Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

Esuli, infiltrati e vita di bohème

Stefano Oberti e i fuorusciti parigini

di Paolo Repetto, 23 maggio 2025

La memoria crea talvolta connessioni inattese e singolari. Anzi, per la precisione non le crea, ma le scopre, perché erano già lì ad aspettarci nella realtà, in quella storica o in quella naturale. Accende solo la luce. Accade che ci occupiamo di una vicenda, di un ambiente, di un personaggio, e poco a poco esce dall’ombra tutto ciò che sta attorno, si allarga il nostro campo visivo, si schiudono nuove curiosità.

A me è capitato proprio recentemente, mentre scrivevo il pezzo su Andrea Caffi. Fantasticavo come al solito su come sarebbe stato conoscerlo, quando all’improvviso ho realizzato che se Caffi non avrei potuto incontrarlo comunque, non fosse altro per ragioni anagrafiche, ho conosciuto però qualcuno che probabilmente l’aveva incrociato, dal momento che entrambi avevano vissuto come fuorusciti a Parigi negli anni Trenta e avevano frequentato più o meno gli stessi circoli antifascisti. Non ho testimonianze certe di una loro frequentazione diretta, ma le probabilità che ci sia stata mi paiono altissime.

Ora, il motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe non è il compiacimento per la possibilità di essere collegato a Caffi da una catena molto corta di relazioni: è invece la curiosità destata dagli sviluppi e dagli esiti diversi di due storie che almeno nella condizione iniziale presentano molte somiglianze. A dimostrazione del fatto che l’ambiente agisce sino a un certo punto, ma è poi l’indole a fare la differenza.

È andata così. Nell’autunno-inverno tra il ‘68 e il ‘69 mi fermai a Genova, dove, oltre a seguire (molto saltuariamente) i corsi universitari e vivere gli ultimi fuochi della contestazione studentesca, avevo trovato un’occupazione part time presso un mobiliere (non in ufficio, camallavo frigoriferi e lavatrici). Alloggiavo in una camera in subaffitto in Castelletto, uno dei quartieri più eleganti della città, scovata da un compagno che aveva un’altra camera nello stesso alloggio. Il costo era irrisorio. Scoprimmo più tardi che potevamo permettercela perché il tizio che ci ospitava non pagava a sua volta l’affitto alla proprietaria.

Il tizio era un signore anziano, alto e corpulento, segnato in viso da diverse cicatrici, simpatico ma decisamente fuori dagli schemi. Si chiamava Stefano Oberti (“dottor” Oberti puntualizzava lui), e vantava un passato interessante. Era infatti stato esule in Francia per più di un decennio, dalla fine degli anni Venti, per sfuggire alla persecuzione dei fascisti. Tra le amicizie che raccontava di avere lì contratto spiccavano quelle col nipote di Nitti e con Rosselli (il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, lo aveva già conosciuto prima), ma in pratica non era possibile citare qualcuno di quel giro col quale non vantasse confidenza. Sospettavamo che buona parte del suo racconto fossero millanterie, ma al tempo stesso eravamo divertiti dalle stravaganze e dall’assurdità del personaggio. Girava per casa quasi sempre inguainato in un capo unico maglia-mutandoni di lana, di quelli che Terence Hill indossa in Trinità, abbottonato davanti e con lo sportelletto sul fondoschiena, che gli dava una silhouette da orso Yogi. Ad un certo punto ho persino cominciato a invidiargli quella tenuta, perché il riscaldamento era sempre spento.

Oberti seguiva e ci segnalava tutti gli eventi culturali e politici della città, compresi quelli cui non era invitato, ma nei quali riusciva ad infiltrarsi invariabilmente tra gli organizzatori o tra gli ospiti d’onore. Una sera ci chiese di accompagnarlo ad una conferenza alla Terrazza Martini, il luogo più elegante di Genova, in cima ad un grattacielo dal quale si vedeva tutta il golfo. Lo stipammo sulla 500 del mio socio, con l’auto che dalla parte in cui era seduto lui raschiava quasi l’asfalto, e dovemmo anche arrischiare l’ascensore per salire i Trenta piani che portavano alla terrazza. Arrivammo naturalmente a conferenza già iniziata, ma non fu un problema, perché guidati dall’addome perentorio di Oberti ci dirigemmo immediatamente al buffet, imbandito su un lato del salone. Ci fu un mormorio di disapprovazione, che distrasse e irritò anche il conferenziere, ma a quanto pare l’argomento proposto non era granché, perché di lì a breve gli astanti cominciarono ad alzarsi, uno o due alla volta, e a raggiungerci ai tavoli. Avevano visto come noi, e soprattutto Oberti, stavamo spazzolando salatini e beveraggi. Credo sia stata la conferenza più breve di tutta la stagione.

Qualche serata la trascorremmo anche a discorrere di politica col nostro locatore, ma non riuscivamo a cavarne molto, perché lui era impallato con la massoneria e con una statua che avrebbe dovuto essere eretta a Mazzini nel cimitero di Staglieno (dove già peraltro le spoglie del patriota erano raccolte in un mausoleo scavato nella roccia). Ci dettagliava anche sulle annose schermaglie di potere che caratterizzano da sempre gli ambienti massonici, e tanto più quelli di provincia, sui voltafaccia e i tradimenti e su quanto fossero infidi i suoi rivali. Ma l’impegno maggiore era rivolto in quel periodo a raccogliere fondi per il monumento, e a lamentarsi della tirchieria dei genovesi, che a quanto pare non si rivelavano particolarmente entusiasti dell’iniziativa. (All’epoca noi non avevamo dubbi che non se ne sarebbe fatto nulla, ma come vedremo ho dovuto poi ricredermi).

Della sua vita di fuoruscito, oltre ad elencare le conoscenze, non raccontò praticamente nulla: sembrava gli fosse rimasta solo una fortissima ammirazione per le donne francesi (confermata nell’autobiografico Esilio a Parigi, dove almeno tre capitoli sono dedicati alle sue presunte conquiste e alla frequentazione di un postribolo d’alto bordo) e aveva maturato una vera passione per Marie Laforet. Una sera dovemmo scarrozzarlo fino al cinema di una delegazione periferica dove proiettavano Delitto in pieno sole: per tutta la durata del film la Laforet recita in bikini, e in qualche scena anche senza. Ne uscì entusiasta.

Una cosa comunque devo riconoscergliela. Quando gli proposi di assistere assieme a me al Cinema Centrale, la sala più “di sinistra” della Genova dell’epoca, alla proiezione di Ottobre di Eisenstein, mi rispose, anticipando di molto Fantozzi, che non solo era una boiata pazzesca, ma travisava anche rozzamente la verità storica. Non ci misi molto ad arrivare alle stesse conclusioni, ma gli avessi dato ascolto mi sarei risparmiato almeno il penoso dibattito che seguì la proiezione.

Alla fine di marzo purtroppo dovetti lasciare la camera, la campagna aveva bisogno di me. Tornai a Genova solo per dare una manciata di esami a giugno, e non rividi mai più Oberti. Il mio coinquilino mi raccontò poi di altre scorribande in cui era stato coinvolto, ma anche lui l’autunno successivo dovette cambiare sistemazione.

L’impressione che entrambi avevamo maturato era quella di un personaggio simpaticissimo, ma decisamente mitomane e inaffidabile. Infatti mi sorprese, ma non mi meravigliò più di tanto, trovare alla fine degli anni Ottanta il suo nome in capo ad una lista elettorale della Lega Nord. Mi confermò l’immagine di un uomo pronto a cavalcare qualsiasi cavallo, pur di stare in sella, e l’idea che il fuoriuscitismo non raccogliesse soltanto idealisti come Gobetti, Caffi, Chiaromonte, Rosselli e Berneri, ma anche diversi opportunisti e qualche sballato, per tacere del gran numero di infiltrati dalla polizia politica del regime.

Per questo, nel raccontare Caffi mi è tornato immediatamente in mente Oberti. E per questo ho voluto indagare un po’ più a fondo il personaggio, ricavandone una storia sorprendente.

Ciò che ho sin qui raccontato attiene alla mia personalissima memoria. È tutto ciò che posso dire dell’uomo Oberti come io l’ho conosciuto quasi sessant’anni fa, o almeno tutto ciò che mi era parso significativo.

Quanto segue appartiene invece alla Storia, non solo alla sua, ma a quella di un particolare fenomeno in un particolare momento. L’ho desunto confrontando diverse fonti, tutte quelle cui mi è stato possibile attingere, e penso che quanto ne viene fuori si avvicini accettabilmente alla verità dei fatti.

Infine, l’ultima parte di questo scritto ospita delle riflessioni di carattere generale, che niente hanno a che vedere con una valutazione o un giudizio storico. Dalle letture e dalle ricerche che ho fatto sono nate delle impressioni, che non riguardano solo il personaggio Oberti, e che propongo in funzione interlocutoria, sperando che il discorso non si chiuda qui.

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Stefano Oberti nasce a Genova nel 1903. Il padre, Zaccaria, è un massone, repubblicano convinto e anticlericale, imprenditore di un certo successo ma sin da giovanissimo portato a cacciarsi nei guai per le sue idee politiche libertarie (anche lui sarà costretto, dopo l’avvento del fascismo, ad emigrare in Francia, dove rimarrà poi sino alla morte).

Stefano si distingue invece in gioventù soprattutto per le passioni sportive, il canottaggio e il calcio: quest’ultimo lo fa entrare in contatto con Sandro Pertini, presidente della compagine universitaria genovese. Non tarda però a seguire le orme del padre e ad essere iscritto nella lista nera dalle autorità del nuovo regime. Come studente di legge fonda infatti l’Unione goliardica italiana per la libertà, che osteggia la riforma Gentile, e ad un convegno internazionale delle federazioni universitarie tenutosi a Varsavia, nel 1924, attacca decisamente gli altri esponenti della delegazione italiana, già allineati col fascismo. La sua attività politica si intensifica dopo il delitto Matteotti, sino a che, una notte del gennaio 1925, viene aggredito da un gruppo di squadristi che lo bastonano fino a sfigurargli il volto. Nell’immediato non vuole demordere, ma quando alla fine dell’estate successiva gli è ritirato il passaporto capisce che è venuto il momento di cambiare aria ed emigra clandestinamente in Francia.

«A Parigi arrivai a fine settembre 1925. Ben consigliato sul da farsi, presi alloggio in un albergo del Quartiere Latino […]. Presentai domanda alle Autorità francesi per ottenere asilo politico e m’iscrissi all’ “Alliance Française” per perfezionare il mio francese. La Sûreté Nationale fece le sue indagini e tutto risultò a mio favore. […] Poi andai ad abitare […] sulla riva destra della Senna, oltre Passy, presso una signora francese che ospitava un altro studente straniero. Questa signora aveva due figlie […]. Esse mi furono di grande utilità, insegnandomi come dovevo comportarmi con le famiglie parigine, molto restie a legarsi con gli stranieri. […] A noi italiani, tutto sommato, il trapianto in Francia è stato facilitato dalla presenza di una forte comunità di connazionali e dalla benevolenza del Governo francese. Io avevo amici fedeli […]. Un anno dopo fui raggiunto in esilio da mio padre. […] Facevamo colazione assieme e con noi c’erano italiani come il figlio del presidente Nitti, […], francesi e spie italiane di cui ingoiavo la presenza assieme alla pastasciutta e ai sughi all’italiana che cucinavano per noi

Fa a tempo ad incontrare Gobetti poco prima della morte di quest’ultimo e stringe amicizia con l’avvocato siciliano Teocrito Di Giorgio, personaggio che ricomparirà nella sua vita a più riprese: con la gran parte degli altri esuli, invece, e con le diverse formazioni in cui sono raggruppati, entra quasi subito in conflitto. In un libello sollecitamente pubblicato (Episodi della lotta antifascista) ci va giù particolarmente duro: “Qualche mezza dozzina di persone che pretendono di costituire e monopolizzare il fuoruscitismo ufficiale a Parigi sono un’accozzaglia acefala di esseri privi di senso storico, di coraggio personale molto discutibile, di scarsa volontà e iniziativa e quasi totalmente sprovvisti di quello spirito di indipendenza e di sacrificio richiesto dalla grandiosità della lotta”. Al tempo stesso li accusa di offrire dell’Italia all’estero “l’immagine di un Paese immerso nel terrore da un manipolo di bravi […] ciò che significava divenire ancora una volta lo zimbello dell’Europa”.

I suoi atteggiamenti a volte assurdamente intransigenti, spesso sconcertanti, e comunque sempre confusi e dettati da smania di protagonismo, creano non poco imbarazzo nell’ambiente dei fuorusciti; in qualche occasione però tornano utili e sono sfruttati strumentalmente dalle diverse fazioni dell’antifascismo parigino in funzione delle rivalità che più o meno scopertamente allignano (ad esempio, quella tra i togliattiani e tutte le altre). Di fatto comunque Oberti finisce sempre più isolato, se si escludono tre o quattro “seguaci” che gli si associano per calcolo o per spirito gregario, e di conseguenza diventa sempre più insofferente della sua vita di esule e rancoroso nei confronti dei compagni.

Anche sopravvivere materialmente, in questo isolamento, non è facile, a dispetto delle conoscenze di cui può avvalersi tramite il padre. Per un certo periodo sbarca il lunario grazie al denaro che quest’ultimo gli invia dall’Italia. Quando poi questo viene meno comincia a passare per una serie di occupazioni le più diverse, comunque sempre molto precarie: operaio alla Renault, agente di commercio, corrispondente estero, persino comparsa alla Comédie Française . Non è particolarmente portato per il lavoro, mentre è invece attivissimo nella polemica e nelle iniziative di organizzazione: dà vita a gruppi scissionisti all’interno della Concentrazione antifascista, cerca contatti a destra e a sinistra, pubblica opuscoli come Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne. Fino ai primi anni Trenta continua comunque a ruotare nell’ambito dell’organizzazione, e per qualche tempo è in rapporto anche col gruppo di Giustizia e Libertà.

La situazione internazionale sta però evolvendo. Il governo francese comincia a cercare approcci con il fascismo, che nel frattempo ha ammorbidito i toni e le rivendicazioni. Cresce, di qua e di là delle Alpi, il timore per una possibile salita al potere di Hitler, e vengono opportunamente rispolverate le affinità culturali e i possibili interessi comuni. Anche all’interno del mondo dei fuoriusciti le idee non sono chiare: la maggioranza chiaramente è contraria, ma c’è anche chi vede di buon occhio un riavvicinamento pacifico tra i due paesi.

Di questa posizione si fa immediatamente alfiere Oberti, che su iniziativa personale, senza consultare nessuno, si reca ad esporre direttamente al console italiano di Parigi la concordanza d’intenti del suo sparuto gruppo di seguaci con i due governi in riconciliazione, esprimendosi a nome di tutto l’antifascismo. La notizia si diffonde con la pubblicazione di un’intervista rilasciata al quotidiano La République, e la cosa scatena le ire dei dirigenti in esilio, che si affrettano a sconfessare Oberti e lo espellono dal raggruppamento. Ciò non gli impedirà comunque, nel giugno 1933, in occasione dei funerali di Claudio Treves, di sfilare nella processione silenziosa che segue il feretro, al fianco di Emilio Lussu, di Carlo Rosselli, di Raffaele Rossetti e di Camillo Berneri, e accanto a personalità di spicco della sinistra francese.

Nel frattempo però Oberti ha già intrapreso una nuova strada. È stato chiamato da Alberto Giannini, altro bizzarro e sfuggente personaggio e fuoruscito “pentito”, a collaborare alla rivista satirica Il Merlo. Giannini aveva dovuto rifugiarsi in Francia per aver pesantemente satireggiato col suo giornale Il becco giallo il regime fascista, e ha continuato per un certo periodo a farlo riprendendo la pubblicazione oltralpe e introducendola clandestinamente in Italia: ma ad un certo punto i finanziamenti elargiti dai fuorusciti hanno cominciato ad assottigliarsi ed è venuto meno anche il rapporto di fiducia che lo legava a Carlo Rosselli. Fonda allora una nuova testata, finanziata stavolta dal regime stesso, e finisce sul libro paga dell’OVRA, il servizio segreto mussoliniano. Come racconta Gaetano Salvemini parlando del gruppo dei fuoriusciti a Parigi: “Alberto Giannini era il più faceto della compagnia, finché non passò, nel 1934, dalla sera alla mattina, armi e bagagli, nel campo dei fascisti, il più svergognato caso di voltafaccia che io abbia mai visto”.

Non risulta che anche Oberti sia diventato a pieno titolo un informatore, ma senz’altro non gli par vero scrivere articoli denigratori contro esponenti del gruppo che lo ha cacciato, e più in particolare contro quelli del partito socialista in esilio.

Intanto sta già muovendosi per regolarizzare la propria situazione di emigrato presso il Consolato italiano. Tenuto ormai forzatamente fuori dalla politica, da Parigi si trasferisce a Nancy, e si butta assieme al padre in un tentativo di rientrare nell’imprenditoria, che si rivela fallimentare.

A questo punto non gli rimane che rientrare in Italia, approfittando di una serie di condoni e della prescrizione dei reati per i quali era stato condannato in contumacia (la renitenza alla leva e l’espatrio clandestino). Decide per questa soluzione alla fine del 1938, e se la cava a buon mercato, con soli due mesi di effettiva reclusione. Nel maggio del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, è nuovamente un uomo libero.

Nei primi anni del conflitto Oberti risiede a Milano, dove, a quanto lui stesso afferma, svolge un’attività di intermediazione industriale (della quale peraltro non si ha alcun riscontro). L’occasione di tornare alla ribalta gliela offrono paradossalmente la caduta di Mussolini e la successiva nascita della repubblica sociale italiana nel settembre del 1943. Agli inizi dell’anno successivo rivolge al ministro della Cultura Popolare del regime collaborazionista una serie di richieste dal tono perentorio, com’è nel suo stile, proponendosi come custode dell’autentica tradizione mazziniana contro l’opera di oscuramento e di travisamento compiuta dalla monarchia sabauda. È assecondato in questo tentativo delirante da vecchi compari anch’essi ex transfughi, come l’avvocato Di Giorgio, e addirittura da ex acerrimi nemici, come Gian Gaetano Cabella, fascista della prima ora, direttore de Il popolo di Alessandria (una delle più feroci gazzette dei fasci repubblichini), specializzato in falsi (nel 1948 sarà arrestato per aver pubblicato un falso testamento di Mussolini: ma pubblicherà anche un romanzo, Dieci anni a Parigi, ispirato probabilmente proprio alle vicende di Oberti).

Per quanto confuse e velleitarie le sue richieste (il trasferimento di tutto l’archivio mazziniano da Genova in Alessandria, per sottrarlo al pericolo di bombardamenti, e l’apertura di un Istituto di Studi Mazziniani in quest’ultima città, con lui e i suoi sodali naturalmente a dirigerlo) sono in linea con il tentativo del nuovo regime di prendere le distanze dalla monarchia e di dare una legittimità e una continuità storica alla repubblica pescando nel Risorgimento, e trovano udienza. Insomma, si ripete la storia, anche se cambiano gli interlocutori, che ora sono le autorità repubblichine: Oberti è percepito chiaramente anche da queste ultime come uno spostato (nelle informative dell’OVRA sul suo periodo parigino era definito il “ragazzo semipazzo”), tanto più che ormai va a briglia sciolta e affastella un mare di proposte farneticanti per pubblicazioni (una storia d’Italia illustrata per ragazzi), per cerimonie ufficiali celebrative e rievocative (l’inaugurazione di una lapide alla cittadella di Alessandria, dove era stato imprigionato Andrea Vochieri, con tanto di divi del cinema fascista che officiano in costume), per lavori teatrali, sempre su tematiche patriottiche (una storia d’Italia raccontata per quadri scenici). Eppure alle sue stravaganti iniziative si interessano, e le appoggiano e le finanziano, persino un paio di ministri di Salò, oltre alle autorità locali (anch’esse evidentemente in gran confusione). Questo mentre nei dintorni di Genova e di Alessandria il grande rastrellamento nazifascista di primavera porta alla strage della Benedicta e all’arresto e alla deportazione di centinaia di giovani.

Tanto fervore si spegne però nell’estate del ‘44, dopo che un bombardamento su Alessandria ha coinvolto anche la sede del neonato istituto mazziniano. Oberti si eclissa. Di cosa combini da quel momento non ho trovato notizia negli archivi, ma è certo che non collabora con le bande partigiane genovesi, come invece lui stesso sostiene. Riesce poi evidentemente ad attraversare indenne il periodo post-liberazione, così che nel giro di qualche anno torna sulla scena.

Sul dopoguerra e su come la sfanga nei quaranta e passa anni successivi, a parte la breve parentesi di “convivenza” di cui ho raccontato, so soltanto quel che ho potuto trovare spulciando qualche periodico e qualche quotidiano. Frammenti che sono comunque indicativi e mi confermano quel che già all’epoca avevo intuito del personaggio.

Naturalmente Oberti è sempre in rotta con qualcuno. Dal periodico Il pensiero mazziniano (Anno VI, N. 6, 10 Giugno 1951) veniamo a sapere che “A proposito del comunicato inserito nel numero scorso in cronaca da Genova, ove è citato il dott. Stefano Oberti, questi ci scrive per contestare che l’espulsione sua dalla Sezione di Genova dell’A.M.I. (Associazione Mazziniana Italiana) sia stata allargata all’indegnità morale, oltre a quella politica)”. Sarei curioso di sapere a cosa alludeva l’indegnità morale, ma avendo potuto apprezzare da vicino la sua disinvoltura economica l’allargamento dell’accusa non mi stupisce affatto.

Quindici anni dopo la stessa fonte ci fa capire però che il nostro è stato riaccolto, tanto che «Il 7 settembre, a Parigi, l’amico Stefano Oberti di Genova ha deposto sulla tomba di Piero Gobetti un fascio di garofani rossi di Liguria: sui nastri tricolori era la scritta: “A Piero Gobetti e ai duemila combattenti antifascisti morti in esilio”. Si sono voluti ricordare, nel ventennale della Repubblica, quanti all’estero, a fianco dei repubblicani spagnoli e dei resistenti francesi, si sacrificarono per la libertà» (Il pensiero mazziniano, Anno XXI, N. 8-9, 25 settembre 1966. L’iniziativa è commentata anche su La Stampa dell’8 settembre 1966, pag. 7: Commemorati gli esuli italiani morti in Francia durante il fascismo.)

Sempre La Stampa, nella sua edizione serale (Stampa Sera, 20 luglio 1970, pag. 2: Roma deve darci le spoglie di Mameli), qualche anno dopo ci informa che Oberti ha chiesto il trasferimento della salma di Mameli da Roma al Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’umanità costruito a Staglieno. E lo ha fatto in qualità di presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli.

Nella stessa veste l’ho trovato menzionato in GRECIA (mensile di informazione della resistenza greca, Anno II, N. 10-11, ottobre 1970, Nel Pantheon degli esuli) in occasione dell’autoimmolazione dello studente Costas Georgakis. «Il nome di Costantino Georgakis è stato inciso nel Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità al Cimitero di Staglieno. La decisione stata comunicata dal presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli, dott. Stefano Oberti, alla fidanzata di Kostas, con una lettera inviata alla Casa dello Studente. Nella lettera tra l’altro, si legge: “Oggi, dopo avér attraversato quasi mezzo secolo di cedimenti e conosciuto tanti traditori, testimonio che Costas Georgakis fu un eroe, perché volle sacrificare soltanto se stesso, sottraendo ogni altra persona a lui cara agli aguzzini di oggi, di domani e di sempre. Lenito il Suo dolore, Ella ritroverà la pace dei giusti; quella che Costas Georgakis ha certamente ritrovata, morendo in esilio senza compromessi con coloro che umiliano oggi la patria di Eschilo, di Socrate e di Platone, ponendola al servizio dell’imperialismo straniero. Se può esserLe di un piccolo conforto, sappia prima di ogni altro, che, per decisione del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio combattendo per la libertà dei popoli, il nome di Costas Georgakis sarà inciso nel Panthéon di tutti gli ‘esuli invitti dell’Umanità, nel cimitero monumentale di Staglieno in Genova, accanto a quello del drammaturgo greco Eschilo, del poeta inglese George Byron e del patriota interalleato italiano Santorre Annibale di Santarosa, morti per la libertà della Grecia”».

È sempre lui. L’enfasi retorica, gli accostamenti peregrini e l’autocelebrazione recriminatoria sono tipicamente suoi. E a quanto pare è anche riuscito a realizzare, nel 1970, il Panthéon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità. Segno che qualcuno ha continuato a dargli fiducia. Tanto da riproporlo, dopo quasi altri vent’anni, come capolista in una competizione elettorale.

Contavo di trovare qualche ulteriore notizia nello scritto autobiografico Esilio a Parigi, redatto quando Oberti aveva ormai superato l’ottantina, ma tutto ciò che ne ho ricavato è l’accenno del prefatore a un eccezionale impegno del nostro per la causa del divorzio. Per il resto è una somma piuttosto confusa di ricordi, tra i quali primeggiano quelli dei sughi e delle pastasciutte, o di avventure galanti piuttosto improbabili. Unica notazione interessante: ha lavorato alle officine Renault quasi contemporaneamente a Simone Weil, ma ne ha tratto un’impressione ben più positiva. In compenso, ci ha resistito ancor meno. C’era da aspettarselo.

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Non mi sono soffermato così a lungo su questa vicenda per il suo intreccio con la mia aneddotica personale, o per quella malintesa voglia di un protagonismo tutto di riflesso che sembra essere diventata l’unica modalità di autorealizzazione (l’io c’ero, o l’io l’ho conosciuto, i selfie al funerale del papa o sui luoghi di un incidente o di un delitto, ecc.). L’ho raccontata, come dicevo sopra, perché mi sembra aprire ad alcune considerazioni di carattere più generale.

Il tema immediato cui mi rimanda è quello della memoria, e più specificamente quello della “memoria condivisa”. La memoria non coincide con la Storia (intesa etimologicamente, come narrazione dei fatti), anche se ne è uno strumento indispensabile. È una lettura della Storia alla luce di esperienze personali o collettive, vissute o tramandate, comunque sempre parziali, vuoi nei contenuti, vuoi nel punto di vista. Anche la Storia non ci racconta la verità, sappiamo che generalmente la scrivono i vincitori, ma il suo carattere di “disciplina” impone confronti e riscontri che dovrebbero, col tempo, farci approssimare almeno a grandi linee a quanto è veramente accaduto. Insomma, la Storia ci dovrebbe informare di quanto è successo, la memoria ci dice come è stato vissuto quel che è successo.

Ciò rende decisamente improbabile pensare di arrivare un giorno ad una “memoria condivisa”, mentre avrebbe un senso puntare a scrivere una “Storia” il più possibile condivisa. Quanto alla prima, è più probabile che si arrivi ad una sua perdita, che già incombe con la scomparsa degli ultimi protagonisti o degli ultimi depositari dei loro racconti. Per cui, anziché condivisa credo diverrà una memoria confusa, una nebbia entro la quale tutti i gatti saranno grigi e all’interno della quale ciascuno potrà pescare ciò che più gli conviene, e farsene bandiera (come accade oggi, ma come è accaduto anche per tutta la seconda metà del Novecento).

Il problema dunque sta a monte, proprio nel fatto che si insiste sulla memoria, che per forza di cose è partigiana, e non ci si sforza di ricostruire un po’ più fedelmente la storia. Il che vale allo stesso modo per tutte le parti in causa, ivi compresa la sinistra, così che gli argomenti che potrebbero risultare più scabrosi, che andrebbero ad intaccare alcuni miti sui quali si sono costruite le narrazioni e le rivendicazioni politiche dei diversi schieramenti, vengono accuratamente evitati.

Quanto detto sopra è perfettamente applicabile alla storia del fuoriuscitismo italiano. Dopo il libro di Aldo Garosci (Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953) scritto settant’anni fa da uno storico più che serio e onesto, ma coinvolto direttamente nella vicenda e uscitone da pochissimi anni, sembra che a nessuno importi di riprenderla, nemmeno infedelmente. Il libro non è mai più stato ristampato, è rarissimo ed è un miracolo se te lo lasciano consultare nelle biblioteche, sempre che lo si trovi. Non a caso, l’argomento trova poco o zero spazio nei programmi di divulgazione storica che vanno per la maggiore in tivù, i vari Barbero e Cazzullo, ma anche Mieli, Augias and co. Non mi è mai capitato, ad esempio, di sentir rievocare il maggio barcellonese del ‘36 e l’uccisione di Berneri. C’è un tabù che ostacola la ricostruzione “critica” dell’opposizione al fascismo: del tipo, gioca coi fanti, ma lascia stare i santi.

Il risultato di non fare mai seriamente i conti col proprio passato, con la propria storia, è quello di lasciare aperta la strada alla rilettura, naturalmente altrettanto poco obiettiva, che ne daranno gli avversari. La motivazione sottintesa (anche quando in realtà ne esistono altre meno nobili) è che non si vogliono concedere armi alla polemica revisionista: ma il non dire tutta la verità, il coprire le macchie confidando che il tempo le cancelli, non è solo fuorviante, è altresì il miglior regalo che si possa fare a quest’ultima. Perché allunga l’ombra del dubbio anche su ciò che è ormai assodato e incontestabile. È accaduto con i vari punti oscuri della Resistenza stessa, con lo stalinismo togliattiano, persino con il Sessantotto. E tanto più questo vale per ciò di cui mi sto oggi occupando. Sono trascorsi novant’anni, ma sembra non ci sia stato verso di imparare la lezione.

Lo dimostra anche un altro fatto. Alla vicenda dei fuorusciti in Francia la nostra letteratura non ha prestato la minima attenzione. Ci sono alcuni libri di memorie, anche notevoli, alcuni diari, qualche saggio, ma non c’è un’opera letteraria che abbia offerto, ai giovani e ai meno giovani, l’opportunità di incuriosirsi per questa pagina di storia. A vent’anni avevo già letto le descrizioni degli espatriati (volontari) americani, da Hemingway a Miller, o di quelli (forzati) russi come Herzen, o alcune cose di Benjamin, ma non avrei potuto trovare alcun italiano che raccontasse queste cose. E temo che chi ne avrebbe avuto magari le capacità si sia astenuto per timore (fondato, stante l’egemonia che per tutta la seconda metà del secolo la sinistra, ortodossa e non, ha esercitato sulla cultura storica) di apparire sacrilego e di essere immediatamente colpito dall’ostracismo.

Prima di proseguire penso dunque mi convenga ricordare sinteticamente in quale reale scenario si sono svolte le vicende che ho scelto di raccontare (quella di Caffi e quella di Oberti, ma già ne avevo parlato nella storia di Berneri): non credo sia molto conosciuto.

Dopo l’avvento del fascismo (ma anche prima del ‘22) ha inizio la diaspora degli attivisti e degli intellettuali di sinistra presi di mira dal regime, spesso aggrediti anche fisicamente e comunque impediti a svolgere qualsiasi attività, non solo quella politica. La migrazione verso la Francia procede a ondate, aumenta dopo il delitto Matteotti e conosce un ulteriore incremento dopo che nel 1926 vengono emanate le leggi speciali. A metà degli anni Trenta gli aderenti ai movimenti politici antifascisti ospitati in terra francese possono essere valutati in oltre diecimila, e ad essi va aggiunto un numero almeno doppio di simpatizzanti, reclutati direttamente in loco tra i migranti economici. I più attivi e i più organizzati in questo senso sono i comunisti, che lavorano soprattutto attraverso l’UPI (Unione Popolare Italiana) e dispongono anche di un organo di stampa.

Socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberali, mazziniani, massoni, ecc… confluiscono invece nella Concentrazione d’azione antifascista, all’interno della quale però ciascun gruppo mantiene la propria autonomia e ampia libertà di azione. Come a dire che poi ciascuno fa un po’ come gli pare.

Gli esuli purtroppo si portano appresso le rivalità che già avevano caratterizzato la sinistra in patria nell’immediato dopoguerra. Lo schieramento antifascista rimane quindi costantemente diviso, sia per divergenze di ordine ideologico, sia per il contrasto di tipo generazionale. Tanto che la maggioranza degli oppositori preferirà il silenzio alla militanza attiva. E le contrapposizioni sono anche accese, risentendo delle continue oscillazioni provocate a metà degli anni Trenta dal mutare delle direttive politiche di Stalin: così che quando si passa dal tacciare di social-fascismo le componenti che non orbitano attorno al bolscevismo ad incoraggiare la costituzione dei “fronti popolari”, e i comunisti entrano a far parte della Concentrazione antifascista, la convivenza si rivela da subito problematica. Ancor più lo sarà verso la fine del decennio, dopo la negativa esperienza spagnola e di fronte ai voltafaccia dell’URSS nei confronti della Germania nazista.

Quale sia l’atmosfera nell’ambiente dei fuorusciti italiani in Francia tra la metà degli anni Venti e la Seconda guerra mondiale lo si evince bene, forse ancor meglio che dal saggio già citato di Garosci, dalle Memorie di un fuoruscito (Feltrinelli, 1960) di Gaetano Salvemini. Rispetto ai compagni d’esilio Salvemini era senza dubbio un privilegiato, visto che i suoi lavori storico-giuridici gli avevano già procurata un notorietà internazionale che gli permetteva di trascorrere molto tempo all’estero, ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra, con incarichi di insegnamento nelle più prestigiose università o per giri di conferenze; mentre il suo passato di intransigente antifascista della prima ora gli garantiva credibilità e autorevolezza presso tutti i diversi gruppi. Questa condizione gli consentiva d’altro canto un punto di vista più equilibrato rispetto a quello di coloro che al di là dell’antifascismo propugnavano poi specifiche soluzioni politiche o ideologiche (primi tra tutti naturalmente i comunisti, che infatti lo avversarono costantemente).

La sua posizione è perfettamente espressa nel documento di presentazione di Giustizia e Libertà che redasse nel 1932 (ma l’organizzazione era già nata nel 1929). «Giustizie e Libertà è un’organizzazione di lotta rivoluzionaria antifascista in Italia, e raggruppa a questo scopo in Italia gli uomini di tutti i partiti di sinistra, e gli uomini fuori partito, purché di idee democratiche e repubblicane, che sono disposti a mettere a rischio la vita per la lotta rivoluzionaria contro la dittatura fascista […] Questi uomini, che in tutti i partiti e fuori di tutti i partiti formano una esigua minoranza – una vera e propria “compagnia della morte” che si batte nelle trincee più avanzate e più pericolose, non debbono rimanere in gruppi indipendenti. Debbono coordinare i loro sforzi contro il nemico comune. Debbono tenersi affiatati gli uni agli altri. Non hanno tempo e non vogliono discutere quel che sarà l’Italia dopo che la dittatura fascista sarà abbattuta.»

Quanto poco questo intento fosse comune lo si vide proprio in occasione dei diversi atteggiamenti assunti rispetto ai fronti popolari che si avvicendarono nell’Europa occidentale negli anni Trenta. L’interesse di partito veniva sempre anteposto a quello della causa comune.

Ma c’è dell’altro, ed è questo che tengo a mettere in luce. Sempre Salvemini, nelle sue memorie scrive: “La mia persuasione era – ed è tuttora – che su tre cospiratori uno è una spia; il secondo è uno scioccone, che per vanità di parere bene informato, racconta alla spia quanto sa sul terzo; e il terzo e il secondo vanno in galera, grazie al primo. D’altra parte il terzo, se non fa niente per paura dello scioccone e della spia, non andrà in galera, ma non farà niente, cioè lascerà padrone delle acque il nemico”. Ragion per cui: “bisogna correre il rischio di andare in galera, e alla fine andarci. Cioè bisogna obbedire alla legge del proprio temperamento, quanto al resto, sarà quel sarà”.

Cosa ci sta dunque dicendo Salvemini? Innanzitutto che prima di accapigliarsi su quel che sarà il futuro sarebbe bene affrontare il più possibile uniti, e provare a sconfiggere, l’avversario presente. Cosa che a leggere un resoconto sull’atteggiamento dei fuorusciti antifascisti nei due anni precedenti lo scoppio del conflitto c’è da mettersi le mani nei capelli (cfr. Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia). Divisi sino all’ultimo momento e ostinatamente decisi a farsi la guerra, come i capponi di Renzo.

Poi, che anche prescindendo dalle divisioni e dalle contrapposizioni politiche occorre tenere conto di quelle che sono le differenze umane. Che cioè non sono tutti eroi e sinceri paladini della libertà coloro che bazzicano l’opposizione, e che la bontà di una causa e l’eccezionalità della condizione di espatriati politici non è da sola una garanzia di genuinità. Dice cioè ciò che sappiamo tutti (o che dovremmo sapere): le situazioni vanno affrontate con realismo, se vogliamo darci almeno una possibilità di uscirne vincitori. E realismo non significava, nella particolare situazione in cui Salvemini si trovava ad operare, cinismo o spregiudicatezza, ma massima prudenza, discrezione, parsimonia nell’accordare fiducia. Invece “In Parigi nessuno credé necessario preoccuparsi […]. L’ambiente formicolava di spie, ma anche di persone che non capivano la necessità di tenersi in guardia dalle spie”. Persone che alla fine hanno obbedito “alla legge del proprio temperamento”, hanno cioè scelto di correre coerentemente il rischio, ma troppo spesso questa scelta l’hanno pagata cara

Realismo perciò significa anche, se applicato alla rilettura storica di quella vicenda, mettere in evidenza questa debolezza, l’autolesionismo derivante dai facili e malriposti entusiasmi che hanno da sempre caratterizzato la storia della sinistra. Se si rimuovono queste cose per non scalfire l’immagine di eroi e martiri ormai incorniciati in santini (oggi magari in poster), se si imbelletta la realtà per farla coincidere con le proprie ideologie e strategie, si ottiene l’effetto opposto: i valori etici della resistenza ad ogni forma di totalitarismo vengono affidati al mito, così come i suoi protagonisti, e questo significa imbalsamarli in una dimensione che non ha più alcuna valenza di esemplarità, perché troppo lontana dalla realtà.

Prendiamo il caso di Camillo Berneri, che è quello che conosco meglio. Se qualcosa ho amato nella sua personalità, insieme alla schiettezza e al coraggio, è la capacità di prendere atto dei tanti errori commessi per eccessiva fiducia nella lealtà altrui, senza comunque arretrare di un passo nell’impegno. Al tempo stesso però non posso negare che, al netto della fulgida testimonianza di eroismo, la lezione più importante da trarsi dalla sua vicenda sia quella dell’inutilità, oltre che dell’inopportunità, delle azioni “dimostrative” mirate (come recitava ancora il terrorismo degli anni di piombo) a “colpire il cuore dello Stato”. Si può tenere il suo ritratto nello studio, come faccio io, si può opporre la sua lucidità e coerenza, nonché tutta la complessità del pensiero anarchico, all’imbecillità, all’ignoranza e alla riduzione in slogan omeopatici che ne fanno i sedicenti anarco-rivoluzionari odierni, ma si deve avere ben chiaro che su un piano prosaicamente pratico tutto quell’eroismo non ha sortito granché.

Lo stesso realismo andrebbe poi impiegato nella narrazione dell’acquiescenza di quasi tutto il popolo italiano al regime, quella che era già denunciata, prima ancora che la guerra avesse termine, da un altro giovanissimo fuoruscito (questo in Svizzera): «Va anzitutto definito quello che si intende precisamente col termine «fascista» per colpirlo e eliminarlo inesorabilmente come realtà – insieme al vocabolo “antifascista” (troppo generico ormai e ambiguo) – dalla vita italiana. Non è mai esistita una dottrina fascista; sono invece esistiti (e esistono tuttora, ben lungi dal tramontare) una mentalità e un costume fascisti: irridenti – sul piano politico – alle nozioni di libertà, di democrazia, di dignità civile (cose degne dello “stupido diciannovesimo secolo” per gli “uomini nuovi”), e – sul piano morale – alle forme del vivere onesto, prudente, vigilato (“vecchio gioco” per chi voleva forzare gli altri a “vivere pericolosamente”). […] Da allora l’abdicazione è venuta crescendo, la responsabilità allargandosi per cerchi concentrici a masse sempre più vaste fino ad abbracciare la quasi totalità del popolo italiano. La complicità – tolta qualche voce clamorosa – è stata fatta di silenzio e d’assenso». (Ariberto. Mignoli, Epurazione, su Giovane Italia, 10 aprile 1945, n. 5).

Vent’anni prima queste cose le aveva già scritte anche Andrea Caffi, che sull’anelito degli italiani alla libertà (e alla verità) nutriva giustamente i suoi dubbi. E infatti: ancora oggi noi sappiamo tutto su I volenterosi carnefici di Hitler, e quanto alla complicità collettiva del popolo tedesco ci chiediamo se sia vero che “La Germania si che ha fatto i conti col nazismo”, ma su un sincero esame di coscienza nostro ci andiamo cauti. Tanto cauti che a furia di autocompiacerci per l’immagine artificiosa di una gente italica disposta comunque al buono e al bello stiamo già arrivando alla riabilitazione del regime.

C’entra tutto questo con le vicende parallele eppure divergenti (per cui non si incontrerebbero neppure all’infinito) di Caffi e di Oberti? C’entra eccome, perché l’accostamento riguarda solo la condivisione della condizione di fuorusciti, mentre il modo in cui questa condizione è stata vissuta dai due e quello in cui è stata recepita da coloro che l’hanno condivisa con loro mettono a fuoco piuttosto il contrasto.

Senz’altro entrambi viaggiavano in asincrono rispetto ai loro compagni di sventura: ma mentre a questa differenza di ritmo il primo cercava di ovviare con una presenza ferma e tuttavia discreta, non invasiva, anzi piuttosto elitaria, che lo faceva apprezzare da tutti coloro che lo conoscevano, l’altro la differenza la rimarcava costantemente, autoproclamandosi unico genuino custode dei valori dell’antifascismo ed entrando immediatamente in conflitto con tutti. La differenza non concerneva però solo i modi della partecipazione, il primo sempre sottotraccia, nell’ombra, il secondo amante delle celebrazioni, dei rituali, del centro della scena; riguardava anche, e soprattutto, i valori per i quali si battevano. Caffi europeista, cosmopolita, anarchico, Oberti nazionalista sfegatato, cultore del mito della patria e della nazione, legato alle consorterie massoniche, ecc.

Ora, capisco che il parallelo tra i due possa sembrare già in partenza assurdo: in effetti, pur con tutta la divertita simpatia che all’epoca della coabitazione Oberti mi ispirava, mi rendo conto che sto mettendo a confronto due livelli di umanità incomparabili. Caffi era un puro, con tutto ciò che di affascinante, ma anche in qualche misura di escludente, questa disposizione comporta. E infatti si è tenuto, ed è poi stato volutamente confinato, a margine, perché la sua intransigente purezza fissava dei parametri troppo alti. Oberti era un mitomane squinternato, e d’altro canto lui stesso confidava che “i ferri del chirurgo penetratimi mediante incisioni all’interno delle fosse nasali mi hanno scosso la cassa cranica”. Non so quanto i suoi squilibri fossero stati determinati o acuiti dalla bastonatura, sono propenso a pensare che non fosse del tutto in quadra nemmeno prima. Anche se, a scanso di equivoci, rimango convinto che pure in mezzo a tutte le sue palesi contraddizioni Oberti fosse sempre sinceramente convinto della legittimità e bontà del proprio operato (il che poi in molti casi è ancora più grave, ed è un problema comune a tanti apparentemente più coerenti di lui). Ma, ripeto, non è tanto il personaggio in sé ad intrigarmi quanto piuttosto il fatto che per settant’anni qualcuno abbia potuto continuare a prenderlo sul serio.

Li ho accomunati solo perché mi sembrano incarnare significativamente gli estremi dell’ampio spettro di modalità nelle quali la condizione dell’esule, e nella fattispecie dell’esule antifascista, poteva essere declinata. E perché giustificano le domande che Garosci si poneva a caldo nella presentazione del suo tempestivo studio: “Chi sono stati i fuorusciti? Come hanno influito sul destino dell’Italia? Si può porre un problema generale dei fuorusciti, oppure si danno problemi e soluzioni diverse per diversi periodi e personalità?” Domande cui la ricerca storica, della quale Garosci auspicava che la sua Storia fosse solo un punto di partenza, non ha in realtà ancora dato risposte soddisfacenti.

Quanto poi al motivo per cui due vicende e due personaggi ciascuno a suo modo così singolari sono finiti nell’oblio, potrebbe sembrare legato al fatto che in definitiva entrambi, sul piano pratico, hanno combinato poco o nulla. Ma questo, se vogliamo essere sinceri, vale in fondo anche per tutti gli altri loro compagni d’esilio. Io credo invece che il motivo stia per l’uno nel non aver lasciato eredi “istituzionali”, partiti, movimenti, congreghe, che avessero interesse a coltivarne la memoria, magari anche strumentalizzandola; per l’altro in una rimozione mirata a spazzare la polvere sotto il tappeto. Rispetto al quadro che della resistenza degli esiliati si voleva dare, uno ne era fuori, l’altro è stato coperto dal bordo esterno della cornice. A volte la “menzogna utile”. contro la quale si battevano tra i fuorusciti soprattutto Caffi e Chiaromonte, non ha nemmeno bisogno delle “post-verità”, può servirsi altrettanto proficuamente dei silenzi. Nel caso dei miei due protagonisti, poi, l’esclusione dalla memoria e l’assenza di una lettura distintiva non solo dà luogo ad una palese ingiustizia, ma tace una realtà, e quindi non insegna nulla.

Qui volevo arrivare. Ho forzato questo confronto, senza la pretesa di dare il minimo contributo alla ricostruzione della verità storica, semplicemente per offrire un esempio di come la melassa acritica e celebrativa finisca per appiattire o addirittura azzerare i valori, e di quanto sarebbe invece necessario operare delle distinzioni proprio per ristabilire e riaffermare la pregnanza di questi ultimi.

Al di là dei risultati concreti, infatti, rimane comunque l’importanza della testimonianza etica, in positivo o in negativo, che può essere lasciata in eredità, e che tanto più in questi tempi di carestia morale andrebbe recuperata. Proprio per questo il loglio andrebbe separato dal grano, con una ricostruzione documentata di chi ha fatto davvero cosa, e di come, e del perché. Quanto ai nostri, senza scendere ulteriormente nel dettaglio, è evidente che se Caffi apparteneva al novero ristretto di coloro che vivono sentendosi sempre in debito, Oberti è il prototipo, al di là della sua ‘stranezza’, di chi si sente sempre in credito. E tutta la vicenda racconta di come anche nei gruppi più selezionati, addirittura nei gruppi in cui la selezione la fa la sventura, questi ultimi esistono, e non sono pochi, e nella gran parte dei casi sopravvivono e hanno modo di raccontarla alla loro maniera.

Mentre i primi, come testimonia Primo Levi ne I sommersi e i salvati, le rare volte in cui scampano provano quasi rimorso per non avere seguito la sorte di chi è rimasto sul terreno.

vignetta di Mauro Biani, 2024

Riferimenti bibliografici

Per le notizie relative alla vita e alle attività di Oberti sia in Francia che Italia sono debitore soprattutto degli studi (e delle indicazioni) di:
Donato D’Urso, Quando la pietà era morta. Aspetti della guerra civile 1943-1945, Bastogi libri, 2015
Donato D’Urso, Stefano Oberti, in Tuttostoria.net, 29/03/2015

Altre informazioni le ho attinte in:
Emanuela Miniati, La migration antifasciste de la Ligurie à la France dans l’entre-deux-guerres: familles et subjectivité à travers les sources privées (Tesi di dottorato in Storia contemporanea discussa presso Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015)
Emanuela Miniati, Antifascisti liguri in Francia. Caratteristiche e percorsi del fuoriuscissimo regionale, in Percorsi Storici, 1 (2013)

Trattazioni più generali sulla migrazione antifascista in Francia sono in:
M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Torino. 1999
Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953
Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia, in Persée pubbl. dell’École Française de Rome 1986 n. 94 (fa parte del numero tematico: Les Italiens en France de 1914 à 1940)
Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoruscito, Feltrinelli, 1960
Fedele Santi, Storia della Concentrazione antifascista, 1927-1934, Feltrinelli, 1976
Fedele Santi, I Repubblicani in esilio nella lotta contro il fascismo (1926-1940), Le Monnier, 1983
Simonetta Tombaccini, Storia dei fuorusciti italiani in Francia, Mursia, 2022

Degli scritti di Oberti ho potuto consultare solo
Esilio a Parigi. 1922-1943 Il ventennio fascista raccontato da un fuoruscito, Lanterna, 1984

Non Ho rintracciato Mazzini perseguitato dai Savoia (Alessandria, 1944), né Episodi della lotta antifascista, mentre presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza, Archivi di Giustizia e Libertà è consultabile Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne (Parigi, 1927?)

Ricominciare da capo


Andrea Caffi, o della socievolezza

di Paolo Repetto, 25 aprile 2025

Introduzione

Una brava persona

Una vita sopra (e dietro) le righe

Amicizia

Socialismo

Stato, popolo, società

Democrazia e libertà

Europeismo

Intellettuali

Verità

Utopia

Straniero

Verso una conclusione

E finalmente ….

Bibliografia

Appendice: Nicola Chiaromonte, Introduzione a Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

Introduzione

Arrivava all’improvviso,
non si sapeva da che parte del mondo,
con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito.
Scompariva allo stesso modo,
senza che si sapesse perché né per dove.
Da per tutto portava la sua gentilezza,
un’aria d’innocenza,
un enorme fascio di erudizione che slegava
e da cui traeva regali a qualunque richiesta.

Non sono granché espansivo e non amo i superlativi. Il complimento più sentito che arrivo ad esprimere è: “Sei una brava persona”. E nemmeno questo lo spendo spesso, non perché sia particolarmente esigente (insomma, forse solo un po’) ma perché ritengo che anche la stima, come il disprezzo, vada distribuita con parsimonia, per lo stesso motivo: perché sono in molti a meritarseli (non è mia, l’originale è di Chateaubriand). Lo uso quindi solo eccezionalmente, con chi magari ho occasione di frequentare per un breve periodo e la prospettiva di non rivedere più; gli altri, coloro che mi conoscono bene, non hanno bisogno che esterni il mio apprezzamento: voglio credere che lo sentano.

Io ritengo che esistano le “brave persone”, nell’accezione più inclusiva di questa qualifica, così come esistono esseri spregevoli, e che tanto le une che gli altri non siano resi tali dall’ambiente, dai condizionamenti famigliari, dalle circostanze o dallo status sociale. Credo semplicemente che alcuni nascano onesti e ben disposti, e altri no. Le circostanze, i condizionamenti, l’ambiente, stanno tra queste due polarità, spiegano e a volte giustificano molte cose, ma la sostanza rimane quella.

L’essere o meno una brava persona (che vale anche per “intelligente”) è innanzitutto una questione di indole. Lo dico nella consapevolezza di non stare ad uno dei due poli, di stazionare in mezzo: la mia presunzione, o la mia speranza, arriva al massimo a collocarmi leggermente spostato verso quello positivo, piuttosto che verso le carogne.

Per essere una brava persona non necessitano meriti particolari e virtù specifiche: è sufficiente vivere nel costante rispetto degli altri, prestando attenzione a non arrecare loro danno o fastidio, e comprendere le necessità altrui, condividerne sinceramente i problemi e aiutarli, nei limiti delle possibilità e della non invadenza, a risolverli. Nella sostanza, concedere fiducia agli altri ed evitare nei rapporti il sospetto, l’invidia, il rancore e l’egoistica attesa di una gratificazione che non sia quella interiore: gioire dei loro successi e partecipare dei loro dolori. Che, a pensarci bene, non è poco. Comunque, altrove ho definito questo atteggiamento “solidarietà”, usando un termine caro a Camus, e ritengo fosse già una definizione esauriente.

Ora, chiamatelo pure “determinismo genetico”, chiamatelo come volete, ma è quello che penso, e che ho espresso credo abbastanza chiaramente in tutto ciò che ho scritto sino ad oggi, distinguendo semplicemente tra coloro che si sentono sempre in debito con la vita (e con gli altri) e coloro che rivendicano costantemente un credito. Sarà poco confortante ritenere che i nostri comportamenti siano dettati piuttosto dalla natura che dalla nostra cultura, potrà sembrare anche che finisca per deresponsabilizzarci (non per come la vedo io), ma lo ritengo l’unico modo per dare un senso alla nostra vita e organizzare realisticamente la nostra risposta alle disillusioni e alle trappole che ci riserva.

25 aprile 2025

Una brava persona

Andrea Caffi era tra coloro che vivono sentendosi in debito, e che non gestiscono questa attitudine con angoscia, ma con spirito propositivo: che ritengono cioè di doversi dare da fare per migliorare il mondo, ma sempre nel rispetto della dignità e della libertà altrui. Era prima di tutto, e soprattutto, una “brava persona”. Poi era tante altre cose, un intellettuale enciclopedico e raffinato, un poliglotta che parlava sette o otto lingue, un sincero amante della libertà, un conversatore affascinante: ma il motivo per cui ha lasciato in chi lo conobbe un’impronta così forte era innanzitutto il suo modo discreto, schivo ma tutt’altro che scostante, di proporsi.

Per introdurre questo singolare personaggio ho scelto due diverse descrizioni, quella di Prezzolini riportata in esergo e quella fattane da Nicola Chiaromonte, forse il suo migliore amico e maggiore estimatore, nella prefazione a Critica della violenza (Bompiani 1966): Scrive Chiaromonte: «Era, questo, un uomo che più delicato e nobile è difficile immaginare, e certamente rarissimo trovarne: un uomo che tutte le qualità della mente e dell’animo dicevano fatto per essere accolto e onorato nei luoghi più eccelsi di una società ideale, e particolarmente fra gli uomini di pensiero e di cultura; e il quale invece sceglieva deliberatamente la solitudine e l’oscurità, incapace com’era di fare la più piccola concessione quando si trattava non dico della sua integrità morale o delle sue idee, che sarebbe un parlare solenne, ma semplicemente della sua sensibilità. Ogni tentativo, anche il meglio intenzionato, di procurargli una via d’uscita da tale isolamento, e dalle angustie che comportava, rimase inutile fino all’ultimo. Sicché era evidente che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non “inserirsi” in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente. […] C’era il Caffi eretico, intellettuale la cui visione non si adattava a nessuna prospettiva comunemente accettata e verso il quale solo alcuni pochi individui isolati, o comunque insoddisfatti dei gruppi esistenti e delle idee correnti, potevano sentirsi attratti; e di questi, pochissimi a lungo, perché i sentieri per i quali Caffi trascinava chi lo seguiva erano davvero Holzwege, sentieri non tracciati in anticipo e di cui non si sapeva dove conducessero; dunque stancanti. Dietro questo Caffi eretico e irrequieto c’era lo spirito solitario, assorto in un mondo di pensieri segreti e di operazioni intellettuali addirittura misteriose nel quale raramente, anche nei momenti di maggiore confidenza, si apriva qualche spiraglio».

