Senza vero desiderio di andare

di Marcello Furiani

Premessa. Scolpire con la lingua

di Paolo Repetto, 14 marzo 2020

Nella biblioteca virtuale che sto assemblando settimana dopo settimana (non c’era un disegno iniziale, mi accorgo solo ora che si va componendo da sola) propongo questa volta due brevi estratti di “Senza vero desiderio di andare” di Marcello Furiani (del quale sono già presenti sul sito sia le raccolte poetiche che i saggi), pubblicato nello scorso autunno. Nel “risvolto” on line è presentato come un romanzo, ma non si tratta di un romanzo: è qualcosa di più e qualcosa di diverso. Credo non ci sia un’etichetta adatta a classificarlo, e comunque non penso ci tenga ad essere etichettato e classificato. Per quel che mi riguarda, se fosse solo un romanzo nemmeno lo avrei letto. Negli ultimi trent’anni mi sono perso tutti i premi Strega e Viareggio e Goncourt e Cervantes e Man Booker, nonché i Campiello e Bancarella, sempre che ancora esistano, senza rammarichi o sensi di colpa. Semplicemente perché ho pochissimo tempo a disposizione e una pila altissima e traballante di altre cose in attesa. Per distrarmi o rilassarmi preferisco fare quattro salti nel passato attraverso le riletture, da Verne e Woodehouse a Camus e al Don Chisciotte. Bene, quella del “romanzo” di Marcello è stata in qualche modo una rilettura: volevo ritrovarci l’amico col quale ho condiviso uno spezzone della mia vita, e in effetti era lì, tutto intero, squadernato senza filtri o ritrosie o autocensure.

O meglio. Un filtro c’è, e mica tanto sottile. È quello del suo linguaggio. Fossi un critico letterario lo vivisezionerei e andrei a dire un sacco di inutili stupidaggini, perché la giustificazione delle sue scelte semantiche (di quelle lessicali, soprattutto, perché il registro compositivo è poi limpidamente classico) Marcello ce la offre già bella e pronta ed esauriente. “Io voglio una lingua precisa, esatta, variegata, screziata e cangiante. Anzi, voglio una lingua che inchiodi, che imbulloni, voglio parole che mettano alle strette, che mettano alle corde, capaci di imprimere, di radicare, di marchiare, di urticare. Voglio una lingua di parole rifondate, da maneggiare con cura, affilate e acuminate, arrotate e molate dall’etica e dalla fatica, parole da sudare, da espugnare, da guadagnare come un approdo, come un ormeggio, come la cima di una scalata.

Sì, io sono per la violenza della parola, visto che la parola dei poeti è esiliata, e quella dei visionari, degli allucinati, dei congedati, degli indifesi, degli intimiditi e intimoriti e sgomenti, tra manganelli e sfollagente, tra nuovo medioevo terminale e libero mercato imperante in odore di catastrofe”.

È proprio così. Confesso che questa lingua l’ho sempre sofferta, tanto nelle sue poesie come nei sui saggi. La trovavo esasperata, ed esasperante. Sono una persona tutt’altro che paziente e ho sempre seguito dettami semplificatori: se hai qualcosa da dire, dillo alla svelta. Senza girarci troppo attorno.

Ora forse ho capito. Sono partito alla lettura del libro di Marcello col proposito di reggere fino in fondo, perché la lealtà amicale me lo imponeva, se volevo poi poterne discutere: ma col mio solito spirito di corsa. Mi sono invece trovato poco alla volta a procedere disciplinando il passo su quello dell’autore, come camminassimo assieme in un viottolo di campagna, rallentando con lui, ascoltando le sue confessioni, fermandomi ogni tanto per lasciarlo sfogare, divertendomi anche, stavolta, nel vederlo affastellare roghi linguistici. Ho capito la differenza tra chi, come me, incalzato costantemente dalla fretta, si serve della lingua come materiale da costruzione, pur nella coscienza che non è solo quello, e chi, come Marcello, la usa come scalpello per fare emergere quello che sta dentro la materia. Io costruisco case (anzi, capanni): lui scolpisce statue. E lo fa scavando nei materiali più duri, nel granito, nella pietra.

