con le giornate di progettazione già programmate. Ho così potuto confrontarmi con alcuni aspetti pratici di questa modalità lavorativa, che da noi sembra essere stata scoperta all’improvviso, nel momento in cui non rimanevano alternative:

  • lo smart working prevede degli strumenti, come pc, cellulare e l’indispensabile connessione internet, che non sono così scontati come crediamo, o almeno non sempre rispondono efficacemente ad un utilizzo lavorativo. La connessione, in particolare per chi come me vive in una zona isolata, è inadeguata rispetto alle esigenze di velocità e di continuità della mia attività (è come se ancora accendessi il fuoco nella stufa con la pietra focaia);
  • il mio è un lavoro soprattutto di relazione, di costante dialogo e confronto per arrivare a decisioni condivise con l’equipe. Stando davanti ad uno schermo, inviando mail e video, si assolve solo alle necessità pratiche e burocratiche. La relazione interpersonale, l’empatia necessaria a capirsi correttamente, scompaiono;
  • gestire il proprio tempo è una degli aspetti più difficili di questo momento di forzata clausura. È quanto mai complicato scindere il tempo lavoro da quello privato. Per farlo ho dovuto barricarmi in una stanza lontano dai familiari (un privilegio che molti non possono permettersi);
  • lavorare in remoto prevede persino energie in più per vincere il senso di colpa connesso allo stare a casa. Ci si prodiga a cercare di realizzare ciò che in sede sarebbe magari lecito procrastinare.

Dopo più di una settimana, ieri sono sceso ad Ovada per fare la mia consueta donazione di sangue. Essendo mattiniero, in genere sono il primo ad arrivare al laboratorio. Alle 7, invece, c’erano già tre persone, alle quali se sono aggiunte poi molte altre.  Alcuni erano alla loro prima donazione, rispondevamo alle richieste d’aiuto apparse anche in tv per supplire alla carenza di sangue. E questa volta non c’era il tornaconto della giornata libera dal lavoro, perché siamo tutti a casa. Il considerevole numero di nuovi donatori mi fa ancora sperare nella natura solidale dell’uomo.

C’era però una sostanziale differenza rispetto al clima solitamente affabile e moderatamente allegro (non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di quasi-liguri): si avvertiva che attraverso le mascherine tutti respiravano la gravità della situazione. Che chissà poi come se le erano procurate, le mascherine, essendo confinati in casa ormai da oltre una settimana … C’era un silenzio inquietante e un timore reciproco che mai avevo provato prima.

Questo virus sta in effetti profondamente mutando le relazioni interpersonali. I flash mob sui terrazzi, i video postati su facebook, i canti da una casa all’altra, dovrebbero farci provare un’inedita sensazione (dico dovrebbero perché queste cose mi appassionano poco): una “fratellanza” sociale che ci faccia sentire più vicini gli uni agli altri. Scopriamo anche di averli quei vicini di pianerottolo, coi quali normalmente non scambiamo neppure un saluto, mentre ora vorremmo – ma non possiamo – abbracciarli come amici fraterni. Mi chiedo però, finita l’emergenza, quanto durerà questa consapevolezza dell’essenzialità dei rapporti sociali. Dimenticheremo tutto come è successo già in passato o avremo colto l’occasione per cambiare?

A proposito di occasioni, lo stare a casa mi offre l’opportunità di fare ciò che procrastinavo da tempo. Non ho più scusanti cui appellarmi. Quindi, con i familiari, risistemiamo una vecchia credenza, tinteggiamo le pareti, tagliamo l’erba, potiamo gli alberi e chissà cos’altro c’inventeremo per far trascorrere le giornate.

Oggi più che mai, mi rendo conto del privilegio di abitare in campagna, in mezzo ad un bosco. Qui non ci sono le comodità offerte dalla città (servizi, stimoli sociali e culturali, ecc …), mentre spesso ci sono i disagi del vivere un po’ isolati: ad esempio la difficoltà nel muoversi (prima quando nevicava, ed ora sempre più per le frane); la costante manutenzione che richiede una vecchia abitazione e la cura del terreno attorno; la connessione internet inadeguata.