A sua volta, invece, il ricordo di Prezzolini prosegue così: «Siccome era di un’estrema delicatezza e indipendenza di spirito, non ci si accorgeva delle sue ristrettezze altro che dagli abiti e dallo sguardo con il quale di traverso guardava una tavola apparecchiata quando lo si invitava […]. Aveva un modo di sfuggire ogni curiosità e indagine sulla sua persona che lo rendeva molto simile a quei personaggi dei romanzi russi che rispondono con frasi svagate e allusive alla polizia degli zar».

Si sarà già capito a questo punto che la figura di Caffi non si lascia catturare facilmente. Bisogna più che mai guadagnarsela, andando a leggere, oltre allo scritto di Chiaromonte (che allegherò integralmente a questo pezzo), anche gli altri interventi, i ricordi, le recensioni agli scritti raccolte già diverso tempo fa in due Quaderni pubblicati dalla Biblioteca dei Viandanti (Su Andrea Caffi e Andrea Caffi. Scritti scelti di un socialista libertario che per l’occasione ora rieditiamo, ampliati e aggiornati). Poi, certo, meglio ancora sarebbe accostare direttamente gli scritti di Caffi, che negli ultimi tempi sono divenuti in parte rintracciabili, o affidarsi agli studi a lui dedicati che, dopo un lunghissimo periodo di oblio, cominciano a fiorire (li segnalerò nella bibliografia). Anche così, comunque, non si arriverà mai ad una conoscenza non dico completa, ma nemmeno sufficientemente esaustiva: la sua figura rimarrà sfuggente e misteriosa, perché trovare una vita più disordinatamente ricca è quasi impossibile, ma anche perché più che attraverso gli scritti Caffi testimoniò il suo impegno con un singolarissimo stile di vita, con un magistero di esemplarità socratica («Vivergli vicino era una gran lezione di generosità e di nobiltà», scrive Chiaromonte), che si esplicava soprattutto nelle conversazioni con gli amici (i suoi modelli culturali erano principalmente quelli dell’antica Grecia, del dialogo platonico, e dei salotti pietroburghesi nei quali si raccoglieva l’intelligencija russa nell’Ottocento), o nelle chilometriche lettere che inviava loro. E comunque non si è mai rivelato completamente ad alcuno. Tra l’altro, e anche questo è significativo, possediamo solo tre o quattro suoi ritratti fotografici, tutti molto sfocati, a bassissima definizione. Perfettamente in linea con lo stile del personaggio.

Molti aspetti dell’esistenza di Caffi rimangono dunque oscuri. Si aggiunga che buona parte dei suoi scritti è andata dispersa e infine che la “pietas” amicale ha indotto chi lo conosceva a passare sotto silenzio certi tratti della sua personalità ritenuti, all’epoca, sconvenienti. In altre parole, Caffi era probabilmente omosessuale, e non è un caso che a farne menzione sia Alberto Moravia, che lo aveva conosciuto e ne era diventato amico prima ancora di pubblicare Gli indifferenti, e che in queste cose aveva l’occhio lungo: ma il nostro era così discreto che nessun altro dei suoi conoscenti ha mai toccato questo tasto, e neppure i dossier della polizia fascista e di quella di Vichy ne fanno menzione. Ora, se anche è vero che ciò non sposta di una virgola il senso del suo impegno e la portata del suo ingegno, è presumibile che abbia comunque influito in qualche misura sulle sue scelte culturali e politiche, oltre che sul suo comportamento. Stiamo parlando della prima metà del secolo scorso, di un periodo nel quale la considerazione sociale dell’omosessualità era pessima, e gli intellettuali inglesi della “generazione perduta”, anche quelli più “impegnati”, da Ishewood a Austen, cercavano “autenticità” sulle due sponde del Mediterraneo. Ma Caffi è di un’altra pasta, e credo occorra tenerne conto se davvero si vuole correttamente interpretare e valorizzare il suo pensiero.

Date queste premesse, mi limiterò a sbozzare le linee essenziali (che non sono poche, e corrono tutt’altro che rette) della biografia di Caffi, le vicende e le traversie più significative: quel tanto insomma sufficiente ad offrire un minimo di indicazioni a chi non l’avesse mai sentito nominare. Premetto già che sarà una ridda di incontri, di collaborazioni, di nomi e di titoli, ma questo è ciò che passa la sua agitatissima esistenza. Ed è anche ciò che rende quasi inspiegabile il silenzio che ha poi inghiottito la sua figura, stante che tutte le iniziative culturali e politiche del periodo tra le due guerre, nonché di uno scampolo di quello immediatamente successivo, lo vedono presente, sia pure sempre nello sfondo, di passaggio, con una gamba già in uscita dalla foto.

P.S. nel rileggere questo pezzo ho contato almeno trenta nomi che rappresentano l’élite del pensiero europeo nel primo mezzo secolo del Novecento e che hanno interagito con Caffi. E Caffi non era un cacciatore di autografi o di selfie, al contrario. Tutta questa gente non solo lo ha conosciuto o ha lavorato con lui, ma è rimasta affascinata dalla sua personalità e sbalordita per la vastità e la profondità della sua cultura.

Una vita sopra (e dietro) le righe

Andrea Caffi nasce a Pietroburgo nel 1887, da genitori italiani che lavorano nell’ambiente teatrale e che non sono privi di sensibilità politica oltre che artistica (il nonno paterno, Ippolito Caffi, pittore vedutista, aveva partecipato come garibaldino alle rivoluzioni del ‘48 e all’impresa dei Mille, ed era morto nella battaglia di Lissa). Riceve un’ottima istruzione, della quale si dichiarerà poi grato per tutta la vita, nel Liceo Internazionale di quella città, conosce il pensiero di Proudhon e si appassiona alla vicenda di Aleksandr Herzen e dei populisti russi dell’Ottocento, e ancora giovanissimo aderisce al socialismo, militando nella corrente menscevica. A sedici anni è tra gli organizzatori del sindacato dei tipografi e lavora nella clandestinità al fianco di Kalinin e di Molotov.

Nel 1905 è in prima fila in quella che può essere considerata la prova generale nella rivoluzione russa. Viene più volte arrestato ed è condannato infine a tre anni di carcere; due di questi li sconta nella colonia penale di Jekaterinoslav, rischiando seriamente di lasciarci la pelle per il tifo e per gli stenti. Liberato nel maggio del 1908, inizia per lui un esilio destinato a durare praticamente tutta la vita. Si rifugia come studente universitario a Berlino, dove segue le lezioni di Georg Simmel e stringe amicizia con Antonio Banfi (che così lo ricorderà: «M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea contemporanea».

In questo periodo viaggia per tutta l’Europa, facendo spesso base a Parigi, dove entra in contatto con le avanguardie artistiche e letterarie di inizio secolo e in una sentita amicizia con Ungaretti. Crea inoltre, con un gruppo di amici, la Jeune Europe, un sodalizio che ha fortissime (e ingenue) ambizioni di rigenerazione della cultura occidentale. Soggiorna anche in Italia, collaborando con Giuseppe Prezzolini e Scipio Slataper e frequentando a Firenze il gruppo della rivista La Voce. E visita, a Rapallo, il grande esule Piotr Kropotkin (che considera «lo spirito più puro del movimento rivoluzionario russo»).

Nel 1914 è sconvolto dallo scoppio della guerra in Europa; eppure, nonostante professi sin da ragazzo il più convinto pacifismo, si arruola volontario nelle legioni internazionali “garibaldine” in Francia. Come spiegherà in seguito a Chiaromonte, che gliene chiede ragione, «in primo luogo, non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino; in terzo luogo, di fronte a una guerra che lui, come molti altri in Europa, aveva sentito approssimarsi fatalmente fin dal 1911, e della quale si poteva esser certi che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente, non gli era sembrato possibile invocare delle ragioni di principio». Insomma, sicuramente ha anche desiderio di contribuire alla sconfitta del militarismo prussiano, ma soprattutto non intende sottrarsi alla sofferenza e al destino della sua generazione. Senza contare che attorno a lui aleggiava sempre lo spirito del nonno.

Ai primi di settembre prende dunque parte alla battaglia delle Argonne, nel corso della quale viene ferito. Se dobbiamo credere alla testimonianza di Banfi, andava all’assalto senza impugnare un’arma (ma è una cosa raccontatagli da Caffi stesso, sulla quale avrei parecchie perplessità: non che non fosse capace di farlo, ma dubito glielo lasciassero fare). L’anno successivo viene arruolato nell’esercito italiano, ed è nuovamente ferito nel luglio 1915 sul Sabotino, riportando una menomazione che lo tormenterà per tutta la vita. Il resto del conflitto lo trascorre poi a Belluno, come interprete presso il comando della 4ªarmata. All’inizio del 1918 viene trasferito, per la sua conoscenza delle lingue slave, presso un ufficio speciale creato a Berna per fare propaganda fra le nazionalità oppresse dell’impero asburgico.

Dopo il congedo rimane in Italia e avvia una collaborazione con i nascenti circoli europeisti, pubblicando assieme a Umberto Zanotti-Bianco una rivista, La giovane Europa, che vuole denunciare i problemi creati dalle durissime condizioni di pace imposte dai vincitori a Versailles, e chiederne la revisione. L’esperienza dura poco, ma detta già alcune linee di pensiero alle quali Caffi rimarrà fedele sino alla fine dei suoi giorni.

Nell’estate del 1919 è inviato come corrispondente del Corriere della Sera nel Caucaso, dove i crolli dell’impero russo e di quello ottomano hanno lasciato via libera a rivendicazioni e ritorsioni nazionalistiche e a scontri caotici e sanguinosi; si ferma però per qualche mese a Costantinopoli, dove assiste alle convulsioni della nascita del nuovo stato turco e ha anche modo di constatare come le potenze europee trattino con arroganza e sprezzante miopia le aspirazioni dei popoli ex-ottomani.

Di lì, all’inizio dell’anno successivo passa clandestinamente via Odessa in Ucraina, e finisce in un primo momento tra le truppe del generale “bianco” Denikin. Quando queste si ritirano viene finalmente a contatto con i “rossi” e comincia a collaborare con l’amministrazione bolscevica, prima a Kiev e poi a Char’kov.

Il paese è dilaniato dalla guerra civile, tenuto sotto assedio dalle diverse armate controrivoluzionarie arruolate e supportate dall’Intesa, e inizialmente Caffi non vede altra via d’uscita che l’energica dittatura dei bolscevichi, per spietata che sia. Rimane però critico rispetto al progetto di esportare la rivoluzione su scala europea o addirittura mondiale. «Le imitazioni – scrive – sono una povera cosa nella vita dei popoli come in quella delle persone.» A maggio è a Mosca, ospitato da Angelica Balabanoff, ex amante del Mussolini socialista, poi segretaria della Terza Internazionale e introdotta nelle alte sfere del governo rivoluzionario. Qui collabora con istituti culturali – come lo Studio Italiano – promossi dai sostenitori nostrani della rivoluzione (tra questi Prezzolini, Zanotti-Bianco e Odoardo Campa), che intendono propagandare all’esterno i programmi e sostenere all’interno l’azione del nuovo governo, nonché restaurare i rapporti economici tra la Russia e l’Italia interrotti dal blocco commerciale antisovietico che l’Intesa ha decretato. Caffi è convinto che l’impegno più urgente sia quello di una collaborazione economica, prima ancora di quella culturale, per consentire al paese di uscire dall’emergenza e al regime di allentare la stretta.

Nel giro di pochi mesi però la sua valutazione del bolscevismo cambia, e Caffi diventa sempre più insofferente dei metodi che il governo rivoluzionario usa e degli scopi che sembra proporsi. Grazie alla Babalanoff riesce ad infiltrarsi nel servizio stampa del Comintern, e qui intraprende un’opera di contro-informazione, raccogliendo in un bollettino «ritagli di giornali stranieri, tradotti in russo, accuratamente scelti al fine di suscitare il massimo possibile di dubbi nell’animo di un ancora onesto militante della Terza Internazionale». Naturalmente dopo la pubblicazione di una decina di opuscoli la Ceka si accorge della beffa e nell’ottobre del 1920 Caffi viene denunciato come “controrivoluzionario”, arrestato e imprigionato alla Lubianka. Ancora una volta a cavarlo dai guai è la provvidenziale Balabanoff, che lo sottrae all’ultimo momento al plotone d’esecuzione. Ormai è però divento sospetto al nuovo regime: gli è vietata ogni corrispondenza con l’estero e sono sequestrati i suoi (peraltro scarsissimi) beni. Già agli inizi del 1921 scrive a Prezzolini: «Comprenderai come non ti possa scrivere molte cose che dovrei dirti. Mi dispiacerebbe se tu pensasti male di me o se ponessi tutto sul conto di un temperamento irregolare. Quest’anno è stato il più serio della mia vita. Non so quando potrò rivedere l’Europa»; che neanche troppo velatamente è la confessione di un fallimento. È costretto a «disinteressarsi completamente da ogni intrigo, […] essere molto riservato». Lascia Mosca, uscendo «da un continuo incubo, da quasi tre anni di astrazione completa di ogni senso di esistenza personale» all’inizio di giugno del 1923, e con un percorso contorto e difficile, attraverso la Lettonia, la Polonia e l’Austria, arriva a Roma alla fine del mese. Angelica Balabanoff, caduta anche lei in disgrazia, lo ha preceduto di un anno.

Una volta in Italia Caffi ricuce i contatti con Salvemini e con Zanotti-Bianco collaborando prima al quotidiano Il popolo (del partito popolare) e poi dirigendo dall’aprile ‘25 all’ottobre seguente La Vita delle Nazioni. I suoi articoli sulla rivoluzione bolscevica suscitano l’ammirazione di Piero Gobetti e persino di Gramsci, e il suo attivismo politico nei quartieri popolari romani conquista adesioni alla causa socialista. Nel frattempo si occupa di storia bizantina, diventando uno specialista della materia, tanto che sarà chiamato ancora nel 1927 da Gioacchino Volpe a redigere voci di storia dei paesi slavi per l’Enciclopedia Italiana. Nel maggio 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce, mentre nel corso del 1926 collabora a Quarto Stato di Pietro Nenni e di Carlo Rosselli e alle Ricerche religiose di Ernesto Buonaiuti. Pubblica inoltre su Volontà, una rivista diretta da Vincenzo Torraca, l’articolo Cronaca di dieci giornate, dove ricostruisce nel dettaglio il delitto Matteotti. È significativa la descrizione che dà Francesco Fancello, il redattore della rivista, del primo incontro con Caffi: «Entrò uno spilungone, per accento e aspetto simile ad uno dei tanti intellettuali russi che si erano sparsi per l’Europa dopo la rivoluzione bolscevica: era Caffi. Mi si presentò senza preamboli col suo solo nome e cognome e mi espose il motivo della sua visita. “Ho preparato questo articolo – disse – intitolato Cronache di dieci giornate, che riguarda l’assassinio Matteotti. Penso che potrà interessarvi”. Gli risposi che avrei letto e volentieri pubblicato il pezzo se consono all’indirizzo della Rivista. Poiché eravamo circondati da spie e da agenti provocatori, lo accomiatai senza chiedergli né chi fosse né chi lo avesse a noi indirizzato».

A dispetto di tutte le cautele Caffi è comunque già nel mirino dei fascisti. Tra l’esilio e la clandestinità ha sino ad ora scelto quest’ultima, ma nell’autunno del 1927, per sfuggire al rischio di arresto da parte dell’OVRA, deve rifugiarsi in Francia. Trova in verità una sistemazione ottima, perché è ospitato a Versailles nella villa del principe Caetani, dei cui nipoti diventa precettore, ed è inoltre segretario di redazione della rivista Commerce. Partecipa dunque agli incontri periodici di artisti e scrittori che si ritrovano nella villa, tra cui Paul Valéry, Fernand Léger e Jean Paulhan.

Verso la fine del 1930 però, chiusa anche la collaborazione con la rivista, si trasferisce nel sud della Francia, per stabilirsi poi di lì a poco stabilmente a Parigi. Qui entra subito nel giro dei fuorusciti antifascisti, nonché nei circoli degli esuli russi. Frequenta Modigliani, Saragat, Angelo Tasca e Giuseppe Faravelli, che condividono con lui le riserve nei confronti dell’unità d’azione con i comunisti nei fronti popolari e il rifiuto dello stalinismo. Collabora per un certo periodo con Carlo Rosselli e con Giustizia e Libertà, salvo interrompere poi la collaborazione per dissensi sulla linea del gruppo, sino a rompere definitivamente assieme a Mario Levi, Renzo Giua e Nicola Chiaromonte. Nasce in questo frangente la strettissima amicizia che lo legherà all’intellettuale lucano sino alla morte (e anche oltre, visto il prodigarsi di Chiaromonte per far conoscere postumi la figura e il pensiero di Caffi).

Dopo l’invasione tedesca della Francia si trasferisce a Tolosa, dove opera un gruppo di socialisti italiani fuorusciti, tra i quali Olindo Gorni, e prende contatto con gruppi della resistenza francese. Nel 1944 è arrestato, imprigionato nelle carceri di Vichy e torturato. Ma la scampa anche stavolta.

Nel dopoguerra torna a Parigi, dove diventa amico di Albert Camus e grazie a lui lavora (saltuariamente) presso l’editore Gallimard. Pubblica anche articoli su Politics, la rivista della sinistra radicale anticonformista statunitense diretta da Dwight Macdonald, sulla quale scrivono Chiaromonte – che è ormai il suo tramite, come lo era stato prima Salvemini –, Hannah Arendt, Mary McCarthy e Paul Goodman. A dispetto di tutti questi contatti la sua esistenza continua a svolgersi nella più assoluta precarietà. Di norma non ha in tasca una lira, e quando ce l’ha trova il modo di disfarsene velocemente, magari anteponendo piccole innocenti vanità – ha la fissa dell’acqua di colonia – ai bisogni alimentari più immediati. Alla lunga però la sua salute ne risente, Nel 1955 finisce all’ospedale della Salpetrière, e lì muore in perfetta solitudine, senza disturbare nessuno, così come aveva fatto per tutta la vita. Che può non sembrare tale, ma è un modo elegante per andarsene con dignità e lasciare negli amici una immagine “viva”.

Fin qui la parte “utile”, che spero contribuisca ad allargare a qualche amico la familiarità con la figura di Caffi. Personaggio che riesce intrigante già di per sé, per la sua storia personale, ma va necessariamente letto di conserva con le sue opere. Mi rendo conto di dire una banalità, le opere sono sempre parte essenziale di ogni esistenza, di quella di un intellettuale o di un politico come di quella di un idraulico, ma in questo caso intendo sottolineare come esista una coerenza perfetta e costante tra quel che Caffi ha predicato e come ha razzolato. Non è sempre così (anzi, non lo è quasi mai), per altri vale esattamente il contrario, e anche questo offre una chiave di lettura.

Ciò che segue è invece un tentativo di mettere sinteticamente a fuoco i temi che caratterizzano un complesso percorso intellettuale, seguendo proprio il filo di quella coerenza. Anche se cercherò di farlo con le sue parole, più che di ciò che Caffi ha effettivamente detto parlerò naturalmente di quello che io ci ho trovato: che è davvero molto, e che mi sarebbe servito già tanto tempo fa per schiarirmi un po’ le idee, ma che va assunto (come il Manifesto di Ventotene, tanto per rimanere nell’attualità, del quale il nostro è stato a distanza un ispiratore, ma su molti aspetti del quale non sarebbe stato d’accordo) con la consapevolezza della distanza temporale che è intercorsa. Quindi parlerò (come al solito) molto di me, di quel me che nel suo piccolo vorrebbe sentirsi compagno di spiriti come quello di Caffi, e in qualche modestissima misura depositario del loro insegnamento. Va da sé che tali considerazioni sono meno “utili”, non hanno la pretesa di fornire alcuna “interpretazione autentica”, e che danno per scontata la conoscenza dei testi cui mi riferisco, in assenza della quale sarà difficile coglierne appieno il senso: ma confido possano magari essere di stimolo proprio a recuperare questa conoscenza.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tolosa 1947

Amicizia

Quando mi imbatto in personaggi della stoffa di Caffi provo immancabilmente disappunto per non averli incontrati prima. Nel suo caso, come dicevo sopra, non si tratta del rammarico per una mancata consuetudine diretta (è morto quando avevo sette anni, anagraficamente poteva essere mio nonno), ma dell’irritazione per non essere arrivato a conoscenza del suo pensiero, e della sua stessa esistenza, sino a pochi decenni fa. Penso che leggerlo ai tempi della mia prima formazione mi avrebbe risparmiato parecchi giri a vuoto nei meandri delle varie sinistre, e mi è di scarsa consolazione l’essere approdato, con un percorso molto personale e spesso contradditorio, a una particolare consonanza con molte delle sue analisi e delle sue valutazioni e coi suoi convincimenti, lo scoprire che un itinerario abbastanza simile al mio era già stato compiuto, con ben altri esiti, da una mente di quel calibro. Un conto però era percorrere quella strada un secolo fa, come fece Caffi, viaggiare controcorrente nel pieno della bufera della transizione verso un “nuovo ordine” politico, culturale e sociale, denunciare le menzogne e le illusioni dietro le quali si nascondeva, sotto nuove spoglie, l’eterna prosaica lotta per il potere; e almeno in parte lo sarebbe stato ancora sessant’anni fa, quando si era costretti a zigzagare tra le ubriacature ideologiche e il vandalismo decostruzionista che hanno accompagnato la nascita della società post-moderna. Altra cosa è doversi limitare a prendere atto oggi, col senno di poi, delle false piste e delle disillusioni indotte, oltre che dalla mia indubbia ignoranza, dalla malafede (per usare un termine di Chiaromonte) altrui.

L’impressione che Caffi ha lasciato nel cuore e nella testa di chi lo ha frequentato mi dice che mi sono perso davvero molto. Possedeva un’erudizione sterminata, tutt’altro però che esibita e spocchiosa, anzi, messa totalmente al servizio della funzione reciprocamente accrescitiva che attribuiva all’amicizia. Prezzolini racconta: «Era curioso che un uomo sapesse tante cose senza avere accanto una biblioteca personale. Se in una conversazione usciva qualche frase contenente un’inesattezza, si poteva esser sicuri che il giorno dopo si riceveva una lettera di lunghe correzioni e prove. Da giovane, mi accadde di dire qualche corbelleria intorno all’Ucraina, e credo di conservare ancora una lettera di trenta pagine nella quale mi faceva tutta la storia della lingua, della letteratura e della nazione ucraina. Tutto questo, certamente, senza consultare un libro, senza chiedere il parere di nessuno […]». (In realtà, a stesura ultimata di questo scritto ho fortunosamente rintracciato il testo della lettera: le pagine erano probabilmente non più di mezza dozzina – a stampa sono tre – e l’occasione era una recensione frettolosa comparsa su La Voce. Caffi avrebbe apprezzato questa precisazione, e tuttavia ho voluto citare la versione “mitizzante” data da Prezzolini, perché credo che anche questa non gli sarebbe spiaciuta).

È comunque ciò che ci si dovrebbe attendere da un vero amico: e in effetti per Caffi l’amicizia gioca un ruolo assolutamente centrale. Parla spesso di “filia”, riprendendo il termine nell’accezione aristotelica di empatia e di solidarietà reciproca, e intende questo sentimento come il valore fondante e il nerbo vero della socialità. «La realtà […] del tessuto sociale – scrive – consiste unicamente in un sistema di molteplici “azioni reciproche” fra individui con infinite gradazioni di spontaneità. realtà […] Fuori degli individui che vivono insieme e agiscono in rapporti reciproci, non vi è nessuna realtà concreta in quel complesso fenomeno che s’usa riassumere nella parola “società”

La relazione che si stabilisce entro il “gruppo d’amici” così come la immagina Caffi è caratterizzata dalla possibilità per ciascuno di esprimersi in totale libertà e di esercitare il proprio spirito critico, dal rispetto delle singole individualità che in positivo diventa solidarietà: dall’etica del dialogo insomma, che si contrappone all’etica della potenza e della prevaricazione.

Di questo specialissimo rapporto dà un’interpretazione molto efficace Massimo La Torre ne Il profeta muto. Politica e cultura nell’opera di Andrea Caffi. «Caffi si richiama alla philia, all’amicizia, piuttosto che alla fratellanza, alla fraternité della grande rivoluzione. […] La fratellanza si basa sull’assunzione di una natura umana che ci unisce fondamentalmente attraverso il sentimento della compassione. Essa rappresenta pertanto un sentimento generosissimo che si rivolge in maniera indiscriminata verso ogni nostro simile. La fratellanza non sceglie i propri soggetti, essa è per certi versi un dato primitivo dell’esperienza. Non si sceglie un fratello: lo si trova. […] La compassione, la pietà o la solidarietà, che costituiscono il nocciolo della fratellanza, si danno a tutti, anche ai malvagi, se si trovano in stato di bisogno. L’amicizia invece è selettiva. Ci si sceglie l’amico, non lo si trova già dato per una relazione di natura. L’amicizia si instaura tra soggetti che si stimano reciprocamente, e che si scambiano il dono della fiducia. E se la fiducia è tradita, l’amicizia si rompe. […] Mentre la fratellanza presuppone soltanto un’eguaglianza naturale, l’eguale condizione umana – ma può invece tollerare diseguaglianze sociali anche rilevanti – l’amicizia è possibile solo tra soggetti che si riconoscono una pari dignità e si collocano su posizioni di forza grosso modo equivalenti». Per questo «è bidirezionale, dialogica: si dà e si dice, ma ci si aspetta un riscontro, un dire o un dare più o meno equivalente». E ciò fa sì che possa costituire la base per un vero e proprio vincolo sociale e politico.

Proprio da questa centralità dell’amicizia, che si traduce anzitutto in esemplarità, lealtà e coerenza, occorre partire per seguire il filo del discorso di Caffi. Quindi, nell’ordine, semplificando al massimo: viene anzitutto la coscienza individuale (quando esista, naturalmente: e non è detto che la capacità di coltivarla sia propria a tutti), che si esplica e si accresce nel confronto empatico con altre coscienze, creando un rapporto che a sua volta entra in rete con altri sodalizi similmente fondati sulla reciprocità, in una interazione sempre maggiormente estesa (anche se di sempre minore intensità), fino a costituire il tessuto sociale.

Non è una concezione così banale e campata per aria: ribalta il concetto che sta a monte di quasi tutte le ideologie rivoluzionarie, quella marxista in primis, che partono dalla costruzione (più o meno violenta, guidata da “rivoluzionari professionisti” e imposta alle masse) di una società che a sua volta formi o rimodelli le coscienze individuali. Non è lontana dalla “rivoluzione individuale” predicata da Gustav Landauer, e corrisponde grosso modo all’idea di socialità che ho sempre coltivato anch’io, comprensiva sia della consapevolezza di un certo elitarismo e di una valenza fortemente utopica, sia anche di una realistica dose di disincanto, per cui il valore primario rimane quello della socievolezza insito nel rapporto amicale, indipendentemente dal fatto che questa possa poi tradursi in società. Alla luce delle pur scarse esperienze di azione politica che ho maturato non posso che condividere questa impostazione (cfr. Fare le pulci, in Muli, gitanti e cavalieri erranti).

Socialismo

«Se il socialismo oggigiorno non può essere altra cosa che un “apparato” d’azione politica (con stinte o tarlate coperture ideologiche) impegnato – assieme ad altri partiti – nel mesto compito di mantenere più l’apparenza che la sostanza di regimi “democratici” in una Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la continuazione – con discesa nel popolo – delle grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione della ragione umana, sui principii della quale è unicamente possibile fondare la pace, la fraternità, la felicità per tutti – allora dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall’agosto 1914 in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento – e che … bisogna ricominciare da capo

Dovessi però spiegare cosa “concretamente” intende Caffi per socialismo sarei in grossa difficoltà. E in qualche modo lo era anche lui. Intanto perché non amava affatto gli “ismi”, e usa il termine solo nella misura in cui connota una generica disposizione di spirito nei confronti dell’assetto sociale. D’altro canto, ha vissuto dall’interno – molto dall’interno, addirittura tra i muri della Lubianka, in attesa di essere fucilato – l’instaurazione di un “regime socialista”, della “dittatura del proletariato”.

Era esattamente quello che aveva paventato fin dalla sua prima militanza menscevica, e che gli era stato confermato già allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando tutti i partiti affiliati alla Seconda Internazionale avevano appoggiato l’interventismo scellerato degli stati nazionali. Era il logico sbocco di una concezione della politica solo apparentemente “rivoluzionaria”, nella realtà mirata essenzialmente alla conquista del potere e all’esercizio del dominio, e come tale intrisa totalmente dalla violenza.

A ben considerare, tuttavia, la spiegazione non sarebbe solo difficile. Sarebbe inutile. Il linguaggio di Caffi è infatti quello di un impolitico, di un radicale intransigente, cosmopolita e aristocratico, senz’altro legato più all’utopismo ottocentesco che alla pragmatica concretezza dei “socialisti reali”.

Per lui ogni forma di organizzazione che non riconosca come fondamentali nozioni quali civiltà, dignità, giustizia, eguaglianza, fratellanza, gentilezza, ha nulla a che vedere col socialismo. Non possono essere fondanti i rapporti economici o quelli di classe, non si può ridurre l’eguaglianza ai soli aspetti della distribuzione quantitativa. «Non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il socialismo. Il socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che l’individuo riesce a creare con chi si trova di fronte.»

Il criterio che sta alla base del marxismo, il “materialismo storico”, per il quale i rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica sono il terreno concreto su cui viene eretta poi una sovrastruttura giuridica e politica, è a suo parere assolutamente riduttivo, riconduce tutto a un razionalismo artificioso. Non tiene conto infatti che la socievolezza «produce motivi d’affetto, di comunione, di dedizione, di gelosia, che hanno poco a che vedere o addirittura contrastano le finalità economiche». In altre parole, a muovere gli uomini non sono solo i criteri razionali del rendimento economico, perseguiti attraverso la ricerca del potere.

Insomma. Caffi non dà mai del socialismo una definizione nei termini squisitamente “politici”, o almeno in quelli dell’accezione “moderna” della politica. Non lo fa volutamente, perché una traduzione in quei termini costituirebbe per lui uno stravolgimento del suo reale significato.

«Ora il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa qualifica di “neo-umanesimo”, proprio dal fatto che si è eretto a difesa della “società” contro gli inumani congegni dell’“ordinamento statale” ed ha perseguito la completa emancipazione della società – delle concrete comunità di uomini vivi – dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come numeri, “soggetti”, schede. E se il socialismo abbandona questo motivo dominante, non troverà più argomenti, né morale sostegno per combattere la dittatura comunista.»

Dice piuttosto cosa non è. E la sua concezione la si ritrova diffusa in ogni sua pagina, e in ogni scelta comportamentale. «Oggi, il moltiplicarsi di gruppi di amici, partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per gli stessi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza.»

Il suo socialismo è dunque da intendersi in senso etimologico: viene dalla società, che come abbiamo già visto è innanzitutto un insieme di individui, ma che «esiste solo sopra un certo livello di dignità umana. Se vissuta secondo verità e giustizia da individui che si sentano “personalmente responsabili” e assolutamente uguali, impegnati a rispettare l’autonomia sovrana della persona altrui». Ovvero, solo dove vige il rispetto di sé e degli altri.

Il socialismo consiste in definitiva per lui nella organizzazione il meno possibile coercitiva e gerarchizzata di questi rapporti, nel renderli possibili e nello sganciarli dai criteri del “rendimento economico”, per indirizzarli invece alla verità, alla giustizia e all’uguaglianza. Si fonda sulla libera socievolezza, e quindi rifiuta le tendenze autoritarie e l’esercizio della violenza, ma anche le istituzioni in generale. Prima tra tutte, lo Stato.

 

Stato, popolo, società

Lo Stato (che identifica col “governo”) è per Caffi un apparato burocratico e militare messo in piedi ai fini del dominio. Una struttura di potere che tiene in soggezione il “popolo”. Il quale “popolo” non è affatto depositario di quelle particolari virtù morali che troppi letterati romantici o una demagogia d’accatto gli attribuiscono (sagacia, generosità, modestia, dignità, ecc…), di una saggezza «i cui effetti miracolosi si produrrebbero di colpo non appena spezzate le catene del servaggio. L’esistenza di tali catene non è un accidente assurdo […] la loro conservazione e il loro aggravamento millenario non si spiegano senza la complicità essenziale dei prigionieri. […] Dopotutto, molti dei seguaci di Mussolini e di Hitler sono “popolo”». Di per sé il “popolo” è una entità amorfa, per certi versi “responsabile del suo stato di oppressione e sfruttamento”. Con la modernità poi è diventato sempre più “massa”: e a differenza del popolo la massa non ha più, a tenerla unita, un minimo di sentimento di appartenenza ad una comunità, nella quale si condividano almeno riti, credenze, tradizioni, e comunque momenti di sentire collettivi. «È uno stato dei sensi e della volontà nel quale l’individuo rimane fondamentalmente indifferente alla sorte dei suoi simili, con i quali tuttavia si aduna e si aggrega, e con i quali finisce per marciare al passo in formazioni serrate […]. La sua esistenza è inseparabile dal macchinismo in senso stretto, da quegli apparati giganteschi che assoggettano la società a una direzione totalitaria.» Caffi ha qui certo in mente le “adunate oceaniche”.

La trasformazione del popolo in “massa” è correlata ai mutamenti politico-economici intervenuti tra la fine e del settecento e quella dell’Ottocento: “Il fatto apparentemente privo d’importanza “ideologica” e “rivoluzionaria” che fu l’introduzione di uno stato civile tenuto da burocrati secondo metodi ricavati dalla “scienza impassibile” (nuda notazione dei fatti, subordinazione di ogni “qualità” a un ordine quantitativo, legame con la statistica, ecc …) ha tuttavia avuto ripercussioni più considerevoli che non si pensi. Lo stato civile uniforme, democratico, laico, è un particolare necessario di quel rimaneggiamento del regime sociale e dello Stato che ha stabilito l’eguaglianza davanti alla legge, la coscrizione, la potenza in certo senso assoluta e impersonale del denaro, la libertà di esercitare una professione o di cambiare. L’intenzione sembrava essere quella di sopprimere per astrazione o di ignorare radicalmente ogni “qualità intrinseca”, in quell’“unità” i cui caratteri distintivi si esprimevano in grandezze di tempo, di spazio, di volume, di livello, ecc… Il risultato era naturalmente di ribadire la potenza e la supremazia del generale sul particolare, della macchina sociale sull’individuo

Mentre il popolo subisce più o meno passivamente la soggezione, e la massa corre a farsi schedare e irreggimentare, unica ad opporre una resistenza, e quindi soggetta ad una azione maggiormente repressiva, è la “società”. «Conveniamo di chiamare “società” – scrive Caffi – l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura … uno stile di vita diretto a esaltare la socievolezza, la cortesia, l’amicizia.» E che evidentemente non possono essere inseriti “in questa o in quella colonna di cifre statistiche”.

Ora, dice Caffi, «il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di “nuovo umanesimo” proprio dal fatto che si è eretto a difesa della “società” contro gli inumani congegni dell’“ordinamento statale”, ed ha perseguito la completa emancipazione della società – delle concrete comunità di uomini vivi – dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come numeri, “soggetti”.».

Quindi: la “società” nasce per aggregazione spontanea e non si organizza gerarchicamente, non si identifica con una particolare classe sociale o con un gruppo economico, non si compromette con il potere e non coltiva ambizioni di dominio. Caffi è consapevole che questo stile di vita presuppone condizioni particolari, e infatti ammette: «la vita di società si realizza ad opera di un ceto emancipato dalla necessità di lavorare e, almeno fino ad un certo punto attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della “vita interiore”». E si rende anche conto che queste condizioni sono tutt’altro che la norma, che la “società” dunque risulta particolarmente vulnerabile, per cui necessita di godere di tranquillità politica e sociale, e di bandire ogni forma di violenza.

Ma come può esistere una società nella quale le differenze (e quindi le attitudini, le competenze) dei singoli non si traducano in disuguaglianze?

«Gerarchie veramente sentite e spontaneamente volute esistono certamente, ma non si trovano là dove c’è chi comanda e chi obbedisce, dei capi e una massa, dei privilegiati e dei diseredati. Si trovano nelle comunità autentiche, religiose, politiche o semplicemente sociali che siano, dove l’autorità riconosciuta si esercita nel riconoscimento di un’eguaglianza, di una comunanza o di una fraternità fondamentale».

Le gerarchie nascono spontaneamente quando si danno occasioni nelle quali diventa necessario attribuire a qualcuno un ruolo decisionale, e che questo ruolo qualcuno sia disposto ad assumerselo. Ma sono appunto occasioni, situazioni particolari, e la delega non può diventare sistema.

«C’è un limite chiaro, varcato il quale il “senso di responsabilità”, la forza d’animo per cui si accetta di rispondere personalmente del successo di un’impresa comune di fronte ai compagni impegnati nell’impresa su piede d’eguaglianza e con egual diritto a beneficiare del risultato, muta di carattere e di natura: è il momento in cui si attribuisce a se stessi, in qualità di capo, potere di comando sugli altri, ossia il diritto di servirsene come mezzi per ottenere un certo scopo di cui si vuoi essere il solo a detenere la gloria e i vantaggi. Questo limite coincide in sostanza con la sostituzione della volontà d’efficacia al senso dell’obbligo verso gli altri, considerati come propri eguali, oppure verso coloro dei quali ci si è assunta appunto la responsabilità. Una guida di montagna si preoccuperà di riportare a valle tutto il suo gruppo sano e salvo: per lui, sarà sconfitta bruciante se un incidente grave capiterà sia pure a uno solo della cordata; ma un generale non sarà soddisfatto se non avrà raggiunto l’“obbiettivo prescritto”, magari col sacrifizio di tre quarti dei suoi soldati.»

Tutto ciò ha evidentemente poco a che fare con l’idea della politica che si è affermata nel mondo moderno (ben diversa dalla politeia di cui parlavano i greci), e mette in discussione le forme e i mezzi con i quali può essere esercitato il potere, oltre che l’idea stessa di potere. Ogni forma di potere è una limitazione della libera espressione individuale, unica guida della quale dovrebbe essere il senso di responsabilità. «Quanto meno è formato da individui responsabili tanto più il popolo ha bisogno di essere governato, assoggettato a un potere che non può essere esercitato che con la violenza.» Quindi i rapporti politici non solo non agevolano la crescita dei legami spontanei e creativi tra individui e gruppi, ma anzi, ne rappresentano una vera e propria antitesi, li snaturano e li travisano. Se si vorrà costruire una società in cui possano fiorire socievolezza e fratellanza lo si dovrà fare contro o nonostante la politica.

Di conseguenza Caffi afferma che «l’obiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe che essere che la lotta tenace contro la “macchina” dello Stato nazionale, che è diventato l’agente principale, se non unico, dell’oppressione sociale». E si riferisce a quella forma di statualità che ha mostrato la peggiore e più veritiera immagine di sé a partire dal 1914, dalla guerra mondiale, in occasione della quale il suo intrinseco legame con l’esercizio della violenza si è palesemente rivelato, ma che già era andato affermandosi nel corso del XIX secolo con l’adozione del modello Stato-Nazione, quello per intenderci che sfocerà nel culto del “sangue e suolo”. La dissoluzione dell’ancien régime, delle monarchie dinastiche ereditarie, ecc… ha fatto spazio, per adeguare il mondo alle esigenze del nuovo modo di produzione industriale, alla creazione del mito della Nazione, dei suoi sacri confini. Questo ha reso se possibile più sanguinosi i conflitti, che coinvolgono tutta la popolazione e diventano terreno di sperimentazione, di innovazione tecnologica, di stimolo alla produzione industriale.

Quindi: lo stato va scomposto in unità territoriali e sociali subnazionali, in ordine inversamente crescente di responsabilizzazione amministrativa e di partecipazione diretta alla stessa di tutti gli individui. Ma soprattutto gli va sottratto il monopolio del diritto, che non può essere uno per tutti, fissato per sempre, ma frutto di creatività continua e attenta ad ogni specifica situazione.

Democrazia e libertà

Piaccia o meno, gli stati esistono, e con essi occorre confrontarsi. Lo scontro è evidente e inevitabile là dove il potere politico si configura come un’autocrazia; più difficile invece far prendere coscienza della necessità di questa opposizione dove la facciata appare democratica: «I regimi moderni, abusivamente qualificati come “democratici”, sono in realtà una combinazione di “ochlocrazia” (sovranità più apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia – regno effettivo delle grosse fortune».

Con queste premesse si capisce come Caffi non possa essere un entusiasta sostenitore della democrazia parlamentare, “borghese”. E meno che mai lo è di quella sedicente “diretta”. L’idea che ha della democrazia non si concilia con alcuno dei sistemi politici esistenti al suo tempo. «La democrazia quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo». Non solo. La storia, e la sua personale esperienza, insegnano che: «se si ammette la delega della “sovranità popolare” sia di un uomo sia di un partito politico, i risultati tipici che offre sinora l’esperienza della storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall’altro quella vera (o “nuova”) democrazia che rende ora felici i polacchi, i bulgari, gli jugoslavi».

Quanto alla democrazia diretta: «Scartiamo decisamente l’assurda supposizione che “democrazia” debba significare “popolo governato dal popolo stesso”. Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa) ha mai potuto effettivamente governare, esercitando cioè in concreto i “poteri” (legislativo, esecutivo, giudiziario, ecc…), neppure in una minuscola città greca o in quei cantoni rurali della Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta». Questo perché non ha alcuna fiducia particolare nel “popolo”, sempre più sul punto di diventare “massa”.

Insomma, la democrazia è interpretata da Caffi in funzione “difensiva”, più che propositiva: non deve essere intesa come regime di governo, ma piuttosto come regime di diritti: «La realtà della democrazia s’afferma non con la fiducia negli eletti, ma con la possibilità di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite». Ciò significa che è necessario difendere la democrazia “formale” (dove formale significa ispirata e fedele agli inderogabili principi di verità – ovvero trasparenza – e di giustizia – ovvero eguaglianza) contro chi è pronto a sacrificarla a quella “sostanziale” (ovvero a quella che si spaccia come realizzata negli stati liberaldemocratici di origine ottocentesca). I principi, al di là della possibilità di tradurli poi in prassi politica, vanno salvaguardati contro ogni snaturamento e compromesso.

È evidente comunque che ritiene attuabile questa difesa solo nei piccoli circoli di “resistenza” contro la macchina burocratica, quelli nei quali identifica la “società”. Della loro libertà la democrazia deve farsi garante: «La sostanza dell’ordinamento democratico sta nella difesa della incolumità personale di ogni cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della “potestà coercitiva” e nel raggiungimento di un massimo di uguaglianza, quell’uguaglianza che deve essere estesa a tutti gli uomini, senza mai ammettere alcuna idea di superiorità o inferiorità né tra persone né fra gruppi».

Vedo però a questo punto che sto girando attorno al nodo della questione. Che è: in positivo, come modalità politica e amministrativa quotidiana, la “democrazia” ha qualche chance di funzionare? Confesso che non ho trovato in Caffi indicazioni convinte, se non i riferimenti alle autonomie diffuse, ad una democrazia “locale”, applicabile in ambiti estremamente ristretti. La verità è, a mio parere, che in fondo Caffi, anche senza aver mai avuto esperienza di un’assemblea di condominio, non sia affatto persuaso della possibilità di un esercizio “universale” della democrazia. Almeno nell’immediato, ma anche a breve termine. Ha una sua idea della democrazia, la migliore in assoluto, perché si fonda sul presupposto della partecipazione cosciente e responsabile di tutti i singoli individui, e perché si pone come scopo la verità e la giustizia: ma sa perfettamente che nella realtà quel presupposto non è affatto dato, che la maggioranza degli individui è popolo, o addirittura massa. E allora non rinuncia al suo ideale, lo conserva intatto da compromessi: ma non ne fa una bandiera d’attacco quanto piuttosto un vessillo di resistenza.

Caffi si candida dunque, anche all’interno di un regime “democratico”, a vivere in minoranza. Lo afferma esplicitamente, quando rivendica il ruolo e la dignità delle minoranze. Le minoranze non hanno l’obbligo di cercare di diventare maggioranze. Devono avere coscienza di sé, e del fatto che magari i più possono non condividere le loro proposte e il loro operato. Non devono conquistare il potere, ma condizionarlo, e per quanto possibile svuotarlo.

«I cenacoli di libertini e di enciclopedisti, le piccole “società di atei” di cui parlano volentieri Fielding e Smollett, le Logge massoniche e i “salotti dove si conversava” svolsero una propaganda irresistibile, mettendo in contatto gli spiriti liberi da un capo all’altro d’Europa. Quegli uomini non avevano alcun bisogno di un’organizzazione centrale che prendesse decisioni e applicasse sanzioni in loro nome. Il loro scopo era di trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose, e perciò la loro opera portò nel mondo un cambiamento reale.»

Può non sembrare tale, ma è un’alternativa molto più realistica del mettersi in concorrenza con chi il potere ce l’ha, a meno di accettare di scendere sul suo stesso piano. Che non prevede il perseguire verità e giustizia. E non salvaguarda la libertà.

Su cosa poi si debba intendere, concretamente, per “libertà” Caffi è molto asciutto: «Dovunque si abbia vita in comune (e dove non si ha vita in comune con gli altri?) la libertà è che mi si lasci in pace il più possibile, sicché io non abbia a scervellarmi sulla famosa scelta fra “libertà astratta” e “libertà concreta”, democrazia “formale” e democrazia “sostanziale”. Se non ho paura di esser svegliato alle sei di mattina dalla NKVD o dalla Gestapo, sono libero; se no, non lo sono, e non c’è altro da dire».

Non si può certo dire che parli senza cognizione di causa.


Europeismo

In opposizione al modello dello Stato-Nazione Caffi propone quello antistatalista di una federazione europea. Lo fa già nei primi anni Venti. È reduce dalla devastante esperienza della guerra e dalla delusione per gli esiti della rivoluzione bolscevica, e assiste da un lato a un riassetto dei confini che non tiene in minimo conto le aspirazioni dei popoli, dall’altro all’esplodere dalle contraddizioni all’interno della sinistra, di quella italiana e di quelle europee, proprio in merito alle valutazioni su quella rivoluzione. Inoltre si è formato sui testi di Pierre-Joseph Proudhon, che rimarranno sempre un suo riferimento, e sul ricordo dell’esperienza dei populisti russi; dagli uni e dall’altro mutua l’idea del federalismo.

Meno significativa, o addirittura quasi nulla, l’influenza esercitata su di lui dai federalisti italiani risorgimentali, quali Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. In effetti la loro concezione del federalismo rimaneva tutta interna al gioco politico e a quello economico. Doveva garantire la convivenza pacifica tra le nazioni. Per Caffi invece il federalismo è l’unico assetto istituzionale che garantisca la libertà degli individui e delle comunità (o, se vogliamo, della società). Permette infatti di abolire il dispotismo dello stato centralizzato, che impone la propria volontà alla società tramite un rapporto che va dall’alto al basso. L’organizzazione deve al contrario nascere dal basso, dalla libera federazione degli individui nei comuni, dei comuni nelle provincie, delle provincie nelle nazioni e infine di queste ultime negli Stati Uniti d’Europa (e magari più tardi del mondo intero).

La sua è una proposta radicale, fondata sul completo superamento dell’idea di “sovranità” nazionale. E tanto più lo diventa dopo che è passato attraverso una seconda guerra fratricida. Nel 1946 in una lettera scrive: «Se vogliamo sul serio salvare la società dalle guerre, dai governi totalitari e da tutte le bestialità che questi due aspetti d’un medesimo fenomeno implicano […] bisogna abbattere al più presto l’idolo della nazione; in particolare l’Europa sarà ridotta allo stato di “giungla” (terreno per tigri e grossi cacciatori) se non si rinuncia radicalmente alle “sovranità nazionali”, agli orgogli e “sacri egoismi” patriottici, alla superstizione della solidarietà etnica in nome della quale bisogna uccidere e morire».

Il che non significa però negare un riconoscimento delle identità nazionali e di un senso del radicamento che risponde alla necessità di riconoscersi in un passato, al bisogno di una identità collettiva. Significa invece che questi bisogni vanno sottratti alle sirene nazionalistiche che suggeriscono vendette e sanguinose rivalse, e vanno incanalati a rendere coscienti gli individui di una possibilità di coesistenza autonoma, e soprattutto di partecipazione diretta al governo della futura entità sovranazionale.

«La nazione come patrimonio culturale (lingua, “memorie comuni”, costumi nella misura della nostra vita planetaria) si deve dissociare da qualsiasi formazione politica, privare completamente d’ogni mezzo di coercizione e suoi “membri” – che tali saranno unicamente per spontanea e revocabile adesione. […] Se per ragioni ovvie conviene che ogni regione abbia un suo autonomo governo, bisogna stabilire fra i vari “paesi” patti non di semplice “amicizia, non aggressione” ecc … – ma di completa “simpolitia” (usando un vocabolo che definiva l’unione per esempio fra Atene e Samo) per cui cioè, senza formalità alcuna, il “cittadino” d’un paese trasferendosi in un altro vi godrà degli identici diritti che gli “indigeni” di quello

Le posizioni di Caffi sul socialismo, sulla politica, sul potere, nonché quelle sulla democrazia, sulla libertà e sulla non violenza, sono destinate a rimanere minoritarie (se non addirittura isolate) nella sinistra italiana dell’epoca, in quella liberal-democratica come in quella socialdemocratica, per non parlare poi di quella “ortodossamente” marxista. La cosa vale tanto più per la sua concezione dell’europeismo, rispetto alla quale anche i ristrettissimi gruppi che immediatamente dopo sia il primo che il secondo conflitto mondiale sembrano imboccare quella direzione rimangono molto tiepidi.

Tale marginalità si è protratta sino ad oggi, al punto che quando si parla dei precursori del pensiero europeista Caffi non viene mai menzionato. Eppure quelle posizioni erano di una rarissima lucidità e conservano oggi una sorprendente attualità. Il suo disegno di una Europa federale pare scritto in questi giorni, e anticipa di un secolo tesi e proposte sulle quali con molta minore lucidità e convinzione, in piena emergenza di sfaldamento dell’Occidente, si sta ora quotidianamente discutendo (non quella di un “riarmo”, naturalmente). Ad esempio, Caffi, quasi solo anche nel ristretto circolo degli europeisti tra le due guerre, vede il rischio comportato da un’unione economica che anticipi quella politica, in ciò andando in controtendenza rispetto a quanto da tre quarti di secolo a questa parte è stato invece fatto.

Non oso immaginare cosa penserebbe oggi al cospetto di un elefante burocratico che dopo una gestazione di settant’anni ha partorito topolini ciechi e rissosi, e che in luogo del senso di comunità ha messo in circolazione solo la moneta unica.

Andrea Caffi e l’amico Gianni, Tolosa 1947

Intellettuali

L’insistenza sulla necessità urgente di adottare una visione federalista, espressa già da Caffi nell’immediato primo dopoguerra e ribadita sino agli ultimi suoi giorni, suona da monito alla classe intellettuale antifascista (quella che dovrebbe esprimere la futura “società”). Gli intellettuali di sinistra debbono darsi una svegliata e non arrendersi, o addirittura crogiolarsi, nella contemplazione delle rovine della civiltà europea (a questo già ci pensa la destra: è di pochi anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler). Devono elaborare un progetto di fratellanza sovranazionale, costruire una visione capace di entusiasmare le giovani generazioni, un ideale da offrire loro in alternativa alle parole d’ordine barbariche diffuse dai fascismi; il tutto tenendo sempre ben presente che i fascismi sono solo la manifestazione più eclatante, e certo nell’immediato più pericolosa, di una crisi molto più profonda e diffusa della coscienza europea. Ma deve trattarsi di progetti e visioni che prescindono da ogni calcolo economicistico.

In tal senso va interpretata la riflessione che Caffi fa sul rapporto tra i giovani e il fascismo: «Poco importa loro la meta, di solito così fantastica che ogni tentativo di precisarla finirebbe in delusione: ciò che conta è il temerario cimento, è l’occasione di drammatici sacrifici. Affascina il sogno di “vivere pericolosamente, di poter servire e comandare con tutto impegno” e soprattutto di trovarsi in permanenza “come in guerra”, cioè sbarazzati da tutte le norme e le abitudini del “consorzio civile”». Questo la sinistra dovrebbe avere ben presente, e sbarazzarsi del dogmatismo del “materialismo storico” e delle dispute sulle interpretazioni più o meno autentiche del verbo marxista.

Dovrebbe anche, secondo Caffi, fare i conti con la mitologia risorgimentale. A dispetto della militanza del nonno, è molto critico nei confronti del Risorgimento, soprattutto di Mazzini, ritenendo che proprio la nascita degli stati nazionali, destinati a confrontarsi immediatamente nella logica del potere. violenza, rappresenti oggi l’ostacolo all’unificazione europea, e spieghi la deriva totalitaria.

«Se mi fosse dunque permesso di dare un consiglio, raccomanderei la rinuncia ad ogni conato di collegare il movimento rivoluzionario a cui vorremmo chiamare gli “europei svegli” e le “sacre memorie” del Risorgimento italiano. Anzitutto, perché questo residuo di vanità nazionale è da “mettere in soffitta”. Poi perché nel Risorgimento italiano prevalgono elementi, ai quali i nostri avversari hanno più ragione di attingere che non noialtri, sovversivi senza riguardi.»

Come a dire che il fascismo era già in qualche modo intrinseco al pensiero risorgimentale. Questo giudizio pone fine alla collaborazione con Carlo Rosselli e con il gruppo di Giustizia e Libertà, che danno invece credito al racconto di un Risorgimento popolare.

Non è comunque l’unico motivo di rottura. Caffi è anche contrario a “fronti popolari” che implichino una coabitazione col comunismo staliniano. Significherebbe a suo giudizio svendere per un piatto di lenticchie, tra l’altro guaste, le idealità che devono animare una genuina resistenza ai totalitarismi: a tutti, quale che sia l’etichetta politica dietro la quale si mascherano.

«La rivoluzione che ci libererà dal fascismo – sarà un movimento veramente efficace se allo stesso tempo porterà un più alto tono, un “clima” più fecondo nella vita sociale e nella vita spirituale degli italiani. Inoltre, il fascismo non essendo un problema particolare all’Italia, ma una crisi della società e della coltura europea, è ovvio che per “superarlo” bisogna mettere in campo, “valorizzare” tutte le forze vive e tutta l’esperienza accumulata appunto “nei vari campi dell’attività umana”: giungere cioè ad un modo di concepire e di attuare la giustizia, l’eguaglianza sociale, la libertà dell’uomo e delle associazioni umane, che corrisponda veramente alle esigenze morali, intellettuali, estetiche, religiose, quali l’epoca nostra le ha rivelate o fatte maturare nelle così dette “avanguardie” attraverso le più diverse forme di ricerca della verità.»

Verità

Della verità, appunto. «Il mio terzo principio l’ho attinto dalla lettura di Erodoto che ai giovani persiani si insegnava soprattutto di “dire sempre la verità”. M’è sembrato che l’esperienza della vita confermasse la bontà di tale precetto – e che la furbizia “politica” avesse sempre “le gambe corte”. Se si è potuto augurare che “da persone oneste” si comportassero gli Stati, perché non fare lo stesso augurio per i partiti politici? Può essere qualche volta incomodo e qualche volta ridicolo. Ma pure il ridicolo è sempre stato impavidamente affrontato dagli apostoli d’un movimento veramente grande.»