I brani che propongo sono la dimostrazione che dalla pietra dura non si ricavano necessariamente solo statue equestri. Quando si ferma a sognare o a ricordare, depositando lo zaino carico di pur legittime indignazioni ed esecrazioni, Marcello riesce a scolpirci in altorilievo paesaggi interiori e scenari esterni che appaiono sorprendentemente animati.

Se scrivere non è solo la prosecuzione della chiacchera con altri mezzi, questo è scrivere.

da “Senza vero desiderio di andare”

di Marcello Furiani, 14 marzo 2020Senza vero desiderio di andare

19.

Le mie estati di ragazzo – trascorse nella campagna argillosa di un paese a una manciata dal mare – erano sconfinate e avvincevano sui sentieri polvere e sole, mentre i gatti si stendevano all’ombra di cespi di ginestre selvatiche o ai piedi dei ginepri.

Ero un ragazzo magro, scagliato a sfidare il sole di agosto intessendo disordinatamente i nervosi viottoli deserti costeggiati di piccoli botri, in quei giorni asciutti come visi scarni molati dal sole.

Passavano le ore, distese su giorni di sole, di niente, di vuoto, su un trascinato crocidare di rane dietro a siepi e sugli sciami inebriati delle api attorno ai fiori gridati. Una pace affilata ma senza dolore assediava gli albicocchi carichi come animali da soma.

Mai più negli anni le giornate da giugno a settembre mi sarebbero sembrate più lunghe. Né le sere così indolenti nel fiaccarsi, perché l’adolescenza imbastisce un tempo mitico: una folata di anni si dilata all’infinito e si vagheggia smisurata. Le estati della giovinezza durano una perennità, sono immortali come chi le attraversa: essere giovani è sentirsi immensi dentro una stanza, avvertire il sangue muoversi veloce, contare sul futuro senza sapere l’acino agro del cordoglio che contiene.

In quelle ore, sospinto da un desiderio cui non consegnavo un nome, andavo alla ricerca di qualcosa di indistinto che ancora non conoscevo, di un momento forse di lontananza, di un gesto che si aprisse oltre l’angoscia del finito, oltre il forse e il quasi di ogni giorno, il qui e l’ora di ogni istante, proteso da domande totali e fulminanti. E questo desiderio si traduceva nell’impeto di vederla tutta quella campagna, nell’attraversarla da cima a fondo, nel percorrerla come per averla dentro, nel valicarne confini e frontiere, estremità di pinete e piccoli bugni di colline.

Le strade erano una maglia strappata attraverso cui immaginare un’epifania, un ordito dischiuso davanti agli occhi da esplorare.

Credo che questa mia abitudine a camminare – a differenza della maggior parte delle consuetudini che svelano un’inerte pigrizia – discenda da quelle estati gonfie dei richiami di sirene nascoste dietro una radura o dall’altro versante di un’altura. Era un abbandonare la retta via, cedere alla malia, era disobbedienza di sangue indocile, occhio che non abbassa lo sguardo, superbia e vanità di clandestino, fuga da Cacania, esodo senza Itaca, cantilena di bastian contrario senza proprietà, senza bandiere, senza confini.

E forse qualcosa perdura ancora oggi di tutti i pomeriggi che ho passato a camminare per i boschi della mia adolescenza, sostando ai piedi di un rovere o scalando colline spingendo sui pedali di una bicicletta fino alla stanchezza che si allungava nelle ossa come un lago, di ogni sera consumata ad afferrare lo sguardo di ragazze che sapevano di erba recisa e di terra di sola andata. Tropici e lontananze, abissi e voglie, eldorado e atlantide che talora ritornano alla rinfusa con l’affanno di un esilio durato ottant’anni.

Perché la chiarezza dell’estate è spietata e non, come credeva John Donne, “coraggiosa”: c’è indiscrezione nella luce che abbaglia i contorni e confonde il profilo delle cose, come in uno sguardo insistito che s’impunta a fissare un gesto. L’orizzonte si sfuma in un’immobilità indifferente che muta il tempo in spazio, la durata in distanza, il prima e il dopo in uno sprofondato presente dove è facile abbandonarsi all’inerzia senza domande, perché “se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo è irredimibile” (Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, Burt Norton I.).