D’altra parte, le mie figlie si stanno godendo queste inaspettate vacanze sul prato e nel bosco. Mi auguro che ricorderanno questo periodo come quello in cui hanno potuto divertirsi fuori casa per quasi tutto il giorno. Provo invece pena per quei genitori, ma soprattutto per i loro figli, che trascorrono il loro tempo blindati in casa, magari in un palazzone di città, davanti ad un televisore, un pc o un cellulare.

E penso a chi la casa non ce l’ha perché vive per strada: che sguardi di disapprovazione avranno addosso, quale solitudine … O a chi si trova lontano dai familiari per esigenze lavorative e non può raggiungerli per le restrizioni imposte. Penso anche a chi in casa non vorrebbe proprio starci. Idealizziamo il focolare domestico come luogo protetto ove rifugiarci per ricevere e donare affetto e comprensione, fingendo di non sapere che la gran parte delle violenze avvengono proprio lì e che, per molti, la casa è proprio il luogo dove ci si sente più soli. E penso a coloro che abitano con familiari diventati estranei per una consunzione del rapporto, verso i quali provano, forse, l’affetto dovuto alla necessità di vivere assieme, magari con figli, che è cosa però ormai totalmente diversa dal sentimento che li legava anni prima.

Per molte di queste persone la forzata convivenza rappresenterà uno spartiacque, superato il quale dovrebbe esserci la svolta. Se così non fosse, sarebbe l’ennesima buona occasione mancata. Il coraggio a volte emerge dalle difficoltà imposte dalle circostanze. Raramente capitano circostanze così radicali come quelle attuali per portare dei cambiamenti sostanziali alla nostra vita.

C’è da chiedersi se anche i nostri governanti coglieranno l’occasione per cambiare registro nelle consuetudini dei rapporti politici ed economici mondiali.

In genere dopo un forte shock (ad esempio la crisi del 1929, i conflitti mondiali, ecc …), l’umanità tende a reagire favorendo – almeno all’inizio – dei miglioramenti nelle relazioni fra le nazioni e fra i loro cittadini. Quanto alle buone intenzioni corrispondano poi dei risultati, è discutibile. Si potrebbe dire che gli uomini non imparano mai nulla dalla storia, ma al tempo stesso è innegabile che la seconda metà del secolo scorso è stata, sotto questo punto di vista, molto diversa, in positivo, dalla prima.

Ora le generali linee di indirizzo per i cambiamenti auspicabili non sono difficili da identificare: sono state dettate ancora nel 2015 in un documento dell’ONU chiamato “Agenda 2030”. Se a quel pezzo di carta si ispirasse una politica condivisa da tutte le nazioni, la gran parte dei nostri attuali problemi sarebbe risolta, o almeno tenuta sotto controllo.

In sintesi, elenca 17 macro obietti (goals) da raggiungere entro quella data per avere dei significativi miglioramenti della vita sulla Terra e per tutti i suoi abitanti. In economica prevede di introdurre delle azioni capaci di generare un reddito comune e un lavoro proporzionato al sostentamento dell’intera popolazione mondiale. In ambito sociale, garantisce dei comportamenti affinché ci siano delle condizioni di benessere per ogni persona (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione, giustizia) equamente distribuite senza alcuna discriminazione (genere, classe sociale, età, disabilità, ecc …). Nel contesto ambientale, si vuole mantenere la qualità e riproducibilità delle risorse naturali.

I cambiamenti richiesti sono sostanziali e radicali, senza possibilità di rimandi perché il rischio è che non ci sia più un’ulteriore chance. Ma è evidente che questi mutamenti non possano essere affidati a politici la cui lungimiranza non va oltre la vittoria nelle prossime elezioni.