Caffi individua precocemente un aspetto cruciale del futuro che si va delineando: la manipolazione delle masse operata dal nuovo populismo, di destra o di sinistra, attraverso la falsificazione della “verità”. Sembra intuire addirittura quello che un secolo dopo sarà il fenomeno della post-verità. Oserei dire però che ne ha già conosciuta la concreta esemplificazione nel titolo, nei modi e nei contenuti dell’organo ufficiale dei bolscevichi, la Pravda (la Verità), e questo è stato forse il primo degli aspetti del nuovo regime a disilluderlo. Oggi in Italia ne troverebbe sotto lo stesso titolo una grottesca parodia.

Non è comunque l’unico della sua generazione di libertari a insistere su questo tema, basti pensare ad Ortega y Gasset, o ancor più a Orwell. E non scopre nulla di nuovo: la manipolazione della verità, assieme al ripetersi dei massacri, è una delle costanti della storia e dei rapporti di potere. Di nuovo c’è il fatto che ora il terzo incomodo in questi rapporti, la “società”, gode di una autonomia sufficiente per metterla a nudo. La post-verità tuttavia va oltre la manipolazione: quest’ultima è la narrazione distorta o anche totalmente stravolta dei fatti, ma gira comunque attorno ad essi ed è soggetta a smentite e a revisioni, mentre la prima opera già a partire dall’assunto che la verità sia una questione di secondaria importanza, e i fatti li inventa. Fa leva quindi sull’ignoranza dei riceventi (il popolo, le masse), sulla pigrizia intellettuale di chi non vuole o non ha il coraggio di approfondire (gli intellettuali) e sulla determinazione degli emittenti (il potere, politico ed economico) ad asservire i primi e ad arruolare o mettere a tacere i secondi. E agisce subdolamente su vari piani, banalizzando la realtà dei problemi in slogan che non significano nulla (Via la guerra dalla storia, per citarne uno che ho sentito recentemente e che a Caffi sarebbe magari piaciuto, ma solo sulla bocca di chi la storia la conosce) e offrendo spiegazioni e soluzioni rapide con l’identificazione a tutti i costi di un responsabile, un individuo, un popolo, una classe sociale o economica. Identificare un responsabile è il modo per non considerarsi mai responsabili (in negativo) o per non diventarlo mai (in positivo, nell’accezione nella quale Caffi usa il termine). E in questo la sinistra, quando non è andata a rimorchio della destra, è stata addirittura anticipatrice.

Caffi sogna una società giusta ed equa, fondata sul “vero”. Quindi sulla presunzione che il “vero” esista. Ora, qui non si tratta di arrogarsi l’accesso ad un “vero” filosofico, assoluto: molto più semplicemente chiede sincerità e trasparenza, e le chiede in primo luogo agli intellettuali – chiede loro di raccontare le cose come stanno, come accadono, di non piegare la parola e la ricerca per imporre il proprio punto di vista o quello degli interessi che rappresentano.

In una lettera ad Angelo Tasca, suo compagno d’esilio in Francia, scrive: «Soltanto una cosa mi pare perniciosa, disperante e tale da rendere impossibile una partecipazione anche teorica: è l’assenza di schiettezza. […] intendo per tale assenza ogni sostituzione di idoli o schemi alla immediata visione di realtà umane: qualsiasi sussiego in nome di un “istituto”, d’una bandiera, d’una gerarchia, qualsiasi forma di patriottismo, qualsiasi pretesa di sacrificare il singolo ad una generica “collettività”, di calpestare o mutilare l’espressione personale per raggiungere “effetti di massa”; che da più di vent’anni tutti gli amici marxisti che ho avuto abbiano tacciato come “mentalità anarcoide – estetizzante – intellettualistica – piccolo borghese” questo punto di vista non può controbilanciare l’esperienza troppo sicura degli inevitabili sviluppi cui si va incontro, indulgendo a tali espedienti; sempre ho visto come risultato una degradazione e falsificazione dei migliori intenti ed anche dei migliori uomini. […]

Ecco quel chiamo assenza della schiettezza, causa di continue “delusioni” nel grande sforzo di emancipazione dell’uomo. Ben inteso non l’ascrivo a malvagità connaturata negli individui; è ovvio come tutto un reticolato di circostanze materiali, d’educazione, di inerzie consuete si sovrappongono alle migliori intenzioni di uomini rispettabilissimi. Ma la questione rimane angosciosa: se non si lacera quel reticolato (così se a principio d’ogni iniziativa sociale non si pone come regole assolute: a) di dire sempre la verità e tutta la verità; b) di evitare con sforzo massimo ogni manifestazione o reazione gregaria, ogni “semplificazione ad usum plebi”; c) di sabotare spietatamente ogni “apparecchio”, ogni fissazione di gerarchia, ogni durevole subordinazione dell’uomo a “istituti” o “capi”) sarà sempre fatica di Sisifo la riforma e del regime di proprietà».

Più chiaro di così …

Utopia

«Platone fu condotto a immaginare la Città dove “tutto sarebbe messo in comune” dal disgusto per la politica: non solo per la politica tirannica dei Trenta, alla quale si era trovato mescolato a causa dei suoi legami di famiglia, ma per quella dei loro successori “democratici” responsabili della morte di Socrate. L’esempio di Platone suggerisce che ci sono momenti, nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci.»

A volte Caffi sembrerebbe tentato di seguire questo esempio, di arrendersi al disgusto e alle disillusioni che la politica gli ha provocato e di viaggiare con la mente verso l’isola che non c’è. O meglio, questo è ciò che gli contestano persino molti dei “compagni di strada” coi quali ha condiviso la lotta contro i totalitarismi. Una bravissima persona, una mente fuori del comune, ma una testa piena di sogni e un carattere incapace di venire a patti con la realtà. Il fatto è che la realtà Caffi la conosce benissimo, in genere molto meglio di chi lo taccia di fumisterie: talmente bene che non gli piace per nulla, e per questo vuole cambiarla.

Ha creduto anche lui, in gioventù, nella possibilità di arrivare con la rivoluzione a risultati massicci e immediati: ma quello che ha visto gli ha fatto capire che cambiare non significa mettere tutto sottosopra, favorire la rivalsa di una classe nei confronti di un’altra, ecc …, confidando che la storia faccia il suo corso. Occorre invece “ripartire da zero”, ma avendo ben chiari alcuni inderogabili valori: che devono essere ciò a cui si mira, ma al tempo stesso ciò in base a cui si agisce. Devono cioè ispirare tanto la meta quanto il metodo. Quando si è reso conto che la sua idea del mondo non combaciava col mondo, non era sovrapponibile alla realtà – e di questo si è accorto molto presto – non ha mollato tutto: ha risolto che in fin dei conti la cosa non fosse poi così determinante. Quel che contava era mantenere intatta una linea di pensiero che fornisse non il miraggio di un risultato finale, ma i dettami per il comportamento immediato. Perché era proprio quel comportamento, quel modo di “stare al mondo”, la vera meta. E quella linea di pensiero non può deviare sui compromessi, perché l’esperienza insegna che al di là di coloro che abbracciano le soluzioni compromissorie solo in funzione del proprio interesse, della propria partecipazione al potere, anche gli altri, quelli più sinceri e più puri, nel momento in cui cedono anche di un millimetro sui punti più importanti entrano nella logica del potere e finiscono per sacrificare ad essa i principi.

Questa convinzione fa di lui un “utopista consapevole”, uno che sogna da sveglio, sa di sognare, e proprio per questo col sogno non si trastulla (persino Lenin diceva che occorre essere seri coi propri sogni). Credo che questa consapevolezza gli sia stata dettata, oltre che dalle esperienze dirette, dal clima culturale nel quale era maturato a Pietroburgo, in un ambiente che conservava forte l’impronta dell’illuminismo (tra i suoi riferimenti ci sono Diderot e Condorcet) e al tempo la lezione di Aleksandr Herzen. Caffi infatti non è un sognatore romantico, e nemmeno crede nel progresso. Non dà una lettura evoluzionistica della storia, alla maniera di Spencer, né una finalistica alla maniera di Hegel. Non crede cioè che la società evolva sulla base di leggi proprie o di idealistiche finalità, e nemmeno che sia governata da superiori meccanismi economici. Nasce e si sviluppa in funzione di un bisogno, quello che lui chiama socievolezza, intrinseco alla natura umana.

Questo lo distingue dagli utopisti inconsapevoli. Sa che i sogni male interpretati possono diventare pericolosi, dei veri incubi, tanto quando vengono scambiasti per realtà quanto se si cerca di calarli forzatamente nella realtà. E il fronte sul quale si vede costretto a combattere più tenacemente è proprio quello interno al movimento, e di questo soffre moltissimo:

«Sento un isolamento morale più grave di ogni altro, oggi come oggi ho la certezza assoluta che nessuno di quelli che conosco vorrebbe prendermi a collaborare, diventarmi compagno di ricerche. Non è perché presuntuosamente io creda di arrampicarmi su vette più difficili di altri. È semplicemente il gioco delle combinazioni create dall’esistenza fatta finora da me: non posso entrare in un campo perché ne conosco altri che con questo non hanno né avranno mai punti di contatto. E la sintesi può interessare, appassionare, imporsi come indispensabile a me solo. Le assicuro che niente è così amaro come la coscienza di un “residuo” incomunicabile nei propri sentimenti, nei propri pensieri ogni volta che si avvicina con simpatia, con grande desiderio d’intendersi, uno che combatte in fin dei conti per la stessa meta: la liberazione spirituale degli uomini, il rinnovamento della nostra civiltà tutta.»

È una storia che si ripete, ogni volta che una mente sgombra riesce a inquadrare con sofferta lucidità la condizione umana. Non lo cita mai, ma a me fa venire in mente il Leopardi del venditore di almanacchi e delle passeggere: che fa razionalmente strage delle illusioni, ma sa che le illusioni, se coltivate nella consapevolezza, aiutano a vivere. Caffi va anche oltre: per lui vale la perfetta definizione offerta da Claudio Magris: «L’utopia dà senso alla vita, perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso».

Straniero

Non è un caso che Caffi sia entrato nelle mie simpatie da subito, dalle prime notizie su di lui che ho trovato tempo fa in una rivista dei primi anni Settanta, dal titolo appunto “Settanta”, oggi totalmente ignorata dai radar pur sensibilissimi della ricerca storica. Ne parlava Nicola Chiaromonte, che lo descriveva come un infaticabile camminatore, e la cosa mi è stata poi confermata dai ricordi di Moravia e di altri amici: «Non prendeva mai né il metro né gli autobus. – scrive quest’ultimo – Una volta si trovava a Montmartre e io gli diedi appuntamento a Montparnasse e attraversò tutta Parigi a piedi, e arrivò a Montparnasse sempre a piedi con il suo passo slogato di cammello. Era un uomo molto alto, aveva un corpo come disossato, appunto come un cammello, dondolante, con gambe infaticabili dove non si sapeva dove stesse la forza, dentro pantaloni che erano fatti così: il ginocchio dei pantaloni stava all’altezza dello stinco, la coscia stava all’altezza del ginocchio e degli enormi scarponi neri».

Caffi era in sostanza un vagabondo, piuttosto che un viandante: ha viaggiato molto, ma quasi mai per scelta. Il più delle volte aveva alle calcagna una qualche polizia. Dopo i vent’anni non ha mai più abitato in una casa propria, ha conosciuto le sistemazioni più precarie, nonché le carceri russe prima e dopo la rivoluzione e quelle francesi durante la Seconda guerra mondiale. Il suo recapito più continuativo fu una minuscola camera in un alberghetto di terza categoria a Parigi, la cui porta era sempre aperta: per lasciare entrare e per poter uscire.

Diceva di sé di aver scelto «un vagabondaggio puramente “recettivo”, attraverso paesi, libri, ambienti sociali, senza appartenere ufficialmente a un corpo organizzato qualunque». Per questo sta benissimo in compagnia con tutti gli spiriti irrequieti ed erranti dai quali da sempre sono intrigato.

Del vagabondo aveva una buona dose di incoscienza, quella di chi vive pensando di non aver nulla da perdere e che lo portava, quale fosse la sua sistemazione, in una istituzione bolscevica o in un ministero fascista, a giocare scherzi al regime, applicando forme di lotta che sarebbero piaciute a Debord e ai situazionisti.

Il termine più adatto per definire questo atteggiamento potrebbe sembrare temerarietà, ma direi che Caffi non era un temerario: semplicemente gli sembrava naturale fare, e dire, tutto quello che gli passava per la testa. Era un uomo libero.

Ma libero nel senso più esteso del termine, che arriva a comprendere anche risvolti che di per sé possono sembrare negativi. Era un uomo libero perché era, e si sentiva, ed era sentito, uno “straniero”.

«Per me – scrive in un’altra lettera del 1946 – il fatto d’essere cresciuto in Russia […] ha avuto un effetto che non rimpiango, benché mi abbia privato di certe gioie probabilmente profonde che può dare la totale communione [sic] con i circostanti: fin dall’“età di ragione” in Russia insistevo gelosamente (talvolta quasi “ringhiosamente”) sulla mia qualità di straniero e d’“occidentale”; più tardi, vivendo in Italia, in Germania, in Francia ecc. – un’indelebile [sic] sfondo di mentalità (o di “visuale”) acquisita in Russia, mi costringeva ad una certa “presa di distanza” rispetto alle mode intellettuali, ai costumi, ai pregiudizi agli entusiasmi del luogo e fra l’altro mi ha sempre impedito di capire una qualsiasi presa di posizione schiettamente “nazionale”. Ciò non andava, come accennavo, senza malinconie: è triste non potere partecipare di tutto cuore a esultanze, speranze ecc. di persone a cui si vuol molto bene e di sentirsi alquanto in disparte nei momenti d’un certo parossismo vitale.»

La tomba di Andrea Caffi – Parigi, Cimitero di Père-Lachaise 

Verso una conclusione

A questo punto ritengo di aver messo sin troppa carne al fuoco, per un intervento che voleva essere solo di semplice segnalazione. Probabilmente ho alzato parecchio fumo e creato una gran confusione. D’altro canto il pensiero di Caffi è così ricco, tocca tanti e tali ambiti, e in maniera così profonda e sorprendentemente anticipatrice, che riesce difficile costringerlo in telegrafici accenni.

Tanto vale allora che rubi ancora un minuto per un paio di considerazioni su temi che magari ho appena sfiorato, o rispetto ai quali nutro qualche perplessità.

La prima concerne il ruolo degli intellettuali. Sono senz’altro d’accordo con Caffi nel rifiuto dell’esistenza della proprietà privata nelle cose dell’intelletto. È un rifiuto che ho maturato da quando ho imparato a scrivere, lo applicavo già ai tempi della scuola e continuo ad applicarlo, per le cose mie e per quelle altrui, ancora oggi. Questo ha nulla a che vedere però col plagio (che è solo un passaggio di proprietà), e nemmeno con la copiatura pura e semplice, che è una pratica disonesta e avvilente per chi la mette in atto. Io parlo, e Caffi lo faceva molto prima di me, di condivisione. Di mettere cioè in circolazione le proprie idee, di renderle gratuitamente disponibili per chiunque sia interessato e voglia farne uso, si spera in modo intelligente, e di poter altrettanto liberamente – e responsabilmente – disporre di quelle altrui. Per capire meglio cosa intendo, basti considerare come funziona questo blog, e prendere ad esempio tutti i materiali di e su Caffi che abbiamo pubblicato sul sito, recuperati da altri siti o su pubblicazioni cartacee e trascritti nella convinzione che Caffi avrebbe senz’altro approvato questa operazione.

Per Caffi infatti il lavoro intellettuale non consiste nello sfornare quelli che oggi sono etichettati come “prodotti immateriali” e marchiati col codice a barre come il burro o il pesce congelato, quanto piuttosto lo sforzo di stimolare la curiosità sul senso del mondo, sui percorsi possibili per indagarlo, di discuterne, di alimentare un confronto ininterrotto. Ma soprattutto: «C’è un valore più intenso, il quale non può tradursi in nulla di materiale, o per un intellettuale magari in conversazioni o in fasci di appunti apparentemente slegati, e che consiste nell’essere in un certo modo, nello stare in un certo modo». La differenza sta tra l’“essere” un intellettuale o il “fare” l’intellettuale. Ed è una differenza sostanziale.

Mi chiedo però quanto valga oggi questo discorso, quello di Caffi e tanto più il mio. Aveva un senso senza dubbio all’epoca sua, lo ha perso in gran parte già nella seconda metà del secolo scorso, quando l’avvento della televisione ha creato poli di riferimento culturale e modalità di conoscenza inediti; non ne ha più alcuno, almeno per quanto concerne l’effettivo impatto sulle scelte dell’opinione pubblica, nell’era di Internet.

Oggi coloro che credono che la terra sia piatta, o cava, o fatta a coppa sono probabilmente molti più di quelli che hanno idea di cosa significhi “rivoluzione copernicana”. E non vale il discorso che anche prima di Copernico, o solo fino a un paio di secoli fa, i terrapiattisti fossero la maggioranza. Era oggettivamente difficile avere notizia di queste cose, e soprattutto la stragrande maggioranza aveva problemi più urgenti di sopravvivenza cui pensare. Ma oggi la possibilità di conoscere c’è, e viene rifiutata e contestata, addirittura adducendo argomentazioni pseudoscientifiche, e non da quattro gatti (in America hanno appena eletto un presidente che si fa paladino di qualsiasi causa antiscientifica). Eppure parrebbero realizzate le condizioni cui faceva riferimento Caffi, l’esistenza di gruppi di persone liberate dall’immediata necessità di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, del tutto o almeno in parte: mai come oggi un sacco di gente ha avuto la possibilità di vivere senza “lavorare”, senza cioè svolgere un’attività materialmente produttiva. Per Caffi «Gli “interessi” e i rapporti che si sviluppano nelle ore di distacco dalle obbligatorie fatiche produttive o governative formano la trama di una “vita di società”. E, se la prosperità dura alquanto, si differenzia un ceto emancipato dalla necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della “vita interiore” ed emancipato dall’ambizione di dominare». Ovvero, mentre il popolo non fa altro che “pagare e pregare”, «la vita di società si realizza nelle ore di distacco dalle obbligatorie fatiche produttive o governative».

Ma oggi gli stessi meccanismi che hanno emancipato progressivamente gli individui dalla fatica produttiva e avrebbero dovuto liberarli anche dai timori e dalle incertezze del quotidiano, arrogandosi il monopolio della violenza, hanno completamente disumanizzato l’esistenza e colonizzato la vita di società (vi risparmio tutti i passaggi, perché verrebbe troppo lunga). In questo nuovo contesto – possiamo aggiungere noi, trasportando al presente le intuizioni di Caffi – l’intellettuale ha ceduto il posto all’influencer. Si badi bene: gli influencer esistono da sempre, già all’epoca di san Francesco raccoglievano migliaia di followers: la differenza sta nel fatto che in genere mettevano in circolazione valori, idealità, stili di vita controcorrente, alternativi a quelli religiosi, politici o esistenziali diffusi dal potere, mentre quelli odierni fanno da cassa di risonanza proprio a questi ultimi. San Francesco predicava scelte di povertà mentre si stava affermando una nascente borghesia commerciale, Ferragni and Co insegnano come diventare ricchi, o come sembrarlo.

E gli intellettuali? Sono diventati pura suppellettile. Con questi chiari di luna si sono convertiti rapidamente al mercato: corrono a far marchette in televisione per promuovere i loro libri o i loro film, sottoscrivono manifesti indignati e partecipano a manifestazioni e ad eventi per dimostrare che esistono, ma non influenzano più nessuno e tantomeno tessono la trama di una “vita di società”. Con buona pace dei “fasci di appunti slegati” e della civiltà della conversazione. Caffi questo giustamente non poteva prevederlo, ma la sua stessa continua insistenza sul tema rivela che aveva comunque già ben chiara la deriva. Le sue esortazioni suonano quasi come un rituale esorcistico. E lui sembra voler convincere soprattutto se stesso: «Per quanto ingenuo (o banale) sembri il mio richiamo alla considerazione dell’uomo in carne e ossa, dell’“uomo mio fratello”, dell’uomo sempre superiore ad ogni regola o istituzione, vi è – mi pare sinceramente – l’embrione d’una vera religione; la quale come ogni religione non sarà mai rigorosamente osservata in tutti gli istanti della vita pubblica e privata che da pochi; ma il loro esempio e apostolato potrà fruttare, modificare l’opinione pubblica, stabilire nuovi criteri, penetrare nella “comune mentalità” nelle abitudini sociali».

La cosa buffa è che anch’io, testimone oculare dello sfascio, insisto a volerci credere.

Un’altra considerazione nasce della rilettura di quella Critica della violenza che Caffi redasse nel 1946 e che fu pubblicata su Politics. Nella mia vecchia copia ho trovato diversi periodi sottolineati o annotati a margine, segno che la prima lettura mi aveva parecchio intrigato, e ho vista riconfermata l’impressione che Caffi fosse un pacifista di stampo ben diverso da quello degli odierni sbandieratori di drappi arcobaleno.

Intanto la sua critica della violenza va letta nel particolare contesto in cui Caffi l’ha formulata, in mezzo alle macerie fumanti dell’immediato secondo dopoguerra, avendo ancora negli occhi i massacri, le distruzioni, le persecuzioni di cui era stato non solo spettatore, ma vittima. Era naturale che dopo tanto orrore auspicasse un ripensamento generale sulle cause e sull’uso della violenza, che volesse scorgervi almeno l’occasione per il mondo di invertire decisamente rotta. E che arrivasse a sostenere: «un movimento il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace […] deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, […] o Stalin); d) un regime di dittatura o di terrore per consolidare l’ordine nuovo».

Caffi non perviene comunque a questa affermazione sull’onda delle emozioni: essa è invece il naturale esito, e tanto più doveva apparirlo in quel frangente, di un percorso iniziato trent’anni prima, a seguito dell’esperienza del fronte, e sostanziato per tutto il periodo successivo da una analisi serrata delle cause della violenza intraspecifica. Vale a dire che è perfettamente conseguente coi suoi discorsi sullo stato, sulle forme del potere, sul socialismo, ecc …

E ci tiene anche a sottolineare e a distinguere e a difendere questa coerenza: «I governi detti liberali o democratici […] facendo uso abbondante di formole pacifiste ed umanitarie ‒ con l’inveterata convinzione che simili ossequi alla virtù non impegnano a nulla ‒ compromettono l’azione dei sinceri artigiani della pace e della solidarietà umana, i quali per la forzata somiglianza dei concetti da essi profferiti con quelli che adornano le logomachie ufficiali, possono facilmente essere sospettati della medesima malafede o ipocrisia».

Personalmente non condivido la posizione di Caffi, per la ragione che ho esposto all’inizio di questo scritto: perché sono meno fiducioso di lui nella naturale positività della natura umana originaria, e conseguentemente ritengo che non sempre esistano margini “dignitosi” di trattativa (non esistevano all’epoca con Hitler o con Stalin, non esistono oggi con Putin o con Trump). Capisco la necessità di preservare ogni singola vita umana, ma dubito fortemente che trattare con Hitler mantenendo fermo questo punto avrebbe evitato gli stermini compiuti dai nazisti; e penso anche che ci sia un limite minimo della dignità, al di sotto del quale è dubbio che la vita valga la pena essere vissuta (l’ho premesso, non sto al polo positivo).

Non sono d’accordo quindi col pacifismo “integralista” di Caffi (che non ha nulla però da spartire con la fumosità – quando non malafede – degli pseudo-pacifisti nostrani in fregola filo-putiniana), ma comprendo perfettamente le sue ragioni, e sono convinto che andando a leggerlo bene ci si può rendere conto che la sua critica della violenza si differenzia anche dalla Nonviolenza assoluta, quella di matrice religiosa (vedi un san Francesco, o anche Simone Weil, o Gandhi).

«Si tratta dunque di “costumi”, di “cultura”, di “umanità”, e non di principi metafisici o di precetti religiosi. Dall’ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, la politesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del “rispetto di sé”, impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall’uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di “costumi civili”; in profondo, c’è in primo luogo la coscienza della “società” come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della “giustizia” nei rapporti sociali, una nozione che – lo si vorrà ammettere– è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale.»

Almeno fino al termine del secondo conflitto mondiale non è comunque così integralista da escludere che possano esistere situazioni estreme, nelle quali il ricorso alla violenza si rende necessario come legittima difesa sia individuale che collettiva.

Semmai Caffi sposta la questione da un piano prettamente morale ad uno etico-politico, nel senso che ritiene che il problema vero, quello che dà origine alla pratica della violenza e che va affrontato prioritariamente, sia l’involuzione totalitaristica degli stati; ma cerca poi di scendere anche su quello pratico, sforzandosi di dimostrare con esempi concreti come la scelta della violenza non abbia mai portato a soluzioni positive e definitive.

«È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d’ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?»

Il che dal mio punto di vista è ingenuamente semplicistico, ma se collegato al quadro di socievolezza universale ipotizzato da Caffi ha senz’altro anche una sua logica.

«Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi la sua Città: 1) come un’isola nell’oceano di un’umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell’esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una parte, i filosofi dall’altra, potranno godere i benefici di un’esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s’inaspriva fino a prendervi forme violente.»

Vivesse oggi vedrebbe confermate tutte le sue paure e smentita la sua speranza, non solo in un mondo meno violento, ma in una responsabile e costruttiva reazione dei “filosofi”. E tuttavia, se ho capito qualcosa del personaggio, non cesserebbe di battersi per le sue idee.


E finalmente …

Le pagine risultanti nella redazione finale di questo scritto sono forse nemmeno un terzo di quelle che avevo buttato giù inizialmente. Ho deciso di tagliare drasticamente (e tagliare mi costa sempre, ogni riga è un brandello di pelle), un po’ perché mi sono reso conto che stavo sfidando troppo la capacità di attenzione di qualsivoglia lettore, ma soprattutto per un altro motivo. Per pagare a Caffi quel che ritenevo di dovergli sono innanzitutto andato a riprendere le raccolte degli scritti suoi e di quelli a lui dedicati, raccolte che avevo compilato e postato già parecchi anni fa, nell’intento di aggiornarle e rinnovare la bibliografia. Non avrei mai pensato di trovarmi di fronte a tanto materiale nuovo, in parte pubblicato nel frattempo e in parte sfuggitomi a suo tempo. Leggendo queste cose ho sentito insorgere una sorta di sindrome dell’impostore, perché ho scoperto interventi davvero informati e stimolanti, che colpevolmente ignoravo, e che andavano talmente oltre da rendere del tutto superfluo il mio. Ho provato imbarazzato per l’inadeguatezza della mia presentazione, tanto che ero sul punto di cestinare tutto. Ho risolto poi soltanto di alleggerirlo, così posso fingere con me stesso di essere rimasto nei limiti dell’impegno originario e proporre queste pagine come propedeutiche alle letture ben più serie che invito a fare.

C’era tuttavia ancora un’altra motivazione. L’improvvisa abbondanza di interventi e contributi sulla figura e sul pensiero di Caffi mi ha fatto sospettare l’inizio di un processo di beatificazione, di quelli “usa e getta” che si celebrano molto velocemente oggi. Nella penuria di idee e di precursori ai quali aggrapparsi e nella corsa dell’editoria al fast food culturale ho temuto che Caffi diventasse una delle tante varianti passeggere di pizza destinate a diversificare l’offerta per un trancio d’estate.

Ho poi realizzato che avendo indirizzato la mia ricerca nella direzione Caffi era più che logico incontrare per strada tutti i possibili riferimenti che portavano a lui, e che la mia era solo una forma strana di gelosia che provo nei riguardi degli autori “dimenticati” sui quali rivendico una immeritata prelazione. Mi è capitato con Humboldt, con Seume, con Timpanaro, con un sacco di altri.

Di per sé comunque la scoperta non mi ha depresso, al contrario: mi ha confermato che le cerchie di amici cui faceva costante riferimento Caffi esistono, sia pure in una dimensione “virtuale” che lui non poteva prevedere. «Senza spingersi ad esagerazioni di analogie (che applicate a momenti della storia sono sempre fallaci) – si può dire che oggi – come alla vigilia del “Manifesto Comunista”, come prima della costituzione della Seconda Internazionale – vi è in Europa un numero impressionante di sparuti cenacoli e di “isolati” nei quali nonostante tutto vive la convinzione che “qualche cosa bisogna fare” per combattere l’assurdità dell’attuale “condizione umana”, per muovere le menti e le “volontà di vivere” verso la redenzione (che si desidera totale, anche se la si sa irraggiungibile).»

Tiro dunque finalmente le somme, cercando di spiegare, se ancora non si fosse capito, i motivi del mio entusiasmo per il personaggio Caffi, ma soprattutto per quello che ha significato (e potrebbe ancora significare) il suo pensiero. Non ho alcuna riluttanza a comprenderlo tra i “maestri”, intesi come coloro al cui pensiero devo qualcosa, fermo restando beninteso che non significa che lo abbracci incondizionatamente. Sono “maestri” quelli che mi hanno costretto a pensare, a interrogarmi, a scorgere altre strade rispetto a quelle che stavo percorrendo, e a tenerle poi ben presenti anche quando non avevo ritenuto di intraprenderle. In questo senso Caffi è il più esemplare tra i maestri, proprio perché non pensa affatto di esserlo e non pretende di essere ritenuto tale. È uno spirito talmente indipendente che sarebbe infastidito all’idea di avere degli allievi: la cosa gli avrebbe creato degli obblighi, lo avrebbe volente o nolente condizionato nelle sue scelte di posizione. Voleva avere degli amici, questo sì: spiriti affini al suo, indipendenti come il suo, capaci di confrontarsi sullo stesso piano, e non di accettarne supinamente e devotamente il magistero: in caso contrario non sarebbero stati di alcuna utilità a lui, e nemmeno a se stessi.

Caffi non era un santo, se per santo intendiamo un uomo pervaso dalla moralità del sacrificio e della rinuncia assoluta. Lui stesso avverte che «il santo e l’eroe sono poco socievoli», e che «la società prova disagio non solo di fronte a tutto ciò che sta al disotto d’un certo livello di dignità umana, ma anche al cospetto del “sovrumano”». Io aggiungerei alla lista dei poco socievoli anche il genio, e cito quello che scrivevo quaranta anni fa: «In fondo tutti i grandi geni sono stati degli implacabili egoisti, che sono riusciti (beati loro) a passare sopra le esigenze altrui e i condizionamenti affettivi e sentimentali. Da Cristo a Marx, è tutta una storia di gente che dice a padri, madri, figli, mogli e amanti: ma che volete? E che tutto sommato non ha amici, ma solo discepoli».

Piuttosto, credo gli calzi a pennello la definizione datane da Moravia, che gli fu amico, ma senz’altro non allievo, essendo finito ad incarnare proprio il modello di “intellettuale organico” dal quale Caffi prendeva le distanze: «Forse si potrebbe definire Caffi un eterno studente, nel senso che voleva sempre imparare qualche cosa. Il suo fascino vero era questa curiosità, freschezza […]».

A parte il fascino, è il modo in cui vorrei essere ricordato anch’io.

Quindi: ho proposto la figura di Caffi per come l’ho letta io, senza la pretesa di averne interpretato ed esaurito tutte le sfumature. Ho sottolineato quello che ho riconosciuto, che in qualche modo, spesso molto confusamente, già mi apparteneva, più ancora che quello che ho scoperto e imparato.

E ho cercato per quanto possibile di leggere le sue parole in un contesto che è pur sempre quello di un secolo fa, tenendo presente che erano rivolte a un paio di generazioni entrambe precedenti la mia, che avevano attraversato o stavano attraversando due guerre mondiali e avevano maturato o stavano maturando esperienze completamente diverse dalle nostre.

Insomma, non nego che la figura di Caffi abbia per vari motivi, che stanno al di là del valore del suo pensiero e che ho cercato anche di spiegare, esercitato un certo “fascino”: ma penso di essere riuscito nel complesso a mantenere la giusta distanza per coglierne correttamente le implicazioni.

E allora ciò che viene fuori è questo. Caffi non può essere iscritto nel novero dei rivoluzionari anarchici, né dei bombaroli né dei “gradualisti”: non è l’erede di Bakunin, nel pensiero e meno che mai nel “modo d’essere” (non era certo così disinvolto nello spendere i soldi altrui); è semmai piuttosto vicino nel modo di pensare a un Landauer e a Camillo Berneri, ma con una ricaduta sull’azione pratica ben diversa; non è assolutamente un marxista, in nessuna delle declinazioni possibili del marxismo; non è un riformista, a dispetto della sua amicizia con Salvemini e della stima reciproca che i due si tributavano. È un socialista libertario (e lascio a chi legge scegliere in che ordine disporre i due qualificativi), definizione che non specifica molto e può significare tutto. Senza dubbio è un individualista, che pone in primo piano la libertà individuale, ma al tempo stesso ritiene che ogni individuo ha senso solo nelle relazioni che intrattiene con gli altri, e ha senso profondo solo se queste relazioni si svolgono su un piano di pari dignità e reciproco rispetto.

Insomma: se qualcosa Caffi ci trasmette non è tanto il cosa fare ma il come essere. E si badi, non vuole trasmetterlo, non lo pretende dagli altri, lo chiede e lo impone a se stesso. Questa è una vera lezione di esemplarità. Questo rimane di lui, e mi sembra che già basterebbe.

Personalmente però, per me rappresenta qualcosa di più. Nel leggere i suoi scritti politici, che sulle prime mi erano apparsi utopisticamente ingenui, salvo poi, raffrontati alla realtà di ciò che mi accadeva attorno, rivelarsi profetici e anticipatori, ho avuto costantemente l’impressione di trovarmi davanti a quelle possibilità, a quelle opzioni alternative che la storia ci propone costantemente e che finiscono come macerie ai margini della strada che abbiamo scelto di percorrere, o siamo stati costretti a percorrere per scelte fatte da altri, siano di volta in volta il capitalismo, la tecnica, il populismo, ecc. Ecco, nelle sue pagine mi si presentavano le immagini di come “avrebbe potuto essere”, e capivo che ad un certo punto Caffi, deluso dalle scelte fatte sopra la sua testa ma anche dalla constatazione di non poter uscire dal suo isolamento, abbia deciso di vivere “come se” la sua idea di società fosse non solo possibile, ma anche immediatamente praticabile.

Questo per quanto riguarda le personalissime ragioni del mio interesse. A spiegare invece quello che sembra essersi risvegliato più diffusamente attorno a Caffi, e a chiudere un po’ meno banalmente questa rimpatriata col suo pensiero lascio sia Marco Bresciani (da La rivoluzione perduta. Andrea Caffi e l’Europa del Novecento): «L’orientamento impolitico dell’italo-russo funziona da reagente chimico rispetto all’epoca successiva al 1914, facendo interagire ed esplodere le contraddizioni e le tensioni, i miti e i dilemmi della cultura rivoluzionaria europea. In particolare, Caffi si confrontò con l’esperienza e il mito dell’Unione Sovietica che di quella cultura portava profonde tracce, pur senza identificarsi o esaurirsi con essa. In questo senso, offre un punto d’osservazione privilegiato, che non si codificò nella rigidità del linguaggio marxista-leninista e che non si inquadrò nell’organizzazione comunista. In questa capacità di incarnare il mito rivoluzionario europeo, vivo e vitale al di là del mito sovietico, con tutte le sue molteplici articolazioni, le sue sotterranee diramazioni e le sue contraddittorie implicazioni, sta la ragione dell’interesse storico di Caffi all’inizio del XXI secolo, dopo la fine del “socialismo reale”».

Bibliografia

Testi di Andrea Caffi

Socialismo libertario, a cura di Gino Bianco, Milano, Azione Comune, 1964

Critica della violenza, con prefazione di Nicola Chiaromonte, Bompiani, 1966

Critica della violenza, introduzione di Gino Bianco, e/o, 1995

Scritti politici, a cura di Gino Bianco, La Nuova Italia, 1970

Scritti scelti di un socialista libertario, a cura di Sara Spreafico, con prefazione di Nicola Del Corno, Milano, Biblion, 2009

Cosa sperare? Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte (1932-1955), a cura di Marco Bresciani, Napoli, Edizioni Scientifi che Italiane, 2012

Politica e cultura, a cura di Massimo La Torre, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014

L’unità d’Italia. Pro e contro il Risorgimento, a cura di Alberto Castelli, Roma, e/o, 2010 [scritti di: A. Caffi, U. Calosso, N. Chiaromonte, P. Gobetti, A. Gramsci, C. Rosselli, G. Salvemini, F. Venturi]

“Politics” e il nuovo socialismo. Per una critica radicale del marxismo, a cura di Alberto Castelli, Genova-Milano, Marietti, 2012

Testi su Andrea Caffi

Gino Bianco, Un socialista “irregolare”: Andrea Caffi intellettuale e politico d’avanguardia, Cosenza, Lerici, 1977 (Nuova edizione, con il titolo: Gino Bianco Socialismo e libertà. L’avventura umana di Andrea Caffi, Roma, Jouvence, 2006)

Carlo Vallauri, Il socialismo umanitario di Andrea Caffi, Giuffrè, 1973

Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1999

Andrea Caffi: un socialista libertario, Atti del convegno di Bologna (7 novembre 1993), a cura di Gianpiero Landi, Pisa, BFS, 1996

Marco Bresciani, La rivoluzione perduta: Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009

Alberto Castelli, Andrea Caffi. Socialismo e critica della violenza (in L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a c. di P. P. Poggio, Milano, Jaca Book, 2010

 

Appendice

Nicola Chiaromonte, Introduzione a Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

Parlo di Andrea Caffi come dell’“uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto” che nel mio tempo io abbia conosciuto. Ne parlo per essergli stato amico durante ventitré anni, dal maggio 1932 quando, a Parigi, Alberto Moravia me lo fece incontrare, al luglio 1955, quando morì nella stessa città, e perché alla sua amicizia devo quel che di meglio posso aver acquistato nel corso della mia vita; ne parlo perché penso che le poche tracce scritte della sua personalità che si sono potute conservare o recuperare meritano di essere conosciute, ma d’altra parte hanno bisogno di essere accompagnate da qualche notizia.

Ma, come sono relativamente pochi, anzi pochissimi, nella gran quantità di schede, note e quaderni da lui lasciati, gli scritti di Caffi abbastanza compiuti per poter essere offerti in lettura a chi non lo conobbe, così sono singolarmente poche e frammentarie le notizie che della sua vita, pur ricchissima di peripezie, d’incontri, di sodalizi, d’amicizie, si possono dare come “obbiettive”. Quelle che ho, le ho raccolte quasi tutte dai suoi discorsi, ma sempre a proposito d’altre cose, mai parlando di sé e dei propri fatti, argomento che egli considerava fastidioso e indiscreto.

Mi trovo dunque, da una parte con gli scritti che qui si pubblicano e con alcune notizie frammentarie, dall’altra con un’immagine prodigiosamente viva dell’uomo: tanto viva da scoraggiare la descrizione, poiché essa ha della vita la caratteristica essenziale, che è il non finito, l’indeciso, l’elusivo.

Come si vedrà in queste pagine, se c’era nella mente di Caffi un’idea centrale attorno alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era l’idea di socievolezza: la philìa aristotelica, fondamento della vita associata. Ma la socievolezza non era solo un’idea, per Caffi, era anche il tratto saliente della sua personalità.

La socievolezza spontanea e continuamente traboccante, accompagnata da una prodigalità illimitata nel dono di sé, dava all’esistenza di Andrea Caffi una pluralità d’aspetti che finiva per diventare innumerevole. C’era, per esempio, come io lo conobbi, il Caffi italiano amico di Gaetano Salvernini come di Umberto Zanotti-Bianco, di G. A. Borgese e di Giuseppe Ungaretti come di Alberto Moravia, di Umberto Morrà, di Vincenzo Torraca, di Giuseppe Fancello, come poi di Carlo Rosselli e di molti altri uomini dell’emigrazione antifascista a Parigi. Insieme a questo, c’era il Caffi intimamente legato a gruppi e persone della diaspora intellettuale, letteraria e politica russa, e non era certo meno reale dell’italiano. C’era poi il Caffi francese d’elezione, con amicizie e impegni in molti circoli della vita politica e intellettuale francese. Ci fu persino, fra il 1950 e il 1955, attraverso l’incontro con Paolo Emilio Comes, Mario Pedrosa e i loro amici, un Caffi brasiliano.

Ma c’era poi anche il Caffi eretico di tutti questi gruppi, intellettuale la cui visione non si adattava a nessuna prospettiva comunemente accettata e verso il quale solo alcuni pochi individui isolati, o comunque insoddisfatti dei gruppi esistenti e delle idee correnti, potevano sentirsi attratti; e di questi, pochissimi a lungo, perché i sentieri per i quali Caffi trascinava chi lo seguiva erano davvero Holzwege, sentieri non tracciati in anticipo e di cui non si sapeva dove conducessero; dunque stancanti. Dietro questo Caffi eretico e irrequieto c’era lo spirito solitario, assorto in un mondo di pensieri segreti e di operazioni intellettuali addirittura misteriose nel quale raramente, anche nei momenti di maggiore confidenza, si apriva qualche spiraglio.

C’era infine, a riunire e confondere di continuo queste parti diverse, Caffi al naturale, per così dire: uomo dal tratto quanto mai affabile e amabile, egualmente a suo agio nella compagnia delle persone più diverse, purché non appartenessero alla specie odiata dei mediocri soddisfatti. Era, questo, un uomo che più delicato e nobile è difficile immaginare, e certamente rarissimo trovarne: un uomo che tutte le qualità della mente e dell’animo dicevano fatto per essere accolto e onorato nei luoghi più eccelsi di una società ideale, e particolarmente fra gli uomini di pensiero e di cultura; e il quale invece sceglieva deliberatamente la solitudine e l’oscurità, incapace com’era di fare la più piccola concessione quando si trattava non dico della sua integrità morale o delle sue idee, che sarebbe un parlare solenne, ma semplicemente della sua sensibilità. Ogni tentativo, anche il meglio intenzionato, di procurargli una via d’uscita da tale isolamento, e dalle angustie che comportava, rimase inutile fino all’ultimo. Sicché era evidente che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non “inserirsi” in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente.

Questa pluralità di esistenze, il vivere alla ventura nella più completa noncuranza non solo di ogni carriera, ma di ogni vantaggio personale, l’incoercibile irrequietezza dello spirito spiegano almeno in parte le immagini così diverse, frammentarie e incerte che rimangono di Caffi. In tutte, anche in quelle dei testimoni meno perspicaci, la sua natura eccezionale è presente, e più particolarmente sono presenti di lui la generosità spensierata e la stupefacente cultura. Ma in nessuna la sua immagine è chiara e rilevata. In tutte rimane l’enigma di chi fosse in realtà lo “spirito arcangelo” così vivo nel ricordo di Antonio Banfi, lo “strano tipo” di cui ha sentito il bisogno di scrivere Giuseppe Prezzolini riducendone tuttavia la figura a quella di un amabile scombinato, il “personaggio socratico” di cui serba memoria ammirata Alberto Spaini, facendone d’altro canto un mazziniano (cosa che egli certamente non era) e un fautore degli Stati Uniti d’Europa, cosa certamente vera, di lui, ma insieme a molte altre alquanto più importanti (v. Il Messaggero di Roma — 5 ottobre 1959).

La diversità, frammentarietà e incertezza delle testimonianze su Caffi (fra le quali è da ricordare quella di Gaetano Salvemini, che ne parlava come dell’uomo più straordinario e dello spirito più eletto che egli avesse conosciuto, e anche, scherzando sulla piena strabocchevole delle sue cognizioni, come del “caos prima della creazione”), si riflette nell’incompletezza dei dati più elementari della sua biografia, la quale, per essere in qualche modo completa, avrebbe dovuto essere redatta già molti anni fa, andando a consultare in giro per il mondo le molte persone che l’avevano conosciuto e gli erano state amiche, il numero delle quali è ormai irreparabilmente assottigliato. Io dunque dirò, per quanto posso in ordine, quello che so di sicuro.

Andrea Caffi era nato a Pietroburgo il 1° maggio 1887, da genitori italiani. Originario di Belluno, suo padre era nipote del pittore e patriota garibaldino Ippolito Caffi. Il quale, essendo stato scenografo dei teatri imperiali, aveva aperto al nipote la via di un impiego nell’amministrazione dei teatri medesimi.

Considerato dai maestri un ragazzo di doti eccezionali, il padre lo iscrisse a quella che era allora la migliore scuola di Pietroburgo, e una delle migliori d’Europa: il Liceo Internazionale. Di quell’insegnamento e di quell’ambiente egli serbava memoria grata e affettuosa, come si può vedere da quel che ne dice nello scritto Società e gerarchia, pubblicato in questo volume.

A quattordici anni, Andrea Caffi era già socialista d’idee: diceva che la sua scelta risaliva al raccapriccio provato per le condizioni di lavoro degli operai industriali durante una visita alle officine Putilov, dove era stato condotto, insieme alla sua classe, da un professore probabilmente socialista egli stesso. A sedici anni, egli fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo, dei quali si vantava di aver contribuito a fare dei socialisti senza mai parlar loro di marxismo, ma solo di storia, di letteratura e di filosofia. In questo lavoro clandestino, egli ebbe compagni Kalinin (che doveva diventare il primo Presidente dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche) e Molotov, destinato alla fama come ministro degli esteri di Stalin.

Seguendo questa via, a diciotto anni Caffi prese parte alla rivoluzione del 1905, nelle file dei menscevichi. Arrestato e condannato a tre anni di carcere, fu liberato nel 1907 per intervento dell’ambasciatore d’Italia. Andò allora in Germania per compiervi gli studi universitari. A Berlino, ebbe maestro particolarmente amato Georg Simmel, del cui pensiero si trova più di una traccia nei suoi scritti. Fra i suoi compagni di studi c’era Antonio Banfi, il futuro docente di filosofia all’Università di Milano e senatore comunista, il quale lo ha ricordato con queste parole: «M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea contemporanea. Dove sia quel manoscritto non so, so che da lui ebbi un vero fiotto di vita e di entusiasmo» (v. Aut Aut, 1958, n. 43-44). Al che voglio aggiungere che il Frammento politico del 1910 di Antonio Banfi, pubblicato da Fulvio Papi nel 1961, porta per me l’impronta inconfondibile di Caffi quando, senza il soccorso di un appunto, tracciava a viva voce vasti panorami di storia delle idee, e l’ascoltatore cercava di notarne l’essenziale, trovandosi alla fine fra le mani il disegno suggestivo di un’opera originale che solo Caffi avrebbe potuto condurre a termine.

Mentre proseguiva gli studi e continuava a militare nel movimento socialista, Caffi viaggiava per tutta l’Europa. Soggiornò a lungo a Firenze, dove frequentò il gruppo della Voce. Amico di Scipio Slataper e di Alberto Spaini, strinse anche rapporti amichevoli con Giuseppe Prezzolini, e collaborò alla rivista con uno scritto firmato insieme a Antonio Banfi e Confucio Cotti. Nel presentare una lettera di lui pubblicata nel volume Testimonianze (Longanesi, 1960), Prezzolini così lo descrive: «Arrivava all’improvviso, non si sapeva da che parte del mondo, con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito… e scompariva allo stesso modo, senza che si sapesse perché né per dove. Da per tutto portava la sua gentilezza, un’aria d’innocenza, un enorme fascio d’erudizione che slegava e da cui traeva regali a qualunque richiesta […].».

In un articolo dello stesso Prezzolini, pubblicato nel giornale Il Tempo di Roma il 15 agosto 1959 e intitolato Uno strano tipo, si trovano ricordati altri tratti della personalità di Caffi: «Siccome era di un’estrema delicatezza e indipendenza di spirito, non ci si accorgeva delle sue ristrettezze altro che dagli abiti e dallo sguardo con il quale di traverso guardava una tavola apparecchiata quando lo si invitava… Aveva un modo di sfuggire ogni curiosità e indagine sulla sua persona che lo rendeva molto simile a quei personaggi dei romanzi russi che rispondono con frasi svagate e allusive alla polizia degli zar… Il suo ingegno era vivace, la sua memoria potentissima. Era curioso che un uomo sapesse tante cose senza avere accanto una biblioteca personale. Se in una conversazione usciva qualche frase contenente un’inesattezza, si poteva esser sicuri che il giorno dopo si riceveva una lettera di lunghe correzioni e prove. Da giovane, mi accadde di dire qualche corbelleria intorno all’Ucraina, e credo di conservare ancora una lettera di trenta pagine nella quale mi faceva tutta la storia della lingua, della letteratura e della nazione ucraina. Tutto questo, certamente, senza consultare un libro, senza chiedere il parere di nessuno […]».

Tale era il Caffi venticinquenne. Non molto diverso dal Caffi adulto, a giudicare da questo ritratto. Direi che i lineamenti esteriori Prezzolini li vede molto bene; quelli morali e intellettuali, invece, in una luce curiosamente opaca, quasi nello sforzo di non lasciare la figura di questo “strano tipo” invadere la coscienza con le domande di cui è portatrice, ma ridurla invece entro i limiti del pittoresco: sforzo che mi sembra caratteristico della guicciardiniana “saviezza” di Giuseppe Prezzolini.”Enorme fascio d’erudizione”, “memoria potentissima”, “ingegno vivace”: sembra uno di quei terzetti d’aggettivi in scala discendente che Proust nota comicamente nei discorsi di Madame de Cambremer.

Enorme era certo, l’erudizione di Caffi; ed è più giusto, nel suo caso, parlare di erudizione che di cultura, perché le sue conoscenze storiche (e ogni nozione si ordinava secondo storia, ossia secondo la dimensione del tempo, nella sua mente), illimitate come sembravano, erano quelle di un conoscitore profondo e minuzioso il quale accresceva, riordinava, riesaminava e ristudiava ogni giorno quel che sapeva. Di questo sono prova la gran quantità di schede, fogli e quaderni da lui lasciati (ma la massima parte è andata perduta) in cui si trova annotato ciò che egli veniva di continuo apprendendo e riapprendendo.

Ma l’“enormità” stessa delle sue conoscenze era motivo di una meraviglia che non poteva fermarsi alla constatazione della “memoria potentissima”, né dell’“ingegno vivace”. Giacché da una parte la memoria di Caffi, portentosa com’era, non aveva niente di acrobatico, era spontanea, palpitante di vita e d’intelligenza; dall’altra, il suo ingegno si manifestava nella prodigiosa sicurezza con cui, quale che fosse l’argomento, egli andava al vivo della questione senza cura di opinioni stabilite, idoli o tabu di sorta. C’era in questo assai più che della “vivacità”: una libertà di giudizio e di pensiero di cui non ho conosciuto l’eguale in nessun intellettuale dei tempi nostri; ed era in primo luogo una conquista morale, il frutto, cioè, di una coerenza di vita eccezionale.

Riprendendo il filo della cronologia, dirò che terminati gli studi universitari (compiuti peregrinando per tutte le università tedesche, come permetteva la disciplina degli studi superiori in Germania), Caffi si stabilì a Parigi, o almeno a Parigi dimorava la maggior parte del tempo. Erano gli anni delle famose lezioni di Bergson al College de France, dei Cahiers de la Quinzaine di Péguy, del socialismo di Jaurès, della polemica di Sorci, del fiorire della nuova letteratura, della nuova pittura, della nuova musica: inizio splendido di un secolo destinato alla tragedia. A quegli anni risale il legame d’amicizia con Giuseppe Ungaretti, rimasto affettuoso fino all’ultimo.

Con un gruppo di amici francesi, russi, tedeschi e, credo, anche inglesi, che s’era dato nome La Jeune Europe, Caffi concepì allora il progetto di un’“enciclopedia” in cui fosse steso il bilancio della situazione della cultura europea all’inizio del secolo. L’impresa fu stroncata dalla guerra: dispersi fra i paesi belligeranti, gli amici non dovevano più ritrovarsi.

Il 2 agosto 1914, Caffi si arruolò volontario nell’esercito francese. Non so se, da parte di un socialista come lui, tale decisione meravigliasse i suoi amici. Meravigliò me quando l’appresi, perché il suo giudizio sul comportamento dei partiti socialisti europei, arresisi quasi tutti al principio dell’interesse nazionale e dell’union sacrée, era quanto mai severo, non distinguendosi sostanzialmente da quello di Lenin e di Trotzki. Ma egli spiegò candidamente che, in primo luogo, non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino; in terzo luogo, di fronte a una guerra che lui, come molti altri in Europa, aveva sentito approssimarsi fatalmente fin dal 1911, e della quale si poteva esser certi che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente, non gli era sembrato possibile invocare delle ragioni di principio. La catastrofe era avvenuta, non c’era che da subirla. Il che, d’altra parte, non significava mutare il proprio giudizio sull’avvenimento e sulle sue probabili conseguenze.

Caffi, insomma, fu nell’agosto 1914 fra i numerosi intellettuali europei, che, per oscuro che paresse loro l’avvenire, credettero tuttavia che dalla sconfitta della Germania imperiale dipendessero le sorti della democrazia e del socialismo. Le sue speranze andavano allora nel senso di un’Europa federata sulla base dei principi mazziniani.

Ferito quasi subito nei combattimenti delle Argonne, nel 1915 fu mobilitato in Italia. Ferito di nuovo sul fronte del Trentino, fu addetto presso il comando della IV Armata. Di lì, nel 1917, passò con G. A. Borgese a Zurigo, nell’ufficio speciale da questi creato per la propaganda fra le nazionalità oppresse dell’Impero absburgico.

Nel 1919, Caffi diede vita in Italia a due riviste il cui scopo era di contribuire, con un’informazione seria sui problemi lasciati dalla guerra, a influenzare ragionevolmente le decisioni che si stavano per prendere a Versailles sul nuovo assetto dell’Europa: la prima fu La Vita delle Nazioni; la seconda (pubblicata in collaborazione con Umberto Zanotti-Bianco) La Giovane Europa. Il primo scritto seriamente informativo sulla rivoluzione russa e i suoi capi apparso in Europa occidentale fu un lungo saggio di Caffi ne La Vita delle Nazioni. Si sa peraltro che cosa avvenne a Versailles dell’ideale di una pace giusta cui queste pubblicazioni intendevano giovare.

A pace conclusa, amici comuni intervennero presso Luigi Albertini perché il Corriere della Sera si valesse delle conoscenze e dell’esperienza di Caffi mandandolo in Russia come inviato speciale. Arrivato a Costantinopoli, egli mandò (a quanto scrive in una lettera inviata da lì a Prezzolini) otto articoli. Di questi, uno solo fu pubblicato, suscitando l’ammirazione di molti lettori. Si può pensare che la ragione per cui gli altri articoli di Caffi rimasero inediti fosse l’indignazione che in essi si esprimeva (e della quale si trovano tracce vibranti in un’altra lettera a Prezzolini) per la condotta brutale degli Alleati nei territori dell’ex Impero ottomano.