La luce è facile nella sua illusione di rischiarare ogni cosa, ogni recesso, ogni riparo e nel pensarsi come rimedio alla tenebra, difesa dall’opaco, soccorso alla mancanza. Ma l’ombra è segreto e mistero per cui nutrire riguardo, percorrendola con il solo bagliore del proprio sguardo e le uniche suole dei propri sandali, con il rischio di incespicare e di perdersi, saggiandone gli imprevisti e gravandosi delle ferite della sua intimità. Come quando, salendo l’erta di un monte, non si ha sapienza della vetta, ma si schiudono con fatica le pietre e gli arbusti dell’ascesa, e le schegge dell’arrampicata diventano la trama del sangue.

Ma, a ben vedere – dietro la frenesia di camminarla tutta questa campagna, oltre la smania di varcare ogni giorno immaginari confini, prima dell’impazienza di corteggiare un punto di non ritorno – credo che io fraintendessi la solitudine cui questo andare mi consegnava e che vagheggiavo con il puberale orgoglio del rifiuto di sedermi alla mensa di casa, laddove mi sembrava che le parole imbandite ammaestrassero alla rassegnazione, alla sottomissione, alla rinuncia. A quale sottomessa e rassegnata rinuncia intendessero istruirmi non era così trasparente, anzi, a dire il vero, ogni tentativo di dare forma alle origini dei miei rifiuti vacillava ancora prima di trovare una via, lasciandomi malfermo a metà strada tra il genio incompreso e il grullo sventato. Non che non avessi ragioni, ma il mio era solo istinto e non ragione, impulso e non riflessione. Peraltro l’essenza dell’adolescenza è quanto di più incerto e sconnesso si possa immaginare: pura aritmia di senso, vertigine che impasta scorie d’infanzia e lacerti di un avvenire sospirato e temuto, è tempo che rigetta la misura, fiera del pathos della sua solitudine, del suo furore dispersivo, delle sue sfide, della sua nobiltà d’intenti. Si esce e si rientra in se stessi un’infinità di volte, ci si affaccia al mondo come lumache dopo la pioggia per poi ritrarsi come lucertole tra le crepe di un muro amico.

Questa altalena di lumache e lucertole durò fino al giorno in cui cominciai a uscire di casa per salire lungo le gambe di ragazze di cui nemmeno ricordo il nome o l’odore: da allora non rientrai più nelle fenditure dei muri, più non sedetti al banchetto domestico dove la mortificazione della carne e del pensiero fluttuava nell’effluvio di cavoli e di bietole, più non mi rinvenne in gola quel farisaico reflusso da senso di colpa così simile a uno stagno d’acqua morta. Questo accadde perché il corpo delle donne, con le sue rotondità e le sue cavità, sembra fatto apposta per occultare confessioni, offuscare segreti, alveo di fiume dove annidare misteri. Nulla di più esatto per coltivare un’inesausta seduzione. Ambivalenza del femminile per un adolescente: da madre che trattiene ad amante che invita tra le lenzuola di un letto sconosciuto, da amorevole carceriera a inebriante musa del mare.

Ma non si pensi a un intreccio scorrevole e disinvolto, piuttosto fu un transito tutto laceramenti e sdruciture e crepe come in ogni educazione da autodidatta, dove si arraffa, si abbranca, si agguanta quello che la sorte ci mette a disposizione con la smania e l’inquietudine di chi avverte un’impazienza e non sa ancora come governarla ed è incapace di accomodamenti.

Eppure ancora oggi ricordo con una sorta di turbamento le mie fughe a piedi o in bicicletta lungo l’Appennino e la solitudine fiera che le fecondava di pensieri affioranti per la prima volta, mischiandosi con un respiro ora d’affanno, ora di quiete. Mi capita ancora talvolta quando cammino di inspirare un soffio di quello stato d’animo, di quell’aria dello spirito. Lo sguardo non è più quello di ieri, ma i pensieri si assiepano come allora nella mente, accordando il loro germogliare ai passi, il loro schiudersi alla cadenza dell’incedere. Solo nel vagabondare i miei pensieri trovano la strada per affacciarsi tra le siepi della coscienza, in questo girandolare senza un fine determinato, senza uno scopo risoluto.

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20.