Persino in questo momento il contrasto fra le politiche nazionali e internazionali e i principi dettati del terzo goal dell’Agenda 2030, che si prefigge di “assicurare la salute e il benessere per tutti”, risulta più che mai accentuato. Ciascuno corre ai ripari nel suo cantuccio, e quand’anche il fine sia lo stesso, quello di tutelare la salute pubblica, le diverse modalità nel perseguirlo non solo mettono allo scoperto l’inesistenza di una qualsivoglia politica trasversale, ma rendono meno efficaci anche i provvedimenti adottati dai singoli stati. Su questo versante c’è quindi ben poco da aspettarsi.

Credo piuttosto che possano essere le azioni dei singoli – divenute nel frattempo collettive – ad indurre le aziende in primis e poi i governanti a cambiare rotta, a introdurre norme e leggi che vadano nella direzione di una differente organizzazione della socialità e della produttività. Ma non è certo cosa di domani.

Quanto sta accadendo non era del tutto imprevedibile. Bill Gates, ad esempio,  nel 2015 disse: “se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone, nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso piuttosto che una guerra”. Segno che, ad esempio, gli imprenditori più lungimiranti hanno cominciato a riflettere da un pezzo sui possibili costi della globalizzazione, magari anche solo in funzione dei propri interessi (non mi sembra però il caso di Bill Gates) e che l’economia capitalistica ha una coscienza delle falle e dei limiti del proprio sistema molto più lucida di quella diffusa nel mondo politico.

Coloro che ci governano, in ogni parte del mondo, non hanno evidentemente mai preso in considerazione l’ipotesi di una pandemia come quella attuale. Si è improvvisamente scoperto che non esistono protocolli di contenimento, accordi internazionali per lo scambio di informazioni e per la collaborazione nella ricerca, piani per isolare in tempo utile i focolai o per affrontare emergenze sanitarie straordinarie.

Di fatto ci troviamo appena all’inizio di un fenomeno che muta e muterà gli aspetti lavorativi e sociali. Per non parlare delle vittime …

Per avere un vaccino efficace ci vorranno mesi, se non anni, quindi non vedremo la luce ad aprile, maggio o giù di lì, come ci sforziamo di sperare, ma  dovremo restare a casa per molti mesi ancora. Poi le restrizioni saranno poco alla volta allentate, ma col timore costante di un nuovo incremento degli infetti. E in quel caso si ritornerà rapidamente al coprifuoco. La clausura stretta non potrà però durare ancora per molto. Al di là degli aspetti economici, è da prevedere che ad un certo punto anche i membri delle famiglie più unite non si sopporteranno più, e aumenteranno quindi gli episodi di fuga e le trasgressioni dei limiti imposti. Vanificando tra l’altro gli sforzi di contenimento.

Quando potremo finalmente mettere il naso fuori dalla porta di casa, probabilmente avremo una voglia matta di spostarci il più lontano possibile, da essa e da coloro coi quali l’abbiamo troppo a lungo e troppo strettamente condivisa. Avremo bisogno di bravi dietologi per aiutarci a smaltire tutto ciò che stiamo ingurgitando, gli avvocati divorzisti saranno impegnatissimi a comporre bene o male le dispute nate tra le coppie, e forse i rapporti sessuali occasionali diverranno una comune modalità di incontro.

Consoliamoci pensando che durante un’altra quarantena, quella dovuta alla peste che imperversò nel 1666, Newton elaborò le teorie scientifiche che cambiarono il modo di concepire il mondo. Chissà che non ci sia anche oggi qualcuno, barricato in casa da qualche parte, che sta escogitando qualcosa. Per intanto potremmo cominciare noi, a immaginare come sarà e a considerare come vorremmo fosse la nostra vita futura. Magari anche a predisporci al cambiamento.

Per quanto mi riguarda, mentre zappo l’orto noto che la primavera sta arrivando. Ho la fortuna di vederla comparire giorno per giorno, ora dopo ora, sotto casa. Anche questa, pensandoci bene, è un’occasione da non perdere.

Collezione di licheni bottone

Lascia un commento