Comunque, arrivato a Odessa, Caffi terminò bruscamente le sue mansioni d’inviato speciale. L’idea di attraversare la Russia devastata dalle epidemie, dalla fame e dalla guerra civile in veste di giornalista gli parve insopportabile. Invece di continuare il suo servizio, si aggregò alla missione internazionale di soccorso organizzata e diretta dal norvegese Fridtjof Nansen, proseguendo così il viaggio verso Mosca.

Per i capi bolscevichi al potere, Caffi, che li aveva ben conosciuti come militante socialista, non aveva alcuna simpatia. Egli rimaneva naturalmente solidale con i menscevichi e i socialisti rivoluzionari ora perseguitati. È da notare tuttavia che già nell’articolo sopracitato egli aveva esposto con molta chiarezza le loro ragioni e mostratone la forza e la fondatezza. Ma nel trionfo dei bolscevichi egli vide, con uno scoramento simile a quello provato allo scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c’era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825. Ciò che lo rese una volta per sempre avverso ai bolscevichi fu il loro autoritarismo implacabile, nel quale tuttavia non mancava di riconoscere la fonte principale della loro forza. D’altra parte, gli fu anche chiaro che l’aggressione anglo-francese contro la rivoluzione russa aveva reso irreparabile lo scisma fra la nuova Russia e l’Europa, contribuendo a irrigidire la situazione interna e a fare del terrore un’istituzione permanente del nuovo regime.

Un’idea di quale fosse il comportamento di Caffi a Mosca in quegli anni la si potrà avere leggendo quello che egli stesso narra nel corso delle sue considerazioni su “Stato, Nazione e Cultura” della “monelleria” perpetrata da lui e dai suoi giovani compagni quando, lavorando negli uffici della Terza Internazionale, si divertivano a inserire nel bollettino da essi redatto notizie sgradite in alto loco.

Fu come “controrivoluzionario”, sotto l’accusa (infondata) di essersi adoperato a dissuadere i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall’aderire alla Terza Internazionale, che la Ceka lo arrestò. Rinchiuso nella prigione della Lubianka, dove ogni notte le porte delle celle si aprivano per l’appello dei condannati a morte (“fatto piuttosto a casaccio”, ricordava Caffi), fu liberato dopo alcune settimane grazie all’intervento di Angelica Balabanoff.

Rimasto a Mosca, quando vi giunse la prima missione diplomatica italiana gli fu chiesto di assumervi le funzioni di segretario. Le quali egli si vantava scherzosamente di aver sfruttato per fabbricare un cospicuo numero di falsi cittadini italiani, rilasciando passaporti a persone che volevano fuggire dalla Russia.

Ma ebbe anche da fare altro. Poco dopo la “marcia su Roma”, giunse alla missione di Mosca, direttamente da Mussolini nella sua qualità di ministro degli esteri, la richiesta di un rapporto sul costo in vite umane della rivoluzione russa, fra terrore bolscevico, guerra civile, fame e flagelli concomitanti. Fu Caffi a fare le ricerche e a redigere il documento. Il quale non potè essere d’alcuna utilità a Mussolini, visto che il motivo che l’aveva spinto a chiederlo era di poter affermare (come più tardi in un discorso non si peritò di fare) che la rivoluzione fascista era stata un fatto altrettanto importante della rivoluzione francese e di quella russa perché altrettanto e più sanguinoso.

Noterò qui in parentesi che, prima di lasciare la Russia, Caffi ebbe cura di depositare alla biblioteca centrale di Mosca (poi Biblioteca Lenin) un pacco di scritti e di documenti da lui raccolti, nel quale per parte mia son certo che lo storico futuro troverà materia importante di studio.

Tornato in Italia nel 1923, l’impiego avuto in Russia gliene valse uno al ministero degli esteri, a Roma. Fu incaricato della redazione di un notiziario per le ambasciate. Lontano com’era stato dall’Italia fin dal 1920, non sapeva quasi nulla del fascismo. Non tardò a farsene un’idea, e un giorno uscì dall’ufficio per non più tornarvi. Ma non senza prima aver ripetuto una “monelleria” del genere di quella perpetrata a Mosca: a guisa di commiato dalle sue mansioni ufficiali, aveva scritto e regolarmente spedito alle ambasciate nei vari paesi un ultimo bollettino, contenente un resoconto burlesco del famoso ricevimento offerto a Palazzo Venezia in onore dei neo-nobili del regime, dove Mussolini era insignito del titolo di “duca del Manganello”. Quale fosse dopo di allora il suo modo di vita a Roma, ne dà un’idea l’episodio raccontatomi da Vincenzo Torraca.

Un giorno, i suoi amici seppero che Caffi non aveva un domicilio e che, con la complicità di un guardiano, passava le notti su un giaciglio improvvisato nei locali della Biblioteca Vittorio Emanuele. Si provvide subito a trovargli un alloggio meno aleatorio. Per qualche tempo, parve che egli avesse consentito ad avere una dimora convenzionale. Ma dopo un po’ si seppe che dormiva di nuovo fra i libri. È un piccolo esempio di quanto fosse inutile cercare di persuadere Caffi ad avere un’esistenza “normale”.

A Roma, legato com’era all’ambiente intellettuale antifascista, e particolarmente a uomini come Umberto Zanotti-Bianco, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, Giuseppe Fancello, Umberto Morra, Vincenzo Torraca, partecipò alle vicissitudini della crisi Matteotti e dell’Aventino, con ciò che seguì. Collaborò con articoli politici a Volontà di Roberto Marvasi e al Quarto Stato di Pietro Nenni e Carlo Rosselli. Al tempo stesso, ebbe rapporti di cordiale, reciproca stima con Ernesto Buonaiuti e scrisse un articolo per la sua rivista Ricerche religiose. Risale a quegli anni l’amicizia con Alberto Moravia, allora giovanissimo e sconosciuto.

A titolo d’azione antifascista, tentò d’impiantare a Roma i metodi di cospirazione che aveva praticato in Russia. Frequentava perciò gli operai del vecchio quartiere dietro piazza Venezia, poi demolito per far largo a Via dell’Impero. In quell’ambiente, faceva propaganda sovversiva a suo modo, parlando della Russia e del socialismo, ma anche di storia e letteratura greca, senza cercar mai di far proseliti per una determinata parte politica o di farsi campione di un’ideologia particolare.

Per questa specie di attività sovversiva, nel 1926 fu minacciato d’arresto. Avvertito in tempo, partì per la Francia, dove fu per tre anni, a Versailles, precettore dei figli del principe Caetani, nonché segretario di redazione di Commerce, la rivista letteraria internazionale fondata da Margherita Caetani per suggerimento di Paul Valéry.

Stabilitosi nel 1929 a Parigi, in un albergo del quartiere della Convention dove aveva abitato anche prima della guerra, cominciò per Caffi un’esistenza molto diversa da quella che egli aveva condotto fino ad allora. Non che mutasse il suo stile di vita, ma venne, fra l’altro, a mancargli il modo di continuare l’esistenza errante e spensierata che aveva condotto da giovane.

Ma il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria non era che l’aspetto esteriore di un mutamento più profondo, indotto dall’esperienza della guerra e della rivoluzione russa.

Il 2 agosto 1914, come Caffi ripeteva ogni volta che ne aveva occasione, aveva segnato per lui non solo la fine della gioventù, ma il crollo di tutto un mondo d’idee e di speranze. Dopo la guerra, e dopo i tentativi che fece, insieme a qualche “uomo di buona volontà”, per rendersi utile alla causa di un’Europa più giusta, si formò in lui la convinzione che le nazioni europee erano ormai avviate sulla strada di crisi sempre più radicali che rendevano futile ogni idea di “restaurazione” della democrazia e del socialismo quali li si era concepiti prima del 1914. Tali crisi investivano naturalmente anche i “valori culturali” e il posto che essi avevano avuto nella società all’inizio del secolo. L’esito della rivoluzione russa, il sorgere del fascismo e delle altre specie di regimi autoritari confermavano questa convinzione, come la confermavano d’altra parte le tendenze che si manifestavano nel campo della cultura.

Non si trattava, come sarebbe troppo facile interpretare, di “disillusione” o di “pessimismo”, bensì di un rivolgimento profondo il quale sboccò nella convinzione ragionata che fra il culto dei veri valori umani e la società qual era, e ancor più quale si avviava a essere, non sussisteva alcuna possibilità di compromesso: la cultura, intesa come asserzione intransigente dei valori di verità e di giustizia, diventava un culto segreto, praticabile soltanto in piccoli gruppi eretici.

Ma, naturalmente, il principio di una tale convinzione era già nella personalità di Caffi giovane. Ciò si trova indicato con sufficiente chiarezza in una lettera cui il destinatario, Giuseppe Prezzolini, pubblicandola nel già citato volume Testimonianze, assegna la data probabile del novembre 1913. Parlando della sorte di «coloro che nell’epoca nostra seriamente “vogliono volere” e sentono il bisogno di soluzioni nuove senza però essere in grado di precisare concretamente questa “nuova terra” verso la quale navighiamo», a un certo punto Caffi così scrive di se stesso: «Sento un isolamento morale forse più grave di ogni altro, oggi come oggi ho la certezza assoluta che nessuno di quelli che conosco vorrebbe prendermi a collaboratore, diventarmi compagno di ricerche. Non è perché presuntuosamente io creda di arrampicarmi su vette più difficili degli altri. È semplicemente il gioco delle combinazioni create dall’esistenza fatta finora da me: non posso entrare in un campo perché ne conosco altri che con questo non hanno né avranno mai punti di contatto. E la sintesi può interessare, appassionare, imporsi come indispensabile a me solo. Le assicuro che niente è così amaro come la coscienza di un “residuo” incomunicabile nei propri sentimenti, nei propri pensieri ogni volta che si avvicina con simpatia, con grande desiderio d’intendersi, uno che combatte in fin dei conti per la stessa mèta: la liberazione spirituale degli uomini, il rinnovamento della nostra civiltà tutta […]».

In queste righe è già delineata la disposizione d’animo che dopo la guerra doveva portare Caffi alla decisione di appartarsi dal “secolo”, senza tuttavia separarsene. Cessando di essere nomade, la sua esistenza personale divenne quella di un “eremita socievole”. La porta della sua stanza, nell’hotel meublé dove abitava, rimaneva sempre aperta, all’uso russo, a chiunque venisse a fargli visita e a conversare; ed egli accoglieva tutti come se il suo tempo fosse a loro disposizione; i soli sui quali cadeva un pesante silenzio oppure, anche peggio, un seguito di monosillabiche imbarazzate risposte, erano le persone “importanti” che venivano talvolta a intervistarlo o, come lui diceva, a tentare di “ripescarlo” per riportarlo nella vita normale.

La sua vita, cioè la sua attività giornaliera, rimase sempre più fermamente dedicata alla causa che nella lettera a Prezzolini indicava con parole ingenue e fiere insieme: la liberazione spirituale degli uomini e il rinnovamento della nostra civiltà. La sua solitudine era decisione di non avere altra società che quella da lui scelta: non aveva niente di ascetico, esprimeva semplicemente la libertà di una natura incapace di adattarsi alle ragioni del mondo e risoluta a rimaner fedele al non serviam pronunciato in gioventù. In sostanza, quella di Andrea Caffi era la vita di un “filosofo” nel senso antico della parola: di un uomo, cioè, unicamente devoto alla ricerca del vero e del giusto e convinto che tale ricerca diventava un affare equivoco non appena vi si mescolassero preoccupazioni di successo mondano o di carriera.

A Parigi, dopo il 1929, egli visse di traduzioni e di lavori da “negro”; e so, a questo proposito, di più di un personaggio eminente che deve a lui i suoi successi accademici o letterari. Pochi erano infatti quelli che, come Gaetano Salvemini, riconoscevano apertamente il contributo dato da Caffi alle loro ricerche. I più lo consideravano uno scombinato fornito di grande cultura al quale essi, dietro compenso, davano almeno l’occasione di far uso delle sue conoscenze. Si tendeva, anzi, a ignorare, o addirittura a disconoscere, ciò che gli si doveva tanto più quanto più gli si doveva: ad appropriarsi, cioè, puramente e semplicemente delle sue idee per farne quel qualsiasi uso che conveniva. Né egli era uomo da accettare per un solo momento il concetto che esistesse qualcosa come la proprietà privata delle cose dell’intelletto.

Visse così in una povertà che troppo spesso era miseria. Una miseria prodiga e sdegnosa del sia pur minimo calcolo. Come preferiva non mangiare piuttosto che sedersi a una di quelle mense a prezzo fisso delle quali noi suoi amici eravamo clienti non troppo difficili, così per lui il cosiddetto superfluo veniva sempre prima del necessario, e i primi acquisti, quando aveva qualche franco in tasca, erano di saponi, dentifrici e acqua di Colonia. Né d’altra parte esitava un momento a vuotarsi letteralmente le tasche se s’imbatteva in qualcuno che avesse comunque bisogno d’aiuto. Vivergli vicino era una gran lezione di generosità e di nobiltà.

Povero com’era, egli aveva d’altronde in sé una ricchezza inesauribile: la capacità del dono di sé nell’amicizia. Il dono era, a dir vero, la sola forma di commercio umano che per parte sua egli riconoscesse e praticasse. Non c’è nessuno, fra quelli che gli sono stati amici, o anche che lo han conosciuto un po’ da vicino, che non abbia ricevuto da lui infinitamente più di quello che abbia potuto dargli. Ciò valse, a lui solitario e misconosciuto, di essere sempre attorniato da amici tanto più devoti e ammirati quanto più erano giovani. Ad essi, egli offriva senza risparmio i doni di una mente che (contrariamente al precetto dantesco), non stava mai contenta al quia, di un animo delicatissimo e, soprattutto, l’esempio di che cosa volesse dire vivere come un uomo libero in un mondo, come quello contemporaneo, servo dell’utile, del successo e della forza.

A Parigi, fino al 1935, Caffi fu collaboratore dei Quaderni e del settimanale di Giustizia e Libertà. Dei suoi rapporti con Carlo Rosselli e col suo gruppo si trova ampia notizia nella Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci.

Molto ci sarebbe da notare sull’argomento. Ma la sede più adatta a questo sarà il volume degli scritti politici di Caffi, che dovrebbe seguire a poca distanza la pubblicazione della presente raccolta. Qui basti dire che la collaborazione di Caffi ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà fu dovuta alla simpatia per quel gruppo, che gli parve il più vivace e spregiudicato dell’emigrazione antifascista, e non a un’adesione politica che del resto non gli fu mai chiesta. Quanto alle critiche che egli contemporaneamente non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del “movimento”, esse erano dovute al desiderio che l’antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria.

Fra i fuorusciti italiani, oltre che con Carlo Rosselli e i suoi compagni, Caffi ebbe rapporti di amicizia e di collaborazione con Salvemini, Tasca, Lussu, Saragat, Giuseppe Faravelli, G.E. Modigliani; senza dimenticare il vecchio sindacalista di Parma Giovanni Faraboli, che egli conobbe a Toulouse nel 1940 e aiutò a tenere in piedi un’impresa di solidarietà e mutua assistenza fra gli operai italiani emigrati della regione. Sia lecito infine ricordare, fra i suoi più giovani amici di allora, oltre il sottoscritto, Mario Levi e Renzo Giua, quest’ultimo caduto in Spagna nel 1937.

Ma, come si è già accennato, la cerchia delle amicizie di Caffi era singolarmente larga e diversa. Partecipò assiduamente alla vita di molti gruppi d’emigrati russi, fra i quali aveva amici particolarmente cari. Fu attivo in vari ambienti politici e intellettuali francesi, essendo molto vicino, fra gli altri, a Paul Langevin, il fisico illustre.

A Toulouse, Caffi rimase dal luglio 1940 al febbraio 1948. Nel periodo dell’occupazione tedesca prese parte all’attività di gruppi di resistenza sia italiani che spagnoli e francesi. Per questo, nel 1944, fu imprigionato.

Tornato a Parigi, non mancò di attirarsi nuovi amici. Fra questi fu Albert Camus, il quale, pensando che un tale lavoro avrebbe potuto aprirgli la strada verso mansioni meno modeste, gli procurò un lavoro di lettore presso Gallimard. Infatti, le schede di lettura da lui compilate attirarono subito l’attenzione. Ma il gradimento dei letterati non era stimolo che potesse vincere la ritrosia di Caffi; ed era d’altra parte impensabile, per chi lo conosceva, che egli potesse fare un passo qualsiasi, avvicinare una persona o scrivere una riga, per un motivo d’utilità personale.

Con l’avanzare degli anni, la sua vita rimase quella che era sempre stata: povera e prodiga. Nel frattempo, gli stenti e i disagi in cui aveva vissuto da anni, e che erano stati particolarmente duri negli anni della guerra, cominciarono a mostrare i loro effetti sulla sua costituzione fisica, che pure era molto vigorosa. Fra il 1954 e il 1955 la sua salute declinò rapidamente. Colpito da un male che probabilmente lo minava da tempo, mori il 22 luglio 1955 all’ospedale della Salpétrière. Le sue ceneri sono deposte al cimitero del PéreLachaise.

Scritti di Andrea Caffi sono sparsi in riviste e giornali italiani, russi e americani. Nelle biblioteche italiane si trova un volume di Paolo Orsi, Le chiese basiliane della Calabria, pubblicato da Vallecchi, a Firenze, nel 1929, con una lunga appendice storica di Caffi intitolata Santi e guerrieri di Bisanzio nell’Italia meridionale. Nell’Enciclopedia Italiana, alcuni articoli di storia bizantina sono suoi. In questo campo, infatti, le sue conoscenze erano particolarmente sicure e profonde. Si era laureato con una tesi di storia bizantina e da allora lo studio della civiltà bizantina, legato a un più vasto interesse per la storia dell’ellenismo, era rimasto la sua passione particolare. Ma, come si è detto, la sua cultura era enciclopedica nel senso più forte della parola: talmente vasta da dar l’impressione di essere propriamente sconfinata, essa rimaneva mirabilmente precisa su ogni punto. C’era, in questo, qualcosa come la luce di un dono incomparabile.

È nello scambio amichevole d’idee, oltre che nell’esempio di libertà e di disinteresse che offriva giorno per giorno la sua esistenza, che Andrea Caffi dava il meglio di sé, irradiando quello “spirito arcangelo” di cui parlava Antonio Banfi. Ciò che di più somigliante, direi, rimane di lui si trova nelle lunghe lettere agli amici e nelle lunghe note che egli usava fare ai loro scritti o per chiarire opinioni espresse conversando.

Quelli ai quali nel presente volume si è data forma di saggi sono dunque propriamente brani e frammenti del bel discorso che fu, considerata dal punto di vista del commercio intellettuale, la sua vita. Sono brani e frammenti estratti dalle lettere e note di lui che chi scrive è riuscito a preservare. Molto, purtroppo, è andato perduto. Tuttavia, non solo si tratta di una minima parte di ciò che a Caffi accadde di scrivere, ma anche di una piccola parte di ciò che è stato conservato. Per non parlare, infatti, di ciò che hanno potuto conservare di lui gli amici russi e francesi, e a parte i manoscritti lasciati alla biblioteca Lenin di Mosca, esistono scritti e documenti di Caffi nell’archivio del Grande Oriente di Francia e in quelli di altre logge massoniche francesi e russe. Come alla causa del socialismo abbracciata in gioventù, egli era infatti rimasto fedele all’ideale massonico, al quale era stato iniziato adolescente in Russia.

Veramente e doppiamente frammenti, dunque, gli scritti che qui si pubblicano. Note e lettere non sono infatti, a loro volta, che brani di quella lunga lezione d’umanità che fu per il sottoscritto l’amicizia con Andrea Caffi.

Troverà il lettore in questi brani quel “principio filosofico” o quella “idea centrale” che, dopo averne letto alcuni nella rivista Tempo presente (dove la massima parte di essi è stata pubblicata) Giuseppe Prezzolini non ci ha trovato, e ha tenuto a dirlo in un articolo dedicato a Caffi e intitolato Uno strano tipo, che si può leggere nel Tempo di Roma del 5 agosto 1959?

In un certo senso è da sperare che no, che non li trovi, questo “principio filosofico” e questa “idea centrale”. Giacché nulla era più contrario al modo di vedere di Caffi dell’idea che il sapere e l’esperienza dell’uomo potessero o dovessero organizzarsi secondo un principio unico. Si potrebbe anzi dire che tutti i suoi discorsi tendevano a minare nell’interlocutore ogni certezza, o presunzione, di questo tipo; e la ragione principale, forse, per cui un uomo così straordinariamente dotato e erudito non produsse l’opera che pure avrebbe certamente potuto lasciare è la diffidenza per ogni “idea centrale” e per ogni “principio filosofico” applicabile per via di deduzione ai fatti umani. Tale diffidenza andava unita a una grande ambizione di ritrovare nel tessuto vivo della storia delle costanti secondo cui i fatti potessero ordinarsi senza nulla perdere della loro individualità. Ma lo scetticismo non perdeva i suoi diritti quando si trattava delle sue proprie idee. Molte volte gli capitava di accennare alla possibilità che, per esempio, i grandi sistemi di pensiero fossero apparsi nella storia a un ritmo determinato, o che un ritmo analogo si potesse scoprire nella durata dei grandi imperi. Ma si fermava subito, trattando simili speculazioni come dei giochi, e rimanendo sempre altrettanto guardingo nelle affermazioni quanto era preciso e sottile nella critica.

Si può dunque dire che la conoscenza storica gli serviva allo scopo eminentemente socratico di mostrare quanto poco sapessero in realtà gli storici e gli storiografi che avanzavano (come gli hegeliani e i neohegeliani) tesi categoriche sull’“idea” che ispirava questo o quel periodo della storia umana, sui parallelismi “morfologici” fra civiltà diverse e non comunicanti (come Spengler), ovvero (come Toynbee) sulle leggi che regolano la genesi, la crescita e la morte delle civiltà.

A tali “idee centrali”, Caffi rispondeva in un solo metodico modo: adducendo i singoli inconfutabili fatti che tagliavan loro, per dir così, l’erba sotto i piedi. Ma poiché consisteva nel rammentare tutto ciò che, in un dato evento o seguito di eventi, sfuggiva al particolare tentativo d’“inquadramento” di cui si trattava, la dimostrazione assumeva naturalmente un carattere positivo. Sicché, come dall’interrogazione socratica, così dalla critica di Caffi finiva per sprigionarsi la luce di una rivelazione: quella del fatto stesso nella sua vivezza e libertà, scevro delle sovrastrutture di cui volevano ricoprirlo i pregiudizi di chiesa, di setta o d’accademia.

Questo era il dono che si riceveva continuamente da Caffi: la visione del fenomeno “salvo” dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo. Se non bastava a fondare una filosofia della storia, l’esperienza ripetuta di una tale visione finiva per costituire qualcosa di più prezioso: il sentimento di ciò che vi è di sacro nei fatti umani e fa tutt’uno con la loro verità viva o, si potrebbe dire, la loro “essenza”. E tale sentimento era accompagnato dall’impossibilità ormai di dimenticare questa realtà, o comunque farne astrazione.

Giacché l’originalità profonda del pensiero di Andrea Caffi, e la grande lezione in esso implicita, era di concepire l’essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.

Tale realtà concreta non era altro che il tessuto intimo dei rapporti sociali. Questo tessuto cominciava secondo Caffi con la facoltà mitopoietica (da lui definita come “quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile… che unisce e connette come dal profondo i membri di una società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza”) per continuarsi e articolarsi nei costumi, nella cultura e in tutte le forme di rapporti che noi chiamiamo “umani” per indicare che sono una conquista dell’uomo sull’informità e la brutalità, maniere non di subire la “natura”, ma di darle un senso e una forma.

Se il lettore di queste pagine non si preoccuperà troppo di sapere in anticipo dove – a quali conclusioni d’ordine generale – lo conduca il discorso di Caffi, è da credere che egli scoprirà presto come esso sia tutto ispirato da una sola e medesima idea e passione: quella di suscitare (o risuscitare) nella nostra epoca di inerzia massiccia e d’indifferenza il sentimento di quella realtà alla quale Aristotele dava il nome di philia, e la metteva a base del legame sociale, che Leopardi chiamava l’“umana compagnia” e che Caffi amava indicare col termine “società”, dando ad esso un significato particolare che egli spiega e esemplifica molto chiaramente.

Che cos’è la “società” di cui è continuamente questione nel discorso di Caffi? «È» egli dice, «l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà».

La definizione non potrebb’essere più piana e modesta. Essa tuttavia contiene al tempo stesso un sentimento della storia assai profondo e un ideale d’umanità assai alto. È infatti nel permanere di tali rapporti “che hanno almeno l’apparenza della libertà” attraverso le tormente della storia, nella loro capacità di resistere e sussistere malgrado le violenze, le deformazioni e gli stenti cui le assoggetta la volontà di potenza, nel loro riaffermarsi e dar frutto non appena le circostanze si facciano meno avverse, è in questa alterna e sempre tragica vicenda dell’“umana compagnia”, che Caffi scorgeva l’unico “senso” intelligibile della Storia.

Questo è il tema fondamentale del discorso molto coerente, anche se frammentario, che si svolge in queste pagine sia a proposito del rapporto fra violenza organizzata e ideale socialista o di quello fra Stato, nazione e società, sia che si trattino argomenti in apparenza disparati come il mito, la nozione di borghesia o la situazione della cultura nel mondo attuale.

È un discorso, quello di Caffi, che riflette una piena, pienamente sofferta e quanto mai ricca esperienza delle vicissitudini sia della storia che della cultura europea fra gl’inizi del secolo e i giorni nostri. Esso è anzitutto, per dirla con Montaigne, un discorso di buona fede. Aggiungerò che io, per parte mia, non ne conosco di più “attuale”, nel senso che, mentre la sua intenzione profonda è di salvare ciò che ha di prezioso la tradizione umanistica europea, esso rimane nel contempo interamente proteso verso “il rinnovamento della nostra civiltà tutta”.

È anche un discorso chiaro, e non esige ulteriore chiosa. Domanda soltanto quella disposizione ad ascoltare che non tardava a nascere in quelli che avvicinavano Caffi e che fra i più giovani si mutava subito in desiderio di conoscere il seguito delle sue idee; o forse meglio si direbbe: del suo racconto.

Ho dato a questa raccolta un titolo, Critica della violenza, che, se è ben lontano dall’indicarne la ricchezza, ne esprime però abbastanza bene l’intenzione complessiva. Giacché, in un’epoca in cui non solo legioni d’intellettuali si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell’uomo all’urgenza delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno.

Nulla a posto e tutto in ordine

di Paolo Repetto, 20 dicembre 2023

L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine.
Elisée Reclus

Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato, da tralasciare, per causa sua, il riordino del mondo. Lei vede, bisogna fare sacrifici, come e dove si viva.
Friedrich Nietzsche (a Jacob Burckardt, 5 gennaio 1889)

Anni fa fui invitato da un amico a raggiungerlo in una dimora di campagna che aveva da poco acquistata. Era estate piena, la casa era circondata da un bel giardino e naturalmente prima ancora di visitare l’interno ho voluto esplorare il luogo. Tutto bene, un giusto equilibrio tra piante ornamentali e alberi da frutta, niente gazebo o padiglioni vittoriani, o nani di gesso, o fontanelle con la venere di Milo. Tutto tranne una nota decisamente stonata: giacevano infatti sparse qua e là, disposte apparentemente a casaccio e rovesciate su un fianco, alcune grossolane riproduzioni di anfore romane. Non ci ho pensato due volte, e anche se dubitavo che in quel luogo le anfore avessero un gran senso le ho rimesse in piedi una ad una. Col risultato che quando l’amico e le nostre rispettive mogli mi hanno raggiunto sono stato sommerso da una fragorosa risata. L’effetto “rovine classiche” era voluto, e io ho fatto la figura del burino che ignora l’arte della decorazione dei giardini. Lì per lì ho abbozzato, ma rimango convinto che le anfore fossero delle intruse. E che comunque andassero almeno disposte in bell’ordine.

Questa pulsione a “raddrizzare” ha risvolti che in qualche caso rasentano i limiti dell’educazione (ma non li superano. Sia chiaro, mi permetto certe cose solo con coloro ai quali le permetterei nei miei confronti). La settimana scorsa, ad esempio, nello studio di un altro amico ho raddrizzato un paio di quadri che non erano perfettamente orizzontali, con lui che mi guardava sogghignando (perché non era la prima volta) e diceva: “Sono settimane che mi chiedo cosa non andasse in questa stanza. Ora ho capito”. In più di un’occasione ho pareggiato libri sugli scaffali altrui, o ne ho cambiata la disposizione perché gli accostamenti erano clamorosamente sbagliati. Uno dei beneficiari della mia non richiesta consulenza ha detto che neppure Monk è tanto pignolo.

Non è del tutto vero. Sono un perfezionista solo in alcuni settori, e quello dei libri viene naturalmente per primo. I miei devono trovare una giusta collocazione (cioè quella che io reputo tale) e devono tornare esattamente al loro posto una volta utilizzati. Considerando che la consistenza della mia biblioteca ha superato ormai da trent’anni la quintuplice cifra, non è cosa di poco impegno.

Altrettanto puntiglioso sono naturalmente per quanto concerne il contenuto dei libri. Non mi riferisco agli argomenti o alle idee, ma alla forma, alla correttezza ortografica, grammaticale e sintattica. Un paio di refusi urtanti o un verbo mal coniugato mi rendono difficile proseguire in qualsiasi lettura, e a volte me la chiudono.

In altri campi invece, dal modo di vestire a quello di parcheggiare, sono solo ordinato o disciplinato. Non amo i contrasti, sono quasi monocromatico (non ho indossato mai un paio di pantaloni rossi, o bianchi), e lo stesso varrebbe per l’arredamento, non fosse che tutte le pareti della mia abitazione sono fasciate da libri disposti sulle scaffalature in legno naturale che io stesso ho costruito, e quindi il problema non si pone. Quanto ai parcheggi, non ho mai pensato che le righe abbiano solo una funzione decorativa.

Sono un maniaco, questo sì, della puntualità. Non sopporto i ritardi dovuti alla trascuratezza e non alla necessità, li patisco come una mancanza di rispetto. E meno ancora sopporto di essere io in ritardo, soprattutto se condizionato dalla indolenza e dalla trascuratezza altrui.

In compenso, per un sacco di altre cose non sono affatto metodico: trascrivo indirizzi o numeri telefonici sul primo pezzo di carta disponibile, col risultato che essendo sommerso dalla carta non li ritrovo mai al momento del bisogno. Oppure rimando il pagamento di imposte, bolli, balzelli vari, o la compilazione di documenti che mi sono richiesti, a volte fino a dimenticarmene e a beccarmi le sanzioni previste. O ancora, non leggo tempestivamente le mail che arrivano, suscitando spesso il sarcasmo dei miei corrispondenti. Ma in questo caso non parlerei di un’attitudine disordinata: in genere sono inconsce rimozioni.

Tutto sommato, comunque, si può dire che sì, sono un amante dell’ordine, un uomo ordinato; oppure, prendendola da un altro punto di vista, un uomo decisamente ordinario.

Nulla a posto 02Ordinare è un lemma dai molteplici significati, tutti assimilabili, tutti connessi alla stessa radice, sia pure a diversi gradi di parentela[1]. Nell’uso corrente lo troviamo soprattutto nei significati di “impartire un ordine”, “fare un ordine”, “mettere ordine”, ma può anche significare inscrivere in un ordine religioso o cavalleresco, o volendo anche naturale, nel senso di classificare, ecc … A me i primi tre si attagliano tutti, anche se con diverse tonalità e sfumature. Ad esempio, so dare ordini: penso che avrei potuto essere un buon sergente, ma sul piano pratico preferisco poi fare personalmente anche ciò che potrei demandare ad altri, probabilmente per un eccesso di presunzione. Ho anche imparato a fare ordinativi via mail, ma solamente quando si tratta di libri, e soltanto per quelli che non trovo in libreria. E persino in pizzeria sono in genere io alla fine a fare l’ordinazione, soprattutto quando ci sono le nostre compagne e la scelta minaccia di andare per le lunghe.

Come si sarà già capito, però, è il terzo impiego del termine a caratterizzarmi davvero. Sono un maniaco dell’ordine, sia pure non a livelli ossessivi, perché applico le mie ubbie innanzitutto a me stesso. E l’ordine che ho in mente ha una forte componente conservatrice. Voglio che le cose “rimangano” in ordine, o al più procedano ordinatamente verso il cambiamento. Non sono dunque un rivoluzionario: e tuttavia paradossalmente mi considero un ribelle.

Prima di proseguire credo di dovere un paio di spiegazioni a chi si fosse presa la briga di leggere questo pezzo (e ancora non avesse smesso). Innanzitutto perché e come mai (che non sono la stessa cosa) ho pensato di scriverlo. È molto semplice, tutto nasce dal titolo di un testo che ho ripreso in mano a distanza di qualche tempo. Si tratta de L’ordine libertario, di Michel Onfray, e traccia una biografia intellettuale di Camus, nonché dello stesso Onfray. Ma di questo parlerò appunto in un pezzo a venire. Sulla mia decisione di oggi ha agito invece solo il titolo, che mi sembra sintetizzare nella maniera più efficace il mio atteggiamento psico-sociale e si attaglia perfettamente ad una breve riflessione preserale, di quelle che mi fanno andare a cena con più appetito, e in questo caso anche pre-natalizia.

Nulla a posto 03 CamusL’apparente chiasmo racchiuso in L’ordine libertario sintetizza, come dicevo, la mia concezione del mondo, degli uomini e dei loro rapporti coi loro simili e col mondo stesso. Quella ideale, naturalmente, di come questi rapporti dovrebbero essere, che non si oppone però alla consapevolezza di come le cose funzionino nella realtà. Non sono ancora così psichicamente turbato da credere in una reale possibilità di riordino del mondo, e da volerla. Ma penso sia importante, ai fini delle nostre scelte e del nostro agire, avere all’orizzonte un traguardo al quale le nostre azioni si ispirino, una direzione nella quale muovere. Sapendo tuttavia che l’orizzonte si sposta in avanti ad ogni passo che fai, e soprattutto che è importante, mentre cammini, tenere sott’occhio il paesaggio circostante e la terra su cui posi i piedi.

La mia direzione va in senso opposto a quella prospettata dalla conoscenza scientifica, secondo la quale, in base alla legge dell’entropia, ogni sistema isolato si trasforma ed evolve nel tempo fino a raggiungere uno stato di equilibrio finale. Che paradossalmente è anch’esso un ordine, ma diverso da quello che noi intendiamo e percepiamo come tale, in base a una nostra forma mentis, alle nostre consuetudini e alle nostre concrete esigenze. In altre parole, quell’equilibrio per noi è un disordine.

Provo a spiegarmi. È come se la mia biblioteca fosse talmente frequentata e utilizzata fuori del mio controllo da trovarsi ad un certo punto con tutti i volumi sparpagliati, rimescolati e disposti secondo criteri totalmente differenti da quelli con i quali l’ho costruita e in base ai quali sino ad oggi è cresciuta (è quello che quasi certamente accadrà, anche se preferisco non pensarci). O peggio ancora, potrebbe essere smembrata e finire sulle bancarelle dei mercatini, o addirittura al macero. Non so se questa possa essere definita una legge di natura, so che è però un futuro probabile. L’entropia è dunque la misura del disordine del sistema: uno stato con poco disordine è quello nel quale gli elementi che lo costituiscono sono stati ordinati – lo stato di partenza, la mia attuale biblioteca; uno stato ad alto disordine è quello in cui il sistema è disposto a caso. La somma dei componenti, magari sotto specie diverse, rimane la stessa, ma il senso dell’insieme cambia completamente. Si passa così da una situazione iniziale di ordine a una finale di disordine.

Ora, quando scrivo che vado in direzione opposta non significa che neghi la verità scientifica, o che creda alla possibilità di invertire la rotta naturale verso il disordine (che è poi tale solo nella nostra percezione della dislocazione delle risorse). Voglio dire che esiste un ordine naturale, del quale dobbiamo essere coscienti, e che è un ordine in divenire costante ma lento; ma ne esiste poi uno culturale. I due hanno viaggiato per un lungo tratto della vicenda umana in una passabile sincronia, fino a quando improvvisamente il secondo ha conosciuto un’accelerazione, concretizzatasi in un crescendo di complessità, e i ritmi hanno iniziato a divergere. L’ordine culturale ha finito per sovrapporsi, e questa non è solo una nostra percezione, a quello naturale, prolificando per partenogenesi all’insegna dell’artificio e della complessità, e finendo fuori controllo. Esattamente come sta accadendo alla mia biblioteca, dove essendo ormai esaurito ogni spazio utile nei cinquanta e passa scaffali disponibili, e a dispetto delle doppie file sui ripiani e dell’occupazione persino dei vani finestra, cominciano ad accatastarsi sul pavimento pile di volumi: e dove, avendone io accumulati troppi, e create suddivisioni tematiche che alla gran parte dei testi vanno strette, non ho più il governo della memoria e sempre più spesso mi è difficile localizzare ciò che al momento mi serve. A volte mi arrovello per giorni, non riuscendo a scovare testi che so per certo esserci.

Nulla a posto 04Questo sta accadendo. Rispetto a ciò, se fossi un rivoluzionario, cercherei di cambiare non solo l’ordine e la disposizione dei volumi, ma muterei radicalmente l’approccio coi libri, buttandomi sul supporto digitale. In questo modo guadagnerei, forse, in efficacia e in efficienza, ma perderei tutto quel valore aggiunto che il possesso e il rapporto fisico con il libro cartaceo mi garantisce. Sacrificherei alla praticità uno dei maggiori piaceri che la vita, nella dimensione dell’ordine culturale, può offrire.

Sono invece un ribelle, se così la vogliamo mettere, perché, pur essendo consapevole che la vita dei miei libri non sarà eterna, e la mia tanto meno; che quelli già domani potrebbero essere considerati obsoleti, un inutile ingombro, e che tutto ciò che da essi ho appreso e su di essi ho costruito scomparirà con me; che dunque mi sto battendo per una causa già persa; ebbene, a dispetto di ciò non mi passa affatto per la mente di rassegnarmi, e mi ostino ad acquistarne altri, a leggerli e a inserirli diligentemente in un quadro che magari vedo solo io, ma che c’è. Ed è un quadro ordinato.

In sostanza, e finalmente fuor di metafora, sono “solo” un ribelle perché non pretendo di avere raggiunto una superiore “coscienza politica”. Non vedo le cose dall’alto, non leggo le trame necessarie e nascoste della storia, non ne prevedo gli sviluppi e non credo di poterli orientare: insomma, non so pensare e agire rimanendo indifferente alle contingenze, ai limiti e alle aspettative e alle sofferenze dei singoli, in nome di un bene comune che domani dovrebbe giustificare il tutto. Mi sono fermato alla “coscienza etica”, che non ha bisogno di un disegno superiore o della speranza in un remoto riscatto collettivo per dare senso ad ogni esistenza individuale. Un senso alla mia esistenza voglio darlo subito, senza attendere che scenda dal cielo o vada a consolare le generazioni venture. Voglio celebrare e difendere tutto ciò che di positivo la vita mi ha riservato, quel poco che ho costruito e quel molto che altri hanno costruito prima di me, e nei limiti delle mie possibilità correggere i risvolti negativi. Questo è l’unico senso che riconosco. Non presumo dunque di migliorare il mondo in base ad un’idea astratta, in funzione di un futuro che se ci sarà apparterrà ad altri; e neppure voglio far tornare in vita un improbabile Eden passato. Non progetto la città ideale, ma cerco di tenere pulita e in ordine quella che abito. E devo quindi ribellarmi al disordine, (anche sapendo che è il destino di tutte le cose), non per fermare l’entropia materiale e morale che avanza, ma almeno per alleviarne il peso e ritardarne il trionfo[2].

Nulla a posto e tutto in ordine 07Ma tutto questo, poi, all’atto pratico, in cosa si traduce? Per quanto mi concerne sono convinto che la mia vera attitudine fosse quella del correttore di bozze, o dell’editor, come si usa oggi (sto dicendo sul serio). Alla maniera di Sebastiano Timpanaro. Non “scrivere una storia” (o “la” storia)”, ma aiutarla a scorrere senza troppe frizioni. Sono però anche consapevole che difficilmente avrei potuto svolgere quella mansione, perché tendo ad allargarmi troppo: non mi sarei limitato a emendare i testi, ma avrei anche discusso della loro pertinenza nello specifico, o della loro opportunità in assoluto. Ho trasferito allora la mia coazione a correggere sulle sovrascritture che ciascuno di noi lascia, come traccia del suo passaggio, su quel testo indecifrabile che s’intitola “vita”.

Ciò non significa che mi sia dato la missione di andare in giro a raddrizzare anfore e quadri nelle case altrui o a predicare disciplina nei posteggi. Questi sono effetti collaterali. Significa semplicemente che mi sforzo di praticare, nella quotidianità delle azioni e delle relazioni, quella resistenza anti-entropica che la mia natura, ed evidentemente anche il mio tipo di cultura, mi dettano. Lo faccio per conservare il rispetto di me stesso, e non mi costa nulla: in realtà non mi sforzo affatto, perché si tratta di comportamenti molto “ordinari”, limitati a quell’agire ordinato che non crea contrasti, attriti, ossia perdite di energia per motivi inutili e futili, e si oppone al realizzarsi del disordine entropico (almeno quello delle relazioni interpersonali, ma senz’altro anche quello fisico). Queste stesse pagine, ad esempio, che futili lo sono senza alcun dubbio, a me hanno creato benessere, perché scrivere mi piace e mi aiuta a riordinare le idee, mentre agli altri non recano alcun danno, perché, al di là del fatto che sono liberi di leggerle o meno (ciò che vale quasi sempre), non sborsano una lira o non subiscono un secondo di pubblicità per farlo (ciò che non accade quasi mai).

Naturalmente l’agire ordinato importante è ben altro: “in positivo”, va dal sorridere a una persona in ascensore al congratularsi con qualcuno per come svolge il suo lavoro, fino al saldare tutti i debiti, morali e materiali, magari senza attendere le scadenze canoniche o il clima un po’ ipocrita delle festività: “in negativo”, dal ricordare a qualcuno che le code si rispettano, senza dare in escandescenze, all’esigere, sempre con calma e senza trascendere, che qualcun altro faccia bene il proprio lavoro, fino al non lasciare nella natura tracce troppo sconvolgenti del nostro passaggio.

Se poi questa diventa una forma di testimonianza, tanto meglio, ma direi anche “poveri noi!”. Mi rifiuto di pensare che la normalità debba diventare “esemplarità”. E soprattutto, a dispetto di quanto magari potrebbe sembrare, diffido dei santini. Conosco un poco la natura umana (abbastanza da sapere che una “natura umana” non esiste, ma che è comodo supporla), e segnatamente la mia, e ciò mi spinge, se non ad accettare, almeno ad ammettere le sue debolezze. Fanno parte della dotazione originaria.

La mia distanza dal “rivoluzionario” sta dunque già in una disposizione di fondo, che reputo innata, nei confronti del mondo e della vita. Amo l’uno e l’altra. Il mondo e la vita si possono amare anche, e forse più, quando si è perfettamente coscienti della “estraneità” del primo nei nostri confronti e del fatidico limite della seconda (Leopardi in questo senso docet, anche se la vulgata vorrebbe il contrario). Li amiamo quando non reagiamo alla oggettiva assurdità del nostro esistere mossi dal risentimento per quelle che consideriamo promesse mancate, ma riconosciamo che ogni illusione e aspettativa ce la siamo creata noi stessi, e ne abbiamo la totale responsabilità.

Fuori c’è il nulla, avrebbe detto Camus. Intendeva che c’è tutto un mondo (e stanti le sue origini mediterranee si riferiva soprattutto alla luce, al sole, al mare) del quale possiamo anche innamorarci, ma che non è lì per noi. Abbiamo solo l’opportunità di visitarlo come turisti, per un fugace passaggio. Possiamo goderne, ma nella coscienza della nostra transitorietà, e questa coscienza ci responsabilizza. Dobbiamo decidere se arrenderci passivamente all’assurdo, continuando a fingere di ignorarlo, e a comportarci come protagonisti attorno ai quali ruota tutta la rappresentazione, o cominciare da subito a guardare dentro la nostra effimera esistenza e a mettere ordine almeno lì. A darle noi un senso, qui ed ora.

Perché la coscienza del nulla paradossalmente ci rende liberi. Se non da una programmazione biologica sulla quale per fortuna non possiamo ancora intervenire, almeno nelle nostre scelte culturali. Siamo liberi, e quindi responsabili, nei confronti nostri, degli altri e del mondo che temporaneamente ci ospita, che dovremmo cercare di trasmettere domani il più ordinato possibile. E questa responsabilità, se accolta in positivo, costituisce essa stessa il senso.

Nulla a posto e tutto in ordine 06 Sartre e CamusUn quasi gemello di Camus, Jean Paul Sartre, prima sodale del nostro e poi rancoroso rivale, ha scritto: “L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa”.

Ecco, la differenza sta lì: nel leggere la nostra condizione come una condanna o come un privilegio. E infatti, Sartre era un “rivoluzionario” (sia pure da salotto), Camus era un “ribelle”.

Nulla a posto 05 Motivazione-al-cambiamento

NOTE

[1] Per i curiosi, il sostantivo latino ordo deriva da una radice sanscrita or (che è la stessa da cui nascono orior, nasco, e ordior, comincio), più una desinenza do, che indica un modo di essere o di fare qualcosa (dulcedo, valetudo, fortitudo). Sta dunque ad indicare la disposizione di ciascuna cosa al suo posto.

[2] Per Schrödinger “gli esseri viventi evitano il decadimento in uno stato di equilibrio termodinamico (vale a dire nella morte) estraendo entropia negativa, o ordine, dall’ambiente, per compensare l’aumento di entropia che essi producono vivendo”. Parte di questa energia viene inevitabilmente dissipata in calore, e ciò è indispensabile per mantenere un organismo a temperatura costante. In tal modo un organismo vivente cede calore all’ambiente.

Ultimo canto di Natale

di Paolo Repetto, 18 dicembre 2021

Una precisazione. Mi sembra quasi ridicolo premettere questa “avvertenza”, e probabilmente farei meglio a passare oltre senza farmi troppi scrupoli. Ma siamo ormai talmente e perennemente assediati dalla stupidità che diventa automatico cercare di prenderne le distanze, anche quando si ha il sospetto di fare in questo modo il suo gioco. Per questo tengo a precisare che le pagine che seguono nulla hanno a che vedere con l’alzata di scudi e le proteste contro le raccomandazioni della commissione UE sugli auguri natalizi. Quelle linee guida erano solo stupide, l’indignazione che ne è seguita era molto peggio, era totalmente ipocrita.

Mezzo secolo fa, proprio in questo giorno, la metà precisa di dicembre, prendeva il via nella parrocchiale di Lerma l’ultima grande Novena di Natale. L’ultima almeno che io ricordi, e comunque l’ultima di un’era. Dopo non è più stata la stessa cosa.

La Novena era uno degli eventi più attesi dell’anno, e non solo di quelli liturgici. Che fossi credente o meno, non la potevi perdere, un po’ come la processione dei giudei il giovedì santo. C’era il rischio di sentirti poi raccontare: sai cos’è successo? e friggere per non essere stato presente.

Ultimo canto di Natale 02Si trattava di una liturgia di approssimazione al Natale e durava appunto nove giorni, dal sedici dicembre alla vigilia: giorni nei quali si ripeteva puntuale al cessare dei rintocchi dell’Ave Maria, quindi mezz’ora dopo il tramonto. Tecnicamente non era che un’edizione speciale del rosario (mi sembra di ricordare si parlasse di “misteri gaudiosi”), che tuttavia, già solo per la crescente atmosfera di attesa – in fondo era un conto alla rovescia –, sembrava meno noiosa di quella normale: ma la celebrazione era poi resa spettacolare dal corollario dei canti natalizi e delle salmodie, e dalla scenografia. Una delle cappelle del transetto era occupata da un grande presepe, popolato di vecchie statuine che sembravano uscite dalla notte dei tempi e di casette tutte sbrecciate, e proprio per questo ancor più cariche di fascino: inoltre tutti e tre gli altari erano addobbati e la chiesa veniva illuminata quasi a giorno con un rinforzo di luci volanti. Per l’occasione don Bobbio non lesinava sulle spese, anche perché si rifaceva abbondantemente con una pioggia di elemosine. Lerma contava all’epoca, almeno fino a metà degli anni sessanta, più di mille abitanti, e alla Novena, complice anche la forzata sospensione dei lavori agricoli, partecipavano quasi tutti (nel coro, dietro l’altare, sedevano anche i vecchi socialisti come mio zio Micotto, col suo tabarro nero, e appoggiato al muro, subito fuori di uno degli ingressi secondari, vidi una volta persino Modesto, il mio dirimpettaio anarchico). Era un momento di eccezionale socialità, consentiva di rincontrarsi a persone che arrivavano dalle frazioni e magari non si vedevano da mesi. L’illuminazione inconsueta dava poi all’evento anche un carattere “mondano”, con le signore che si presentavano in spolvero invernale (quelle che potevano permettersi uno straccio di cappotto, ma si vedeva persino qualche pelliccia) e con gli sguardi comparativi che viaggiavano come raggi laser e si incrociavano da una parte all’altra della navata.

In realtà fino alla tarda infanzia ho patito un po’ tutta la faccenda: la cerimonia durava più a lungo del solito, in chiesa malgrado l’affollamento faceva freddo e l’orario della funzione coincideva con quello della tivù dei ragazzi, visibile solo nel circolo parrocchiale. Rinunciarvi per nove giorni significava perdere almeno due puntate di Rin Tin Tin o dei Lancieri del Bengala. Nella prima adolescenza ho invece cominciato ad apprezzare l’atmosfera di quelle serate, tanto che anche dopo la guerra di religione ingaggiata con mia madre non ne perdevo una. In questa assiduità la religione non c’entrava affatto, ma ormai potevo sedere nell’anticoro, e di lì le ragazze dei primi banchi, infagottate nei panni invernali, sembravano tutte carinissime, erano una gioia per gli occhi.

Ultimo canto di Natale 03Lo erano anche, per le orecchie, i canti che partivano alle nostre spalle e i responsoriali che ci arrivavano da oltre la balaustra. Il fascino della novena era legato tutto a questi momenti corali. Per indisciplinati che fossero i coristi e le coriste lermesi (mia madre, che ambiva a voce guida, si lamentava immancabilmente delle sue concorrenti che tutte le sante sere partivano in anticipo, rovinandole l’effetto d’ingresso), i cantici natalizi che salivano assieme al fiato verso la volta a botte mi affascinavano: da quella scarsa disciplina addirittura ci guadagnavano, perché riuscivano genuini e spontanei (o forse li ha resi tali nel ricordo il confronto con la loro successiva degradazione a jingle pubblicitari).

Il culmine però lo si raggiungeva con i salmi. Erano cantati in latino, come del resto in latino era ancora recitato tutto il rosario, e la liturgia natalizia ne contemplava un paio che costituivano il cavallo di battaglia del corista principe, Pedru, leader indiscusso della confraternita del Suffragio. Uno di questi salmi iniziava con un “Omnes”, e quella O iniziale era diventata leggendaria. Pedru la conduceva, la modulava, l’alzava e l’abbassava in un continuo da lasciarti in apnea. Una volta, quando già era molto anziano, a sua insaputa lo cronometrammo: resse la O, senza prendere fiato, per oltre quaranta secondi, ed entrò di prepotenza nel nostro specialissimo guinness.

Poi arrivarono il sessantotto, la contestazione, la dissacrazione, lo sradicamento: le ragazze le guardavo nelle assemblee universitarie, la musica l’ascoltavo altrove. Ma certe sensazioni non si dimenticano, e la nostalgia della novena è rimasta per me strettamente connessa proprio a quell’edizione fuori tempo massimo di cui parlavo all’inizio, a Pedru e alla vicenda che vado a raccontare.

Ultimo canto di Natale 04È andata così. Ormai più che ventenne, rientrando da Genova, dove lavoravo e ogni tanto studiavo anche, vengo informato da mio padre che Pedru è in crisi nera. Il priore della confraternita era, come molti altri, un frequentatore assiduo del nostro negozio di ciabattino, segnatamente nei mesi invernali, e mio padre era un po’ il confidente di mezzo paese. Le prime sere della novena sono andate quasi deserte, persino nel coro un sacco di seggi sono rimasti vuoti. Non solo: il nuovo parroco gli ha anche imposto di dare un taglio ai salmi e di cantare solo quelli tradotti in italiano, liquidando quindi l’Omnes. Ho la conferma da mia madre: anche lei è avvilita, pur se rassegnata all’obbedienza (l’unica volta che io ricordi). Ci rimango male. Ho chiuso da un pezzo con la chiesa, e poi anche con la militanza gruppettara, ma sono sempre in cerca di buone cause per le quali battermi. Ne parlo con gli amici, che dapprima la mettono in ridere, poi, quando capiscono che faccio sul serio, si lasciano convincere: parteciperemo in gruppo alla novena, riempiremo i vuoti del coro e daremo una mano a Pedru a far nascere Gesù anche quest’anno. Ma non basta, mi spingo oltre: vado a patteggiare col parroco la nostra presenza contro la concessione di cantare anche in latino, almeno per le ultime serate, i due salmi.

E qui comincia una storia che sembra presa da un film della Disney, e invece è la pura realtà. La voce si diffonde (mia madre in queste cose era meglio di Goebbels), noi prendiamo possesso del coro, e facendo sul serio cominciamo davvero a divertirci: quindi entrano in gioco anche le ragazze, poi i tradizionalisti, poi i curiosi. Insomma, è un crescendo che nelle ultime due funzioni di antivigilia diventa un pienone. La sera della vigilia, poi, l’apoteosi. Chiesa stracolma, coro al completo con gente in piedi sin dentro la sacrestia. Il prete mena in lungo la funzione – gli piace avere la chiesa piena, molto meno il motivo per cui è tale –, ma stasera “Tu scendi dalle stelle” e “Nell’orrido rigor” sembrano eseguiti dai coristi della Scala: si sente che le ragazze sono state messe in riga da una mano ferma, verrebbe voglia di chiedere il bis. Poi, quando il rito “ufficiale” si è concluso, arriva il grande momento. Pedru intona l’Omnes, regge l’O a malapena per mezzo minuto, ma come va a calare lo riprendiamo noi, che entriamo in controcanto e lo allunghiamo per un altro mezzo. Non dico che sia venuto fuori il coro del Nabucco, ma i tre o quattro tra noi passabilmente intonati (non certo io, che sono stonato come una campana) fanno bene la loro parte, hanno avuto modo di mettersi a registro. La risposta che arriva poi dalla navata, guidata dalle ragazze, è perfetta.

