di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 9, novembre 2002
Alle infinite angosce variamente distribuite tra i mortali il bibliomane ne unisce una tutta sua, che non è affatto accessoria, perché cresce sul lungo periodo e relega in secondo piano ogni altra. La bibliomania è una vera e propria sindrome maniacale, che riversa su un settore specifico la spinta all’accumulo tipica della società capitalistica (ma non solo). Si capitalizza un sapere, si mette da parte per i tempi venturi, quasi che quelle pareti grondanti pagine possano racchiuderti entro verità, ovattarti la vita, creare una camera stagna contro l’angoscia del nulla che preme dall’esterno.
Godo alla vista dei miei scaffali pieni zeppi, fitti di nomi più o meno familiari. Godo di sapermi circondato da una sorta di inventario della mia vita, con preannunci del futuro. Amo scoprire in volumi quasi dimenticati tracce delle mie passate letture: appunti a margine, biglietti dell’autobus, foglietti con nomi e numeri misteriosi, una data e un luogo scarabocchiati sul frontespizio che mi riportano a un certo caffé, a un certo albergo, a un’estate di tanto tempo fa. ALBERTO MANGUEL
Ti fasci di libri per isolarti e per avere concrete certezze. Hai l’impressione di vincere il tempo e lo spazio: ciò che di bello e di importante è stato pensato, detto e scritto in ogni tempo e in ogni luogo lo hai lì, a tua disposizione, ti dà sicurezza, ti conforta, non fosse altro perché puoi appurare che quello che pensi e che credi è stato anticipato ed è condiviso da altri, e altri lo condivideranno proprio attraverso quei libri. Insomma, non sei solo.
E tuttavia, tuttavia qualcosa che ti angoscia in quegli stessi libri c’è. C’è il fatto che non potrai portarteli dietro per sempre, e che sono una parte di te che vorresti continuasse a vivere, anzi, sono la parte più importante di te. La tua biblioteca ha raccolto tutti i tuoi pensieri e desideri e speranze e felicità, è diventata un organo vitale: ed è l’unico organo che vorresti davvero fosse espiantato e trapiantato in qualcuno, e continuasse a vivere. Ma è un organo particolare, che non può andare a chiunque. Vorresti poter scegliere il beneficiario, assicurare a quell’organo la possibilità di funzionare a dovere.
Gli eredi, si sa, non amano le biblioteche. Non ne apprezzano il valore affettivo e culturale. Si preoccupano degli spazi, sono infastiditi dalla polvere, inorridiscono per i minuscoli abitatori dei libri. OLIVIERO DILIBERTO
Non è facile. Perché da un lato i destinatari potrebbero sembrare tanti, ma dall’altro nessuno corrisponde perfettamente alle aspettative. E poi, i libri si sono affezionati a quella parete, su quegli scaffali hanno vissuto gli uni accanto agli altri. Non possono essere separati e non possono essere portati via di lì. Non vi è nulla che induca malinconia come una biblioteca smembrata. L’idea di una vita trascorsa a mettere assieme quel senso, e quel senso che se ne va a pezzi. Il senso era nei titoli, e nell’accostamento dei titoli, e nella collocazione in certi punti particolari dello scaffale, in un criterio di maggiore o minore evidenza.
Sparpagliare quei titoli, dividerli, significa gettare al vento le polveri. Tanto vale, allora, iniziare a bruciare libro per libro, come fa Pepe Carvalho, e aspirarne il fumo e il calore. Forse quella pratica, che sulle prime mi aveva scandalizzato, non è poi così bizzarra. È già novembre. Devo rimettere in funzione il caminetto.
Prendeva un libro, ne sfogliava le pagine, ne tastava la carta, ne esaminava le dorature, la copertina, le lettere, l’inchiostro, le pieghe e la disposizione dei disegni attorno alla parola finis; poi lo cambiava di posto, lo metteva su un ripiano più alto e restava per ore intere a gustarne il titolo e la forma. GUSTAVE FLAUBERT