La poesia di Antonella Anedda

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

Uno sguardo invernale è, organicamente, temperamento e memoria nella poesia di Antonella Anedda, una poesia asciugata da una parola essenziale e nitida, da una scrittura portatrice della propria ombra e di una grazia non leziosa. Pur nella sofferenza dello sguardo che si posa su ciò che è in procinto di congedarsi, di estenuarsi, di resistere, di essere escluso, c’è un pudore che rifiuta compiacimenti, disarmate amarezze e sentimentalismi, quasi si trattasse di un dolore anonimo. D’altra parte in questa poesia la condizione storica del poeta (“In nessun luogo c’è bisogno di noi/…/Nessun tempo ha bisogno di noi”) è quella dell’errante, dell’esiliato, del marginale (“Di lato c’era come un recinto/e lì duravano le cose”).

La forza della poesia di Anedda è sommessa, è nel cogliere gli oggetti oltre il confine, dopo la soglia; il suo realismo conferisce valore alle “cose” non nella quotidianità, ma nella loro quotidiana eternità: a testimonianza che la storia e il tempo sono i temi fondamentali della sua poesia.

Pur nella novità di questa scrittura – soprattutto nei confronti della poesia contemporanea – non è difficile cogliere tratti comuni con la tradizione poetica: da Rimbaud alla Achmatova, da D’Annunzio a Gatto e, più d’ogni altro, alla Cvetaeva, per il riconoscimento del presente e dell’esperienza del mondo come dato drammatico, per il comune procedere deciso ma sospeso, in attesa, forse, della caduta.

 

Antonella Anedda, collaboratrice de “il Manifesto”, “Micromega” e “Poesia”, ha pubblicato la raccolta poetica “Residenze invernali” (Crocetti) e la raccolta di saggi e racconti “Cosa sono gli anni” (Fazi).

1991

In nessun luogo c’è bisogno di noi
tra un mese l’anno
avrà una cifra baltica, bianca
millenovecentonovantuno
dove il mille indietreggia
fino a secoli-steppe
e l’uno, cavo,
tintinna

Nessuno ci ha chiamato
erano voci d’orto, fischi
per scacciare gli uccelli
la poca pioggia che cola
dai tubi della casa
deserta
come carta.
Ci sono solo i fiati
e il bacile appannato
e le noci che dicono
autunno moltiplicato sopra tavoli
pietre su posti vuoti.

In nessun tempo c’è bisogno di noi
Le notti verticali
e il viale dei tigli, la lepre
trasparente nel cespuglio
la schiena-ombra di chi allora sostava
ora soffiano stanchi
sulla tempia del secolo.

C’è un cibo serale, lampi
sulle foto scoscese
e noi beviamo tra le forchette brune
per la lenta paura che s’incide
sul gomito che alza una ghirlanda.
Nessun tempo ha bisogno di noi
nessuno dice
il numero dei colpi
l’esatta cifra dell’erba
né come l’aria
sferzandoci
ci farà dura pelle
scoiattoli

Lo slittare di foglie
la lontananza delle costellazioni
Non ho parole cupe
non cupe abbastanza
Il pino s’infossa nella notte
a fatica decifro la memoria.
Di lato c’era come un recinto
e lì duravano le cose.

 

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