Io sono vicino a Pedru, e vedo le lacrime spuntargli dall’occhio – al singolare, perché bisogna sapere che Pedru aveva un solo occhio (era famosa la sua risposta ad un motteggiatore che gli aveva chiesto come ci vedesse: meglio di te, aveva risposto Pedru, perché ti vedo due occhi, mentre tu me ne vedi solo uno); soprattutto però aveva un cuore di pietra, avrebbe potuto benissimo essere il direttore di un orfanotrofio in un libro di Dickens, o addirittura interpretare la parte di Fagin, tanto quell’unico occhio riusciva a esprimere una cattiveria sorda e minacciosa. Vederlo ora umido mi sbalordisce. Dò di gomito al vicino, se n’è accorto anche lui. Guardo gli altri e ci congratuliamo silenziosamente: sappiamo di aver fatto per una volta la cosa giusta. Lo sanno anche altrove, a quanto pare, perché all’uscita dalla chiesa troviamo la piazza imbiancata da dieci centimetri di neve, un’immagine e un clima da favola. Liberi di sorridere, ma è andata esattamente così.

Pedru morì esattamente una settimana dopo, lontano da Lerma. Non è nemmeno sepolto nel cimitero al quale per decenni aveva accompagnato i suoi compaesani (passando poi a estorcere l’obolo per la confraternita). La novena si è spenta con lui: come diceva mia madre, negli anni successivi sembrava diventata un rosario dei morti.

Ultimo canto di Natale 05

***

Del Natale, e dell’attesa che lo precedeva, ho un sacco di altri bellissimi ricordi.

Mia sorella nacque proprio una sera di vigilia, ma il bel ricordo non è tanto questo quanto quello del ritrovamento dei regali, che sapevamo essere arrivati ma che in un primo momento, in mezzo alla confusione della natività domestica, erano spariti. Li ritrovammo poi a casa della zia presso la quale eravamo provvisoriamente ospitati. Il mio era “Kim”, e della sorella mi ricordai solo un paio di giorni dopo.

Ci sono poi i ricordi legati al presepe. Di solito anticipavamo parecchio i tempi, una volta lo realizzammo alla fine di novembre. Il fondo doveva essere coperto di muschio vero e freschissimo, e allora partiva la caccia nei boschi dietro casa, in riserve che avevamo identificato e che dovevano rimanere segrete anche agli amici. Occupava per intero la tavola di cucina della casa vecchia, con tendenza a debordare, e oltre ai cammelli dei re magi e alle pecore dei pastori ospitava anche i cavalli dei soldatini di gesso, e per un certo periodo persino gli indiani e i sudisti. In una occasione mancò poco che andasse tutto a fuoco, perché in nostra assenza una candela accesa sorretta da un angelo era caduta sulla capanna, aveva incendiato il tetto di paglia e stava già liquefacendo i suoi ospiti, bue e asino compresi. Ho in mente nitidissimo il momento in cui, appena entrati in cortile, scorgemmo il riverbero delle fiamme che arrivava dalla finestra in alto, l’unica vivacemente illuminata nel casermone totalmente buio.

Ho rifatto il presepe per qualche anno durante l’infanzia di mio figlio, evitando accuratamente le candele e ogni altra sorta di lucina. Poi mi son reso conto che ero l’unico a tenerci e ho lasciato perdere. Ma da qualche parte conservo ancora tutte le statuine, e anche la capanna semidistrutta.

Ho già raccontato altrove delle vigilie trascorse in attesa del rientro del corriere, quello che portava il nostro vino a Genova e raccoglieva libri e giocattoli vecchi presso i miei parenti. O delle uscite alla ricerca dell’albero, rigorosamente di ginepro, prima con mio fratello e poi con Emiliano piccolissimo, che si trascinava dietro la slitta da carico fin sulla Colma. E anche delle riscoperte del Natale più prossime, in Inghilterra, ad esempio, dove a quanto pare è molto più sentito che da noi. Sono tutte bellissime cartoline appiccicate nel mio album del passato, le uniche immagini a colori in un mondo che ricordo in bianco e nero.

Non voglio dunque farla troppo lunga, e passo invece a spiegare brevemente perché mi ha preso l’uzzolo di raccontare queste cose e perché non volevo fossero semplicemente l’occasione di una patetica nostalgia.

Ultimo canto di Natale 06Il tema ormai ricorre costantemente in ciò che scrivo, e riguarda il mondo che abbiamo perduto. Riguarda cioè la domanda se davvero abbiamo perduto qualcosa di speciale, se la nostra, intendo di quelli della mia età, è una “delusione ottica” dettata dai personali rimpianti, o se la perdita è stata invece oggettiva. La domanda è meno stupida di quanto appare, perché se è vero che da Adamo in avanti ogni generazione ha lamentato i cambiamenti che la mettevano fuori gioco, è altrettanto vero che nessuna prima della nostra ha assistito a trasformazioni tanto rapide e tanto radicali. Neppure le generazioni che si sono trovate a vivere rivoluzioni, riforme religiose, cadute di imperi, hanno mai visto così scombussolate nel profondo le modalità quotidiane dell’esistere e dei rapporti, le dimensioni degli orizzonti, le aspettative, le sicurezze e le paure. Se il nonno di Romolo Augustolo o quello di Robespierre fossero tornati in vita dopo mezzo secolo avrebbero trovato un mondo cambiato, e probabilmente non sarebbero stati d’accordo su quasi nulla: ma sarebbero stati comunque in grado di capirlo, questo nulla, di vederlo nella sua negatività. Mio nonno, tornasse in vita oggi, non saprebbe da che parte girarsi, non potrebbe nemmeno essere in disaccordo perché non saprebbe con chi e per cosa esserlo.

Ora, che questo sia nella natura delle cose (in realtà, solo delle cose umane, quindi forse si dovrebbe parlare non di “natura”, ma di “storia” delle cose) non ci piove. Resta da vedere dove questa storia ci sta portando. E dato che potranno vederlo solo le generazioni venture, e non sono del tutto sicuro che questo sia da considerarsi un privilegio, noi possiamo soltanto chiederci se non sia il caso di offrire almeno la nostra testimonianza per suggerire l’ipotesi di una pausa di riflessione, di un qualche ripensamento che metta in dubbio il “destino” dell’umanità.

Non mi stanco di ripeterlo, non si tratta di ipotizzare un ritorno alla condizione ottocentesca, o allo stato di natura. Queste sono stupidaggini con le quali solo i nostri filosofi post-moderni, nel loro ovattato iperuranio, possono trastullarsi. Nel concreto si tratta di vedere se è possibile fermare o almeno rallentare l’infernale marchingegno tecnologico-finanziario che ci sta stritolando. Di chiarirci le idee su cosa è indispensabile e su cosa no, e di scegliere. E di non scaricarci da ogni responsabilità, lavandocene le mani, con la scusa che ormai è troppo tardi, o trincerandoci dietro la meschina scappatoia che il problema dovranno affrontarlo le generazioni future, ed è giusto siano loro a scegliere. A crearlo, o quanto meno ad aggravarlo, il problema, siamo stati noi, ha concorso più che attivamente la nostra generazione. Cominciamo almeno a prenderne coscienza.

Come c’entra allora il Natale? C’entra come esemplificazione di una forma ormai scomparsa di socialità, dietro la quale stava, al netto di tutte le potenziali ed effettive strumentalizzazioni religiose e politiche, di tutte le ipocrisie, delle diseguaglianze e delle ingiustizie istituzionalizzate, l’idea di una rinascita, di un futuro che ancora poteva riservare sorprese positive. E c’entra come occasione per ripensare se il tipo di formazione culturale, l’impostazione che conduceva a partecipare, credendo o meno nei presupposti religiosi, all’atmosfera di quelle novene, fosse tutta da buttare, o se per certi aspetti, nei limiti delle possibilità e delle realistiche compatibilità, non andrebbe recuperata.

In altre parole: mezzo secolo fa abbiamo provveduto a sgomberare tutto il mobilio e la suppellettile vecchia, comprese le Novene e i loro salmi, per fare piazza pulita e rinnovare l’arredo ideologico, senza renderci conto che stavamo liberando gli spazi per i nuovi allestimenti usa e getta, funzionali al mercato dell’effimero e del consumo rapido. Col risultato che le cose che avevamo buttato andiamo oggi a cercarle in cantina o nei mercatini dell’usato, anche se in genere per riciclarle ad ornamento.

Uguale cura forse dovremmo mettere nel recupero di certi valori, ma non per appenderli alle pareti: per ridare loro una dignità di funzione, sia pure in un contesto diverso. Un esempio, tanto per non parlare sempre in astratto? L’idea che l’esistenza di regole non è in automatico una limitazione della libertà, ne è anzi il presupposto. Andrebbe recuperata seriamente l’idea, nel senso che queste regole bisognerebbe tornare ad applicarle, a cominciare, tanto per scendere sempre più nel concreto, dalla scuola. Questo significa liquidare il buonismo peloso che fa di ogni lazzarone spregiatore del rispetto e della correttezza una vittima, pretendere che gli allievi si comportino da allievi, che i docenti insegnino anziché fare i parcheggiatori o gli assistenti sociali, che i dirigenti non badino al mercato delle iscrizioni ma alla qualità dell’istruzione offerta, che i genitori facciano la loro parte, ma entro le mura di casa.

Ultimo canto di Natale 07Questo, con un po’ di buona volontà, lo si può ancora fare. E in qualche misura dobbiamo farlo noi, che la “possibilità” di una scuola diversa l’abbiamo conosciuta, e che a quella scuola diversa dobbiamo in fondo l’essere qui oggi a parlarne. Ma non lo dobbiamo solo a quella scuola: lo dobbiamo anche a quelle Novene, o almeno, allo spirito col quale le abbiamo frequentate.

Appuntamento dunque, al prossimo anno. E mi raccomando: rieducate l’ugola e preparatevi sui salmi.

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Umanesimo socialista

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Umanesimo socialista

Quell’umanesimo socialista

Il senso della lotta

Le due anime

L’associazione

Capitalismo e libertà

Nella foto in copertina, il piedi: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Gloria Lanier; seduti: Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell, 1966

Intervista a Pietro Adamo

realizzata da Franco Melandri

Quell’umanesimo socialista…

 

L’esperienza e la riflessione preziosa di quel gruppo di pensatori militanti, antifascisti radicali, come Rosselli, Caffi, Berneri, Chiaromonte, che videro anzitempo la natura dei due totalitarismi e rifiutarono il rivoluzionarismo finalista, in nome di una sperimentazione di società aperte, libere, in cui anche il mercato, liberato dall’orrore capitalistico, diventasse fattore di liberazione e di libertà. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo, storico delle idee, si occupa principalmente della cultura politica del protestantesimo e della tradizione libertaria. Fra i suoi libri: Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese (ed. Unicopli, 1993); La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella rivoluzione inglese (ed. Franco Angeli, 1998); La città degli idoli. Politica e religione in Inghilterra 1524-1572 (ed. Unicopli, 1999). Ha recentemente curato la pubblicazione di Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti di Camillo Berneri (ed. M&B Publishing, 2001).

\r

\r Uno dei punti di crisi della sinistra attuale è senza dubbio quello della cultura politica. Tuttavia una recente serie di studi su personaggi come Carlo Rosselli, Andrea Caffi, Francesco Saverio Merlino, Camillo Berneri, Nicola Chiaromonte, per molto tempo tenuti ai margini dalla sinistra stessa perché in vario modo considerati ‘eretici’, fa pensare che siamo all’inizio di una ricerca dopo anni di sostanziale apatia…

\r Il motivo per cui negli anni ‘90 si sono intensificati gli studi sulle correnti ‘eretiche’ della sinistra (cioè del campo socialista, libertario, liberal-socialista) è da far risalire al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Dopo quegli eventi, infatti, non c’è più alcuna possibilità di pensare il socialismo in termini marxisti o marxisteggianti, per cui, se non ci si vuole appiattire sul capitalismo attualmente trionfante, è necessario cercare nella storia e nella cultura della sinistra dei ‘padri nobili’, dei primogenitori rispettabili che non siano stati coinvolti con il socialismo di stato in versione totalitaria. Questo è il motivo per cui, a proposito e a sproposito, oggi tutti, da D’Alema a Veltroni a Amato, citano Rosselli, Gobetti o Chiaromonte. Detto questo, tuttavia, bisogna anche aggiungere che sia a livello prettamente teorico sia a livello politico il rifarsi a questi ‘padri nobili’ non implica, né può implicare, un’adesione alle loro indicazioni. Se infatti nelle elaborazioni di Caffi, Chiaromonte, Berneri, Rosselli, eccetera, si volessero trovare delle soluzioni bell’e pronte per i problemi dell’oggi si farebbe un errore clamoroso, si andrebbe fuori bersaglio. Sono infatti passati settant’anni dalle riflessioni e dagli scritti di questi autori, la società è cambiata, l’universo mentale della gente è cambiato, per cui, per fare un esempio, un suggerimento come quello rosselliano circa un’economia ‘a due motori’ -pubblico e privato- presa in sé si rivela semplicistica, già superata dai tempi. In Italia, nel dopoguerra, tale suggerimento venne in parte accolto ed i problemi che oggi dobbiamo affrontare derivano proprio dall’intreccio che si è creato fra i due motori di questa economia: sappiamo bene che essi si sono trasformati da un lato nel protezionismo occulto dell’impresa privata, dall’altro nella crescita esponenziale della burocrazia e dell’intervento statale nell’economia…

\r La vera ragione per interessarci di questi autori, perciò, non sta tanto nelle loro indicazioni pratiche, quanto nel fatto che rappresentano il tentativo dell’antifascismo radicale di trovare una risposta ai problemi posti dall’ascesa dei totalitarismi continuando a tenere alta la domanda su come sia pensabile e possibile una società libera. Da questo punto di vista questi autori mettono in luce una cultura estremamente ricca, in cui possiamo trovare tantissime cose che si confanno alle nostre aspettative anche se questi settori dell’antifascismo rappresentano un’esperienza ‘saltata’, nel senso che le loro elaborazioni non sono mai entrate non solo nella coscienza politica della nazione, ma neanche nella progettualità di qualche componente politica della sinistra italiana. Per la sinistra l’averli accantonati è stata una grave perdita, perché su molte questioni furono particolarmente acuti e preveggenti. Oggi si parla molto della questione del totalitarismo, ma l’idea che il comunismo fosse un’altra forma di totalitarismo, che fascismo e comunismo fossero due facce della stessa medaglia, nasce proprio in questo ambito, negli anni ‘30.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tuluza 1947
Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte

\r È un’idea che non nasce con la Arendt, ma dalla cultura politica di questi militanti. In verità, proprio riguardo al dibattito sul totalitarismo, gli italiani hanno avuto un’importanza non da poco ed è forse possibile vedere proprio in loro una delle radici genealogiche del pensiero della Arendt: negli Stati Uniti la Arendt era collaboratrice di Politics, la rivista di Dwight Macdonald, nella quale sono comparsi scritti di Chiaromonte e Caffi (con Chiaromonte, fra l’altro, la Arendt fu molto amica). Non è del tutto assurdo sostenere che una radice dell’analisi arendtiana del totalitarismo affondi proprio in questo laboratorio. Questi “militanti che pensavano”, secondo me, hanno proposto un nucleo di riflessione intorno alla questione del totalitarismo molto importante e fruttifero, forse più fruttifero del lavoro dei vari scienziati della politica, soprattutto per il tentativo che questi militanti-pensatori compirono di pensare una società libera come frutto di una rivoluzione antifascista. Da questo punto di vista le loro teorizzazioni sono molto interessanti perché sono dei possibili punti di partenza per ripensare i problemi attuali della politica. Il Polo delle Libertà, ad esempio, si è impadronito della parola d’ordine della libertà e presenta, non a torto, il liberismo come una delle principali strategie del vivere libero; dall’altra parte la sinistra si è totalmente amputata la possibilità di discutere delle possibilità di libertà insite in una politica di liberalizzazione e si è arroccata a difesa degli interessi corporativi. Tuttavia, se si va a vedere come pensavano una società libera i vari Berneri, Rosselli, Gobetti, allora ci si accorge che tutti loro valutavano in modo estremamente positivo il liberismo, anche se, naturalmente, lo pensavano in termini eticamente forti, per cui non lo vedevano solo nel liberismo economico in senso stretto, ma come il cemento possibile di una società libera.

\r Il principale difetto del liberismo berlusconiano, invece, sta proprio nell’essere un liberismo che riguarda la sola economia: quando i conservatori italiani parlano di liberismo, infatti, parlano semplicemente e sostanzialmente della libertà degli imprenditori di fare tutto quello che vogliono. Questo, per loro, è il liberismo, mentre quando si parla di altre cose -di diritto di famiglia, di sesso, di droga, eccetera- questo liberismo della destra scompare come neve al sole e viene fuori la faccia vera del conservatorismo autoritario. Lo si vede anche nei presunti portavoce liberali: qualche anno fa Galli della Loggia (cui rispose con sagacia Nadia Urbinati, dalle pagine di Critica liberale) sostenne che lo stato aveva il pieno diritto di controllare il tipo di sostanze che assumevano i suoi cittadini, la qual cosa è quanto di meno liberale, quanto di meno liberista, uno possa mai immaginare.

\r Ma come vedevano in realtà il liberismo questi militanti-pensatori?

\r Va innanzitutto detto che fra i personaggi di cui parliamo c’erano differenze anche profonde, soprattutto dovute alla loro provenienza politica e al pubblico cui si rivolgevano. Così, ad esempio, Berneri rimase per tutta la vita un anarchico e agli anarchici soprattutto si rivolgeva; Rosselli era un socialista, ma anche un liberale, e si rivolgeva agli appartenenti ad entrambe le tradizioni e così via; va anche detto che le loro riflessioni trovarono numerosi punti di contatto e di consonanza. Il caso del liberismo è uno di questi: sostanzialmente lo vedevano tutti in termini etici, cioè come valorizzazione ad oltranza del pluralismo e della differenza, la qual cosa implica la libera sperimentazione come principio integrale che ispira la vita associata; libera sperimentazione che, evidentemente, ha uno dei campi d’applicazione certo nell’economia, ma lo ha anche nella vita sessuale, nella vita associativa, eccetera. L’idea generale era quella di valorizzare le possibilità di sperimentare liberamente ogni tipo di attività umana e all’interno di questo paradigma veniva valorizzata anche l’idea di una libera intrapresa economica. In un periodo in cui i totalitarismi presentavano come ipotesi costruttiva l’idea di uno stato fortissimo, per molti di questi autori la valorizzazione dell’intrapresa economica individuale diventava anche momento di difesa nei confronti dell’invasività dello stato.

\r Una delle cose che colpiscono è il fatto che questo gruppo di persone di origini e appartenenze politiche diverse, trovasse necessaria una discussione in qualche modo comune: Berneri discuteva con Rosselli e aveva collaborato con Gobetti; Caffi e Chiaromonte erano membri di Giustizia e libertà, ma anche vicini a posizioni libertarie…

\r Quando noi pensiamo a questi gruppi, dobbiamo avere presente un fenomeno, cioè l’emigrazione antifascista in Francia, soprattutto a Parigi, dove nella prima metà degli anni ‘30 convergono buona parte degli intellettuali giellisti, buona parte degli anarchici, Berneri in particolare, ma dove finiscono anche dei repubblicani radicali come Schiavetti e Montasini, essi pure vicini alle posizioni di Berneri, e la cosiddetta ‘ala libertaria’ del Partito Socialista, e cioè gente come Alberto Jacometti e, fino a un certo punto, Angelo Tasca. In questo ambiente di fuoriusciti, in cui tutti conoscevano sostanzialmente tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, a mio giudizio si crea una sorta di cultura antifascista radicale, nel senso di una cultura antifascista che mira non solo alla rivoluzione in Italia, ma ad un completo rovesciamento dello stile di vita politico prefascista. Gente come Rosselli, Chiaromonte, Berneri, infatti, non solo si proponeva di abbattere il fascismo in Italia, ma vedeva in questo il passaggio necessario per costruire un’altra Italia. Come dicevo, ad unificare questi militanti-pensatori era la domanda su quale potesse essere una società libera -più o meno socialista, più o meno liberista a seconda delle convinzioni individuali- scartando quelle opzioni che, all’epoca, sembravano condurre necessariamente verso il totalitarismo. Tutto questo implicava non solo scartare il comunismo in senso stretto, ma anche qualsiasi tipo di orizzonte finalistico, cioè l’idea che la società libera sarebbe stata una società perfetta, oltre la quale non sarebbe stato più possibile andare.

\r Per quanto riguarda poi la figura di Berneri, che come accennavo prima si confrontava con gli anarchici e si considerò anarchico per tutta la vita, a tutto questo si aggiungeva anche la necessità di ripensare in toto la politica -che invece gli anarchici rifiutavano e rifiutano- vedendone le possibili estrinsecazioni in chiave libertaria. Il ripensamento della politica, comunque, è un altro tratto unificante di questo variegato gruppo, e le risposte che essi dettero furono altrettanto variegate, andando dagli abbozzi di una democrazia libertaria, fondata sulla libera federazione di comuni, sui sindacati e sui consigli operai, elaborata da Berneri (ma che trovava in linea di massima concorde Rosselli), alle proposte di democrazia liberale conflittuale, mutuate da Gobetti, fatte da alcuni esponenti di Giustizia e libertà.

\r Questi temi rappresentavano un tratto d’unione perché buona parte di questi intellettuali avevano radici comuni, essenzialmente rappresentate da due personaggi: Piero Gobetti e Gaetano Salvemini, per molti di loro punti di riferimento imprescindibili. Berneri, ad esempio, certamente fu molto stimolato da Gobetti -che, non va dimenticato, morì nel ‘26, cioè appena all’inizio della forte emigrazione antifascista-, ma il suo imprescindibile punto di partenza fu sicuramente Salvemini, che fu un riferimento importante per lo stesso Rosselli. Era questo ‘universo culturale’ ad unificarli veramente: Ernesto Rossi, nonostante fosse incarcerato per quasi tutto il periodo fascista, in qualche modo, dal carcere, partecipa a questa temperie culturale proprio in virtù del presupposto salveminiano che lo unisce agli altri. E’ per questo che egli, pur isolato in carcere, finisce per pensare sostanzialmente quello che Berneri, Caffi, Rosselli o Montasini o Jacometti pensano nell’esilio francese.

\r C’era, insomma, una sorta di percorso comune dato dalle circostanze.

\r Ma questi intellettuali militanti come si ponevano i problemi del capitalismo, dell’anticapitalismo, del socialismo?

\r Questi autori sono quasi tutti accomunati da una feroce sensibilità anticapitalistica, anche se bisogna chiedersi che cosa fosse per loro il capitalismo, che cosa intendessero per capitalismo. A ben guardare, la maggior parte di loro intendeva il capitalismo come una perversione di fondo dei valori del mercato. In molti di essi a me pare di cogliere il tentativo di operare una distinzione tra il capitalismo realmente esistente e una società di mercato ideale. Alcuni di essi teorizzarono tale distinzione in modo specifico, cioè sostennero molto semplicemente che è possibile pensare a una società di mercato senza che questa necessariamente finisca nell’orrore capitalistico.

\r Certamente quello che quasi tutti criticano nel capitalismo è la perversione del mercato, cioè la trasformazione dei rapporti umani sulla base di rapporti economici, analisi non lontanissima da quella marxista classica. Ma accanto a questa c’è anche la valorizzazione di un certo tipo di eredità liberale, per cui il mercato viene immaginato essenzialmente come il risultato di una libera contrattazione tra individui che scelgono. Sono concezioni che troviamo in Berneri, in Rosselli e, senza arrivare a teorizzare il socialismo, persino in Gobetti: grande avversione per il capitalismo così come esso si è sviluppato e, di contro, un’ipotesi di lavoro che si muove attorno al problema della società giusta e libera, che per molti di loro voleva appunto dire socialismo.

\r A proposito della concezione che essi avevano del socialismo, però, occorre fare la stessa distinzione fatta a proposito del capitalismo, visto che in quasi tutti, da Berneri a Rosselli, da Caffi a Chiaromonte, quello che viene chiarito a fondo è che l’unico socialismo accettabile è un socialismo chiaramente libertario, che per loro, detto in soldoni, significava la necessità che venisse in qualche modo garantito al produttore il controllo del suo prodotto.

\r In questa ottica Berneri recupererà anche l’esperienza dei consigli operai, emersi sia all’inizio della rivoluzione russa sia nella brevissima esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera del 1919, sia nell’occupazione delle fabbriche italiane, nei primi anni ‘20. In sostanza, comunque, il modo in cui tutti loro pensavano il socialismo era radicalmente diverso dal modo in cui lo pensava il marxismo (per il quale il socialismo, fatto coincidere con la statalizzazione dei mezzi di produzione e scambio, era il punto d’arrivo reso necessario dallo sviluppo della stessa società capitalistica).

\r Essi lo vedevano non tanto come una precisa serie di soluzioni politico-economiche, ma soprattutto come una sorta di sovrastruttura umanistica della società. Certo essi pensavano anche a forme di socializzazione economica, ma quando parlano di socialismo si riferiscono essenzialmente all’idea di una società che si pensa come tale, cioè ad una società fondata su una serie di vincoli umanistici precisi, in particolare il riconoscimento della dignità di ogni persona, del singolo individuo.

\r Questa, comunque, è una riflessione che negli anni ‘30 non appartenne solo agli italiani. Un autore che rifletté su questi problemi fu Emmanuel Mounier, il filosofo francese teorico del personalismo, molto spesso sottovalutato, che arrivò a teorizzare un socialismo umanistico di questo tipo, con grandi sfumature libertarie e antistatalistiche. Non a caso scrisse un saggio, Anarchia e personalismo, in cui c’è una riflessione sulla tradizione anarchica e sull’utilità che questa può avere proprio per un socialismo di questo genere.

\r La visione che del socialismo avevano gli antifascisti radicali, pur nelle diverse versioni, aveva quindi degli elementi di collettivismo, ma di un collettivismo non statalistico; un collettivismo che doveva essere il prodotto della libertà di associazione e, contemporaneamente, un’ipotesi umanistica sulla struttura della società. Considerando tutto questo, perciò, mi pare che, in verità, la contrapposizione fra socialismo e capitalismo operata da questi pensatori sia più che altro una contrapposizione etica, non una contrapposizione specificamente relativa agli strumenti dell’economia.

\r Dicevi prima che un altro elemento che accomuna questi intellettuali è il loro abbandono di ogni prospettiva finalistica e, quindi, dell’idea di rivoluzione intesa come fatto palingenetico…

\r Tutti loro, in verità, non superarono affatto il dilemma della rivoluzione, nel senso che tutti pensavano all’Italia libera dal fascismo come al frutto di una rivoluzione che doveva essere contemporaneamente antifascista e antigiolittiana, cioè una rivoluzione che spazzasse via radicalmente anche il liberalismo conservatore che proprio nel giolittismo si era incarnato. In questo senso, perciò, tutti loro continuarono comunque a pensare ad una frattura decisiva nella storia, una frattura che, in qualche modo, doveva azzerare, in tutto o in parte, quello che c’era stato in precedenza.

\r Nel loro pensiero, quindi, resiste questo mito della rivoluzione come atto fondativo, tant’è che il problema politico immediato che si ponevano era cosa fare per avere una rivoluzione in Italia. Tuttavia è anche vero che il loro modo d’immaginare la fattura rivoluzionaria era assai diverso da quello che si era affermato nell’800.

\r La maggior parte dei pensatori ottocenteschi di area socialista, fossero essi marxisti, anarchici o socialdemocratici, infatti, vedeva la rivoluzione come un evento di tipo decisamente millenaristico, cioè come il fatto che non solo apriva le porte di un mondo nuovo, ma anche di un mondo finale.

\r Per loro, cioè, la rivoluzione era l’atto che doveva porre fine a tutte le altre rivoluzioni e alla necessità della politica come confronto fra diversi interessi e visioni del mondo. Al contrario, soprattutto la riflessione di Berneri, Rosselli e di molti giellisti, tenderà a concepire la rivoluzione certo come evento che apre una nuova era, ma un’era che non viene affatto vista come la società perfetta, la società finale, il paradiso sulla terra, bensì come un’era in cui ci sarà la possibilità di ripensare a fondo i problemi della politica, dello stato e dell’economia, sperimentando le soluzioni più diverse. E’ in questa prospettiva che quasi tutti loro, in un modo o nell’altro, accetteranno quello che io, prendendo a prestito un’espressione cara agli anarchici, chiamo il paradigma della ‘libera sperimentazione’. Questi intellettuali, cioè, penseranno alla società libera come ad una società in cui il conflitto e l’interazione fra le diverse ipotesi di associazione economica, politica, sociale, non sarà affatto risolto, ma sarà un farsi dinamico. Penseranno quindi alla società socialista non come ‘società finale’, ma come una società che si è messa sulla buona strada, in cui però sempre resta ancora molto lavoro da fare; una società che è uno stadio di un più generale movimento di progresso e non lo stato finale di questo stesso progresso.

\r E’ all’interno di questo paradigma che il problema della politica, delle istituzioni e dello stato viene ripensato. C’è in tutti loro, in particolare in Rosselli, Berneri, Caffi, una profonda sfiducia nei confronti dello stato moderno e della democrazia rappresentativa, almeno per come essa si era realizzata prima del fascismo e del nazismo.

\r Lo stato e le istituzioni vengono quindi ripensate come il quadro di riferimento generale che da un lato garantisce una serie di libertà personali e collettive, mentre, dall’altro, è lo spazio all’interno del quale si sviluppa la dialettica fra le associazioni cooperative, i sindacati, i comuni, a loro volta visti come il vero centro della vita e della partecipazione democratica. In tutti questi intellettuali permane poi, pur senza alcuna mitizzazione (proprio Berneri fu autore di L’operaiolatria, un saggio radicalmente critico delle concezioni operaiste), la fiducia nelle capacità popolari e la convinzione che la partecipazione popolare sia non solo utile ma necessaria. E’ per questo che essi sviluppano un’idea della sovranità -cioè dell’elemento ‘sorgivo’ dello stato, che ne determina poi anche la natura specifica- che fa perno sul decentramento, per cui la sovranità non si accentra in un singolo organismo, ma, al contrario, va posta in una rete di relazioni sempre in divenire tra le istituzioni, le associazioni e i cittadini.

\r Berneri, che anche per la sua storia personale è quello che si confronta più radicalmente con la tradizione rivoluzionaria e con questi problemi, sottolinea la necessità, la non eliminabilità, della politica intesa non in senso funzionale, ma proprio in senso forte, cioè appunto come confronto e scontro fra diversi interessi e diverse visioni del mondo. Tutto questo lo porta, per esempio, a sottolineare la diversità costitutiva che esiste fra istituzioni fra loro coordinate e governo, sostenendo che quest’ultimo, in quanto sede centralizzata di decisione, si può abolire, mentre non si può abolire l’elemento istituzionale all’interno del quale, reticolarmente, anche la funzione decisionale del governo può essere diluita. Questa concezione è ovviamente assai diversa da quella dello stato-nazione ottocentesco, nel quale non solo governo e istituzioni finiscono per coincidere, ma il governo è l’elemento di direzione di una società in sé considerata sostanzialmente informe.

\r Dicevamo all’inizio che queste teorizzazioni e riflessioni sono sempre rimaste marginali nella cultura politica della sinistra italiana, eppure personaggi come Chiaromonte e Silone anche nel dopoguerra fondarono riviste, continuarono a partecipare al dibattito politico…

\r Innanzitutto va detto che la sinistra italiana, a parte Giustizia e libertà prima e, almeno parzialmente, il Partito d’Azione poi, osteggiò non poco questo tipo di riflessioni. I comunisti, ovviamente, non erano minimamente interessati, visto che la loro fiducia nel socialismo alla sovietica era, almeno sino alla svolta di Salerno, granitica e comunque, anche dopo la svolta di Salerno, la loro impostazione rimase decisamente marxistica, quindi molto lontana dall’’agnosticismo gnoseologico’, per usare un’espressione di Berneri, dei pensatori di cui stiamo parlando. La maggioranza del Partito Socialista, per quanto non ignorasse queste riflessioni, invece, finì per seguire Nenni e Saragat, per i quali, nonostante i loro dubbi, alla fine ‘socialismo’ voleva dire socialismo di stato.

\r Lungo tutto il corso degli anni ‘30, anzi, Nenni difenderà pervicacemente l’idea del socialismo di stato, addirittura difenderà l’idea di un socialismo che egli stesso chiamò ‘autoritario’ proprio per contrapporlo alle concezioni dei giellisti, dei quali diceva che erano dei libertari anarchici, non dei socialisti. In questo contesto il fallimento, nel dopoguerra, dell’azionismo significò anche il fallimento di queste opzioni etiche, politiche ed economiche, nonostante personaggi come Chiaromonte non si fossero certo ritirati a vita privata.

\r Proprio Chiaromonte, anzi, fu quello che portò alle loro conclusioni logiche alcune delle riflessioni di cui abbiamo parlato.

\r La svolta che Chiaromonte compì fu di rinunciare completamente ad ogni idea di rivoluzione, anche intesa nel senso in cui la intendevano Berneri o Rosselli, e di pensare alla costruzione di una società libera a partire dall’Occidente per come esso si è via via definito.

\r Il suo fu un percorso che lo accomunò ad un altro gruppo importante ed eretico, cui ho accennato anche precedentemente, cioè il gruppo di radicali americani che ruotava attorno alla rivista Politics e al suo direttore Dwight Macdonald e che comprendeva anche Hannah Arendt e Mary McCarty.

\r Una buona parte di questo gruppo negli anni ‘30 aveva fatto militanza nelle file comuniste e trotzkiste, ma negli anni ‘40 si mise alla ricerca di un radicalismo diverso e via via si orientò sempre più verso prospettive di tipo libertario.

\r Durante la guerra fredda questo gruppo, e con esso Chiaromonte, fece la scelta dell’Occidente, cioè dichiarò apertamente che, di contro ai paesi del socialismo reale, una società libera si poteva costruire a partire dalla configurazione democratica che buona parte dell’Occidente aveva progressivamente assunto. E questo senza bisogno di una rottura rivoluzionaria, ma lavorando sulle sementi liberali e democratiche.

\r La scelta certo non fu indolore, -Caffi, ad esempio, si rifiutò di compiere questo passo, anche se rimase in contatto con Chiaromonte per tutta la vita- ma a me pare sia stata importante proprio perché ci rivela uno dei possibili esiti costruttivi di quell’esperienza, cioè l’accettazione dell’Occidente come ambito nel quale condurre la sperimentazione integrale, senza più pensare ad un taglio netto con il passato, a una rivoluzione che ponga su un terreno nuovo. Anche perché, almeno a partire dalle fondamentali riflessioni di Simone Weil (la prima che pare capire, sin dagli anni ‘30, la natura “mitica” della rivoluzione), della rivoluzione si è progressivamente capita la natura d’inganno, cioè il fatto che essa può certo mobilitare le masse, ma troppo spesso, per non dire sempre, predispone anche le condizioni per il prevalere dei totalitarismi. A questo punto, rinunciando all’idea della rivoluzione comunque necessaria, l’umanesimo socialista dei Rosselli, ma anche dei Berneri, si trasforma in un’ipotesi di elaborazione interna all’Occidente. Proprio questo, a mio parere, è lo stimolo più importante che può venire oggi dalle elaborazioni dell’antifascismo radicale degli anni ‘30. Io non credo che oggi, per una sinistra che sia realistica ed abbia abbandonato ogni velleità palingenetica, ci siano altre possibilità. Ogni altra ipotesi mi pare ci porti sul terreno dell’utopia, e pensare l’utopia è una simpatica esperienza personale, una cosa che io auguro a molti, io stesso indulgo in questo stile di pensiero, ma è una questione che ha a che fare con noi stessi, è, come dire, un modo brillante di autogratificarci; insomma, è un’esigenza esistenziale, non una proposta praticabile sul terreno politico.

\r Io allora penso che la sinistra possa ritrovare se stessa all’ombra dell’Occidente, ma anche che l’Occidente debba essere pensato come un modello che permetta costantemente anche rotture violente.

\r E’ un po’ la logica cui si ispirava Thomas Jefferson, uno degli estensori della costituzione americana, che affermava il diritto del popolo di rovesciare il governo quando esso non faccia gli interessi del popolo stesso.

\r L’Occidente a cui penso, quindi, non è certo l’Occidente tranquillo e rilassante del liberalismo conservatore; non è quello in cui tutti si accomodano sotto l’ombrello protettivo di uno stato ‘garantista’, è invece un Occidente che rappresenta una palestra di libera sperimentazione. Per questo ciò che resta da fare -a noi e alla sinistra- è di sforzarci di trasformarlo sempre più in una palestra più ampia e variegata possibile.

Intervista a Gino Bianco

realizzata da Franco Melandri

Intervista a Pietro Polito

realizzata da Enzo Ferrara, Stefania Taranto

Il senso della lotta

 

Come in Piero Gobetti si intrecciarono liberalismo e idea di rivoluzione. Un marxismo valido nel suo materialismo e nell’idea di storia come storia di lotta di classi. Il grande valore democratico del conflitto e della lotta nella società. Intervista a Pietro Polito.

Pietro Polito, curatore dell’archivio Norberto Bobbio, ricercatore per il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha lavorato a lungo con Norberto Bobbio e curato diverse sue opere, come la riedizione del De Senectute (2006) . Tra i suoi scritti: Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud (1995) , L’eresia di Aldo Capitini (2001) , La democrazia alla prova (2005) . Nel 2007 ha pubblicato Il liberalismo di Piero Gobetti, edito dal Centro Studi di Torino. Presso il Centro studi coordina il “Laboratorio della democrazia”, che con un gruppo di giovani ha avviato un percorso di ricerca nella crisi delle democrazie contemporanee. L’intera raccolta della “Rivoluzione Liberale”, rivista storica settimanale diretta da Piero Gobetti e uscita dal novembre 1918 al febbraio 1920, è disponibile in rete all’indirizzo internet http: //www. erasmo. it/liberale/. Piero Gobetti fu protagonista giovanissimo di un periodo storico drammatico per il nostro Paese. L’intensità e la lucidità dei suoi scritti sorprendono ancora, soprattutto se accostati alle leggerezze e alle contraddizioni del presente. Pensi che sia utile rileggere Gobetti oggi? E’ difficile rispondere a questa domanda. Posso dire che nel mio ultimo libro questa possibilità rimane sullo sfondo, ma non è esplorata. Mi è sembrato più interessante provare a fare un percorso a partire da Piero Gobetti, uno degli autori studiati nei nostri seminari, non per arrivare a una riflessione sulla democrazia oggi ma per un ragionamento più storico, per arrivare a considerazioni più generali rispetto a quelle che l’attualità suggerirebbe. Il testo, nato da una serie di lezioni all’Università, si confronta sul rapporto fra Gobetti e la tradizione del pensiero liberale, sul suo liberalismo, che Gobetti stesso chiamò “rivoluzionario”, e sul suo illuminismo. Perché il grande tema di Piero Gobetti non è la democrazia, né la politica in generale, ma è il liberalismo: l’eredità e il rinnovamento del liberalismo. Gobetti è un intellettuale sui generis, che si colloca nella grande tradizione del pensiero liberale italiano ed europeo, ma che da questa tradizione si distacca per una elaborazione politica assolutamente nuova. C’è un articolo fondamentale nel suo cammino, “I miei conti con l’idealismo attuale”, del 16 gennaio del 1923. E’ un articolo di svolta, in cui si confronta con la sua formazione idealistica. Non se ne stacca completamente, però si pone oltre, egli stesso ricostruisce la cronaca della sua formazione intellettuale e dice a un certo punto: “Nel 1920 interruppi le Energie Nove perché sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo a una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero, di fatto, nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche”. Poi aggiunge: “Devo la rinnovazione della mia esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte, vivi di un concreto spirito marxista, dall’altra agli studi sul risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo”. Mi interessava rispondere a questa domanda: che cos’è questa elaborazione politica assolutamente nuova e a cosa allude Gobetti quando evoca quest’idea? La questione è importante. Gli anni di Gobetti vanno dal 1918 al 1925, sette anni incandescenti come incandescente fu la sua biografia. Sono gli anni dall’affermazione della rivoluzione russa mentre in Italia si andava dal socialismo possibile al fascismo reale. Cioè, dalla possibilità che l’Italia, dopo l’occupazione delle fabbriche, vivesse una rivoluzione, si arrivò all’avvento del fascismo e al consolidamento del suo potere. Fu un periodo storico e politico arroventato e complesso, i paragoni col presente possono essere fatti solo con grande precauzione. E poi bisogna saper leggere la realtà nel suo complesso. Nel periodo fra il 1918 e 1920 a Torino era attivo anche l’Ordine Nuovo… [continua]

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

 

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

\r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

Intervista a Carlo De Maria

realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti

L’associazione

La figura luminosa di Andrea Costa, uno dei fondatori del socialismo italiano, che non rinnegò mai le sue origini libertarie e che sognava un partito federale, decentrato, pluralista, alleato a radicali e democratici; l’esperienza di Imola, primo comune italiano governato dai socialisti; il welfare municipale. Intervista a Carlo De Maria.

Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa) , Diabasis, 2010. Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano…

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo. Puoi parlarci della sua biografia? Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’”eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista. Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto) , al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris) . A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta “economia sociale” o “economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico) .

Intervista a Giampiero ‘Nico’ Berti

realizzata da Franco Melandri, Gianni Saporetti

Capitalismo e libertà

 

Libertà e capitalismo sono indissolubili? Ogni idea di cambiamento non può che partire dalle condizioni storiche concrete in cui il massimo di libertà si è realizzata. L’idea di libertà non può che essere negativa, come assenza di coercizione; il pericolo delle libertà positive, sempre prescrittive. La libertà è anche quella di non partecipare. Il grande errore della sinistra di legare libertà a risorse. Conversazione con Nico Berti.

Giampiero ‘Nico’ Berti insegna Storia delle dottrine e dei movimenti politici all’Università di Padova. E’ autore di numerose pubblicazioni storiografiche e analitiche sul movimento e sul pensiero anarchico. La conversazione che pubblichiamo trae spunto da un saggio, I paradossi del relativismo culturale, che Berti, da sempre vicino al movimento anarchico, ha pubblicato sul n. 3/2002 di Mondo Operaio. Alcune delle tesi sostenute da Berti hanno suscitato molte reazioni critiche in ambito libertario, non a caso il n. 2/2003 della rivista Libertaria dedica un ampio dibattito a più voci proprio ad alcuni di questi temi. Con Nico Berti, per Una città, discutono Franco Melandri e Gianni Saporetti. Nico. Intanto ripeto quello che ho detto su Mondo Operaio: noi conosciamo società capitaliste dove non vi è libertà, ad esempio il Cile di Pinochet, però non conosciamo nessuna società liberal-democratica dove non vi sia anche il capitalismo, o, diciamo meglio, un’economia a libero mercato. Indubitabilmente laddove ci sono società liberal-democratiche vi è il capitalismo. Questo significa forse che il capitalismo è la causa delle società liberal democratiche? No, significa però che è una condizione necessaria; non sufficiente perché altrimenti non salterebbero fuori i Pinochet, ma necessaria sì. Questo nessuno può negarlo. Laddove c’è l’una c’è anche l’altro e insieme producono l’unica libertà che finora noi abbiamo conosciuto, che è la libertà liberal-democratica: non la libertà tout court, ma la libertà che storicamente abbiamo conosciuto, che è la forma più compiuta di libertà che la storia abbia prodotto finora. Io non credo che, in tutto questo ragionamento, ci sia alcuna apologia, né che noi dobbiamo accontentarci di questa libertà, c’è semplicemente una constatazione. Ovviamente, lo dico fra parentesi, il ragionamento vale se per libertà intendiamo una serie di cose che rientrano nei parametri della concezione liberale e occidentale della libertà; se partiamo da una concezione diversa, poniamo spirituale, per cui riteniamo che si è liberi quando si è liberi dal peccato, è un altro discorso. Il mio discorso, insomma, vale se riteniamo per libertà quei principi generali, creati a partire dal Rinascimento, che solo la cultura occidentale ha prodotto. Franco. Nella prima metà dell’800, anche Proudhon, uno dei “fondatori” del pensiero anarchico, diceva che senza la proprietà e senza lo scambio libero, cioè senza il libero mercato, non vi può essere libertà. Ma la proprietà, il capitalismo, cui Proudhon pensava, cioè quelli dell’America del 1776, fatti soprattutto di piccoli proprietari, o quello della società rurale francese, in cui la piccola proprietà era assai diffusa, non è il capitalismo dell’America di oggi. Nell’America della fine del ‘700 lo vedo anch’io il legame fra libertà e capitalismo, ma oggi? Non c’è il rischio che le stesse libertà liberal-democratiche siano messe in crisi dallo sviluppo del capitalismo, non dalla proprietà privata o dal mercato, ma dal monopolio che del capitalismo sembra l’ineludibile sviluppo? Nico. Possono essere messe in crisi, certo, ma questo cosa c’entra? Il capitalismo intanto è fatto di capitalisti. Nel 1919-’20-’21 in Italia c’era il capitalismo? Sì, allora com’è che è nato il fascismo? Perché dei capitalisti, impauriti dal bolscevismo, hanno finanziato i fascisti. Ma questo cosa vuol dire? E’ la conferma che il capitalismo è condizione necessaria della libertà, ma non sufficiente. Tutto qui. Rispetto a questo, mettersi a discutere del capitalismo degli Stati Uniti alla fine del ‘700, dei piccoli proprietari teorizzati da Washington, mi sembra un almanaccare. Io dico questo: il capitalismo è una condizione necessaria della libertà che conosciamo; noi conosciamo un certo tipo di libertà che è quella che si è venuta formando tra mille travagli…

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Nicola Chiaromonte

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Nicola ChiaromonteSalva diversa indicazione, tutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it

La verità del dialogo. Un ritratto di Nicola Chiaromonte

Fra cinici e gesuit

La nuova sinistra

Prigioni in Spagna

Pierre J. Proudhon – un pensatore scomodo

Parole confuse

A lume di ragione

Carissimo Andrea

Violenza e non violenza

Stato e minoranze rivoluzionarie

Chiaromonte, l’America e “l’etica del limite” nell’età dell’estremismo

La verità del dialogo. Un ritratto di Nicola Chiaromonte

di Matteo Marchesini

Nel Novecento, la mitizzazione più appariscente ed equivoca della Grecia antica è stata tentata dai filosofi che hanno esaltato le fonti presocratiche, giudicando tutta la storia del pensiero da Socrate e Platone fino alla modernità come un compatto processo di razionalizzazione – cioè di tradimento e d’impoverimento – delle originarie verità tragiche e sapienziali racchiuse in quelle fonti. Per questi filosofi, la scienza strumentale e tecnocratica che asservisce l’uomo moderno è figlia legittima dell’idealismo platonico. Si tratta di un mito derivato dalle intuizioni antropologiche ed estetiche di Nietzsche, addomesticate in senso metafisico o magari esoterico, e accordate alla fascinazione primitivistica di molta cultura “decadente”. Il suo cantore più noto è Heidegger, ma sue versioni degradate e spesso involontariamente parodiche sono diventate luoghi comuni tardonovecenteschi grazie a numerosi ripetitori del tipo di Emanuele Severino. Questo mito non è rimasto estraneo neppure a correnti filosofiche molto distanti: come la Scuola di Francoforte, che ha cercato a sua volta di stabilire un legame tra l’“illuminismo” tracotante della società di massa e le sue presunte origini classiche.

Ma altri intellettuali, più o meno coetanei del secolo breve, hanno proposto un modello di rapporto meno appariscente, meno pretenzioso e forse più fecondo con queste origini. La loro passione politica, e il bisogno d’interrogare i testi per capire “come vivere”, li hanno preservati da ogni sacerdotale profondismo e da ogni retorica accademico-apocalittica, esattamente per le stesse ragioni per cui li hanno tenuti lontani dalle ideologie del progresso. La loro Grecia non ha nulla di ebbro o estetizzante; e non ha neanche i lineamenti sommari di chi se n’è fabbricato una immagine di comodo solo per leggervi in controluce i destini moderni. Gli intellettuali a cui alludiamo amano il loro oggetto di studio, e quindi ne rispettano la complessità e la distanza; ma al tempo stesso, e proprio per questo, sentono l’urgenza di dialogare in modo insieme umile e coraggiosamente diretto con le parole e le idee dei poemi epici e dei tragici, dei primi filosofi e di Platone.

Pensiamo ad Hannah Arendt, a Simone Weil. Ma pensiamo anche al meno noto Nicola Chiaromonte (1905-1972), che si confrontò con entrambe: che, come la Weil impegnato nella guerra civile spagnola, ragionò con parole simili alle sue sull’incapacità moderna di sottoporre a un «limite» i comportamenti e di esaminare eticamente la «forza»; e che come la Arendt, conosciuta negli Stati Uniti, sostenne l’irriducibilità della violenza a «mezzo» teoricamente giustificabile e analizzò i paranoici circoli viziosi delle ideologie contemporanee, contrappose al loro cieco dinamismo un immaginario spazio politico dai connotati teatralmente greci e radunò attorno a sé piccoli gruppi di amici con cui leggere i classici

2.La storia di Chiaromonte, liberalsocialista sui generis o meglio libertario singolarmente religioso, si potrebbe raccontare almeno in parte riferendosi a quella delle riviste con le quali entrò in contatto, senza peraltro quasi mai identificarcisi. Ventenne già convinto dell’assolutezza dei valori morali, esordì sul «Mondo» di Giovanni Amendola e sulla protestante «Conscientia». Collaborò a «Solaria», che attraverso lo schermo della letteratura riuscì ad aprirsi alla cultura europea, e a preservare alcuni frutti dell’eredità gobettiana, negli anni in cui Mussolini eliminava le opposizioni. Consegnò lungimiranti analisi del fascismo ai «Quaderni» di Giustizia e Libertà, gruppo che frequentò nell’esilio parigino degli anni Trenta e che poi abbandonò con gli altri giovani “proudhoniani” legati ad Andrea Caffi. Sbarcato in America all’inizio della seconda guerra mondiale, lasciò una forte impronta nel dibattito degli intellettuali radical newyorchesi scrivendo sulla «Partisan Review» e su «politics», oltre che sulla salveminiana «Italia libera». Infine, tornato nel dopoguerra in patria, divenne il critico teatrale del «Mondo» liberal-progressista di Mario Pannunzio, e redasse con Ignazio Silone «Tempo presente», un mensile che criticò senza sconti il totalitarismo comunista ma anche la cultura e la tecnica politica delle società affluenti occidentali, e che, pur traendo ispirazione dalle tradizioni del socialismo democratico care a entrambi i direttori, non si fece portavoce di nessuna proposta terzaforzista.

Purtroppo, a differenza di quelli di Arendt e Weil, gli scritti di Chiaromonte restano quasi introvabili. Da decenni, i grandi editori italiani li rifiutano o li mandano rapidamente al macero. Onore quindi a «Una città», bellissima rivista libertaria forlivese e degna erede dei migliori periodici politico-culturali del secolo scorso, che oggi si fa editrice pubblicando Fra me e te la verità. Lettere a Muska. Si tratta di un carteggio tra Chiaromonte e Melanie von Nagel (1908-2006) curato da Wojciech Karpiński e Cesare Panizza, e venuto alla luce dopo un lungo lavoro di scelta svolto nei decenni scorsi dalla corrispondente insieme alla vedova dello scrittore.

In un intellettuale così socratico, che non si preoccupò di pubblicare libri, e che alimentò le sue riflessioni saggistiche attraverso un continuo dialogo con gli amici, le lettere non sono una trascurabile appendice all’opera. Specie se i destinatari somigliano alla von Nagel. Nata dall’unione tra un aristocratico bavarese e una ricca newyorchese, cresciuta in Italia e vissuta in America, sposata a un pittore daghestano e poi, dopo la morte del marito, entrata in un’abbazia del Connecticut come suora benedettina, questa donna coltissima e poliglotta doveva avere una qualità magnetica, se colpì tanto l’austero Chiaromonte – che secondo la sua amica Mary McCarthy diffidava per istinto delle donne intelligenti – e se in seguito riuscì a nutrire anche le idee di un altro critico radicale della modernità come Ivan Illich. La qualità della von Nagel non possiamo verificarla qui direttamente (nella raccolta, purtroppo, di suo ci sono soltanto due lettere, qualche verso e alcuni disegni), ma traspare dal pathos e dall’insolita esaltazione del suo sobrio corrispondente italiano.

Nicola e Melanie, affettuosamente chiamata Muska, si conobbero nel ’57 a Roma, subito prima che lei intraprendesse il noviziato; ma il coup de foudre risale al viaggio statunitense compiuto da Chiaromonte nel ’66 per tenere a Princeton le lezioni da cui nacque la sua raccolta di saggi Credere e non credere (Bompiani 1971, già pubblicata l’anno prima in Gran Bretagna col titolo The Paradox of History). Dopo quel viaggio, il magro carteggio precedente diventa un dialogo fittissimo. Per un lustro, fino alla morte, Nicola scrive a Melanie più di seicento lettere, circa una ogni tre giorni. E nel frattempo si attenuano anche le sue perplessità sulla monacazione dell’amica: perplessità ben comprensibili, se si pensa a quel chiaromontiano animo “greco” che – lontano in ciò dalla Weil – non crede alle risoluzioni personali delle crisi religiose, perché ritiene queste crisi dipendenti dall’esistenza collettiva, e quindi superabili solo collettivamente.

Citando i sonetti di Shakespeare, Chiaromonte definisce il rapporto con Muska un «marriage of true minds»; si riferisce più volte al Simposio, e arriva a parlare di «amor cortese». Tra questi due esseri umani così fuori dell’ordinario, così affamati di vita e insieme così a disagio nel mondo, era nato un legame molto stretto. La lontananza, e le differenti scelte esistenziali, contribuivano a sublimarlo: ma senza placare un bisogno fortissimo di condivisione. Spesso Nicola esprime la sua sofferenza per l’impossibilità di un dialogo faccia a faccia; e quasi per fisicizzare la relazione, oltre a scambiare foglie, fiori e immagini, si sofferma sulla salute di lei, si preoccupa dei suoi dolori, o si commuove con tenerezza tra amorosa e paterna davanti alle confessioni della sua sonnolenza.

Ma ciò che più importa è che in queste 250 pagine di carteggio si ritrovano in scorcio tutti i temi centrali della riflessione chiaromontiana, espressi a volte in una forma sintetica e lapidaria di rara efficacia, anche perché irrobustita da quei riferimenti biografici che negli articoli sono di solito pudicamente esclusi.

Com’è naturale, le lettere riflettono in primo luogo i fatti, le circostanze e le occasioni che nell’ultimo scorcio degli anni Sessanta caratterizzarono la vita di Chiaromonte e l’attualità pubblica. Si parla del movimento studentesco e dei faticosi traslochi romani, della fine di «Tempo presente» (con la morte di Pannunzio, la fine di un’era) e dell’inizio della collaborazione col non amato «Espresso», dei viaggi tra i circoli intellettuali europei e degli articoli sul Vietnam della McCarthy, delle passeggiate con l’impegnativa vedova Camus e della solida amicizia con Gustaw Herling, dello strutturalismo e di Aleksandr Solženicyn, del nuovo teatro grotowskiano e della stesura di Credere e non credere (per cui l’autore cerca un titolo diverso dall’esatto ma pomposo L’uomo e l’evento).