[….] Altro motivo abituale delle lezioni di don Ippolito – a cui comunque andava riconosciuta una certa autorevolezza – era il concetto di libertà, strettamente correlato alla salvezza, anzi direi subordinato a quest’ultima: non esiste vera, autentica e sana libertà se non quella che ci fa scegliere di salvarci. La libertà che ci perde, che ci allontana dalla salvezza è solo arbitrio, abuso e profanazione di un dono ricevuto dall’alto, irriconoscenza, scelleratezza ed eresia. Ora, che si potesse chiamare libertà una libertà che di libero aveva solo il nome, che era libera sub condicione conferatur era un’obiezione che don Ippolito faceva fatica anche solo a comprendere: lo strizzare degli occhi e il rincaro della salivazione ribadivano che nella scala gerarchica dei suoi valori non c’era spazio per variazioni pur minime e il fatto che questa inflessibilità deprivasse ogni concetto della sua totalità non lo turbava affatto. Ma che libertà era una libertà che non poteva scegliere, che, in virtù di un bene decretato a priori, aveva la stessa libertà dei topolini di Pavlov?

L’unico uso plausibile della libertà – che cioè fa onore al concetto e lo declina senza inibizioni – è quello estremo, eccessivo, sfrenato e sregolato, in altre parole: puro e incorrotto, quindi spaventevole. La libertà, nel suo senso più ampio e compiuto, è deroga dalla regola, dal limite, finanche dall’etica, è fare i conti con tutto il possibile inclusa la follia: quando si parla di libertà, la si rivendica e la si reclama, bisognerebbe avere consapevolezza che si discute di un surrogato, di uno scampolo di quella condizione che non ammette confini e non conosce soglie davanti alle quali doversi fermare.

Per questo la vita della maggioranza delle persone si muove dentro argini e confini, è transennata da barriere, sconta divieti di sosta, di svolta e di inversione; per questo le loro giornate si modellano sulla ripetitività di gesti, parole e sentimenti che tengono a bada l’estro, la fantasia, la velleità, l’insubordinazione. Qualcuno dirà che la libertà e il suo esercizio sono – secondo etica e giustizia – vincolati alla libertà altrui e alla convivenza civile, ed è ovviamente vero, ma quello che mi preme dire appartiene a un altro punto di vista, è come una superficie iridescente che, illuminata, assume un ventaglio di tonalità differenti.

A ben guardare l’umanità che ha goduto di una libertà assoluta ne ha fatto generalmente un uso criminoso. È come se solo dietro a qualche tipo di sbarre, solo con una caviglia impedita da qualche catena, l’uomo possa avere della libertà un’idea nobile, un’immagine ideale, una visione elevata. Appena quell’asservimento si allenta come le maglie di un tessuto, ci si disperde – nel migliore dei casi – o si sbriglia quella feroce volontà di potenza, inestinguibile gioco di accumulo e prevaricazione, dove “i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata”. Nulla, nell’epilogo di questo gioco, è sufficiente a opporsi al potere della soverchieria e agli uomini “cupidi di guadagno”: né l’etica, né l’umanità, né la paura: chi ha la forza di commettere un sopruso, ordinariamente, prima o poi lo compie. Perché non c’è acqua che disseti quella sete, quella bramosia di potere: quando l’uomo si scopre illimitato, diventa efficiente solo nell’esibire muscolarmente la propria intelligenza e la propria forza.

Ma non si dà libertà senza rischio di deriva, senza azzardo di perdizione, senza incognita di dannazione.

Non si tratta di rimpiangere l’ottusità di vincoli e divieti, la cui paura persuade gli animi alla viltà, inibisce la dignità, ingessa i pensieri dentro la stessa costrizione dei corpi, svilendo la maggioranza dei gesti – insieme alla codardia e alla corruzione del quieto vivere – a una qualità così misera e infelice da guastare il piacere di averli compiuti. Si tratta di prendere atto dell’ambivalenza mai soluta dell’umano, di quella contraddizione tragica – poiché inabile a risolversi in alcuna conciliazione – che confonde il giudizio e annebbia lo sguardo di chi ambirebbe sottoscrivere il bianco o il nero dell’esperimento umano, che confonde il bene con il male, il sacro con il blasfemo, che mescola le carte delle buone intenzioni con quelle delle minute meschinità, che assimila la sorte del giusto e dell’empio, abbandonati col tempo allo stesso oblio.

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