Ognuno di questi argomenti è però quasi sempre filtrato dal riferimento a un contesto classico, è contrapposto o associato a una dominante “passione greca”. Da questa passione scaturisce anche lo stile, che è poi più o meno lo stesso dei taccuini antologizzati in Che cosa rimane (Il Mulino 1995): quei taccuini da cui Nicola ricopia brevi brani per Melanie, e da cui trae lo scheletro dei saggi più impegnativi. Si tratta di uno stile spoglio e geometrico, incolore e perentorio. Ogni argomentazione vi appare scarnificata da un implacabile rasoio occamiano. In Chiaromonte, come nella Weil, un rigore intransigente e una quasi fanatica castità intellettuale tendono a bruciare tutti i falsi intrichi “psicologici”, tutte le capziose zavorre culturalistiche, per arrivare a contemplare le questioni nella loro nuda, platonica essenzialità. Per questi autori, riflettere significa subito verticalizzare, portare alle conseguenze estreme un’ipotesi e accettarne stoicamente, fino in fondo, la logica e fatale cupezza. Ma è una cupezza che, come la disperazione della lirica leopardiana, regala anche il rovescio di una gioia energetica, corroborante: la gioia che si prova, weilianamente, davanti a tutto ciò che ci restituisce un primario e irrefutabile senso di realtà, davanti a tutto ciò che ci strappa alla confusa opacità in cui ci agitiamo quando restiamo invischiati nei compromessi quotidiani, o chiusi nell’immaginario dei nostri desideri. Sia Weil che Chiaromonte pensano che vivere in pienezza significhi scontare la sofferenza senza menzogne, esporvisi senza alibi o risarcimenti ideologici. Solo così s’impara a circoscrivere ciò che dura, oggettivo e indistruttibile, al di là dei torbidi, passeggeri e dunque “irreali” stati d’animo privati, e al di là delle moderne riduzioni del vero, del bello e del buono a questioni d’impressione soggettiva. Solo così si può sperare di spezzare le catene della «bestia sociale», e di sottrarsi per un attimo alla cattiva infinità di un mondo centrato sui miti dell’individuo e della Storia.

  1. A questo proposito, anche nelle lettere a Muska è centrale la polemica chiaromontiana contro l’«egomania» dei contemporanei, cioè contro la loro totale mancanza di senso del limite. Al Leitmotiv dell’hybris Nicola ritorna sempre, qualunque sia lo spunto cronachistico della lettera. Ci torna, magari, dopo aver tracciato per la sua corrispondente “reclusa” qualche schizzo delle civiltà in cui si muove nei suoi rapidi viaggi culturali: una Venezia ancora umana ma architettonicamente improbabile, un’Inghilterra che il tradizionalismo mantiene meno alienata e più coesa del resto d’Europa, una Parigi mutante ai cui stanchi riti da chiesa moderna partecipano giovani ormai simili a una nuova «razza», una Trieste ariosa e «strana» (aggettivo già usato dallo “psicologo” Saba, comprensibilmente mai citato), una Napoli irredimibile eppure capace di umanizzare perfino la paccottiglia plastificata della nuova industria… Ma sempre al suo Leitmotiv ritorna, Nicola, soprattutto quando fisicamente torna a Roma: massimo simbolo decadente, squallido e intollerabile, dell’atomizzazione e dell’insensatezza della vita tardonovecentesca. Questa vita, ribadisce a Muska, concepisce se stessa come una «pura fuga d’istanti». Gli uomini che la sperimentano, nuovi «barbari per volontà», non trovandovi un senso che superi i loro volubili desideri diventano incapaci di una vera, durevole comunicazione, e guardano alla morte come a un fatto insopportabile perché non redimibile da nessun “progresso”. Così non resta loro che lasciarsi trascinare da un’avida quanto disperata volontà di successo, e dall’illusione di poter possedere sempre più oggetti.

Per Chiaromonte, l’egomania è il frutto di un umanesimo privo del senso del sacro: un umanesimo che è assoluto proprio perché relativizza tutto, facendo degli individui l’unico metro di misura, e destinandosi quindi a sfociare in una disumanità massificatrice o pseudoribelle. L’obiettivo panumanistico resta «le plus grand bonheur du plus grand nombre». Ma ciò che davvero si può procurare non è la felicità, bensì soltanto il surrogato del benessere: e per produrlo, i moderni hanno dovuto piegarsi in massa alla logica dello sviluppo meccanico. La maggiore felicità del maggior numero si è tradotta perciò nella maggiore servitù del maggior numero.

Il primo vero profeta di questo umanesimo resta Rousseau, il «teorico della democrazia totalitaria» che in una folgorante lettera a Muska Chiaromonte associa agli hippie, citando una frase in cui il filosofo contrappone al teatro del suo tempo un progetto di feste spettacolari all’aria aperta già simile all’«invito a un “love-in”». L’autocoscienza ultima dell’egomania è invece l’esistenzialismo alla Sartre, un pensiero dove la libertà assume un aspetto mostruoso, prefigurando una condizione umana insieme gratuita e coatta.

L’umanesimo assoluto esclude dal suo orizzonte ciò che trascende l’uomo, ma proprio per questo non ha poi il coraggio di confrontarsi senza paracadute ideologici con l’effimero, con la fragilità intrinseca della vita. E’ il contrario della visione greca, per la quale l’individuo vive fino in fondo la fugacità della sua esperienza proprio perché si sente «tramite del durevole». In questo senso Chiaromonte dice a Muska che i Greci sono il popolo più religioso del mondo mediterraneo. A differenza di romani ed ebrei – di cui anche la Weil diffida – tra il «sentimento diretto delle cose» e il loro «modo d’essere» non frappongono infatti la volontà di stabilire leggi e convenzioni che li proteggano dal mutamento: e «il sentimento del “sacro” è molto più profondo nell’animo di colui che si considera “inerme” di fronte al tempo». I greci chiaromontiani sono una comunità permeata da un rispetto oggi inconcepibile del «divino», ossia di ciò che nella natura, nelle azioni e nei sentimenti degli uomini resta sempre nascosto, e indica il confine delle nostre forze e della nostra capacità di comprensione: «il senso del sacro non è altro che il senso del “limite” (…) di essere parte di un tutto che non si conosce».

Mentre scrive queste riflessioni a Muska, così Chiaromonte le fissa nel saggio La bestia meccanica, pubblicato su uno degli ultimi fascicoli di «Tempo presente»: «L’egomania, che solo la necessità materiale e la forza tirannica possono contenere, è il male della società contemporanea; l’odiosa prigione dell’io in cui l’individuo viene a trovarsi rinchiuso è la forma della schiavitù di cui siamo vittime. Male e schiavitù provengono dalla convinzione radicalmente empia secondo cui il mondo appartiene all’uomo, ed egli può farne quel che gli talenta; e così la vita è proprietà esclusiva di ogni individuo, e ogni individuo ha il diritto di usarne e abusarne come vuole. Una tal convinzione nega tutto ciò che nel mondo è nascosto, indicibile, arcano; si fonda su un’ignoranza cocciuta del mondo stesso e delle più umili verità d’esperienza, prima delle quali è la dipendenza in cui ognuno si trova dai propri simili per cominciare, ma, più profondamente e essenzialmente, dall’insieme delle cose, dal loro ordine, quale esso sia e comunque lo si chiami».

  1. Di questa dipendenza, di questo «arcano» non sappiamo nulla, e pretendere d’imbrigliarlo in qualche legge o d’intravedere nel mistero un disegno è tracotanza: in questo senso, per Chiaromonte anche la Provvidenza è un’idea che «diminuisce la divinità del divino», come scrive a Muska senza nessun accento polemico, ma senza nemmeno velare ciò che lo separa dal cattolicesimo di lei. Anzi, con la sua opera l’autore di Credere e non credere vuole mostrare anche come l’abominevole culto moderno delle azioni storiche e dei fatti compiuti non sia altro che la laicizzazione di questa idea cristiana. Il solo fatto di concepire un Dio incarnato nella Storia induce infatti a leggerla come un unico sistema, e a ricondurre tutte le vicende umane sotto un unico significato generale. Nasce allora il provvidenzialismo, che rapidamente viene mediato dalla Chiesa, la quale finisce per vedere nella durata del suo puro potere mondano un segno della propria santità. Nel frattempo, dalla stessa teologia sorge e si libera un razionalismo tritatutto che porta alla reincarnazione del divino nelle cose, al mito laico del progresso. Poi, tra Sette e Ottocento, davanti ai contraccolpi inauditi della rivoluzione francese, questo mito inizia a trasferirsi dall’interpretazione della natura a quella dei rapporti sociali, partorendo il determinismo storicista. In modo più tirannico di qualsiasi religione, un tale determinismo aliena all’uomo il senso della propria vita, perché lo rende schiavo della società e delle manifestazioni della sua stessa volontà di potenza. Ignorando la dipendenza delle loro esistenze dal cosmo, cioè da un «tutto» inconoscibile, i moderni credono di possedere incondizionatamente e di potere incondizionatamente controllare, con la ragione e con l’azione, le dinamiche sociali e tecniche che vanno via via scatenando. A differenza dei greci, dice la Weil, considerano la forza sprigionata dal gioco delle loro relazioni come un fatto meramente fisico e non morale: sono così convinti dell’idea secondo cui ognuno si forgia da sé il proprio destino, che non hanno neppure una parola adatta a esprimere il concetto di «nemesi». Il loro errore sta nell’estendere il paradigma delle scienze naturali, e in particolare della fisica, alla storia, al mondo umano, alla realtà tout court e ai problemi ultimi, impoverendoli e condannandosi a un deprimente vuoto ideale. In una lettera a Muska, Nicola cita un passo dove Bertrand Russell osserva come la «astratta fisica del nostro tempo» ci chiuda in una prigione «senza splendore», senz’anima. E’ un passo in cui il progressista, l’empirista per eccellenza della filosofia novecentesca sembra avvicinarsi a culture da lui lontanissime. Nelle sue parole riecheggiano quelle del fenomenologo Husserl, e perfino quelle di Rimbaud sul «forçat (…) sur qui se referme toujours le bagne», citate altrove da Chiaromonte per descrivere lo Stato moderno. Ma soprattutto, il giudizio di Russell richiama in questo contesto la diagnosi della platonica e iperidealista Weil, secondo cui «dal rinascimento in poi (…) l’idea della scienza è quella di uno studio il cui oggetto è posto al di fuori del bene e del male», e «se i fatti, la forza, la materia vengono isolati e considerati di per sé, senza relazione con altro, non v’è in tutto ciò proprio nulla che un pensiero umano possa amare». La Weil fa esplicito riferimento alla differenza con la scienza greca, ancora fortemente connessa a una compatta visione etica e cosmica. Abbozza addirittura una critica dell’algebra come pratica livellatrice (la paragona al denaro), e in generale stigmatizza le tecniche che non producono saggezza, che permettono di inventare senza pensare. Anche la Arendt affronta il tema, e si chiede che effetto abbia l’impossibilità di tradurre il codice sempre più influente della scienza moderna nel linguaggio pubblico: ossia che effetto politico produca l’evidente incapacità di questo codice di dare un senso alla realtà comune, la sua tendenza a creare un mondo artificiale dove la conoscenza si scolla dalla riflessione. Si può rispondere che l’effetto è appunto la nascita di una ideologia della scienza, cioè di una pseudoteoria che estende ingannevolmente il paradigma scientifico all’intera cultura anche quando in apparenza vi reagisce, come ostentano di fare gli storicismi idealistici e finalistici che inseguono una verità superiore a quella matematica, fisica o biologica. Questa ideologia pretende di assimilare gli atti umani ai fatti di natura, e quindi di poter spiegare e prevedere razionalmente le dinamiche relative a esseri mai analizzabili nella loro integrità: pretende, in definitiva, di poter rivelare una volta per tutte le origini sempre oscure del complesso di moventi che ci induce a muoverci e a condizionarci a vicenda. Così, caduta ogni fede nel trascendente, si cerca la verità proprio dove non può darsi: cioè nel terreno dell’azione, della Storia, della suprema contingenza. Ne risulta quello che il Chiaromonte di Credere e non credere definisce come un paradossale «scetticismo teologico» o «dogmatismo scettico»: da un lato si è così sfiduciati da puntare tutto sull’attimo nel quale si agisce, ma dall’altro lato si giustifica il più effimero dei gesti affermando che «la storia lo esige». Qui sta l’aporia dello storicismo, per cui «l’Oggi è il Domani, il senso della vita di oggi sta nel Domani, un Domani storico di cui l’oggi non è che l’oscura cifra. La formula è oracolare, ma riassume molto efficacemente quella fede ottimistica nella Storia – cioè nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi – che fa dell’esistenza il fantasma di se stessa, rinviandone il significato all’infinito, cioè annullandolo».

E questo oracolo grottesco, com’è ovvio, è elaborato in primo luogo dagli intellettuali: che quindi, anziché essere autentiche guide e “avanguardie” della società, nel mondo contemporaneo tendono a massificarsi prima delle masse, a sacrificare il proprio pensiero ai feticci ideologici e alla Storia con maggior zelo e con più imperdonabile falsa coscienza.

Fino all’inizio del Novecento, prima del ’14, questi feticci erano ancora in parte un mito vero, una credenza diffusa e legittima nel progresso storico. Ma la carneficina assurda della guerra l’ha fatta crollare («E’ ciò che fa rovinare i miti, la realtà», dice Chiaromonte nella Bestia meccanica). Da allora in poi, la gran parte degli uomini finge di confidare nel progresso, ma in verità non fa altro che arrendersi, tra ipnotizzata e inerte, a un meccanico succedersi di eventi schiaccianti, a un mondo «nudo e insensato», e alla fatalità di una crescita puramente tecnologica. E’ ormai in malafede che si pronuncia il proprio credo nella democrazia e nel miglioramento universale: nei comportamenti quotidiani, si oscilla invece tra nichilismi e improbabili restaurazioni “religiose”.

  1. La guerra, secondo Chiaromonte, ha colpito al cuore soprattutto la versione più avanzata della credenza nel progresso umano, e cioè il socialismo, che dagli anni Venti in poi s’è irrigidito in una ortodossia sempre più tirannica quanto più profonda era la disillusione riguardo alla sua autentica vitalità. E l’ortodossia ideologica, di nuovo, non è altro che una versione laicizzata, umiliata e parodica della fede cristiana. Il cristianesimo infatti, afferma Chiaromonte, ha trasformato il flessibile significato antico del «credere» in un dogmatico «voler credere» (e qui si pensa ancora alla Arendt, che in La vita della mente spiega come la civiltà cristiana, gettando una luce inedita sull’esistenza interiore, abbia posto al centro delle sue riflessioni appunto la «volontà», tema quasi assente nei filosofi antichi). Il credere greco, il credere naturale implica una costante coscienza dell’ambiguità che è inscindibile dalla relativa robustezza sociale di ogni credenza; implica, soprattutto, la capacità di accettare e assorbire nella propria visione la mutevolezza del mondo così come appare, in tutte le sue sfaccettature: quella mutevolezza che i greci rappresentavano guardacaso nelle figure di mutevoli dèi, sottoposti anch’essi a un Fato impenetrabile. Invece il Dio dei monoteismi, isolato e onnipotente, si stacca dalla realtà umana in un modo che costringe poi chi tenta di concepire il loro legame a impantanarsi in volontaristici sofismi. Il cristiano, per aver fede, deve escludere dal proprio orizzonte religioso una gran parte di ciò che sperimenta nell’esperienza quotidiana, e in cui dunque, nel senso greco e chiaromontiano, dimostra comunque di “credere”: crea cioè nella vita quella scissione, notata suo malgrado anche dalla Weil, che tende a sfociare in un irrigidimento pericoloso e che a un certo punto si fissa nella doppiezza del gesuitismo. E’ dalla mondanizzazione moderna di un simile irrigidimento che scaturisce la tendenza ad addomesticare empiamente la realtà, a leggere un univoco senso della vita nella Storia, a fornire «spiegazioni ultime» che pretendono di disfarsi della varietà delle apparenze. L’esempio più chiaro è quello di Marx, secondo cui l’economia sarebbe “più reale” di tutto il resto, ossia costituirebbe l’essenza dei fenomeni più diversi. Ancora peggiore è l’ortodossia dei marxisti del pieno Novecento, che trasformano un’ipotesi teorica in un angusto dogma, e che poi si disfano anche del dogma per imporre una tattica di partito impermeabile non solo alla realtà, ma anche alla logica, e destinata a mutare ora per ora. Propagandati con le armi, sostenuti da una disciplina coercitiva sempre più capillare e spietata, i tattici “dogmi del giorno” coincidono col potere terrorizzante delle dittature comuniste. E tuttavia, come Chiaromonte ha visto per tempo e come hanno visto con lui Orwell e la Arendt, la rapidità del loro succedersi denuncia la corsa dei sistemi totalitari verso un fatale autoannichilimento: per quanti sforzi di sottomissione faccia, la coscienza normale degli uomini non è in grado di adattarsi a venerare idoli che cambiano volto ogni mattino.
  1. Mentre tenta di chiarire queste intuizioni nei saggi di Credere e non credere, Chiaromonte ripete a Muska che la storia non può avere in sé la sua ragione, che è solo un seguito di «atti insensati», e che somiglia alle «rovine che lascia dietro di sé un cataclisma – o anche i rifiuti che trascina un torrente». Parole così lapidarie spiegano l’irritato interesse con cui, nel frattempo, segue un fenomeno che sembra appunto condensare e bruciare in un’estrema, cupa parodia le falsità enfatiche della recita politica e culturale otto-novecentesca, le sue oscillazioni apparentemente schizofreniche tra idolatria del Corso Storico e pseudoanarchia nichilistica. Questo fenomeno è il Sessantotto occidentale, presto egemonizzato dai giovani che in una lettera alla sua corrispondente americana definisce «pedanti ribelli». Approdato, come in modo diverso il suo coetaneo Adorno, a una riflessione sempre più geometricamente pessimistica riguardo alla possibilità d’intrecciare teoria e prassi, anche Chiaromonte giudica la rivolta «conformista». E il conformismo sta nel fatto che per contestare la società esistente i rivoltosi ne accettano e ne estremizzano le patologie, cedendo al suo caos senza avere il coraggio di andare al cuore dei problemi. I giovani occidentali non mettono in questione il meccanismo dell’estensione illimitata dei bisogni, e non si pongono domande radicali sul significato dell’esistenza. Ereditano placidamente il culto del Nuovo, del successo egomaniaco che tutto assolve, dell’azione per l’azione e magari della guerriglia per la guerriglia. Il loro guevarismo, il loro maoismo è solo una moda, un atteggiamento assunto a costo zero. Come Pasolini e Arbasino, e come oltreoceano il suo amico Dwight Macdonald, anche Chiaromonte nota che questa ripetizione frivola di vecchi errori è legata al rifiuto di confrontarsi con le generazioni precedenti. E’ un rifiuto comprensibile, dato che quelle generazioni sono prive di ogni autorevolezza; ma ciò non toglie che il suo prezzo sia un’ennesima versione del moderno settarismo. Da una parte si diffonde la pedanteria subculturale, dall’altra dilaga un attivismo giovanilistico senza argini né obiettivi seri, che a un ex ragazzo degli anni Venti non può non ricordare un’esperienza sinistra. In particolare il Sessantotto italiano, nato in una società senza ordine né libertà, ma «fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva», rischia di sfociare subito in una demagogia del tutto o niente, e in una ricattatoria sofistica da demoni dostoevskiani in sedicesimo.

Questo almeno, dice Chiaromonte, accade a ovest. Diversa è la rivolta dei giovani dell’est, che si battono per liberarsi dall’oppressione politica, cioè per qualcosa di molto più chiaro e importante. Ma ai giovani intellettuali d’Occidente, e agli intellettuali non più giovani che li corteggiano pateticamente per inseguire l’ultima incarnazione dello Spirito del Tempo, una tale rivolta sembra “ottocentesca”, “sorpassata” dalle punte più avanzate della Storia. Convinti di possedere già la libertà «come si possiede un mobile», considerano questa esigenza basilare della vita umana meno rilevante di qualunque nebulosa ideologia palingenetica dell’ultimo minuto, di qualunque pseudonovità “storica” pubblicizzata dalle cronache dei media.

Come si vede, i giudizi di Chiaromonte sulle azioni dei movimenti politici occidentali sono duri almeno quanto quelli che dà del comunismo applicato. Tutto gli appare ormai inquinato dall’idolatria degli «atti insensati». Ma se le cose stanno così, cosa opporre in concreto al fatalismo storicistico? Le lettere a Muska, e gli scritti coevi, sembrano avvicinare lo scrittore a un altro tipo di fatalismo, che potremmo definire laotsetiano. Dopo avere attraversato le tragedie del Novecento, Chiaromonte è ormai lontanissimo dal suo volontarismo di ventenne cresciuto nella cultura dei Gobetti e dei Tilgher. Ora non vede più nella massificazione un’opportunità per disfarsi dell’inerzia individuale e per riaffermare le istanze morali assolute con una decisione finalmente pura e libera da equivoci. Nato in una terra dove il passaggio d’innumerevoli popoli ha lasciato in eredità alla gente un misto indefinibile di rassegnazione e orgoglio, questo maturo uomo del sud rifiuta in modo sempre più netto non soltanto l’idea della violenza rivoluzionaria, ma anche ogni visione che attribuisce più importanza alla volontà di fare il bene anziché alla volontà di tenere fermo il vero.

Di nuovo, davanti a questi passi delle lettere, torna in mente la Weil. Ci si ricorda delle parole con cui la pensatrice francese contesta il catechismo cattolico (così cavilloso che non basterebbe una vita a esaminarlo), e della nettezza con cui gli oppone il bisogno dell’intelligenza di restare totalmente libera nel suo legittimo campo d’azione. E’ altra, per lei, la facoltà destinata a contemplare e onorare i dogmi. «L’intolleranza» dice con una frase quasi chiaromontiana «deriva da una confusione tra i modi di credere»; e aggiunge senza reticenze che il potere amministrativo della Chiesa e la formula «anathema sit», con la conseguente confusione dei piani e il conseguente tentativo di ostacolare la ricerca del vero in nome di un malinteso bene, ha aperto la strada alle derive totalitarie moderne.

Partendo da una concezione distante del cristianesimo, ma da un’idea platonica del bene pur sempre sorella di quella weiliana, Chiaromonte insiste con altrettanta forza sulla necessità che l’intelletto rispetti nella sua sfera soltanto i vincoli che si pone da se stesso. La sua polemica però, anche quando tocca la religione, lo fa per puntare dritto alla politica. Nelle lettere, con una definitività brusca e quasi liberatoria, ripete che qualunque progetto umano finalizzato al bene, quando offende il vero, è destinato a sfociare nella violenza. E’ la violenza di chi crede di poter forzare gli esseri e le cose a diventare ciò che non sono. «Voler “cambiare” significa voler far violenza a ciò che è», scrive a Muska, «non credere nella semplicità delle cose che sono (…) credere fanaticamente alle apparenze, ossia che cambiando, per così dire, la disposizione degli oggetti nel mondo si cambi radicalmente il mondo stesso. Mentre a me sembra che il mondo si cambi unicamente (…) grazie a norme accettate, al modo di vivere degli uomini stessi».

Le speranze palingenetiche di origine cristiana, e la fede moderna nel progresso che ne deriva, coincidono con l’idea che sia possibile introdurre nel mondo una novità radicale. Chiaromonte non lo crede. Come non crede alla concezione lineare del tempo che questa idea implica, e che anche la filosofa della Vita della mente associa al modo tutto cristiano e moderno di concepire la libertà e la volontà. Toccando un tema caro a Karl Löwith (non a caso, come la Arendt, discepolo di Heidegger), Nicola dice a Muska che la saggezza sta invece nell’intuire i segni di quella sostanziale, greca ciclicità del tempo che Nietzsche sbandierava in modo ancora volontaristico, e che la vita ci mette davanti agli occhi ogni giorno contraddicendo le nostre ideologie. L’universo che abitiamo non sembra affatto trasformabile nei suoi oscuri elementi primi, ma semmai infinitamente «mutevole» nella sua permanenza, come il mare così amato dal mediterraneo Chiaromonte e dal mediterraneo Camus.

I sogni di novità assoluta hanno sempre qualcosa di empio o retorico: vogliono disconoscere la realtà così come ci è data, o non tenerne conto, in nome di una pretesa centralità delle aspirazioni umane. Indimenticabile, a questo proposito, è l’esempio che Chiaromonte propone nella Lettera a Caffi edita in Il tarlo della coscienza (Il Mulino 1992). La dichiarazione di Ivan Karamazov, tanto celebre e universalmente amata, secondo cui varrebbe la pena di rifiutare il proprio biglietto per il Paradiso davanti al pianto di un solo bambino, a lui sembra «teatrale e incomprensibile», perché «l’idea di un mondo senza bambini che piangono» è «coestensiva di un mondo senza bambini affatto». Viceversa, «senza pretendere al Paradiso», Chiaromonte vuole soltanto «vedere le cose come sono (e non create da me)». Secondo la Weil, questa visione della realtà si ottiene sospendendo la volontà che il mondo si pieghi ai nostri desideri. E Nicola, rivolgendosi a Muska, le fa eco assimilando la purezza di un tale sguardo alla capacità di «fermarsi al limite», «riconoscere il sacro – e il divino – piegare il capo – inchinarsi». Un simile riconoscimento morale non può tradursi in leggi o convenzioni, come vorrebbe la mediocre saggezza, ma può solo derivare di volta in volta da un ambiguo “avvertimento” davanti alla situazione concreta.

Chiaromonte tende dunque a identificare i progetti di palingenesi con una violenza menzognera. E per spezzare la catena di azioni e reazioni che questa violenza accerchiante produce, per contrastare gli atti di forza con cui gli uomini provano a imporre alla società la loro visione del mondo, gli sembra non rimanga altra risorsa che una mite separatezza, una saggia inazione interrotta solo per concedere alla politica quel che le è strettamente dovuto dal punto di vista del «buon cittadino» (a questo dovere limitato si può ricondurre, nel ’56, la eccezionale adesione chiaromontiana al Partito Radicale).

Al limite, manifestazione di un tale spirito potrà essere la «non violenza», su cui ragionò in modo analogo anche la Arendt. Ma Chiaromonte è convinto che la non violenza non possa diventare norma d’azione pratica e universale senza rischiare di tradursi essa stessa in violenza, o comunque di snaturarsi: resta, per lui, niente di più e niente di meno del comportamento che alcuni singoli individui altamente civilizzati sono in grado di tenere allo scopo di arrestare l’effetto domino del male, o, come direbbe la Weil, allo scopo di sospendere l’ordine inerziale della forza. Rappresenta, insomma, una nobile accettazione del destino: è la coscienza, fatalmente destinata a un’autentica aristocrazia, che vale ciò che cresce nella sua intrinseca verità senza forzature – è il rifiuto di violare più del necessario la natura delle cose, la capacità d’indirizzare il proprio amore sulla realtà circostante in maniera non dispotica e non servile.

In sintesi, all’orizzonte non si vede alcuna soluzione collettiva dei mali moderni: forse, anzi, l’idea stessa è contraddittoria. E Chiaromonte, teorico delle credenze che si consolidano senza volontarismi, si tiene ben lontano da velleità edificanti. Tuttavia, tornando sempre da capo alle stesse conclusioni fosche, anche nelle lettere a Muska insiste sulla sola immagine di speranza offerta da tutta la sua opera, un’immagine che è in qualche modo l’altra faccia del “laotsetismo”. Si domanda, Chiaromonte, se prima o poi l’illimitato e coatto bisogno di dominio non condurrà i moderni davanti a un’aporia così insormontabile, a un baratro così profondo da costringerli a tornare a misurarsi con le eterne questioni essenziali, a fermare lo sguardo sul problema del divino senza equivoci deterministici o soggettivistici arbitrii. Allora forse, dietro le false fedi, dietro i nichilismi irriflessi e perciò tracotanti, nascerà in loro un «nichilismo positivo», un modo d’essere in grado di confrontarsi nuovamente con le nude cose e con le scelte elementari tra il vero e il falso a cui i contemporanei sfuggono istante dopo istante fino alla morte. Solo a quel punto si potrà ritrovare la comune consapevolezza del fatto che la realtà degli eventi e la realtà del pensiero, la contingenza di ciò che accade e l’ordine continuo delle idee sono separati da un confine sacro e inviolabile. Si riscoprirà così che le utopie sono modelli destinati a nutrire la vita spirituale, cioè a tradursi solo mediatamente e per vie inimmaginabili nei comportamenti pratici; e che perciò volerle trattare come progetti politici palingenetici è mostruoso come sarebbe mostruoso per il poeta voler vivere la sua poesia. Coloro che sbandierano le utopie come programmi d’azione immediata cadono nell’equivoco bovaristico intrinseco a ogni storicismo: si vedono cioè come «personaggi storici». E negli ultimi due secoli, dall’età napoleonica al Sessantotto, le prime vittime di questo equivoco dagli effetti stupefacenti sono stati prevedibilmente i giovani: il Fabrizio stendhaliano che vuol essere sicuro di vivere una «vera battaglia», i Sorel e i Raskolnikov che si atteggiano a Napoleoni, e i loro eredi novecenteschi di Sartre e di Kundera che mitizzano le nuove figure rivoluzionarie.

«Nella mentalità “storicista”» scrive Chiaromonte a Caffi «la Storia diventa quel che è (…) la Prosa per il Borghese Gentiluomo», o «quel che l’America è per i selvaggi di Pascarella», e per i beoni romani che ne raccontano le avventure all’osteria. Nella vita collettiva moderna, e da ultimo nella fiammata movimentista dei giovani sessantottini travestiti da guerriglieri, a causa della confusione tra i ragionamenti e i fatti «il pensiero diventa una forma immaginaria d’azione, e l’azione una forma immaginaria di pensiero». Con l’effetto di una pessima recita, al tempo stesso potenzialmente sanguinosa e kitsch. Una recita ingigantita, nel pieno del Novecento, da quei media di massa che danno un senso ancora più semplificato e mistificatorio all’aggrovigliata frammentarietà degli eventi, e a poco a poco addirittura li producono e li sostituiscono.

  1. Come la Arendt, ma senza la sua fiducia “agostiniana”, Chiaromonte ritiene che ogni azione inneschi processi irreversibili quanto imprevedibili, sia «un atto libero e nuovo, un’aggiunta al mondo e una modifica dello stato di fatto». Non sopporta quindi di essere considerata come l’esecuzione di un modello teorico che separi disinvoltamente mezzi e fini. In politica, ciò squalifica ogni machiavellismo, sia quello di piccolo cabotaggio, sia quello che pretende di realizzare le utopie: perché entrambi la riducono a tecnica, ad applicazione di un meccanismo, cioè pretendono di «possedere il segreto del reale», quasi che la loro “realtà” non sia la riduzione indebita del «segreto» a un modello quantitativo semplicistico e fazioso, sorretto quando può e come può dall’argomento della forza.

La Arendt, però, fa risalire l’errore addirittura a Platone, osservando che già nei suoi testi l’«agire» tende a confondersi col «fabbricare». Chiaromonte, invece, non muove accuse al suo mito filosofico. Secondo lui, Platone non fa altro che proporre le sue utopie come «statue di parole». Scrivendo a Muska, ripete che l’autore della Repubblica non è un idealista nel senso moderno, ossia un uomo che s’illuda di realizzare le proprie idee. E forse, al contrario di quel che dicono le storie della filosofia, non è nemmeno un idealista in senso assoluto. Forse, come suggeriva Caffi, Platone è addirittura uno «scettico»: un ragionatore che sottopone continuamente le ipotesi alla prova del dialogo, lasciandole sospese in una zona ambigua e non smettendo mai d’interrogarsi. Si tratterebbe, insomma, di un filosofo che ha già ben chiara la differenza indicata dalla Arendt in La vita della mente: quella che corre tra la «conoscenza», sempre strumentale, e il «pensiero», incapace di raggiungere obiettivi stabili, e mai applicabile alla realtà senza conseguenze violente o nichilistiche. E’ attribuendo al suo Platone questa gratuita e feconda mobilità teorica che Chiaromonte può opporlo ai moderni, e trarre dalla sua lettura la liberatoria «allegria» di cui dice a Muska. La proverbiale spietatezza delle utopie platoniche, spiega alla corrispondente americana, non ha niente a che vedere coi fanatismi del Novecento. Dipende semplicemente dal fatto che quando si costruisce un’architettura ideale, le si può dare un senso non effimero soltanto estremizzandone con coerenza i presupposti. «Riflettere significa proprio spingersi al limite dei significati possibili», afferma altrove; ed è infatti questa consequenzialità netta, estrema e magari unilaterale, che Chiaromonte insegue negli scritti suoi e dei suoi autori. E’ questa necessità di andare fino in fondo che lo appassiona nella tragedia greca e nel Tolstoj critico dell’arte, davanti a cui continuano a scandalizzarsi i tanti «spiriti mediocri» a tal punto immersi nei sofismi moderni da essere ormai incapaci di tornare alle questioni prime dalle quali quei sofismi sono derivati.

Confrontarsi con la coerenza, con la purezza economica e con la verticalità proprie del vero pensiero, non significa affatto perdersi nell’irreale: perché in questi caratteri sta anzi la peculiare, specifica realtà delle idee e delle rappresentazioni scaturite dalla mente umana, una realtà che solo il fanatismo e il filisteismo si ostinano a negare, riducendo artificiosamente l’esperienza a ciò che si vede, si fa e si tocca.

Questo bisogno di ricordare ai suoi contemporanei l’esistenza di una realtà non pratica riconduce spesso Chiaromonte a un episodio della storia filosofica ricco d’implicazioni metaforiche: la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Anche nelle lettere a Muska, come nei taccuini e nei saggi, lo scrittore la cita affascinato. E ciò che lo affascina è il fatto che l’Essere immutabile e perfetto, concepito da quell’essere imperfetto e transeunte che è l’uomo, ha davvero una esistenza necessaria, ma come «esigenza del pensiero», di quel pensiero che è appunto una parte ineliminabile della nostra vita. «Il fatto di concepire “un essere del quale è inconcepibile che ne esista uno più grande” – l’Essere Supremo» argomenta Chiaromonte «ne implica l’esistenza non come di un “oggetto” – ma di una necessità tale del pensiero che, senza di essa, il pensiero non può pensare che il contingente – l’occasionale – questa o quella cosa, come capita, ma non mai esser certo di essere in rapporto con la realtà delle cose. Soltanto che io direi che ciò non “dimostra” il Dio dei teologi, bensì il “divino” in sé – l’inevitabile necessità del “vero” – al di là di ogni fatto casuale e, soprattutto, di ogni cosiddetta “verità di fatto”».

Non a caso, negli stessi anni, la Arendt che nella Vita della mente separa conoscenza e pensiero, verità di fatto e ricerca di «significato», fa proprio lo stesso esempio, e indica nella dimostrazione di Sant’Anselmo una di quelle ricerche mai concluse in cui l’uomo pensa attraverso sistemi di idee eterne e inverificabili (nei termini della mistica Weil, invece, l’inverificabilità riguarda il piano dell’amore soprannaturale necessario a contemplare i dogmi di fede).

Chiaromonte, come Arendt e Weil, mira insomma a restituire alla riflessione non immediatamente traducibile in prassi quel suo insostituibile posto nel mondo reale che i moderni a torto le negano. Anche perché la sua astrattezza, la sua “inconcludenza” non coincidono affatto con una sua presunta inutilità in senso assoluto. Sebbene esista un confine sacro che separa eventi e idee, non si può infatti dimenticare la funzione essenziale che le idee hanno nel metterci in rapporto «con la realtà delle cose». Nei taccuini, Chiaromonte cita una dichiarazione di Tolstoj secondo cui la realtà più vera è addirittura quella che non esiste, e che tuttavia proprio per questo conosciamo con certezza: «la linea dritta, la verità esatta e la virtù perfetta». Soltanto «grazie all’ideale», dice Tolstoj, «sappiamo qualcosa» del mondo, cioè diamo forma a ciò che altrimenti è insensato. Così, ricorda Chiaromonte, solo nella «irrealtà» dell’arte, nella contemplazione teorica delle sue figure ci è dato conoscere davvero le passioni, le figure, le vicende umane che nella quotidianità rimangono un brulichio d’impressioni opache e ottuse.

  1. Ma questi discorsi acquistano il loro significato pieno solo se legati a un altro tipico concetto chiaromontiano, il concetto di «comunità»: unico spazio, secondo lo scrittore, in cui potrebbe ricostituirsi un certo equilibrio tra azioni sensate e pensieri non sofistici. Questa «comunità» è l’opposto di quell’anonima società globale dove gli uomini, soli in mezzo alla massa, fronteggiano alienati e impotenti dei fenomeni che minacciosamente li sovrastano. Per Chiaromonte la cosiddetta comunità mondiale è un’astrazione, perché «la comunità reale non può mai essere universale». E pur non rinunciando a ragionare, com’è ovvio, sui grandi problemi del suo tempo – le architetture teoriche, dopotutto, servono anche a questo – arriva a scrivere a Muska che anche «la “sorte dell’umanità” mi sembra un concetto astratto». Non dimentica che tutto è in qualche modo collegato a tutto: ma sa che è velleitario pensare di muoversi su un palcoscenico planetario come se fosse il proprio giardino. La comunità ha senso solo se mantiene una misura umana. Ed è, naturalmente, la misura mitica della polis: quella che la Arendt tenta di ritrovare in certe «repubbliche elementari» moderne, e che il più fiducioso Illich prova a realizzare nelle sue antiburocratiche istituzioni «conviviali». Ma si tratta di forme fragilissime. Scomparsa la miracolosa invenzione cittadina dei greci, semplifica Nicola nel suo dialogo con Muska, sembra di assistere a una enorme interminabile diaspora di individui erranti. Qua e là, alcuni di questi individui hanno provato a ricreare delle labili forme di “città”: prima con il monachesimo (altrove Chiaromonte cita entusiasta i versi di Dante sui seguaci di San Benedetto resistenti alla «brutalità del secolo»: «Qui son li frati miei che dentro ai chiostri/fermar li piedi e tennero il cor saldo»), e in seguito con le alleanze tra i dotti. Nelle sradicate società moderne, è comunque difficile che la comunità possa darsi come realtà visibile: quando c’è, sarà piuttosto formata da pochi individui sparsi per il mondo che nutrono idee abbastanza simili sulla vita umana.

E’ questa l’esile «comunità» che Nicola costruisce coi corrispondenti come Muska, e che ogni tanto riacquista una provvisoria concretezza fisica grazie agli incontri di qualche gruppo di studio. E’ interessante, a questo proposito, il rapporto che legò Chiaromonte ai suoi amici libertari newyorchesi. Durante l’esilio statunitense, di comunità concrete l’intellettuale italiano parlò molto, stimolato anche dal suo empatico confronto con Camus, che durante una visita a New York aveva auspicato la nascita di piccole «società nella società». E non a caso la McCarthy – che considerava la conoscenza di Chiaromonte un evento decisivo della propria vita – ne fece l’ispiratore e «Fondatore» della cittadina rurale di Utopia, rappresentata nel suo romanzo L’oasi. Ma l’autrice sapeva bene quanto il suo amico diffidasse delle immediate realizzazioni delle utopie, perfino di quelle così circoscritte: e infatti lungo tutto il racconto, che lo evoca in un leggendario Monteverdi il cui limpido metafisico pensiero si riassume tutto nella «idea di limite», Chiaromonte resta lontano e invisibile, impegnato a lottare in un’Europa pericolante; mentre i compagni, ritiratisi nella loro utopica comunità di campagna, finiscono per smarrirsi in battibecchi goffi e sterili, descritti con una verve critica e satirica che utilizza molti argomenti chiaromontiani. Le idee dell’italiano, che aveva corretto le superstizioni attivistiche e ancora un po’ marxistiche degli amici americani col suo rigore filosofico e col suo esempio morale, servono insomma alla McCarthy non soltanto per evocare un sogno, ma anche e soprattutto per indicare l’improbabilità della sua realizzazione.

A Muska, Nicola dice che è stato Caffi, suo «solo vero amico e maestro», a insegnargli il valore delle comunità ristrette. Però il vagabondo Caffi, se da un lato appare più solitario e idiosincratico, dall’altro resta assai più affamato di socievolezza del suo allievo. In questo ultimo rappresentante del socialismo libertario fiorito prima del ’14, il mito comunitario è legato a uno spirito caotico ancora ottocentescamente, fiduciosamente agitatorio e malgrado tutto “pansociale”, che non si ritrova più nei discorsi chiaromontiani sulla possibile «secessione» e «separazione» di piccoli gruppi dal complesso della società.

In ogni caso, il modello resta: solo, ora il suo valore politico è tutto indiretto, e la comunità immaginata sembra raccogliersi sostanzialmente intorno alle idee e alla cultura, a una “scettica” discussione socratica da cui emergono però seri giudizi morali ed estetici. Questo modello non nasce da uno sprezzo elitario, ma dalla consapevolezza che in certe situazioni, come nelle società di massa occidentali del tardo Novecento, ogni tentativo d’impegnare le proprie convinzioni in qualche azione ad ampio raggio mette inevitabilmente gli uomini in una posizione irreale e falsa. Ma a dire il vero, anche qui il comunitario Chiaromonte è più netto e più radicale. Senza alcuna soddisfazione pseudoaristocratica, ma anzi col dolore di chi è costretto a prendere atto di una inspiegabile ingiustizia, si ritrova a constatare che il «numero» svaluta e disumanizza fisiologicamente qualunque esperienza. Così è per la scuola, così è in generale per le organizzazioni sociali; e così è per quella comunicazione di massa in cui ormai consistono e si annullano sia l’agire cosiddetto politico sia le relazioni sociali quotidiane. Questa comunicazione, proprio perché si vuole universale, si riduce a un codice di segnali poverissimo, che tende a svuotare ogni vero dialogo. «Sono arrivato alla convinzione» scrive Chiaromonte a Muska «che la parola ha senso solo per quelli per i quali è stata pronunciata – ed è stata pronunciata nella convinzione che potessero capirla. Ogni parola. Ossia che non c’è falsità più grande di quella di un supposto linguaggio “per tutti”: cinema, televisione o altro congegno che sia. Un linguaggio “per tutti” dev’essere necessariamente una convenzione, un artificio, una falsità – giacché, essendo rivolto a tutti per essere (soi-disant) compreso da tutti, sarà anche necessariamente rivolto a nessuno in particolare: a nessun “individuo”, voglio dire». Solo in una comunità ristretta i gesti hanno un senso, e solo lì esiste una «parola significante». «Stia fra me e te la verità, il più vero dei beni», dicono i versi di Mimnermo tradotti da Nicola per Muska, da cui è stato tratto il titolo del loro carteggio. La verità è relazionale, o non è. Ma la relazione deve riguardare individui legati da un retroterra comune, persone che non siano nella condizione di anonimi uomini-massa: «piaccio a quelli cui devo piacere», dice l’Antigone cara a Chiaromonte. E tanto basta.

Queste sono le condizioni necessarie per pronunciare quel genere di parola sensata che «dà luogo a “discorso”»; e «solo dal “discorso” (e dal “dialogo”) nasce l’ordine, e con l’ordine la possibilità d’armonia». Dal che s’intende che la comunità non è solo il presupposto del vero dialogo e dell’azione significativa, ma anche, di conseguenza, la cornice di ogni vera contemplazione estetica. Quando, con termini simili a quelli che identificano la sfera pubblica arendtiana, descrive a Muska lo «spazio libero creato in comune perché serva a tutti – e tutti possano manifestarvisi per quello che sono», Chiaromonte ha in mente sia il modello della polis che le armonie severe delle sue architetture e del suo teatro. Emblematico, da questo punto di vista, è il passo in cui individua una delle caratteristiche più notevoli di Venezia, e di certe città toscane, nel fatto che vi «si vedono le persone. Il campo visuale è ristretto – i “fondali” sono sempre oltremodo ravvicinati, e si sta sempre “de plain pied” (…) e ogni persona o gruppo che avanza è come se entrasse in scena»; il contrario di quel che avviene nelle metropoli, specie nelle metropoli americane, dove «il volto umano è parte di un magma di volti, e non si vede nessuno perché non si può guardare».

Questo campo visuale «ristretto» offre un’immagine plastica dello spazio comunitario chiaromontiano. Che già così, lo si vede bene, è uno spazio intrinsecamente teatrale. E il teatro, per Chiaromonte, non è infatti nient’altro che la mise en abîme formale della comunità, il «tribunale» che ha il compito di schematizzare e giudicare il suo legame coi singoli e con il cosmo, rappresentando i modi in cui l’uomo si rapporta a «il mondo, gli altri, la verità».

Nel pensiero di Chiaromonte, discorso ordinato, comunità e «situazione drammatica» sono quindi termini strettamente connessi. Per questo, quando recensisce una pièce, può passare dal giudizio estetico a una riflessione sul contesto sociale senza soluzione di continuità, e senza mai trattare lo spettacolo come pretesto. Ed è per la stessa ragione che, malgrado i suoi molti dubbi sul confuso miscuglio di cerebralità e brutalità realistica delle nuove tendenze sceniche, nelle lettere a Muska parla con simpatia di Eugenio Barba, dopo averlo sentito descrivere il suo gruppo come una «piccola società» monacale in cui ognuno occupa il proprio posto in piena libertà e responsabilità.

Chiaromonte ha maturato le sue opinioni teatrali sotto l’influenza di Pirandello, e dell’interpretazione che ne ha dato Adriano Tilgher. A differenza di Gramsci e Silvio D’Amico, Tilgher insisteva sul contenuto filosofico dei drammi pirandelliani, proponendo così una concezione dell’arte come discorso intelligibile che era quasi estranea alla cultura italiana, e soprattutto ai contemporanei letterati variamente crociani o dannunziani. Da questa concezione nasce il pensiero estetico di Chiaromonte, e in particolare la sua idea di teatro come «azione ragionante». E’ un’idea che riporta la letteratura drammatica alla sua origine e al suo valore comunitario, identificando nella scena l’unico luogo in cui gli uomini siano in grado di realizzare il sogno di Malraux: quello di una coincidenza limpida e totale tra agire e ragionare. Nel gioco estetico, dove mezzi e fini s’identificano strutturalmente, le trame ambigue di fatti e pensieri che definiscono i rapporti umani, e le umane credenze sul mondo, si concentrano e convergono in un contrasto di trasparenza geometrica. Qui la trasparenza è resa possibile, tra l’altro, da quell’annullamento del tempo che anche per la Weil caratterizza il teatro più grande. Nel dramma perfetto, quando si alza il sipario, le avventure, le storie, i «casi» che hanno formato la biografia dei personaggi sono già bruciati: resta solo una situazione da svolgere con implacabile necessità logica, e un dialogo attraverso cui si mostra come l’eroe che agisce sia condotto dal destino a subire gli effetti di una forza collettiva e naturale senza scampo. Perciò il teatro puro schiva il realismo storico e quello psicologico, inevitabilmente legati al tempo. La sua problematicità è tutta razionale, astratta: e l’abilità del drammaturgo sta nell’isolare dal corso della vita sociale il tema che meglio ne rappresenta le contraddizioni insolubili.

Nell’apparenza scenica, «fingere» significa eliminare il «casuale» in nome dell’autentico, la cronachistica “realtà” in nome dell’essenziale “verità”. In questo senso, per citare ancora un passo dove si stringono in un solo nodo vita e “teatro”, è molto interessante la lettera a Muska in cui Chiaromonte se la prende con Ernesto De Martino e con la sua idea che la supposta interiorizzazione cristiana del dolore costituisca un “progresso” rispetto agli antichi lamenti funebri. Gli sembra infatti che l’espressione aperta e rituale delle lamentatrici greche o lucane sia “teatrale” in senso alto. E’ cioè una forma che riesce a portare alla luce e a comunicare a tutti la sofferenza proprio perché la stacca dal «linguaggio servile del quotidiano», perché non la affida al mero istinto ma a un vero «gesto», appropriato in quanto regolato comunitariamente, tramandato, «ieratico». Non ha nessun senso, secondo Chiaromonte, parlare di banale «finzione» o di banale «sincerità»: la verità emerge qui grazie all’apparenza. E da una situazione simile scaturisce il dramma in senso stretto.

  1. Pur attribuendo una evidente preminenza al teatro, Chiaromonte chiede qualcosa di simile anche alle altre forme d’arte. In tutte, cerca la stessa semplicità chiara e intelligibile a cui invita anche la Muska poetessa: «quella dei templi greci, di Santa Sofia, dei mosaici bizantini, di Masaccio». Ama l’arte che dà forma alle essenze ideali, non a un’espressione dell’io. Il modello di questa estetica è ancora greco, e a Muska Nicola ne confessa l’origine. Se torna così spesso sulle figure classiche, le dice, dipende forse dalla forte impressione provata da ragazzo davanti a una colonna dorica vista in un libro di Reinach, e rimasta per lui «l’immagine della pura e severa bellezza»: la bellezza che sprona a un’austera limpidezza morale, che ispira una pace armoniosa, e insieme addita un persistente enigma. Un enigma non molto diverso, forse, da quello che lo affascina nelle parole e nei versi della sua corrispondente, assimilati a una «statua arcaica» e a «un’immagine di mosaico, tutta splendida e impenetrabile», cioè a forme che indicano ancora il «divino».

Ma se tutto questo è vero, ci si potrebbe chiedere come mai Chiaromonte abbia speso tante pagine sul romanzo, l’arte per eccellenza moderna e realistica. Certo, le sue analisi gli servono a inquadrare e a criticare le credenze della modernità; e tuttavia, come spiegare la sua indubitabile ammirazione per le creazioni narrative più emblematiche di quell’Otto-Novecento da lui così bersagliato e detestato? In realtà, basta leggere attentamente per capire che anche qui il suo discorso teoretico-estetico mantiene una mirabile e per nulla volontaristica coerenza. Alla forma-non forma del romanzo, l’autore di Credere e non credere e della Situazione drammatica riserva un atteggiamento costantemente e motivatamente ambiguo, una specie di ammirata perplessità che non è affatto un segno d’incertezza critica, bensì il riflesso esatto delle contraddizioni intrinseche all’oggetto esaminato. Infatti, da un lato il romanzo si sviluppa col trionfo della Weltanschauung storicista; ma dall’altro lato, i suoi esemplari più autentici non fanno che contrapporsi ai referti ufficiali della Storia, tentando di raccontare una contro-storia più vera. Questo però, s’intende, non è sufficiente a sottrarli all’ideologia dominante. Perché anche le contro-storie si basano sulla convinzione che esista un’omologia tra i destini privati e i fenomeni sociali; e poco importa, poi, se da una tale convinzione si ricavano rappresentazioni ottimistiche o pessimistiche. A volte, tuttavia, capita che l’antagonismo sia portato così a fondo da mettere in crisi perfino la concezione organicistica su cui si regge il genere. Allora il romanzo tende a esorbitare dai suoi confini. Si dirà che questi confini sono molto malleabili: che si tratta della forma letteraria per eccellenza indefinita, e anzi destinata, se vuol restare genuina, a reinventarsi ogni volta da capo. Ma Chiaromonte ribatte che c’è un tipo di discorso davanti al quale il romanzo deve per forza arretrare: ed è la discussione aperta – non mediata dai personaggi, non ridotta a un puro ingrediente narrativo – delle idee e delle visioni del mondo che gli consentono e gli impongono il suo realismo, la sua fiducia intuitiva nell’intelligibilità psicologica e sociologica delle vicende umane. Il romanziere, finché resta del tutto romanziere, non può ragionare, affrontare un problema nei suoi elementi primi e nelle sue implicazioni ultime, senza depotenziarlo e trasformarlo in uno dei tanti contenuti che sostanziano il flusso dell’intreccio: questa nudità è consentita solo al teatro.

Il genere principe della modernità, figlio delle peripezie cristiane, può insomma raggiungere altissime vette d’arte, ma non può interrogarsi senza schermi sulla propria ideologia umanistica senza diventare qualcos’altro. In questa incapacità di darsi una rigorosa forma logica somiglia allo Stato moderno, che è quasi il suo corrispettivo politico. In un saggio giovanile, in cui tra l’altro anticipa Orwell e Arendt descrivendo gli effetti dei regimi totalitari sul linguaggio e la loro impermeabilità alle verità di fatto, Chiaromonte parla dello Stato appunto come di una istituzione compromissoria, di una forma informe destinata a ricevere dall’esterno i suoi contorni. Il fascismo è il fenomeno che rompe questa indefinitezza, traendo tutte le conseguenze implicite nell’idea moderna del potere: e così, in qualche modo, porta a compimento il destino della macchina statale mentre la riduce all’assurdo. Stato e romanzo sono forme “medie”, destinate a sopravvivere solo finché una crisi traumatica non rimette gli uomini faccia a faccia coi problemi elementari della vita comune, e insomma finché non torna a imporsi l’urgenza di pensare a questa vita con una coerenza più radicale, preclusa per principio ai loro compromessi tra singoli e collettività. Davanti alla crisi novecentesca, l’equilibrio fittizio, il mito di un’armonia prestabilita tra “interno” ed “esterno” su cui sorgono le narrazioni politiche e letterarie della modernità, si rivela ormai un meccanismo inerte, una pelle secca da strappare via per far emergere la realtà che preme sotto. E questa realtà può indurre gli uomini a inventare con coraggio nuove coerenti istituzioni, o ripresentarsi nella totale informità dei nichilismi distruttori che sono dilagati dopo il 1914. Velleitari, comunque, diventano tutti i tentativi moderati, ossia tutti i tentativi di restaurare forme ormai vuote.

Sul piano delle istituzioni politiche, furono queste idee a provocare l’allontanamento di Chiaromonte e degli altri «novatori» da Giustizia e Libertà. L’ideologia “media” e ibrida dei Rosselli, infatti, non approfondiva con coerenza né il contenuto del socialismo né quello del liberalismo, finendo per manovrare dei vaghi pseudoconcetti e per inquadrarli nella vecchia cornice del parlamentarismo prebellico e dello Stato centralizzato. I Rosselli rifiutavano di prendere atto della tara fisiologica di questa cornice – tara rivelata una volta per tutte dal fascismo – e quindi di ripensare radicalmente il teatro della democrazia, che per Chiaromonte, e in parte per i suoi compagni caffiani, poteva acquistare un senso e inverarsi sul serio soltanto in comunità di base autonome. Come in letteratura i narratori del Novecento che scrivono romanzi epigonali, improbabilmente ottocenteschi, così in politica i Rosselli continuano a credere nell’astrazione dell’Individuo Liberale, quell’Individuo che sottovaluta il potere del fato, che si ritiene fabbro della propria fortuna, e che s’inserisce “naturalmente” nel quadro di istituzioni borghesi refrattarie a porsi domande sui loro fondamenti ultimi, sulle conseguenze estreme quanto inevitabili della loro logica interna. Il “contratto” su cui i liberali fondano la società è il romanzo politico che serve ai moderni per esorcizzare ciò che di necessariamente oscuro resta sempre alle origini dei legami sociali e naturali. Ma quando una tale forma si evolve secondo i suoi principi, il volontarismo che la sostiene si ribalta a poco a poco nel fatalismo storicista, in una sclerotizzazione burocratica e in un immobilismo a loro volta liquidati dalla soluzione finale dei totalitarismi. E’ la stessa parabola che tocca al romanzo in senso stretto, specchio poetico di questa Storia.

La perfetta corrispondenza che si riscontra nel pensiero di Chiaromonte tra i due lati della questione ne dimostra una volta di più la compattezza. E’ una compattezza mai esibita, impermeabile agli orgogli autopubblicitari della filosofia sistematica e professorale, ma perciò anche molto meno superficiale e più credibile. Tra il Chiaromonte libertario, che difende un’idea platonica di libertà ma rifiuta di fissarla nelle definizioni del liberalismo classico, e il Chiaromonte teorico dell’arte che al tempo delle narrazioni moderne oppone l’atemporalità del teatro antico, c’è fin dagli esordi un rapporto stretto e spontaneo.

Ma a differenza dello Stato, come si diceva, il vero romanzo oltre che specchio delle ideologie moderne è anche una loro critica impietosa. E a Chiaromonte interessano gli esperimenti nei quali questa contraddizione si estremizza fino a incrinare l’impianto formale. Lo interessano cioè i romanzieri che tengono fermo lo sguardo sulla vanità di quelle ideologie con un coraggio e una lucidità tali da spingerli a tagliare il ramo su cui sono seduti. Il caso più esemplare è ovviamente quello di Tolstoj. Ma anche l’altro protagonista di Credere e non credere, l’autore della Certosa di Parma, mostra sullo stesso piano una spregiudicatezza sorprendente, tanto più se si considera che scrive ancora nell’età eroica del romanzo. Già in Stendhal, spiega Chiaromonte, questa forma è messa sottilmente ma strutturalmente in discussione: tende a divenire una “favola”, un apologo che illustra l’estraneità degli “eventi” e dei “sogni”, accomunati solo da un’uguale inconsistenza. «Tutto Stendhal sta, si può dire, nella capacità di tenersi allegramente alla punta estrema del paradosso per cui né il cosiddetto mondo esterno – la società con le sue trame, gli altri con i moti imprevedibili del loro animo – è reale, né i sentimenti e le immaginazioni dell’individuo: reale è sempre e soltanto lo scontro fra i due ordini di fatti, la “commedia di equivoci” che ne scaturisce», scrive Chiaromonte. Questo scontro è l’argomento fondamentale di Stendhal: e se riesce a trattarlo in una forma ancora apparentemente romanzesca, è perché quel suo mondo narrativo, in cui il vissuto e la Storia rischiano di dissolversi a ogni pagina, è tenuto in piedi da un ultimo fragile mito individualista, il mito della vulnerabile ma indomabile energia giovanile, della fresca sensibilità adolescente che s’impone poeticamente su tutto e malgrado tutto.

Anche Tolstoj ha un mito: la naturalezza della vita “semplice”, la vita fatta di passioni pure, elementari, e dunque rousseauianamente morali. Ma questo mito è ancora più fragile. Nei capolavori del romanziere russo, infatti, la naturalezza si scopre illusoria non appena un’emergenza, un improvviso disordine esistenziale e soprattutto il disordine della guerra mostrano la «grave dipendenza» che lega tra loro gli uomini, denudando quelle relazioni dal cui groviglio si sprigionano le forze incontrollabili di un potere malvagio e impuro. Nella Storia, nelle gravi faccende pubbliche non c’è alcuna verità; ma infine anche la vita semplice si rivela un’illusione in sé. Anche la quotidianità, come prova Anna Karenina, viene inevitabilmente scossa dalla furia arcana del destino e della nemesi. Anzi, per apparente paradosso, quel sentimento del divino che nelle vicende umane sembra il solo spiraglio offerto alla ricerca del vero, getta sui personaggi la sua luce più pura proprio davanti alla violenza bellica. La guerra, certo, tende a trasformarli in oggetti con brutalità inaudita: ma proprio per questo, assai più dell’esistenza normale, li obbliga anche a intuire ciò che in loro non può mai essere ridotto a materia, sottomesso o distrutto. Questa, in Guerra e pace, è l’esperienza totale di Andrej e di Pierre. Ma si tratta pur sempre di un’epifania istantanea, di un’intuizione e di un sentimento che balenano un attimo squarciando le opacità della coscienza per poi subito svanire, o comunque per perdersi in una ineffabilità inutile e incondivisibile. Non si possono esprimere, trasformare in durata e discorso, se non al prezzo di tradirne la purezza: ed è ciò che avviene quando Tolstoj prova a tradurli in una religiosità universale, dando nomi sempre più improbabili o quasi filistei a una fame di verità che di filisteo non ha nulla. Ma questo difetto, che riguarda il Tolstoj pedagogo, non inficia la superiore onestà del romanziere, la cui obiettività di sguardo è tale da escludere o comunque problematizzare al massimo ogni mitizzazione della vita “naturale”. E a metterlo in guardia è prima di tutto la scoperta decisiva compiuta al tempo di Guerra e pace: la coscienza, cioè, del fatto che è impossibile naturalizzare davvero la vita degli uomini, interpretarla e modificarla come s’interpreta e modifica il mondo della natura.

  1. Niente come l’atteggiamento di Chiaromonte verso Tolstoj spiega il suo modo di guardare alla narrativa moderna: il romanziere che più ama è quello che col suo estremismo etico e teoretico mette sotto scacco il romanzo, è lo scrittore che porta questa forma al suo massimo splendore ottocentesco, ma al tempo stesso si mostra già novecentescamente insofferente dei suoi limiti. Tolstoj muore nel 1910. Nell’ottica chiaromontiana, imbastire plot romanzeschi senza peccare di volontarismo e malafede diverrà di lì a poco quasi impossibile, come diverrà quasi impossibile tentar di restaurare senza volontarismo e malafede lo Stato liberale e le credenze su cui poggiava. La “realtà” compatta da cui emanavano le narrazioni moderne si rivela nel Novecento un mito, una fantasia ormai logora e staccata dai fatti. Perciò le riproposizioni del realismo ottocentesco suonano false, e la trama del romanzo “medio” diventa un succedersi di meri casi insignificanti, del tutto surrogabile dal succedersi dei fotogrammi cinematografici. A questo punto, delle due l’una: o si dissolve il romanzo dall’interno, immergendosi nelle pieghe e nei tempi interiori della psicologia e fabbricandosi una «eternità» estetica come Proust; oppure si abbandona il campo, e si torna alle domande extraestetiche e primarie, interrogandosi sulle ragioni per cui le vecchie credenze sono morte. Così, almeno, vorrebbe il rigore chiaromontiano. Nei fatti, ovviamente, la situazione è molto più ambigua. E uno dei casi più interessanti di ambiguità glielo offre il suo amico Moravia: che, come Forster, trucca superstiziosamente da romanzi realistici parabole il cui pregio è invece la nuda e non più romanzesca esemplificazione di un mondo ormai carente di realtà.

In ogni caso, ciò che rimane di romanzesco e di naturalistico nell’arte sembra ormai inservibile e tendenzialmente menzognero. Del resto è proprio per mentire, per escludere artificiosamente una parte di esperienza vera, che gli artisti engagés e soprattutto i cosiddetti “realisti socialisti”, cioè le incarnazioni intellettuali dell’ortodossia politica, si rifanno a modelli ottocenteschi piegandoli alla propaganda. Il fatto, nota Chiaromonte, è particolarmente evidente nelle arti figurative: qui i rappresentanti del realismo socialista credono di potersi servire del naturalismo dell’Ottocento come i gesuiti si servivano del classicismo del Cinquecento e del Seicento. Ma poiché l’arte postromantica non è normativa, e il suo realismo esiste solo come continua e anarchica ridefinizione del reale, se s’irrigidisce la sua tradizione in norma si scade subito in un eclettico poncif.

Per fortuna, però, proprio dall’est schiacciato sotto i sistemi del socialismo reale e del realismo socialista sembra venire anche la reazione più promettente alla crisi estetica novecentesca, almeno a quella letteraria. A leggere certi autori dissidenti, sembra anzi che di là possa perfino rinascere una forma non volontaristica di romanzo, magari ancora pervasa dalle vaste aspirazioni d’integrità spirituale della tradizione russa e tolstojana. E’ per questo che nelle lettere a Muska Chiaromonte insiste speranzoso sul nome di Solženicyn. L’autore di Arcipelago Gulag gli sembra una miracolosa alternativa all’intellettualismo egomaniaco, una straordinaria incarnazione dell’umanità che ama il mondo ma ne rifiuta l’illusorio possesso, e che nelle condizioni più estreme sa ritrovare i modi giusti per comunicare le verità basilari e durevoli della vita. Per la stessa ragione, nelle lettere ragiona su Pasternak, cita Brodskij, e scrive di apprezzare il Kundera dello Scherzo. Pare quasi che l’emergenza, la sofferenza, l’oppressione da cui nascono i libri di alcuni di questi autori siano le uniche condizioni perché la letteratura torni credibile, e in particolare perché torni credibile la narrativa romanzesca prosciugata dall’Occidente del pieno e tardo ventesimo secolo.

Ma si tratta, appunto, di casi eccezionali. In assoluto, per Chiaromonte il romanzo non è più il centro della letteratura. I traumi bellici, e quelli economico-mediatici, impongono di progettare soprattutto opere in cui sia possibile interrogarsi esplicitamente, senza mediazioni, sui rapporti tra arte e società, e sulle ragioni per cui si è rimasti privi di vere credenze, cioè di credenze condivise. Perciò, caduti i miti fondanti del realismo, riacquista un senso nuovo il teatro, «luogo dove la realtà è messa pubblicamente in questione». Pur con molta cautela, Chiaromonte suggerisce allora che forse per la prima volta dopo duemila anni, anzi per la prima volta dopo la fine della civiltà greca classica, la «situazione drammatica» potrebbe risorgere nella sua purezza. Ma s’intende che il teatro degli orfani del cristianesimo, ai quali la realtà appare come una serie di evidenze nude, irrelate e dunque incredibili, non può che essere speculare al teatro greco: una «azione ragionante» tutta tesa a rendere intelligibile non la coesione, il «cosmo», ma il caos a cui il fato novecentesco ci condanna.

Tuttavia, anche quando accenna a una prospettiva, a una speranza di cambiamento, Chiaromonte si guarda bene dal trasformarla in un programma campato in aria, e quindi in un’ennesima forma di compensazione ideologica. Nell’idea ossimorica del «nichilismo positivo», il sostantivo importa quanto l’aggettivo, e riflette tutta la sua disapprovazione per i troppi censori della modernità che credono di poter sottovalutare la crisi di credenze e valori. La verità è che nessuno può superarla da solo e di colpo, nessuno può tirarsi su per i capelli alla Münchhausen: nemmeno gli artisti. Si dirà che questa posizione potrebbe in qualche modo giustificare l’afasia dell’arte otto-novecentesca. E’ vero. Ma la giustifica solo a patto che gli autori dei suoi abbozzi informi e assurdi accettino di considerare le loro opere per quello che effettivamente sono: sintomi dolorosi dell’impossibilità di un’arte autentica, e non frutti compiuti di una legittima, soddisfacente concezione estetica. Chiaromonte pretende che non si chiami l’informe nuova forma, e che si abbia il coraggio di scontare la crisi in tutto il suo peso senza rifugiarsi in un presunto privilegio di casta. Perché l’arte non può vivere sdegnosamente staccata dal mondo da cui affiora, e non può essere fondata sull’arbitrio soggettivo o sulla capziosità teorica. In una delle prime lettere a Muska riporta un passo dei suoi taccuini sulla bellezza, Leitmotiv del carteggio, che spiega bene il suo punto di vista antimoderno: «La differenza fra godimento estetico e senso della Bellezza», scrive, «si può paragonare a quella che esiste fra la verità secondo la logica formale (che è una verità negativa, nel senso che ci offre la regola del falso, ma non il modo di accedere al vero) e la verità vissuta e contemplata, che è accordo fra l’esperienza del reale e la necessità propria del pensiero».

La bellezza nasce da un mondo ideale costruito in comune: concentrandosi sulla sensibilità del soggetto, ciò che si ottiene è solo un’effimera impressione (piacevole o shockante) o un’effimera ideologia poetica. In un saggio famoso su una terzina di Dante, Chiaromonte osserva che noi siamo così abituati a delibare l’arte secondo i presupposti del soggettivismo estetico, che fatichiamo a onorare in pieno la complessa bellezza intelligibile di testi costruiti su altri fondamenti. Generalizzando quell’analisi, e opponendosi alle strumentalizzazioni ermeneutiche, afferma decisamente che se il senso di un’opera sta in ogni esecuzione o lettura, tuttavia «l’opera rimane al tempo stesso una realtà in sé, inesauribile. Così della “lettura” del mondo che noi vivendo facciamo: ne siamo interamente responsabili e autori. Ma “leggiamo” il mondo, non il nostro “ego”»

.11. E così, siamo tornati a quello che insieme con la Storia è l’altro bersaglio grosso di Chiaromonte: l’ego, e nello specifico l’ego delle sedicenti scienze psicologiche. Le quali scienze, poi, non sono altro che il côté “individualistico” delle ideologie storiciste. Per Chiaromonte, platonico e husserliano, l’idea di trattare la persona e le sue ragioni come un oggetto “obiettivo” delle scienze naturali, quasi che chi le giudica non si trovi profondamente implicato nel giudizio, è una bestemmia, un sintomo di tracotanza intollerabile estremizzato nella psicanalisi. Pretendere di avere per specialità «l’animo umano» significa coltivare di fatto una tendenza «totalitaria». La psicologia accettabile è per lui una faccenda d’intuizioni, di tatto e di verosimiglianza: è quella, senza pretese di verità obiettiva, proposta dai più acuti moralisti, filosofi e romanzieri. Ha senso se «negativa» e «ironica», cioè se serve a demistificare un’idea dogmatica della natura umana. Il resto è truffa; ed è, come la psicanalisi, la parodia delle narrazioni moderne. Questo giudizio ferocemente liquidatorio è determinato anche dal fatto che il sogno «totalitario» degli psicanalisti intende portare l’uomo a uno stato del tutto opposto all’equilibrio sognato da Chiaromonte. Anche su questo tema, le lettere a Muska offrono passi sintetici e definitivi, che si possono associare alle requisitorie della Weil contro i cedimenti agli impulsi e alle immaginazioni interiori. «Che cosa significa “manifestarsi”?», le scrive Nicola. «Non certo, assolutamente no, quello che intendono gli psicanalisti. Ma arrivare al punto in cui c’è equilibrio di verità fra il proprio “essere interiore” (il “meglio” di sé) e quello esteriore. Gli psicanalisti per “essere interiore” intendono l’opposto: il subbuglio mostruoso degli istinti, impulsi, voglie, appetiti – e questo, io direi, non è niente di “reale”: è quello che Blake intendeva per “pestilence”. In sostanza, è il cattivo sogno del quotidiano». E di questo sogno, dei fantasmi passeggeri e non chiarificabili degli «stati d’animo», il teatrale Chiaromonte è così insofferente da avvisare Muska che cercherà di non condividerli con lei: anche se poi, per fortuna, infrange la regola e ci restituisce vivacemente gli umori da cui nasce la sua nettezza teorica.

  1. Il rifiuto d’interpretare la realtà mettendo al centro i moti che si agitano nel singolo da una parte, e il puro seguito delle sue azioni “storiche” dall’altra, favorisce un curioso rapporto tra l’autore di queste lettere e la cultura antiumanistica che negli anni Sessanta conquista l’egemonia contro il vecchio umanesimo storicistico. Come e più che altrove, Chiaromonte dichiara qui la sua ammirazione per lo strutturalismo di Lévi-Strauss e di Foucault – con cui ha modo di dialogare in pubblico – oltre che per il loro antenato Saussure. Sempre in cerca di modelli astorici e puri da contemplare, è affascinato dalla loro lettura astratta del mondo e del linguaggio. Al tempo stesso, però, non può accettarne una caratteristica decisiva: la vocazione alla tecnocrazia, la tendenza a ritenere l’uomo superato da strutture concepite come meccanismi. Perché per Chiaromonte, al contrario, i modelli e gli ordini che sovrastano fatalmente le contingenze della vita umana non sono mai del tutto afferrabili. Tipico il caso del linguaggio, da lui così amorevolmente indagato, anche in queste lettere, attraverso le etimologie. Ogni idea sulla sua origine si dimostra a suo avviso insufficiente. La sua natura resta inspiegabile, la sua nascita un mistero; ed è da questo mistero che deriva il resto, l’ordine propriamente e solamente umano. Ciò equivale a dire che le “strutture” hanno a che fare col divino: mentre gli strutturalisti lasciano intendere che somigliano a schemi calcolabili e magari manipolabili. Riemerge qui di nuovo la diffidenza di Chiaromonte davanti a tutte le visioni che cercano la verità e il senso nelle tecniche, ricadendo così in una ingannevole semplificazione antidealista anche quando dal gioco puro delle idee erano partite.

Nel carteggio, una notevole ramificazione della polemica contro la “obiettività tecnica” riguarda la fotografia e il film. Per Chiaromonte il cinema, al contrario della vera arte drammatica, propone solo una successione di meri segni incapaci di trasformarsi in significati complessi: sta tutto nell’effetto immediato, e appena cerca di proporsi mete intellettuali, magari pretendendo che indugi e lentezze rendano un paesaggio o un volto oscuramente significativi, rischia di cadere nella comicità involontaria di certo Antonioni e certo Bergman. Scrive a Muska che la fotografia, l’immagine meccanica, riporta «a un falso primitivismo e pre-logismo». Nella ottusità fotografica, nel puro documento non può esserci verità. Ricopiando passi dei taccuini, arriva a proporre all’amica un esempio eloquente. Se avessimo una registrazione totale, una documentazione assoluta delle vite di Socrate e Cristo, le dice Nicola, ciò non ci aiuterebbe affatto a conoscerli davvero, come una fotografia del Cristo e della Vergine dentro una chiesa non favorirebbe per nulla l’adorazione. La verità, il senso della loro presenza sta solo nell’idea: sta, cioè, solo nel mito e nel discorso ordinato che l’esperienza del rapporto con queste figure e con le loro parole hanno prodotto.

  1. Come si vede, dal carteggio con la suora benedettina emergono davvero quasi tutti i motivi salienti dell’opera chiaromontiana. Ed emerge, con più aperta insofferenza, l’opposizione a un modo d’essere contemporaneo che sembra lasciare come sola via d’uscita una sorta di fatalistica saggezza. Ma in realtà Chiaromonte è troppo combattivo per diventare del tutto “laotsetiano”. Diciamo piuttosto che la sua è una forma molto personale di resistenza stoica. Con un’assertività drastica, antica, impaziente di ridurre l’importanza dei problemi sociali e individuali, ripete a Muska ciò che dice nei taccuini: che la vita è «intera» in ogni condizione, che la differenza tra gli stati e le fortune è disprezzabile. Quel che resta da fare, in ogni caso, è tenere fermo il vero e la propria identità; accettare il dolore, e fissarne senza paura l’aspetto indecifrabile. Bisogna, insomma, far la parte del Sisifo di Camus: avere il suo senso del limite e del fato, ma conservare anche il suo sempre rinascente pathos della libertà, una libertà da condividere con individui in carne e ossa, al di qua e al di là di ogni fanatica astrazione. Però bisogna fare tutto questo senza perdere di vista quella religiosità “greca”, che a Camus era velata dall’insistenza sull’assurdo e su un troppo generico umanismo.

A questo punto, tuttavia, è davvero difficile dire cosa davvero «rimane» dell’uomo, del suo senso. E non è un caso che quando cerca di farlo, il piano Chiaromonte si avvicini quasi alla mistica Weil o al non amato Kafka, e in genere a un linguaggio impensabile senza la modernissima tradizione kierkegaardiana. Se la vita umana somiglia a un frammento, a una serie di occasioni insensate e di situazioni incompiute, «conta (…) alla fine, questo fatto soltanto: ciò che si sentiva o si avvertiva di significato possibile della vita – ciò che dell’Essere del mondo arrivava fino a noi, insomma – e non era in ogni caso – né poteva essere – che l’ombra di un’ombra. Eppure questo resiste al Nulla. Non può essere distrutto perché non è mai appartenuto al mondo del cambiamento: è stato, se si vuole, un miraggio fermo e fisso, più forte in noi di ogni supposta “realtà”!».

Ma in Chiaromonte, lo stoicismo da cui nasce un pensiero così vertiginosamente antimondano non è mai scindibile dai destini generali. Come ribadisce ovunque, il singolo individuo può capire o vedere alcune cose che restano oscure ad altri, ma non può sfuggire alle credenze comuni attraverso cui una società concepisce il rapporto tra l’uomo e il cosmo: «del mondo nel suo insieme non si può credere che quel che ce ne appare attraverso i modi d’essere e di pensare dei nostri simili». Perciò Nicola scrive a Muska che «non si può essere superiori al destino che vi colpisce». Questo pensatore antimarxista, e così platonicamente convinto della realtà del puro mondo ideale, comprende benissimo la dialettica che lega ciascuno al suo tempo, e a quelle visioni che non coincidono né con idee astratte né con contingenti stati d’animo, ma rinascono ogni giorno negli scambi sociali. Così, sa che è impossibile separare dalla massa delle élites d’irriducibili individui integri: perché siamo tutti in parte individui integri, o almeno resistenti, e in parte uomini-massa arresi all’apatia e all’ignavia, abituati a vivere rimandando le scelte nette tra bene e male e agendo «senza persuasione e, nel contempo, senza violare chiaramente nessuna norma intima; ma anche senza osservarne chiaramente nessuna». Anche a Chiaromonte, nel suo lavoro di pubblicista controvoglia, capita perciò di sentirsi «metà compromesso e metà intransigenza», incapace di attingere quella «estrema semplicità» senza schermi che sola riporta alle circostanze elementari della vita e dunque alla verità. E’ questa consapevolezza che lo distingue da tanto aristocraticismo in finto oro del Novecento, cioè da chi crede o finge di credere a una restaurazione dei valori, e pensa di potere salvarli e salvarsi restando immune dall’involgarimento del mondo in cui vive. E’ una consapevolezza che si riflette anche nello stile. Come osserva Karpiński, Chiaromonte non vuole sedurre il lettore, strappare l’applauso da aforista brillante, ma mettersi a ragionare con lui, scrivere in modo che in primo piano appaia sempre il nocciolo essenziale del problema trattato; e se accosta bruscamente esperienze culturali lontane nel tempo, non lo fa per stupire postmodernisticamente il pubblico, ma perché una volta spogliate degli involucri rivelano nuclei di pensiero che si fecondano a vicenda e aiutano il ragionamento a procedere. Non è illegittimo ritenere che questi tratti della sua opera abbiano contribuito alla sua sfortuna presso gli editori (i curatori del carteggio con Muska ricordano il rifiuto di Adelphi): certo è quasi impossibile stilizzare Chiaromonte in uno scintillante e vendibile logo culturale. Così i suoi scritti, spesso usciti in prima battuta all’estero – sulle riviste polacche della dissidenza, negli ambienti anglosassoni – o in edizioni italiane ormai quasi introvabili, rimangono pressoché sconosciuti ai lettori del Duemila. Hanno fecondato le riflessioni delle sue esili e prestigiose comunità cosmopolite novecentesche; ma oggi che quelle comunità non ci sono più, rischiano di non poter nutrire con la loro energia intatta le nuove generazioni di cittadini dell’Italia, dell’Europa e del mondo. E’ anche questo un piccolo esempio dello sconfortante gioco di forze in cui si concretizza la poca sensatezza della Storia – storia della cultura compresa. Chiaromonte insegna a non farne un idolo, a preservare la propria vita mentale dai suoi ricatti e dalle sue immagini stereotipate, ma sa che non si sfugge al loro manifestarsi; non li si controlla: ma non si può fare a meno, tenendo fermo il vero, di scontrarcisi e di tornare di continuo a denunciarli. Spesso, nel carteggio con Muska, torna il riferimento a una grotta di Paros, emblema di uno spazio puro e alieno dal caos; e spazio puro, mentale, è il giardino immaginario che la suora disegna per l’amico. A un certo punto, la fame platonica di idee che Nicola mostra nelle sue lettere deve averla indotta a ricordargli l’importanza della vita “reale”, dei «piatti da lavare». Lui risponde rassicurandola sul fatto che «i piatti», volente o nolente, li lava ogni giorno: nei “fatti” ci si urta sempre e comunque. Eppure non si può non notare che anche accennando ai lavori pratici, Chiaromonte mette subito l’accento su un loro valore in qualche modo ascetico. Per quanto la vita umana sia incoerente e frammentaria, è probabile che questo intellettuale platonico riuscisse a render visibile anche nell’esistenza quotidiana una coerenza, una integrità dai contorni straordinariamente netti e plastici. E forse questo spiega perché alla McCarthy e a Malraux sia venuto in mente di trasformarlo rispettivamente nel Fondatore Monteverdi dell’Oasi e nel «piccolo Scali» che, con una discrezione e un disagio pari all’eroismo, partecipa alla guerra aerea spagnola della Speranza: cioè in quelle figure per eccellenza ideali, e quindi capaci di rivelarci chi siamo davvero, che sono i personaggi dei romanzi.

In  Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Quodlibet 2014

Da: www.claudiogiunta.it/2017/09/la-verita-del-dialogo-un-ritratto-di-nicola-chiaromonte/

 

 

 

Fra cinici e gesuiti

 

La straordinaria figura di Nicola Chiaromonte, discepolo di Andrea Caffi, amico di Moravia, Camus e Malraux, con cui combattè in Spagna, critico radicale di ogni ideologismo, di ogni totalitarismo, di ogni società che vive in malafede, pronta a credere a ogni menzogna. Fu nemico spietato del mito dello Stato, nato con la modernità, che accomunò Mussolini, Stalin e Hitler. L’esperienza feconda di Tempo Presente, condivisa con Ignazio Silone. Grande libertario, incompreso dalla sinistra, stalinista e non, continuò a credere nella necessità di gruppi e comunità che si opponessero alla deriva, oppressiva e permissiva insieme, della società occidentale. Intervista a Gino Bianco.

Gino Bianco, studioso del movimento operaio e socialista, giornalista e saggista, è stato amico e collaboratore di Nicola Chiaromonte.

\r Nicola Chiaromonte, che fino alla morte è stato un intellettuale molto discusso, oggi viene riscoperto come possibile ispiratore di una sinistra post-comunista…

\r Per me, Chiaromonte è stato un maestro non solo per il pensiero, ma anche per la vita. Come il suo amico e maestro Andrea Caffi, fu innanzitutto un uomo con la passione della politica e del pensiero ed è per questo che anche i suoi scritti, parte dei quali è stata ripubblicata da Il Mulino, non hanno un carattere sistematico, né possono averlo, perché sono il riflesso dell’itinerario travagliato di un pensatore originale ed anticonformista, di un militante politico, di un cittadino del mondo. Di lui, Gustaw Herling ha scritto: “Dai saggi giovanili sul fascismo fino alle riflessioni sui temi dell’arte c’è in tutta l’opera di Chiaromonte la critica alla nostra età che pratica il divorzio fra etica e politica. Scriveva in modo da trasmettere non solo un pensiero chiaro e libero, ma una continua tensione morale, in modo che nella parola viveva tutto intero e la esprimeva come una verità lungamente soppesata e sofferta. Provava ribrezzo davanti ai grandi sistemi e alle interpretazioni generali, sfiducia di fronte ai cavilli dialettici che storpiano la vita e alle ombre ideologiche che coprono la realtà, disprezzava lo psicologismo. Lo interessava invece l’uomo concreto di fronte agli avvenimenti concreti. Era, nel modo tolstoiano, capace di giudizio etico e allo stesso tempo consapevole di qualcosa d’imperscrutabile che l’oltrepassa. La tradizione greca era da lui intesa come una medicina contro il morbo della banalità plateale”. Per tutta la vita, infatti, Chiaromonte si è occupato di politica, di filosofia, di teatro -fu per molto tempo critico teatrale, prima al Mondo di Pannunzio e poi a L’Espresso- e di letteratura, cercando sempre di andare alla radice delle idee e facendo giustizia delle tante sciocchezze correnti in una cultura formalista e provinciale quale era quella italiana in cui visse. Sempre animato dalla passione per la meditazione sull’azione politica e, in senso lato, sul significato della storia, come emerge dai saggi su Tolstoj, Stendhal, Martin du Gard, Pasternak e, naturalmente, su Malraux e Camus, di cui fu grande amico.

\r Chiaromonte, così come l’ho conosciuto io, fu una voce solitaria, sdegnosa contro ogni opportunismo politico, un pensatore scomodo, vittima della sinistra ipocrita. Personalmente, come ha ricordato recentemente Arbasino, era austero, ma tutt’altro che arcigno. Era invece amabile e spiritoso, estremamente piacevole nella conversazione, senza un’ombra di boria e d’ipocrisia, privo di quella gravità falsa e tronfia che è propria di quei retori e pavoni che la demagogia e il conformismo promuovono spesso al rango di maestri.

\r Nemico dei mediocri soddisfatti, odiava la retorica in tutte le sue forme, e i suoi scritti testimoniano la sua scrupolosa personalità d’intellettuale, la sua cultura europea, il suo rigore, la sua intransigenza nell’impegno politico, la sua ripulsa per ciò che chiamava “il gesuitismo moderno” e “le menzogne utili”.

\r Ciò che lo interessava di più era la comunicazione, il confronto delle idee, verso cui aveva un grandissimo rispetto, anche quando non le condivideva. Auspicava il ritorno a una cultura consapevole del suo compito formativo, dove l’individuo si ritrovasse a tu per tu con se stesso, con la società e con il mondo, per trovare ciò che è essenziale e ciò che non lo è, ciò che importa e ciò che non vale. Non a caso scriveva: “Il solo linguaggio fra uomini è quello che si può intessere sulla trama di credenze autenticamente condivise, in quanto costituiscono il presupposto per il fondamento di ogni discorso e non uno schema prestabilito o un insieme di dogmi”, mentre il suo giudizio sul mondo in cui viviamo e sul ruolo che l’intellettuale è chiamato ad assolvervi lo espresse con molta efficacia in uno dei suoi ultimi scritti, Il tempo della malafede, in cui sosteneva: “La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità, è un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza in opposizione ad altre e soprattutto in mancanza d’altre genuine”, ed in cui i politici contemporanei “agiscono come se ci credessero, e invece…”

\r In virtù di questo suo atteggiamento rigoroso ebbe, fra l’altro, una vita avventurosa…

\r Era nato in Lucania nel 1905, ma visse la sua gioventù a Roma, dove si laureò in giurisprudenza, anche se questi furono studi che non ebbero alcun effetto formativo su di lui. Chi invece lo influenzò molto fu Adriano Tilgher, di cui Nicola si considerò in un certo senso un discepolo, che fu un grande pensatore, anche se per un breve periodo simpatizzò per il fascismo. Tilgher fu una sorta di “irrazionalista” italiano e, pur influenzato dal pensiero di Gentile, tentò di elaborare una filosofia indipendente sia da questi -fu, tra l’altro, autore di un famoso pamphlet contro Gentile, Lo spaccio del bestione trionfante-, sia dal marxismo come dall’idealismo crociano. Grande polemista, spirito eclettico, è a Tilgher che probabilmente si deve gran parte del profondo interesse che Nicola ebbe sempre per il teatro, così come l’amore per Pirandello e un certo esistenzialismo ante litteram, quando ancora non si conoscevano i nomi di Heidegger o di Sartre.

\r Da giovanissimo Nicola, come fece anche Salvemini, simpatizzò per un brevissimo periodo col “diciannovismo”, cioè con quel movimento proto-fascista che nei primi anni Venti, in odio alla tradizione pseudo-democratica dell’Italia dei Giolitti, dei Facta, degli Orlando, pensava fosse meglio tenersi per qualche tempo Mussolini piuttosto che tornare alla “palude parlamentare”, come si diceva allora. Naturalmente, Chiaromonte, come del resto Salvemini, cambiò subito idea e col delitto Matteotti si schierò decisamente contro il fascismo, tant’è che a vent’anni scrisse il primo articolo sul Mondo di Giovanni Amendola. Nel ’34, seppe di essere ricercato dalla polizia come terrorista -aveva pensato di attentare a Mussolini, anche se il progetto non andò in porto- e scappò a Parigi. Fu a Parigi che conobbe Caffi, che gli fu presentato da Moravia, di cui Chiaromonte era molto amico, e che per Nicola divenne il vero maestro nelle idee e nella vita.

\r Sempre in quel periodo parigino aderì a Giustizia e Libertà e collaborò ai Quaderni e al settimanale che Giustizia e Libertà pubblicava, ma dopo qualche tempo fu, con Mario Levi, Caffi e Renzo Giua, animatore del gruppo dei “novatori” che si separò da Giustizia e Libertà perché in contrasto col modo con cui Carlo Rosselli conduceva il movimento. Il motivo principale della separazione fu la loro convinzione che Rosselli si muovesse in una prospettiva di restaurazione della vecchia democrazia parlamentare, che aborrivano, mentre erano convinti che, una volta sconfitto il fascismo, fossero da ricercare soluzioni diverse dal ripristino puro e semplice della vecchia democrazia “borghese”. Dopo questa separazione, aderì per un certo periodo al Partito Socialista in esilio, trovandosi nelle posizioni del gruppo “frondista” di Angelo Tasca. Andò poi volontario nella guerra civile spagnola, dove fu fra i quattro o cinque aviatori della piccola squadriglia comandata da André Malraux. La guerra di Spagna fu per lui una grande delusione e vi rimase meno di un anno perché vide l’intollerabile comportamento del Partito Comunista. Tornato in Francia, quando questa fu occupata dai tedeschi fuggì in Algeria, dove conobbe Camus, e da lì andò negli Stati Uniti, dove rimase fino alla fine della guerra. Fu frequentando l’ambiente degli esuli antifascisti e antinazisti e della sinistra di New York che conobbe Mary McCarthy, Hannah Arendt, Dwight McDonald e cominciò a collaborare con riviste come Politics e Partisan review. Finita la guerra tornò per qualche anno a Parigi, dove ritrovò Camus e Andrea Caffi, ed infine rientrò in Italia, dove è rimasto fino alla morte.

\r Quali furono i temi principali della sua attività e della sua ricerca?

\r Chiaromonte, come del resto Caffi, non fu un pensatore organico, cosa che, del resto, nemmeno gli interessava essere. Nei suoi scritti e nella sua vita, anzi, testimoniò sempre un ribrezzo profondo per i sistemi di pensiero organici, per le costruzioni ideologiche, metafisiche o epistemologiche ed era certamente anche per questo che rifiutava di sottomettersi al dominio degli imperativi della politica. Polemizzò sempre con le ideologie “scientifiche” e con quelle basate sull’esaltazione del progresso tecnologico, diceva che nel mondo moderno non c’è possibile salvezza se si accetta il progresso tecnico per principio, senza riserve, se si applica tutto ciò che esso può suggerire. All’opposto, gli interessava profondamente quello che c’è a fondamento delle idee e della conoscenza. Era vivissima in lui la convinzione che nel cuore di ogni uomo fosse celato il segreto della moralità e di quella “socialità” tanto amata anche dal suo maestro Caffi. Chiaromonte pensava comunque che la morale non fosse “insensibile”, non si collocasse cioè sul terreno dell’assoluto, ma fosse fatta di un’eleganza e di un “sapere” nelle relazioni personali, familiari, “etniche”, che rimandano all’insieme delle tradizioni e alle modifiche che le tradizioni subiscono nella storia, fino a sgretolarsi nella nostra epoca, che lui considerava di grande crisi.

\r Per Nicola la tradizione era importantissima per la costruzione dell’uomo, ed infatti, in un suo bellissimo saggio sui greci, diceva che senza tradizione l’uomo non esiste, perché, per dirla con le sue parole: “All’oppressione del despota o alla disumanità della casta ci si ribella, ma non ci si può più ribellare alla regola impersonale e razionale, cioè all’oppressione che scaturisce dal riconoscimento razionale del fatto di vivere in società”.

\r Anche grazie a questo continuo meditare sul rapporto con la tradizione non era un adoratore della ragione con la maiuscola, sapeva che la ragione era una piccola fiamma in una foresta buia, anche se apprezzava come un fatto sacro lo sforzo della ragione di dare un senso, di mettere ordine nel caos…

\r Una volta -eravamo in vacanza insieme a Bocca di Magra- mi disse, ripensando alla sua vita passata, che avrebbe voluto essere non un uomo di lettere, ma un matematico, perché era nella matematica che forse c’era la possibilità di dare forma e razionalità, “immagine”, al mondo attuale, mentre la letteratura aveva perso la capacità di farlo. Era certo uno sfogo perché lui, in realtà, aveva un dono affine a quello di certi romanzieri, che sanno darci la sensazione di una presenza diretta della trama della vita, cioè non semplicemente la sensazione del flusso caotico dell’esperienza, ma dell’emergere in essa della distinzione profonda fra ciò che conta e ciò che non conta.

\r A tutto questo non erano sicuramente estranee neppure le sue continue riflessioni su Sartre, Heidegger, Hegel e soprattutto Platone, come sul pensiero greco classico, di cui lo affascinava sia la concezione del destino, -e non a caso scriveva che “Una certa saggezza, e non più alcune specie di razionalità deduttiva, è la conquista più alta e più degna dell’uomo”- sia la possibilità di partire da esso per articolare un rapporto con la realtà diverso da quello impostato dalla razionalità scientifica. Chiaromonte, infatti, diceva che la realtà non è il dato empirico, ma è l’interdipendenza fra esso e l’apparizione di quello che sembra, di quello che ci appare, quindi delle nostre visioni, dei nostri “tentativi di realtà”, fra cui metteva anche le utopie. A questo proposito Nicola sosteneva che non c’è civilizzazione senza molteplicità di utopie. Ma attenzione: molteplicità e non unicità, poiché escludeva l’interpretazione volgare secondo cui le utopie debbono essere realizzate per essere significative, per cambiare la vita degli uomini. All’opposto, per lui le utopie erano uno specchio della vita intellettuale, che non è affatto opposta alla vita perché, diceva, si vive, anche al più basso livello, d’intelletto e di utopia. Nell’amore, per esempio, che cosa si fa se non creare un’utopia?

\r Un altro tema che Nicola affrontò continuamente fu quello del totalitarismo. Per lui i totalitarismi nazista, comunista, fascista, trovavano la loro origine storico-politica nella prima guerra mondiale, che considerava lo spartiacque della crisi della modernità e quindi della civiltà europea. Va tuttavia tenuto presente che, per quanto critico con le linee-guida della civiltà europea, non parlava di “tramonto dell’occidente” in senso spengleriano, cioè di ineluttabile fine di una civiltà, ma appunto di “crisi”, cioè di necessità di ripensare questa stessa civilizzazione e soprattutto il ruolo in essa assunto dallo stato-nazione, che sempre più era per lui anche “stato-fabbrica” e soprattutto “stato-mito”. Era convinto che il mito dello stato fosse l’elemento che accomunava la dittatura di Mussolini, la statocrazia di Stalin e il “terzo impero” di Hitler, e che, appunto per questo, rimanesse il pericolo maggiore che il Ventesimo secolo doveva affrontare. Per Chiaromonte questa mitizzazione dello stato affondava le sue radici nella modernità stessa, nella crisi da questa aperta, che per lui significava soprattutto crisi della coscienza religiosa. Proprio per questo far coincidere modernità e crisi della coscienza religiosa Nicola apprezzava moltissimo Proudhon. Oltre a concordare con molte delle sue idee sul federalismo e sulla socializzazione libertaria dell’economia, riteneva infatti che Proudhon fosse il pensatore che per primo aveva capito che la vera rivoluzione moderna non era stata tanto lo sviluppo industriale, ma il processo di secolarizzazione che, distruggendo la coscienza religiosa, metteva in discussione la base stessa della società e preparava la decomposizione della civiltà europea e la distruzione della società da parte dello stato-nazione.

\r La questione della religiosità fu un altro tema attorno a cui Nicola meditò sempre -aveva, fra l’altro, un fratello gesuita. Affermava che dire: “Dio esiste” è altrettanto stupido che dire: “Dio non esiste” ed era quasi ossessionato dal problema di un “piano teleologico” che determinasse gli esseri umani senza che essi potessero comprenderlo. La sua era, e lo si vede in moltissimi scritti, una specie di “religiosità laica” che per certi aspetti lo avvicinava a Simone Weil, che amava moltissimo, o a Bernanos. Comunque, rispetto alla religione e alla Chiesa mantenne sempre un atteggiamento critico, che però non sfociò mai in un laicismo aprioristico. Da una parte, infatti, difese il Papa quando questi fu accusato di essere responsabile dell’Olocausto e polemizzò con il laicismo radicale di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che lui riteneva totalmente estraneo alla realtà e alla cultura italiana, mentre, dall’altra, polemizzò duramente con gli aspetti deteriori della tradizione cattolica, in particolare contro l’Italia della Controriforma, che dopo i trionfi fascisti si avviava a continuare indenne la sua lunghissima storia. Il senso della sua polemica è per me rappresentato da un passo di uno scritto intitolato Il gesuita, in cui dice che a Roma si possono incontrare gesuiti e cinici, ma non c’è posto per gli eretici.

\r La sua polemica con lo “stato-mito” lo rendeva consapevolmente un libertario?

\r Si considerava un libertario, era consapevole che quel che pensava lo avvicinava ai movimenti e alle correnti libertarie, e credo sia stato uno dei libertari più acuti, più intelligenti, del nostro tempo.

\r Il pensiero libertario italiano del Novecento ha avuto certo grossi personaggi, come Malatesta o Berneri, ma Chiaromonte, che dopo la guerra di Spagna non aderì più ad alcun partito o movimento politico, era intellettualmente più attrezzato di loro, più capace di cogliere le grandi questioni poste da questo secolo.

\r \r Nicola si sentiva vicino alla tradizione socialista non marxista, soprattutto a Goodwin, Paine, Saint-Simon, Proudhon, Herzen, un altro autore che ammirava tantissimo. Va inoltre detto che, nonostante le accuse di cui fu oggetto da parte del Partito Comunista, Nicola era antistalinista, non anticomunista. Non amava Marx e il marxismo e pensava che il comunismo si sarebbe veramente potuto fare soltanto in comunità religiose, ma non era pregiudizialmente un anticomunista. Concordava con molte delle posizioni della sinistra socialista, con la critica di Rosa Luxemburg, e non era pregiudizialmente nemmeno un antisovietico. Non a caso faceva risalire la degenerazione della rivoluzione sovietica all’attacco che questa dovette subire da parte delle potenze occidentali nel ’18-’19. Era convinto che fosse stato questo attacco alla neonata repubblica dei soviet e l’isolamento che ad esso era seguito ad innescare il processo che portò prima all’autoritarismo leninista e poi allo stalinismo. Alcuni dei suoi migliori amici, poi, erano, o divennero, comunisti: con Mario Levi fu sempre in rapporti fraterni, nonostante quest’ultimo avesse aderito al Partito Comunista Francese e sia morto comunista francese, così come fu sempre amicissimo di Moravia. A questo proposito ricordo che, nei primi anni Sessanta, quando gli dissi che a Milano, dove allora lavoravo, viveva con me Valentin Gonzales, “il Campesino” (il contadino, ndr), volle a tutti i costi conoscerlo. Il “Campesino” durante la guerra di Spagna era stato un leggendario comandante comunista, poi scappò in Russia, dove venne fatto generale dell’Armata Rossa, ma dopo la seconda guerra mondiale cadde in disgrazia e venne mandato in un campo di lavoro, da cui riuscì a scappare tornando in Occidente. Nel periodo di cui stiamo parlando “il Campesino” aveva appena scritto La vie et la mort en Russie, pubblicato in Francia con una prefazione di Julian Gorkin, direttore di Tribuna obrera, organo di quel che rimaneva del Poum (il piccolo partito della sinistra comunista massacrato dai comunisti di osservanza sovietica durante al guerra di Spagna) e aveva rotto completamente col mondo comunista filosovietico.

\r L’incontro di Nicola col “Campesino” fu emozionante, fu un confronto sulla Spagna fra due reduci che ancora avevano quegli avvenimenti nel cuore, che ancora sentivano “la follia della Spagna”, come la chiamava Nicola. Ovviamente si finì per parlare del ruolo che in Spagna ebbero i comunisti, e soprattutto Togliatti. Da quanto emerse in quella conversazione commovente ho poi ricavato il saggio Togliatti in Spagna, che fu pubblicato su Tempo presente e che mi valse per molti anni l’odio degli stalinisti.

\r Critico radicale del bolscevismo era ugualmente nemico della “plutocrazia” americana, anche se non lo era per principio, come succedeva, e ancora succede, all’antiamericanismo di molti marxisti.

\r A lui dell’America non piaceva soprattutto la cultura di massa e il modo di fare politica che là si erano imposti, ma tutto ciò non lo portava a demonizzare gli Stati Uniti. Fu molto critico verso l’intervento statunitense in Vietnam -le pagine di Tempo presente, che fra gli altri ospitò un saggio di fuoco di Mary McCarthy, lo documentano- non per ragioni moralistiche, ma perché sentiva che era spropositato, che era un errore strategico, ed infatti finì come è finita.

\r Anche rispetto alla situazione italiana era tutto sommato un isolato, a parte una certa consonanza con i redattori e collaboratori di Tempo presente. Come ho detto, collaborava col Mondo di Pannunzio, che era un po’ il portavoce della sinistra laica, non comunista, ma era critico anche rispetto ad esso. Sentiva come un vestito stretto gli editoriali di Pannunzio, che considerava troppo tatticista per ragioni politiche, troppo legato e condizionato da La Malfa e da Ernesto Rossi, dai prodromi del centrosinistra e dalla logica dell’”arco costituzionale”, che considerava fumosa. Fu non a caso il primo a dirmi, molti anni prima del “revisionismo” di De Felice, che la Resistenza era stata esaltata in modo retorico. Sottolineava che prima del 1943 l’intelligence inglese in Italia non riusciva a trovare contatti e diceva che la Resistenza non ci sarebbe stata senza l’avanzata delle armate alleate.

\r Riguardo alla situazione italiana, a quella che lui chiamava la “democrazia cifrata”, c’è un suo saggio, intitolato Uno Stato fuorilegge, in cui la sua critica all’apparato di potere è feroce, perché vi è una “oppressione burocratica di tipo orientale sulla società civile italiana” e non risparmia nemmeno la magistratura, che definisce una “casta di mandarini con automatismo di stipendio”. Per dare un’idea di che tipo di intellettuale fosse può valere quanto mi disse Montanelli a proposito di Silone e Chiaromonte: “Persone molto più serie di me, ma in definitiva, considerando quello che sono gli italiani, ho avuto ragione io”.

\r Quale era il progetto che stava alla base di Tempo presente, la rivista fondata da Chiaromonte con Ignazio Silone?

\r Il progetto che la animava era essenzialmente culturale -c’era una grande attenzione ai temi della cultura in generale, fra gli altri ci scrivevano Quinzio, Flaiano, Arbasino, il giovane Mario Perniola- e nacque per dare voce a quella parte della cultura italiana che non si era sottomessa alle chiese cattolica e comunista, ed infatti dalla cultura ufficiale dell’epoca fu sempre considerata con sospetto, emarginata. Gustaw Herling, un altro importante collaboratore della rivista, ricorda: “Ci consideravano dei lebbrosi”.

\r In questa impronta culturale si rifletteva l’impostazione di Chiaromonte (i cui rapporti con Silone non furono privi di contrasti ed ambiguità, soprattutto perché Nicola pensava che Silone fosse troppo tatticista e un po’ arrivista), che non credeva più nella politica e pensava che, se una trasformazione era da aspettarsi, lo era solo in quanto si riusciva a fare emergere nella cultura e dalla cultura degli aspetti nuovi, non conformisti rispetto alla logica clericale, da una parte, e al marxismo dall’altra.

\r In questa volontà di dare voce alla cultura non conformista Tempo Presente trovò il suo filo rosso nella difesa e nella valorizzazione del dissenso nei paesi del totalitarismo comunista. Difese Pasternak, Solzenicyn, Sinjavskj, pubblicò le memorie di Nadezda Mandel’stam, diede conto della rivoluzione ungherese pubblicando saggi ed articoli sia di ungheresi esuli che di altri residenti a Budapest, altrettanto fece poi con la Primavera di Praga. C’era in Tempo presente una predisposizione al dissenso e all’opposizione alla politica sistematica che la affratellava a riviste come Survey e Encounter a Londra, Der Monat a Berlino, Preuve a Parigi, Politcs a New York, con cui si scambiavano articoli e collaborazioni. Tempo presente, fra l’altro, fu la prima rivista italiana a pubblicare saggi e articoli di Hannah Arendt, Mary McCarthy, Dwight McDonald, grazie all’amicizia che c’era fra questi e Nicola.

\r Con Tempo presente Chiaromonte ebbe modo di dare visibilità a tutti gli aspetti della sua ricerca, dalle riflessioni sui limiti del linguaggio e sulla filosofia alle riflessioni sull’arte. Era affascinato dall’intreccio fra politica ed arte e pensava che l’arte con la maiuscola non potesse che essere mezzo di cultura attiva, coscienza, ammaestramento a vedere, mentre diceva che, dopo il Rinascimento, l’arte era stata spesso concepita, anche dagli artisti, come una fabbrica di bambocci, neutra quanto ai significati e ai valori della vita.

\r Da questo intreccio nasceva il suo interesse per il teatro e per il cinema, anche se, dopo aver molto amato il cinema degli anni Trenta -cioè il cinema della fase romantica, eroica, registi come Pabst o Eisenstein- col passare degli anni se ne distaccò perché considerò che fosse divenuto un fenomeno sempre più industriale, un aspetto della cultura di massa e della meccanizzazione del mondo moderno.

\r Come critico teatrale era per certi versi un “critico militante” -di lui Carmelo Bene, ha detto che era “l’unico critico che capisse davvero il teatro e la situazione drammatica”- e si lamentava molto della mancanza, a parte Pirandello, di un autentico teatro italiano, la qual cosa per lui significava l’incapacità della società italiana d’interrogarsi, di guardarsi allo specchio, di mettersi in discussione. Era poi furioso con il teatro sovvenzionato, con i funzionari del Ministero del Turismo e dello Spettacolo che spesso gli telefonavano per lamentarsi di quello che aveva scritto o per raccomandare Tizio o Sempronio.

\r Dicevi prima della sua amicizia con Moravia, Camus, Malraux…

\r Con Moravia erano amici fin da giovanissimi -come ho detto fu Moravia a presentare Caffi a Chiaromonte- e rimasero sempre amici, anche se non mancarono fra loro polemiche e scontri. Chiaromonte stimava moltissimo Moravia, ne apprezzava la grande intelligenza e la qualità di scrittore -pensava, fra l’altro, che con La noia avesse forse scritto le migliori pagine della letteratura di questo secolo sull’atto sessuale-, e avrebbe voluto che Moravia esercitasse il ruolo che Camus aveva esercitato nella cultura francese, mentre dissentiva profondamente da lui per le ambiguità che a suo parere Moravia dimostrava sul problema della libertà nel mondo dell’Est, sull’Urss e la Cina, come anche nei confronti del Pci e dell’industria culturale.

\r Con Camus, invece, questi problemi non c’erano. Nicola ammirava Camus sin da quando si erano conosciuti ad Algeri e con lui sentì sempre una profonda consonanza. Pensava non solo che Camus fosse un grande scrittore e un grande artista, ma che fosse soprattutto un grande uomo di pensiero e un simbolo per il suo esistenzialismo, non dichiarato ma vissuto, per le sue posizioni ferme, per la sua integrità morale, per il suo essere coscienza critica nei confronti della deriva nichilista del mondo contemporaneo e del totalitarismo. Per questo Nicola vide subito la differenza fra Camus e Sartre, che pure apprezzava come filosofo, ma a cui non perdonava il tatticismo, l’inchinarsi alle logiche della politica.

\r Con Malraux, invece, l’amicizia fu meno profonda che con Camus o Moravia, anche se si conobbero bene, visto che avevano combattuto insieme in Spagna.

\r L’amicizia con Malraux si raffreddò quando questi diventò ministro della cultura di De Gaulle. Chiaromonte pensava che Malraux si fosse come “acquattato” su De Gaulle e che per questo De Gaulle lo avesse premiato. In un certo senso riteneva che questo fosse un po’ il destino di Malraux. Di André Malraux, che riteneva un grande testimone del nostro tempo, lo affascinava il totale disincanto e il “demone dell’azione” che sembrava animarlo, il suo “agire senza credere”. Proprio in questa chiave analizzò in un saggio molto bello, Malraux e il demone dell’azione, tutta la sua attività culturale, letteraria, politica, e questo molto prima che il maggior biografo di Malraux, cioè il teorico della postmodernità François Lyotard, indicasse proprio in questo demone la “cifra” dell’”enigma Malraux”.

\r Nonostante il suo porsi contro le chiese cattolica e marxista e per un pensiero non conformista, Chiaromonte non fu tuttavia un entusiasta del ’68…

\r Chiaromonte non è stato un “filosessantottino”, ma non è stato neppure un nemico del ’68, almeno di quello che conobbe, visto che nel ’72 morì. Secondo lui non si poteva parlare di un “Sessantotto” perché le ragioni dei giovani che nell’Est, nei paesi comunisti, contestavano l’oppressione della dittatura erano diverse dalla contestazione di Berkeley e questa era a sua volta diversa da quella in Germania, in Francia o in Italia.

\r Appoggiava quasi incondizionatamente la rivolta dei giovani nell’est europeo e diceva che i giovani di Berkeley facevano bene a battersi contro la guerra nel Vietnam, così come riconosceva che in Italia i giovani avevano ragione nel pretendere un sistema universitario migliore, ma non approvava la “contestazione globale” perché sosteneva che se si contesta tutto si finisce col non contestare nulla.

\r Riteneva che nella rabbia dei giovani ci fosse soprattutto il disprezzo per una classe dirigente odiosa e per una politica che altro non era che “burocratismo di tipo zarista sulla società civile italiana”, ma secondo lui, ed è questo uno dei motivi della sua critica al ’68, l’ammutinamento degli studenti italiani aveva preso subito l’aspetto di una confusione tumultuosa sia nelle idee che negli atti, e questo era per lui inaccettabile, anche perché rifiutava l’idea che i giovani avessero ragione solo perché erano giovani.

\r Pensava che i nati dopo il 1940 si fossero trovati a vivere in una società che non poneva né meritava rispetto e contro questa mancanza di autorità da rispettare, contro questa assenza di guida morale, i giovani si ribellassero in una rivolta che esprimeva anche l’esigenza di avere un’autorità in cui riconoscersi, una disciplina a cui affidarsi, cosa che non c’era e che l’Occidente, non solo l’Italia, non era in condizioni di dare.

\r A quei tempi scriveva: “Il compito veramente storico dei nostri tempi, quello che merita e richiede l’entusiasmo di un giovane, è la ricostruzione della società devastata dalla forza e accasciata dalla soggezione alla forza. E’ un’opera questa che comincia necessariamente dall’esempio personale. Secondo Simone Weil tra le esigenze essenziali dell’anima vi sono la libertà insieme all’ordine, l’ubbidienza insieme alla responsabilità, l’uguaglianza insieme alla gerarchia, mentre la società contemporanea, oppressiva e permissiva, conformista e senza valori, è fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva. E’ contro questa mostruosità che i giovani si sono ribellati”.

\r Pensava anche che i miti esotici dei giovani di allora -Che Guevara, Ho Chi Minh, Mao Tze Tung- fossero per natura vacui o totalitari e portassero alla demagogia di massa e all’autoritarismo tecnocratico più o meno ammantato di ideologia. Non a caso presagiva la deriva terroristica che contribuì ad affossare i movimenti nati nel ’68. All’opposto del militantismo imperante in quel periodo,

Da . www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=183

Nicola Chiaromonte

La nuova sinistra

Tratto da «Tempo Presente», settembre-ottobre 1967

Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

In realtà, un’opinione di sinistra inorganica e fluttuante esisteva fin dall’immediato dopoguerra. Pochi di quelli che aderirono al partito comunista durante la guerra e dopo, e nessuno di quelli che gravitarono intorno al medesimo partito negli stessi anni, erano comunisti. Comunisti erano i dirigenti e i funzionari, mentre la massa operaia, tutto sommato, rimaneva nel solco della tradizione socialista; ma comunisti non erano certo i molti compagni di strada, simpatizzanti, anti-anticomunisti e intellettuali marxisteggianti che fecero, fino al 1956 circa, la fortuna e il prestigio dei partiti comunisti. Erano, quelli, i seguaci approssimativi e confusionari di un’estrema sinistra di fantasia che si mettevano dalla parte del comunismo sia perché ritenevano doveroso aggregarsi alla marcia della Storia, sia perché credevano di trovare lì quello che non si trovava da nessun’altra parte politica: l’Idea, più l’efficienza.

Esisteva, fin da allora, una sinistra indefinita e mollemente eretica; anzi, si può ben dire che la sinistra era quella: del nucleo duro del comunismo ufficiale si cercava d’ignorare l’esistenza, ed esso stesso si camuffava in varie fogge. Ma, da tre o quattro anni a questa parte, è venuta formandosi una corrente d’opinione politica la quale non solo è completamente fuori da ogni partito, ma sfugge anche a ogni definizione ideologica chiara. Negli Stati Uniti, ha preso il nome di «nuova sinistra».

S’è formata, questa «nuova sinistra», per dato e fatto della politica americana: a essere esatti, in seguito alla guerra del Vietnam. Negli Stati Uniti, il movimento degli studenti dell’Università di Berkeley (ormai disperso) prese forza dalla ripugnanza per quella guerra, oltre che dal desiderio di agire -e non soltanto parlare- in favore dell’eguaglianza civile della popolazione negra. Anche in Europa, la guerra del Vietnam ha fatto cristallizzare, specie fra i più giovani, una corrente (o meglio si direbbe: uno stato) d’opinione le cui componenti sono abbastanza ovvie: antiamericanismo considerato sinonimo di anticapitalismo (e di antimperialismo); anticapitalismo inteso come rifiuto di quella che si usa chiamare «civiltà dei consumi» ed è concepita come l’ultimo stadio della degradazione della società borghese occidentale, la quale società sarebbe destinata a esser spazzata via dalla rivolta delle genti di colore o comunque vittime dell’imperialismo, Cina e Cuba in testa, Paesi dell’America latina e dell’Africa al seguito, magari con l’aggiunta degli arabi, vittime del colonialismo israeliano.

Questa sequela di tesi, nella quale si possono facilmente distinguere le influenze di J. P. Sartre e di Frantz Fanon, ma che in sostanza rappresenta una specie di riduzione all’estremo di taluni concetti che chiameremo marxisti tanto per intenderci, non costituisce certo un corpo di dottrine. Non varrebbe la pena di discuterla se non fossero in massima parte dei giovani a propugnarla e se, d’altro canto, il campo della politica offrisse attualmente a questi giovani altre e migliori indicazioni per manifestare l’insofferenza per il presente, lo sdegno per l’ingiustizia e il disgusto per la falsità che sono le passioni diremmo doverose della gioventù.

La questione potrebbe finire qui: con la constatazione che i fatti giustificano il ribellismo, sia pure incoerente, di questi giovani e che, visto che nessuno sa offrir loro un ideale politico più valido, è naturale che essi si servano di quello che son riusciti a fabbricarsi con i relitti e residui delle idee che hanno ereditato dai loro padri e fratelli maggiori.Ma non può finir qui, la questione. Per confusionari che siano, questi giovani vanno presi sul serio, e l’unico modo di non prenderli in giro è quello di trattarli da pari a pari, discutere le loro idee senza indulgenza né disprezzo.

Ora, il fatto è che le idee della «nuova sinistra» non peccano tanto per incoerenza quanto perché rappresentano un tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui si dibatte da decenni la sinistra europea spingendo all’assurdo precisamente le tendenze che l’hanno portata nel vicolo cieco medesimo. Il che vale quanto dire che le idee della «nuova sinistra» non sono in realtà né un ripensamento delle idee socialiste o libertarie né un nudo, crudo e pragmatico piano d’azione, ma una mera operazione cerebrale: letteralmente, un sogno a soggetto politico, il quale può diventare tema di discorsi, e magari anche di libri, ma non per questo esce dall’irrealtà intrinseca che lo distingue. Giacché questi giovani e meno giovani aderenti della «nuova sinistra» non devono immaginare di essere i soli a riconoscere le ingiustizie, brutture, brutalità e insensatezze del mondo in cui viviamo. Che la guerra del Vietnam, per esempio, è orribile e assurda lo sanno anche i più alti dignitari del mondo cosiddetto «capitalista»: lo sa anche il Papa, oltre a saperlo la gente della sinistra vecchia e nuova. Il problema, per il Vietnam come per la questione dei negri e per le altre, è in qual modo efficace l’opinione contraria possa farsi valere. Ed è a questo punto che la «nuova sinistra» fugge per la tangente della rabbia, e proclama la guerra santa contro gli Stati Uniti o, per esser precisi, applaude alla guerriglia e alle sommosse razziali.

La nuova sinistra, cioè, non riconosce le cause, anzi la causa, da cui essa stessa ha origine. La quale non è la perversità dei governi o la pusillanimità dei socialdemocratici, ma l’impotenza apparentemente irrimediabile dell’opposizione, di ogni opposizione, nell’attuale condizione del corpo politico. È dall’esasperazione per l’apparente paralisi della politica interna (ossia della vita politica essa stessa) che nasce lo stato d’animo della «nuova sinistra». Ma quando poi si tratta di rispondere alle questioni di politica interna, tutto quel che essa sa produrre è o una surenchère massimalista sulla politica governativa o l’evasione nella politica estera.

Il fatto invece è che, in Europa come negli Stati Uniti, la questione cruciale oggi non è affatto quali scopi si debbano opporre alla politica governativa: in genere, basta mettere al negativo la politica del governo per avere un eccellente programma d’opposizione. Il problema è come fare perché il programma dell’opposizione diventi una politica: insomma, come fare perché, nelle attuali condizioni della società industriale, ci sia una vita politica e non soltanto delle decisioni che scendono dall’alto dopo esser state combinate negli altissimi consessi dei tecnici e dei burocrati, negli uffici di partito e nelle lobbies dei gruppi di potere.

Finché non si risolve questo problema, l’opposizione, ribellista o meno, rimarrà un fatto verbale e un sogno rabbioso. Verbo per verbo e sogno per sogno, tanto varrebbe allora ragionare sui dati elementari della situazione, mettendo fra parentesi ogni presupposto ideologico.

Ora, il dato più elementare della situazione è che l’attuale società industriale ammette in teoria prosperità quanta se ne vuole, e in più una grande e quasi illimitata libertà d’indifferenza (della quale anzi ha strettamente bisogno per funzionare); ma, quanto alla libertà politica in senso proprio, essa è tutta da restaurare: i meccanismi burocratici e tecnici l’hanno esautorata. Ora, la libertà politica non è un bisogno di massa, benché, senza libertà politica, tutto quel che le masse possono sperare è una porzione congrua di beni di consumo; di giustizia è inutile parlare; e, quanto alla pace, dipende dai calcoli geopolitici e strategici.

Dal che discende che la restaurazione della libertà politica (che poi è quanto dire di una vita politica reale e non cifrata) è oggi inevitabilmente compito di una minoranza di volontari, ed esige molta più risolutezza e tenacia che non ne occorra per propugnare la guerriglia in Paesi lontani.

Ma questo non è lavoro che si possa esigere dai giovani della «nuova sinistra». Dai padri e dai fratelli maggiori, essi hanno appreso a correr dritto alle conclusioni, non a esaminare le premesse; hanno appreso ad ammirare e seguire chi agisce in modo spettacolare, non chi ragiona; hanno imparato che il mondo è quello che è e bisogna prenderlo per quello che è, non sognarne un altro che non esiste. E allora, quando si trovano dinanzi a una realtà che non li soddisfa, non possono fare altro che decidere verbalmente in favore del più estremo e del più violento. Dunque si schierano con Mao Tse e con Guevara. A parole, s’intende. Infatti, oggi, un giovane europeo ribelle che cos’altro può fare se non dire di essere in favore della rivoluzione culturale in Cina e della guerriglia in America latina, nonché magari nelle città degli Stati Uniti, secondo predica Stokely Carmichael[1]? Non troverà neppure contraddittorio, un tal giovane, dopo aver detto cose simili, marciare per la pace e contro la bomba atomica. Quanto all’effetto di un tal dire, c’è la soddisfazione di sentirsi dalla parte non solo della giustizia, ma anche della potenza (nel caso della Cina) e della violenza avventurosa (in quello dei guerriglieri castristi).

In ultima analisi è il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di «nuova sinistra». E, con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciata nel 1914, si chiude.

Giacché è come rivolta contro la potenza e la violenza che la «sinistra» liberale, democratica e socialista nacque, in Europa. Anche se portò sempre in sé un certo culto romantico dell’azione violenta, il movimento libertario e socialista del secolo scorso rimase sempre, nel fondo, pacifico e pacifista. Il culto dell’azione e dell’eroe guerriero, liberali, democratici e socialisti lo lasciarono sempre ai reazionari, ai militaristi, ai nazionalisti. La cosa diventò più che chiara col fascismo e col nazismo. Ma la seconda guerra mondiale (senza parlare di ciò che l’aveva preceduta, in Russia e altrove) non scatenò soltanto la bestialità hitleriana, bensì dappertutto e in tutti (tranne un’infima minoranza) la convinzione «realista» che nulla, nella storia, si ottiene senza violenza e, per converso, con la violenza bene organizzata si ottiene tutto.

Questo è il punto a cui siamo. A questi princìpi sta tornando, sotto specie di perfetta tecnicità, la società organizzata. Ma c’è da notare che, nel frattempo, i mezzi di far violenza sono diventati, più che efficaci, assoluti, e sono proprietà esclusiva dei ricchi e dei forti. Sicché l’appello alla violenza per il supposto riscatto dei deboli oppressi non può avere da ultimo altro risultato che di rafforzare i potenti. È quindi condannato a fallire, non foss’altro che perché si riduce ad affrontare l’avversario sul terreno sul quale esso è più forte, tattica sbagliata anche in termini guerreschi.

 

 

Nicola Chiaromonte

Prigioni in Spagna

Pubblicato in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell’altra tradizione, 1, Una Città, 2002

I viaggi sono ridiventati molto lunghi. Ero in America da otto mesi e questa donna non era ancora arrivata. Eppure aveva lasciato la Francia con suo marito molto prima di me. Mi ricordo di lei con amicizia perché a Tours, poche ore prima dell’arrivo dei Tedeschi, fu lei a trovare un posto in un’auto per un amico ammalato, aprendosi un varco nella mischia delle macchine e delle persone a piedi che lasciavano la città, fermando le macchine al volo, gridando, imprecando, litigando con le persone con questa specie di energia assurda che solo le donne sono ancora capaci di conservare quando gli uomini vedono ragioni solo per la calma del fatalismo. L’ho incontrata qualche giorno fa in un “Caffè Viennese” della 72° Strada, da sola.

Ero contentissimo di rivederla. Ogni volta che si ritrova da questa parte una persona che viene da oltre oceano, si ha l’impressione che finalmente la vita riprenda come prima. Non è vero. Mi ha sorriso con la stessa intensità ed evidentemente con la stessa illusione.

«Sono così contento di rivederla. E suo marito?»

«In Germania. Gli Spagnoli ci hanno arrestato alla frontiera. Siamo rimasti sei mesi in prigione. Un giorno hanno portato Friedrich a Hendaye. L’ho saputo una settimana dopo». Insieme con l’imbarazzo, ho provato una sorta di gelosia. Avevo conosciuto solo la prigione di Marsiglia. Non si finisce mai di essere snob. Questa amica di un giorno di giugno del 1940 si è messa allora a raccontare. Raccontando, tirava fuori dalla borsa ogni sorta di carte, foto, piccoli oggetti: prove, souvenir, i bigliettini scambiati col marito in prigione, la foto di una compagna di cella, lo specchio e il pettine e il tubetto di rossetto che era riuscita a tenere durante la prigionia. Ero sorpreso dal tono del suo racconto: raccontava quasi alla terza persona come se si fosse trattato di un’altra persona conosciuta benissimo tempo fa ma che si comincia a dimenticare. Anche parlando di suo marito, era stranamente apatica. Avevo la sensazione di parlare a qualcuno ormai convinto che la fatalità esiste.

«Lei conosce queste storie di consolati, di visti, di permessi, di timbri, di biglietti di passaggio. A un certo punto, con mio marito, decidemmo che il fatto di avere il visto americano, il visto di transito spagnolo, e il visto portoghese fosse sufficiente. Passammo a piedi la frontiera franco-spagnola in direzione di Figueras. Trovammo Figueras, ma non il posto di dogana. Ci mettemmo a cercarlo affinché i nostri passaporti venissero debitamente timbrati. Fu allora che ci avvicinarono dei poliziotti in uniforme, molto cortesi, molto miti, che ci dissero: “Ma sì, naturalmente, è semplicissimo. Dateci i vostri documenti, vedremo”. Uno di loro restò con noi, un giovane uomo gentilissimo ma poco loquace, che insistette perché andassimo a cena in un certo ristorante. Lo seguimmo. Era buio. Figueras è una cittadina di 16 mila abitanti, che porta ancora le tracce della guerra: case demolite, facciate screpolate e crivellate di proiettili. Hanno lasciato tutto com’era. Tutto in una semi-oscurità. A Figueras c’è solo la prigione a essere illuminata, a giorno, dai fari. E’ molto strano: una specie di pubblicità. Questa luce la si vede dappertutto».

«Nel ristorante, c’era una cameriera bella come la “bellezza spagnola” dei film. Il nostro poliziotto le rivolgeva dei complimenti, le chiedeva quando si sarebbe decisa a sposarlo, e lei rispondeva con sorrisi e piccoli gesti divertiti. Sembrava che ci fosse una specie di “fiesta” quella sera a Figueras: una celebrazione militare e nazionalista, qualche cosa di importante, non so più a proposito di cosa – il 3 ottobre. Cosa poteva essere?»

«El Dia de la Rosa probabilmente, il “Columbus Day” visto dall’altra parte».

«Bene, così, per dire qualcosa, chiesi alla graziosa ragazza se avesse intenzione di andare. Rispose molto tranquillamente: “No, non usciamo per questo”. Non c’era gran che da mangiare, i clienti non erano numerosi. Chiedemmo alla nostra guida se credeva fosse tempo di andare a prendere i nostri documenti. Apparve seccato, ma disse che ci accompagnava a vedere. Per strada, cambiò idea. Disse che sarebbe andato da solo, e che potevamo aspettarlo in un caffè. Sempre gentilissimo, ma allo stesso tempo molto evasivo. Nel caffè, mentre beveva un anice, mio marito mi disse: “Ho come l’impressione che sarebbe meglio tagliare la corda e tentare di tornare in Francia”. Ma ci avevano preso tutti i documenti: dove trovare il coraggio di abbandonare il visto americano? L’osservazione di Friedrich mi fece preoccupare. Provavo il bisogno di mettermi a spiegare la nostra situazione alla padrona, una donna magra e triste, di età incerta. Ascoltò e rispose con due parole e un gesto: “Mio marito” e il gesto delle sbarre fatto incrociando le dita fra loro».

«Fu in quel momento che il giovane poliziotto tornò. Aveva, nei nostri confronti, l’aria personalmente soddisfatta di prima, ma un po’ più evasiva e distante: “Bisogna che veniate al posto di polizia. Chiedono delle spiegazioni”. Lo seguimmo, molto preoccupati. Se ne accorse e disse: “Oh, non sarà niente”. Al posto di polizia, ci fecero ogni sorta di domande, e infine ci dissero che erano costretti a chiedere istruzioni a Madrid prima di lasciarci liberi. Può immaginare come abbiamo cercato di protestare: dopo tutto, per la Spagna, i nostri documenti erano in regola, eccetera – rimostranze giuridiche, genere S.J.N. Siamo proprio contaminati da abitudini borghesi per non capire immediatamente che quando si viene afferrati da questo genere di meccanismi, non ce la si può cavare con scaltrezze da avvocato; ormai si entra nella zona dell’arbitrario, della fortuna, del miracolo – e nel caso di un’eventuale lotta, i mezzi da usare in ogni caso sono ben altri. La cosa migliore forse è accettare passivamente fino a che non si capiscono le regole del gioco e non si scorge il punto debole dell’ingranaggio».

«Così, facemmo il nostro ingresso nella prigione di Figueras. E’ – gliel’ho detto – un edificio immerso nella luce. Si entra attraverso tre mura di cinta concentriche – e ogni cinta è violentemente illuminata da fari potentissimi. E’ per impedire le evasioni». «Ai tempi dei “rossi”, durante la guerra, c’erano 80 prigionieri in questa prigione. Quando ci entrammo ce n’erano 750 – e non erano i soli; anche “El Castillo”, una vecchia costruzione del XVIII secolo, era stata trasformata in prigione. Ma là c’erano solo uomini. Inoltre, molte delle persone di Figueras venivano mandate nella grande prigione di Gerona. Così mi hanno detto. Figueras conta 16 mila abitanti. Credo non sia esagerato dire che, degli abitanti di Figueras, uno su dieci vive in prigione».

«Non ero mai stata in prigione. La cosa tremenda, il vero incubo, era la sporcizia. Avevo sentito parlare dei soldati nelle trincee durante l’altra guerra, e dei parassiti che facevano camminare le camicie da sole non appena i soldati se le toglievano di dosso. Naturalmente, credevo fosse una metafora. Ma la biancheria che lavavamo e mettevamo ad asciugare nel cortile della prigione di Figueras, la riprendevamo poi coperta di pidocchi perché le prigioniere restavano appoggiate ai muri la maggior parte del tempo e là le bestie viaggiavano. Nel cortile stavamo all’aria aperta. Ma cosa c’era nella sala comune in cui sono rimasta tre mesi, lei non può immaginarlo. La maggior parte delle mie compagne erano delle politiche. Ma per tutto il tempo c’era un andirivieni di mendicanti, zingare, prostitute miserabili. Molte di loro erano spossate, inebetite, affamate, si facevano arrestare apposta per avere qualcosa da mangiare – le dirò poi cosa. Si buttavano sul loro giaciglio e non si spostavano di là per nessuna ragione o necessità. Al mattino dovevamo pulire la sala e i gabinetti. Era talmente disgustoso. Ci provavo due o tre volte e poi offrivo dei soldi perché qualcuno lo facesse al posto mio: non ci resistevo».

«In queste condizioni, il meno che potesse capitare era la scabbia. Non c’era infermeria, né visita medica, né alcun tipo di farmacia. Ma per lottare contro i pidocchi una volta la guardia si decise a far tagliare i capelli a due prostitute talmente sporche che pure le zingare ne erano rimaste disgustate e avevano protestato. Contro la scabbia, davano una specie di liquido giallastro che bruciava la pelle e causava un’altra specie di eczema. Un giorno decisero di vaccinarci contro il tifo, e ci fecero l’iniezione: tutte in fila e lo stesso ago per tutte, senza alcool né niente. Era il genere di cose che spaventava di più, me e le altre donne straniere. Le spagnole non si preoccupavano di niente, convinte com’erano che si può morire per una cosa come per un’altra».

«In effetti, le persone morivano in quella sala: ogni mattina la guardia mi chiedeva uno specchietto che avevo conservato in una tasca e con questo strumento scrutava le bocche delle persone sdraiate. I corpi che non respiravano più venivano trasportati nei gabinetti. Li lasciavano là alcune ore e poi li portavano fuori. Quando la sala era piena, con più di 200 prigioniere, tutte le mattine trovavano uno o due cadaveri».

«Vedo che lei mi guarda. Gli orrori. Sa, quando entrai per la prima volta in quella sala, ebbi l’impressione di capire d’un tratto tutto, e altrettanto immediatamente accettai tutto. Non so come spiegarmi, ma decisi che la sola cosa da fare era restare estranea a tutto quello che poteva capitarmi e non comportarmi in modo egoista. Sono stata aiutata molto dalle mie compagne. Non tanto dalle straniere quanto dalle spagnole».

«Ad esempio c’era Maria Gracia, una maestra socialista di Gerona, condannata a trent’anni. Era in prigione dal 1939. Pure suo marito, maestro, era stato condannato all’ergastolo; era nella grande prigione di Gerona. Maria Gracia era timida e pudica come una suora. Viveva in una malinconia tranquilla e senza speranza, si interessava solo ai libri che poteva procurarsi. Quando vide arrivare in prigione tante straniere, belghe, ceche, tedesche, polacche (tutte arrestate perché mancava il timbro sui loro documenti) ebbe l’idea di imparare le lingue, e si mise a prender da ognuna dei nomi di oggetti, verbi, piccole frasi che ripeteva tre o quattro volte pregandole di correggere i suoi errori di pronuncia. Aveva un altro desiderio molto vivo – di avere alcune immagini da guardare. Voleva immagini serie, immagini di vere opere d’arte. E quando la lasciai quel che mi chiese fu di inviargliene dall’America. Come idee, era socialista. Sulla situazione presente, ecco quello che pensava: “I fascisti sono i padroni. L’Unione Sovietica ci ha traditi. Siamo socialisti, e sarebbe disonorevole aspettare la nostra salvezza dal capitalismo inglese. Per noi, non c’è speranza quindi. Ma un giorno il popolo si ribellerà di nuovo e vincerà”. Non sperava di vedere quel giorno. Ogni tanto i suoceri le portavano da Gerona i suoi due figli a farle visita. Dopo queste visite, Maria Gracia non era né più triste né più allegra. Viveva realmente e con calma nella disperazione».

«C’era anche Annucion, una donna di una quarantina d’anni condannata a sei anni. Perché sei anni – e non 15 o 30? Forse perché lei era solo una contadina, mentre Maria Gracia era un’intellettuale. Ma Concepcion e Sara, due cugine, una di 24 l’altra di 25 anni, non erano intellettuali, neanche loro. Erano delle modiste, molto incolte, che parlavano solo di ballo e di cinema, e tuttavia le avevano condannate tutte e due a 15 anni perché si sapeva che erano fidanzate a due ragazzi del partito che chiamano “trozysta”».

«Poi c’erano quelle che non erano condannate a una pena determinata e che molto semplicemente venivano tenute in prigione. Ad esempio, due donne di più di quarant’anni, tutte e due rimandate in Spagna dal governo francese. Una di loro aveva perduto il marito in Francia e un bambino di 3 anni, e non faceva che piangere tutto il giorno. Era infermiera e fu lei un giorno ad aiutare una prigioniera polacca a partorire. Fu molto difficile a causa di un’emorragia. Non avevamo niente di pulito, dovemmo fare alla poveretta una sorta di letto coi giornali, per evitare che il materasso si inondasse di sangue. Gliel’ho detto, non c’era modo di avere un medico, per nessuna ragione. Non credo fosse una crudeltà calcolata. Più probabilmente, vigeva il principio che, primo, non avendo dietro di noi alcuna potenza che potesse proteggerci, per così dire non esistevamo. Secondo, con tanti prigionieri, era già abbastanza complicato tenere in ordine le carte amministrative per preoccuparsi di questioni sanitarie».

«Del resto, le condanne inflitte ai prigionieri maschi avevano un carattere ancora più capriccioso. Friedrich mi raccontò che con lui c’era un giovane di Gerona che, per cominciare, era stato condannato a morte. La sua famiglia era abbastanza influente, avevano ottenuto la revisione del processo. E alla revisione del processo i giudici avevano commutato la pena di morte in tre mesi di prigione. Nello stesso tempo, un amico di Maria Gracia, condannato a morte, era stato dimenticato per dodici mesi nella prigione di Figueras. Poi, un giorno, erano venuti a prenderlo per condurlo a Gerona, e là, nel cortile della prigione, l’avevano infine fucilato in presenza di tutti i detenuti: “per dare l’esempio”».

«Per quel che riguarda noi stranieri, poiché avevamo voluto fuggire da Hitler, dovevamo essere tutte persone “che avevano qualcosa da nascondere”. Se non ci davano le stesse pene dei “rossi spagnoli” è perché, non essendo spagnoli, non spettava formalmente allo stato spagnolo il dovere di “darci una lezione” o di eliminarci. Ma occorreva “accertare” i nostri casi uno per uno. Questo richiedeva molto tempo, molta noncuranza, molto capriccio. Dopo tutto, non eravamo neanche dei condannati a morte»

«C’era ad esempio il caso di Erna J., una ceca di 25 anni. Era la figlia di un sarto residente in Belgio da quindici anni. Il suo fidanzato era emigrato in Argentina prima della guerra. A un certo momento Erna aveva deciso di raggiungerlo ed era partita da Bruxelles senza visto, senza passaporto, con pochissimi soldi. Dalla Francia aveva attraversato a piedi la frontiera spagnola. L’avevano arrestata. Dopo alcune settimane l’avevano mandata a Madrid, alla “Seguridad” per “accertare il suo caso”. La Seguridad l’aveva rimandata a Figueras. Dopo sei mesi di detenzione a Figueras, l’avevano fatta uscire, l’avevano portata in montagna, e le avevano detto: “Lei è libera, ritorni in Francia”. Non la trovò la Francia, si perse fra le pietre dei Pirenei e fu ritrovata dopo due giorni da un doganiere spagnolo, svenuta e mezza morta. Il doganiere la riportò a Figueras. A Figueras la dichiararono in stato d’arresto e fu di nuovo rinchiusa».

«A quel tempo, con Friedrich c’era un francese fuggito dalla Francia grazie a un passaporto spagnolo comprato da un calzolaio spagnolo di Montauban. Avevano scoperto il broglio. Il fatto è che scoprirono che nel 1934 questo calzolaio era stato condannato dai tribunali spagnoli a tre mesi di prigione per avere ingiuriato una “guardia civile”. I tre mesi di prigione li fecero fare a Morand, poi lo liberarono».

«Fra gli uomini, nella situazione più penosa c’erano quelli che la polizia francese prendeva dai campi di concentramento francesi per consegnarli alla Spagna oppure che fuggivano da soli dai campi francesi sperando di potersela cavare, una volta nel loro paese. In particolare, quelli che venivano dal campo di Argelis morivano dopo alcuni giorni di inedia».

«Non so se questo le dà un’idea di come le cose funzionavano. Per quel che riguarda me e Friedrich, eravamo continuamente sballottati fra l’idea che “dopo tutto, non c’è ragione di disperare”, e l’altra: “Ci si può aspettare di tutto”. Chiedemmo di parlare al direttore. Trovò che avevamo troppa paura; di certo c’era che un giorno o l’altro Madrid avrebbe risposto. “Dopo tutto – fu la sua conclusione – qui non state molto peggio che fuori”. In generale, era inutile rivolgersi a lui. La sua posizione era quella del tiranno che ha risolto tutti i suoi problemi, i suoi sudditi sono nell’impossibilità di nuocergli e non gli restano da risolvere che i piccoli dettagli amministrativi. Sospettavo che complicasse apposta il caso delle persone che avevano soldi, per costringerle a spenderne il più possibile nel suo istituto di pena. La famiglia di Friedrich ci aveva inviato da New York 500 dollari, e noi decidemmo di rivolgerci a un avvocato. Il direttore sollevò tutte le difficoltà del mondo alla nostra decisione, dicendoci che l’avvocato era un imbroglione, che era inutile in ogni caso, ecc. Si arrese infine alle nostre insistenze, ma evidentemente contrariato. Bisogna dire che effettivamente l’avvocato non servì a niente».

«Quei soldi ci furono molto utili per comprare qualcosa da mangiare fuori. Con la sporcizia e il freddo, la fame era il terzo supplizio. Ci davano due minestre al giorno: un mezzo litro di acqua calda con dentro alcuni oggetti indefinibili e nauseabondi, compresi mozziconi di sigaretta e insetti. In più una fetta di pane di ceci molto sottile e molto pesante. Capii molte cose della condizione umana quando vidi la folla delle detenute cominciare ad agitarsi una mezz’ora prima della distribuzione di queste materie alimentari, poi accalcarsi, impazienti, inquiete, davanti alla porta, e infine precipitarsi attorno alle pentole lottando fra loro per avere una cucchiaiata di minestra in più. Un pasto comprato fuori costava 50 pesetas. Il dollaro veniva scambiato nella proporzione di 12 pesetas per un dollaro. Così un po’ di prosciutto, del formaggio e due banane costavano da 6 a 8 dollari. C’era solo qualche straniero fra i detenuti che potesse pagarsi un tale lusso, ma non tutti i giorni ovviamente. A proposito di fame, Friedrich era considerato dai suoi compagni un signorino schizzinoso perché non mangiava le bucce delle banane».

In Francia avevo letto un articolo della Revue des deux mondes in cui si spiegava che in Spagna i prigionieri politici erano oggetto di un lavoro di “rieducazione”. E’ vero. La mattina, verso mezzogiorno, al momento della passeggiata, i prigionieri erano costretti a cantare l’inno falangista, “Cara al sol”. Le guardie erano particolarmente esigenti con gli uomini, arrivavano a far loro ripetere l’inno fino a sette o dieci volte se sbagliavano una parola o non mostravano abbastanza brio. Alla domenica questo diventava un vero concerto: bisognava cantare non solo “Cara al Sol”, ma anche “El Requete” e l’inno nazionale “Triunfa España”. Alla fine, la guardia preposta ai canti gridava: “España!”. E bisognava rispondere in coro: “Una! Grande! Libre!”».

«Al sabato veniva il prete per ricevere le confessioni dei peccatori. Era un brav’uomo di una cinquantina d’anni che non insisteva molto sulle preghiere e accettava, con un’aria mezzo burbera mezzo spaventata, di fare delle commissioni all’esterno».

«La domenica, nel pomeriggio, c’era la visita delle dame cattoliche. Ci riunivano in una sala detta “della scuola”, tutta tappezzata delle parole storiche dell’eroe nazionalista, Antonio Prima de Rivera. Là dentro, le dame non si limitavano a tenerci discorsi sulla morale cattolica e nazionale. Spingevano il loro zelo fino ad organizzare rappresentazioni teatrali edificanti che avevano per tema la vita della Vergine, di Santa Teresa e di altri santi nazionali»

«Infine, c’era un avvocato che era stato in prigione sotto la Repubblica e veniva a tenere conferenze sugli “orrori” dei Rossi. I detenuti si vendicavano come potevano, cantando in sordina parecchie volte al giorno l’inno anarchico “Hijos del Pueblo”. Nonostante il pericolo, i “non-politici” si univano a questi cori, perché il bisogno di sfogarsi era veramente molto forte. Se non si alzava troppo il tono, le guardie facevano finta di non sentire. Ma se per caso qualcuno si lasciava trascinare dalla musica, il castigo andava da 15 giorni a un mese di cella, a pane e acqua».

«In genere, l’atteggiamento delle guardie era molto strano. La loro insensibilità alle sofferenze dei prigionieri sembrava totale. Mute e sorde, vi ascoltavano senza rispondere, guardandovi senza vedervi e non si poteva ottenere da loro il più piccolo favore se non coi soldi e neanche sempre. E poi, ogni tanto, senza che si chiedesse loro niente, ci portavano delle cose da mangiare: mele, fichi secchi, olive. Sempre senza parlare, sempre con un’aria di assoluta ripugnanza: talmente assoluta che assomigliava a rabbia o a paura – mal represse».

«C’era Torrejo, il vero bruto, colui che vi rivela immediatamente il carattere della prigione. Per lui il lavoro terribile era quello di fare l’appello dei prigionieri e contarli. La paura di sbagliarsi, o di essere ingannato, e di lasciar scappare uno dei dannati lo faceva andare fuori di sé. Tutte le mattine era la stessa scena grottesca, e questo finiva la maggior parte delle volte con qualche condanna alla segreta».

«Il più strano era Salvador, un ragazzo di 19 anni, originario di Pamplona. Era ufficiale in una delle sei o sette polizie speciali create da Franco. Dicevano che suo padre era stato ucciso dai fascisti nel 1936 e che aveva simpatie segrete per i “rossi”. In ogni caso, aveva fatto carriera sotto Franco e, per essere stato nominato ufficiale così giovane, doveva certo essersi guadagnato meriti speciali. Per me, resta una specie di simbolo oscuro della sorte della gioventù negli Stati totalitari. Gli piaceva sorvegliare il canto degli inni franchisti nel cortile. Assisteva alla cerimonia con una specie di smorfia sprezzante stereotipata sul viso. Provava piacere ad ordinare di ricominciare. Questo, sicuramente non perché fosse arrabbiato nel sentir deformare quelle armonie falangiste. Ma l’assurdità della cerimonia lo affascinava, e sembrava compiacersi a renderla esasperante senza remissione. Friedrich mi raccontò che un giorno, durante questo esercizio, uno dei prigionieri più giovani era stato preso da una crisi nervosa e si era buttato a terra, singhiozzando. Sempre col suo sorriso freddo, Salvador gli si era avvicinato e, toccandolo con la punta dello stivale, senza fermarsi, gli aveva sibilato fra i denti: “Un politico che piange: non ti vergogni?”. Come un ufficiale che redarguisce un suo soldato. Ognuno doveva fare la sua parte: ai condannati toccava soffrire con dignità per l’ideale; quanto a lui, era dall’altra parte e intendeva fermamente restarci. La sola cosa che gli importava era il suo grado, perché questo rappresentava il potere, e soprattutto l’immunità. Perché la prigione lo spaventava. Le maniere da ufficiale di cavalleria che ostentava, la sua freddezza e il suo sorrisino non smettevano di evocare l’immagine dell’apprendista-acrobata che cammina sulla corda rigida, in preda alla paura di cadere. Aveva un debole per le donne e si divertiva, ad esempio, a fare irruzione nella nostra sala quando ci stavamo lavando; sempre con la stessa aria sarcastica. Restava là immobile, come un cattivo ragazzo sfacciato piuttosto che come un carceriere convinto che tutto gli sia permesso. Un giorno, esasperata, gli ho gridato: “Lei non ha il diritto di fare questo”. Mormorò una parola – “Sciocchezze” – e se ne andò. Questo genere di divertimento gli costò un mese di prigione, perché una notte si lasciò sorprendere dal sorvegliante-capo nella sala delle prostitute. Nonostante quel che si diceva, il suo atteggiamento verso i “rossi” non tradiva alcuna simpatia. Ma neanche alcun odio ideologico. Piuttosto, il suo sembrava sempre una sorta di sogghigno assurdo rivolto, in generale, a tutti coloro che avevano creduto che “ci sono delle cose che non possono succedere”. Non c’erano limiti, tutto poteva succedere, il mondo poteva uscire dai gangheri del tutto normalmente, seguendo rigorosamente la catena delle cause e degli effetti. Ciò che urtava, con lui, era il fatto che ostentasse questa convinzione con una specie di snobismo e di soddisfazione. Gli altri carcerieri che ho visto in Spagna esprimevano la stessa idea con più semplicità e arrivavano anche, di tanto in tanto, ad avere ricordi di un passato umano».

«Dopo tre mesi a Figueras, ci trasferirono, Friedrich e me, a Madrid. Facemmo il viaggio insieme. Ancora una volta parlammo di fuga e, ancora una volta, l’idea di restare senza documenti ci fermò. C’era anche la speranza imbecille che, siccome “non avevamo fatto niente”, avrebbero finito col liberarci. Arrivati a Madrid, ci separarono. Friedrich fu condotto alla prigione di Commendadores, io a Claudio Cuello, una delle due prigioni femminili della capitale, un vecchio convento».

«Una sede posta sotto l’autorità esclusiva dei falangisti, con un regolamento più duro che a Figueras, e il mangiare molto peggiore. Una sola minestra orribile e una libbra di pane al giorno, distribuiti senza alcuna regolarità, la qual cosa è molto demoralizzante quando si vive rinchiusi e affamati. Ma avevamo diritto a tre docce al mese e i locali erano puliti. Al sabato e alla domenica avevamo diritto a leggere, ma solo i libri della biblioteca della prigione. I “politici” erano separati dagli altri. Di solito, c’erano 1500 politici. Al momento dei transiti, arrivavamo a essere fino a 4 o 5 mila. Bisogna contare che a Madrid c’è un’altra prigione di donne, quella di Ventas, con più di 3 mila prigioniere».

«Dopo la perquisizione d’uso mi portarono in un’enorme sala di mattoni bianchi, molto fredda e assolutamente spoglia. “Ci si procura da fuori quello di cui si ha bisogno”, mi disse la donna in uniforme falangista che mi portò là dentro. In effetti, non c’erano giacigli né sgabelli, là dentro, e non mi avevano dato né materasso né coperta. Fui accolta da una vecchia signora che mi introdusse nella “élite” della sala. Quasi tutte le prigioniere avevano ricevuto dalle loro famiglie un materasso e delle coperte. Ma questa sala era così fredda che si erano messe d’accordo per mettere due o tre materassi uno sull’altro e dormire in due o tre nello stesso spazio ristretto. Questo aveva il vantaggio di mettere strati di lana fra il cemento ghiacciato e il corpo e, nello stesso tempo, di sfruttare il calore naturale».

«La prima notte, dormii con la vecchia signora. Era una russa che abitava in Spagna da più di 15 anni. Durante la guerra, aveva fatto l’interprete per i piloti sovietici. Passava il tempo a insegnare il tedesco, il francese e il russo alle detenute».

«E’ a Claudio Cuello che capii la prigione. Mi avevano parlato degli strani sentimenti che provano coloro che hanno passato lunghi anni in prigione: la nostalgia della cella, la tenerezza morbosa con la quale parlano dei prigionieri, i sogni che fanno di una forza misteriosa che li riconduce irresistibilmente verso il luogo delle loro pene. Ero convinta che si trattasse di cattiva letteratura. Ebbene, ora so che non solo è vero, ma naturale. So che coloro che non hanno conosciuto la prigione non conoscono in ogni caso che la metà della verità sull’esistenza. Non solo: laggiù ho fatto l’esperienza di un’immensa collettività, la collettività dei prigionieri che abbraccia un paese per tutta la sua estensione. Fra prigioni e campi di concentramento si parlava di due o tre milioni di detenuti politici. Non posso dire se è esatto, ma posso dire che ho sentito vibrare tutti i giorni una vita che abbracciava tutte le regioni della Spagna, dalla Catalogna all’Andalusia, dalla Castiglia ai Paesi Baschi. Tutti i giorni si ricevevano notizie da tutta la Spagna, dalla Spagna delle prigioni, naturalmente, perché anche le notizie da fuori erano viste unicamente in relazione agli interessi e alle speranze della comunità dei prigionieri. Si potevano seguire centinaia e migliaia di condannati da luogo a luogo, riceverne notizie, inviarne. Era come una grande centrale telegrafica. Questo si faceva tramite i prigionieri in transito, la cui preoccupazione più urgente era sempre quella di informarsi e informare, ma anche con altri mezzi innumerevoli. Queste astuzie e sottigliezze, questa prontezza ad approfittare di possibilità microscopiche, le ingegnosità infinitesimali e semplici che finiscono col produrre l’effetto dell’”inspiegabile mistero”».

«Così, un giorno, ho ricevuto l’anello che Friedrich aveva fatto fare per me nella prigione di Commendadores con una moneta francese da dieci franchi. Una donna me lo portò, con un piccolo messaggio. Come era potuto avvenire il passaggio? Aveva ricevuto l’anello da una donna che veniva trasferita a Malaga e non ne sapeva di più».

«D’acciaio, d’alluminio, d’argento o di rame, questi anelli sono il segno di riconoscimento dei prigionieri in tutta la Spagna. Non occorrono strumenti per farli; basta avere un pezzetto di materia sufficientemente dura per battere il metallo».

«Sono dei simboli come questo che vi fanno sentire che soltanto l’ultimo superstite della specie umana proverà veramente l’orrore della solitudine, ma prima di lui…»

(traduzione dal francese di Vanda Fava)

Nicola Chiaromonte

Pierre J. Proudhon – un pensatore scomodo

Tratto da «Europa socialista», 1946

E’ un detto di Fouché: «Datemi un pezzo di carta con la firma d’un uomo, ed io lo farò giustiziare». Questo può essere un principio basilare della procedura cui s’informa la Polizia di Stato, ma nelle istanze intellettuali non è davvero un buon criterio.

Con delle citazioni artificialmente strappate dal loro nesso, il sig. Schapiro (*) si propone di dimostrare che Proudhon era: 1) «un precursore delle idee fasciste… che si fece il propagatore del concetto fascista di un superamento rivoluzionario della democrazia e del socialismo… il portavoce spirituale dei ceti medi francesi»; 2) un sostenitore della dittatura in generale e di Luigi Napoleone in particolare; 3) un antisemita; 4) un nemico dei negri americani; 5) un guerrafondaio; 6) un nemico dell’uomo comune; 7) un antifemminista.

Il primo di questi capi d’accusa viene provato dal sig. Schapiro nel modo seguente: Proudhon era un piccolo borghese ed un precursore del fascismo perché non credeva nella nozione marxista della «lotta di classe», né in quella di una rivoluzione violenta coronata dalla vittoria del proletariato; per contro egli pensava che, nei tempi moderni, una rivoluzione violenta non poteva significare altro che la dittatura e condurre al trionfo dei ceti medi. Tuttavia, aggiunge Schapiro, Marx ed i socialisti avevano torto, in quanto essi non compresero esattamente il carattere ed il ruolo storico delle classi medie, mentre l’intuizione «disarmonica» di Proudhon è stata avallata dagli eventi contemporanei.

Da tutto ciò risulta in modo evidente che il sig. Schapiro, pur non credendo nella fondatezza delle nozioni marxiste, se ne serve tuttavia per caratterizzare Proudhon e per dimostrare che questi in fin dei conti non aveva del tutto torto, ma era un cattivo soggetto. In questo sta tutta la stranezza del suo modo di ragionare. Perché da un punto di vista marxista si può giustamente affermare che Proudhon è stato un piccolo borghese, un traditore, un fascista, dato che non credette nella lotta di classe, nella dittatura del proletariato, e cosi via. Ma se l’autore è del parere che le concezioni marxiste sono ad ogni modo sbagliate (e soprattutto nei riguardi dei problemi fondamentali come il ruolo storico delle varie classi), allora si ha il diritto di pretendere da lui che giudichi Proudhon partendo da qualche altra base chiaramente definita, e tenendo conto di ciò che è realmente il pensiero di Proudhon.

La disinvoltura del Sig. Schapiro

Io ritengo che le idee di Proudhon (se siano giuste o sbagliate è un’altra questione) si trovano enunciate nella sua opera con perfetta chiarezza per chiunque voglia fare un piccolo sforzo per comprenderle. Se dovessi riassumerle in poche parole, io direi che la preoccupazione principale di Proudhon è stata quella di scoprire nella vita della società umana una verità che non fosse una verità «classista», affinchè il trionfo della giustizia sociale fosse un trionfo della ragione e non della violenza, una creazione della società stessa e non una imposizione dall’alto, qualunque fosse il nome di questo ente superiore -Iddio, coercizione statale o dittatura di classe. Questa verità egli chiamò Giustizia, intesa sia come «idea», sia come realtà concreta, inerente -in un senso positivo e negativo- ad ogni ordinamento sociale. Di questa idea che ispira tutta la sua opera, Proudhon fece un’esposizione poco sistematica, ma tanto più suggestiva, nelle duemila pagine del suo libro «De la Justice dans la Révolution et dans l’Eglise». Queste duemila pagine sono completamente trascurate dal signor Schapiro il quale, d’altra parte, fa un uso abbondante di estratti dalla corrispondenza di Proudhon, presentandoli come se si trattasse di formule teoriche anziché di opinioni personali occasionali e strettamente private.

Dallo studio di Schapiro si può inoltre apprendere che Proudhon è stato un anarchico, ma nulla è detto sulla sostanza e sul significato profondo della lotta instancabile che Proudhon condusse contro ciò che egli definì il «principio di governo». In tal modo riesce facile al sig. Schapiro di impiccare Proudhon in effigie come sostenitore della dittatura, in considerazione del suo atteggiamento nei confronti di Luigi Napoleone. Che una simile accusa abbia potuto essere pronunciata è talmente assurdo che non varrebbe la pena di confutarla, se non avessimo oggigiorno tanti esempi che ci dimostrano come il pregiudizio intellettuale e la tendenza a spacciare delle formule al posto di pensieri riescono a traviare l’intelletto di tante persone peraltro rispettabili. Per ben comprendere l’atteggiamento di Proudhon nei confronti di Luigi Napoleone, basta leggere ciò che egli scrisse a proposito dello stesso, tenendo presenti gli avvenimenti del tragico anno 1848. La rabbia, la disperazione, il disprezzo per i politicanti socialisti e democratici, che si trovano in quegli scritti, erano sentimenti ben comprensibili in un uomo, che fin dal 1840 aveva previsto la disfatta, la dittatura e la guerra come conseguenze della stupidità dei demagoghi i quali (ubbriacati dai ricordi del 1793 e da fantasie barricadiere) erano disposti a mandare gli operai al macello per il gusto di frasi vuote o di meschine combinazioni ministeriali. E fu proprio questo che essi fecero nel giugno 1848.

Senza parlare del fatto che il famoso pamphlet «La Révolution démontrée par le Coup d’Etat» era un pamphlet così poco bonapartista che al suo autore fu proibito di pubblicare in seguito qualsiasi scritto di carattere politico, basta accennare ad un altro fatto ben noto, e cioè che Proudhon è stato tre anni in carcere e sette anni in esilio per la sua strenua lotta contro il bonapartismo, per poter affermare che la sua presa di posizione contro Luigi Bonaparte era non soltanto perfettamente chiara, ma anche intelligente e onestissima. Egli vide con grande chiarezza (come lo stesso Schapiro riconosce) che la combinazione di un apparato statale paternalistico e di una massa popolare abbandonata in uno stato di depressione, di delusione e di caotico smarrimento avrebbe inevitabilmente generato la dittatura, l’Impero ed infine la guerra. Per Proudhon non si trattava affatto di un problema di antagonismo fra ceti medi e proletariato. Infatti, egli non si stancò mai di mettere in rilievo come l’inerzia (o «l’appoggio passivo») degli operai disgustati era stato il fattore essenziale nel determinare il successo del colpo di stato, mentre i ceti medi «liberali» erano profondamente allarmati all’idea di perdere i loro privilegi politici, che essi stessi, d’altronde, avevano contribuito ad annientare quando colpirono gli operai di Parigi. Quando Proudhon disse che Luigi Napoleone poteva essere «la Rivoluzione o niente», egli non intese con ciò esprimere fiducia in un uomo che egli aveva combattuto con tutte le sue forze e per il quale non aveva nessuna stima, ma piuttosto proclamare la sua convinzione che, con Napoleone o senza di lui, la Rivoluzione non poteva essere arginata, e che il ridicolo Cesare aveva soltanto la scelta tra l’andare volontariamente verso la Rivoluzione e l’esservi trascinato per necessità storica.

Insieme ai migliori uomini del suo tempo, Proudhon vedeva (con occhi aperti e senza sentimentalismi o illusioni circa gli inevitabili sviluppi della storia) il sollevamento sociale dei tempi moderni nella forma di un «progresso irresistibile». Questo sollevamento era per lui un fatto così fondamentale ed evidente, e coincideva a tal punto con la necessità della Verità stessa, che sarebbe stato per lui una cosa grottesca il pensare che un signor Charles Louis Napoléon Bonaparte potesse essere qualcos’altro che uno strumento di quel movimento.

L’ardore politico, l’intelletto ardito e l’amore per le visioni grandiose hanno spesso condotto Proudhon a formulare delle affermazioni che possono sembrare strane ed anche assurde. Ma, in fin dei conti, se Proudhon è famoso per qualche cosa, lo è appunto per il suo odio indomabile contro ogni forma di coercizione. Per ammettere che egli abbia pensato ad appoggiare la dittatura di Luigi Napoleone, bisognerebbe supporre che egli abbia nutrito qualche torbida ambizione personale. Ma nello stesso istante chiunque abbia qualche nozione della vita e delle opere di Proudhon sentirebbe risuonare la eco delle parole che egli gettò in faccia al signor Thiers, in pieno Parlamento: «Signor Thiers, io sono disposto a raccontare tutta la storia della mia vita, qui da questa tribuna. Io vi sfido a fare la stessa cosa».

Fin qui l’attacco del sig. Schapiro contro Proudhon sembra essere il risultato di malintesi e di antipatìa; piuttosto che di decisa ostilità. Ma quando egli se la prende con Proudhon accusandolo di essere guerrafondaio e antisemita, la sua ignoranza ed i suoi travisamenti sono veramente inescusabili.

II socratismo di Proudhon

La Guerre et la Paix di Proudhon è uno sforzo appassionato di indagare «sui legami misteriosi che uniscono forza e diritto». Con questo intento l’autore parte dal presupposto che la guerra è nella natura umana, che mediante la guerra l’umanità ha realmente cercato, in un modo fosco e terribile, di appagare il bisogno di giustizia, da cui essa è assillata.

Chi ha letto il libro sa che nella sua prima parte esso prende la forma di una apologia della guerra. Infatti, questa impostazione del problema è tipica per Proudhon e costituisce una delle caratteristiche più originali del suo metodo il quale è, in un certo senso, veramente socratico. Ma chi ha letto il libro sa anche che esso finisce col dimostrare che, mentre la guerra può essere compresa e giustificata soltanto come una violenta aspirazione verso la giustizia nella società, la giustizia stessa non può essere realizzata attraverso la guerra, ma soltanto attraverso l’instaurazione di giusti rapporti fra gli uomini e le nazioni, e che non vi può essere né giustizia né pace se non in una libera federazione di popoli.

Schapiro ignora tutto ciò. E la descrizione del suo atteggiamento non sarebbe completa se tralasciassimo di ricordare che, proprio poche pagine prima di accusare Proudhon come guerrafondaio, egli gli rinfaccia di essere un traditore del proletariato ed un nemico del socialismo, perché egli non credeva nella rivoluzione violenta.

Ma nello stesso libro, scritto alla vigilia della Guerra Civile Americana, Proudhon dichiara francamente che questa «guerra di liberazione» non libererà i negri, che questi, nella migliore delle ipotesi, passeranno da una specie di servitù ad un’altra e che , tutto sommato, sarebbe meglio per essi rimanere sotto i loro padroni del Sud e lottare per la loro emancipazione attraverso la riforma e l’autoeducazione anziché essere liberati dagli eserciti del Nord. Ognuno è padrone di dissentire da questa opinione. Ma chi conosce Proudhon sa anche da quale premessa egli parte in questa sua affermazione. La premessa basilare per Proudhon è questa: che è cosa priva di senso dire che l’uomo possa essere liberato da un apparato qualunque, sia esso statale o no. L’uomo, secondo Proudhon, può liberarsi soltanto da sé e può essere aiutato soltanto dai suoi compagni nella vita in comune e negli sforzi comuni. Sempre a proposito della Guerra Civile Americana, si può forse dire che Proudhon si sia lasciato trascinare ad una generalizzazione affrettata, per quanto io pensi che oggigiorno c’è più di uno disposto a dargli ragione. Ma il sig. Schapiro è, per quanto io sappia, l’unica persona alla quale sia venuto in mente di accusare il grande erede dei filosofi del diciottesimo secolo di essere un «anti-negri».

Per quanto riguarda l’antisemitismo dì Proudhon, l’accusa del sig. Schapiro si basa sul fatto che Proudhon usa parecchie volte la parola «ebreo» in rapporto con banchieri, borsa, capitalismo finanziario ed istituzioni di questo genere. A parte il fatto che questi riferimenti non sono del tutto arbitrari e senza fondamento, allo stesso modo si potrebbe classificare Voltaire come antisemita perchè non gli piaceva la Bibbia e perché la parola «ebreo» era per lui praticamente sinonimo di superstizione.

D’altra parte, sarebbe inutile voler negare che Proudhon è stato un antifemminista. Alessandro Herzen, che nutriva grande rispetto ed amore per Proudhon, era scandalizzato dalla sua grettezza di vedute per quanto riguarda i diritti della donna e la famiglia come istituzione. Quando Proudhon parla delle donne e della disciplina paternallstica nella famiglia, egli ci rivela i caratteri peggiori della sua natura di «cafone». Non solo questo, ma facendo propria la nozione romana della famiglia fondata sulla patria potestà, Proudhon contraddice la sostanza stessa della sua filosofia sociale che è tutta un attacco a fondo contro le basi filosofiche e sociali della legge romana e napoleonica.

Un nemico dell’uomo qualunqueIn un punto sono disposto a dare ragione al sig. Schapiro, e lo faccio volentieri e con grande entusiasmo. E ciò quando Schapiro dice che Proudhon era «un nemico dell’uomo comune». Sì, vivaddio, egli lo era. Proudhon odiava l’uomo «comune», odiava l’uomo «medio», odiava l’uomo «di classe», odiava profondamente e spietatamente qualsiasi finzione mediante la quale la genuina e nuda realtà umana potesse essere comunque mascherata, distorta e falsata -e quindi oppressa e soppressa. Per dì più, Proudhon non era propriamente un innamorato dell’umanità. Era qualche cosa di meglio. Era un uomo, un uomo raziocinante e libero.

Tutto sommato, siccome il sig. Schapiro ha scelto il metodo di dipingere Proudhon mediante citazioni arbitrarie, egli potrebbe anche accusarlo di essere stato:

1) un nemico delle nazioni libere, perché ai suoi occhi i patrioti polacchi ed italiani erano dei confusionari sentimentali, i quali pensavano che la liberazione dalla dominazione straniera unitamente ad una forma di governo costituzionale, avrebbero automaticamente apportato una reale libertà ed autonomia delle nazioni, mentre egli pensava che la realtà si traduceva invece nella seguente operazione aritmetica: nazionalismo più uno Stato rafforzato eguale a dispotismo, guerra e tramonto di ogni speranza di una unità europea;

2) un nazionalista perché, in virtù della_convinzione anzidetta, egli criticava violentemente Napoleone III e la sua «guerra di liberazione» in Italia denunciandola come una guerra contrastante con gli «interessi nazionali» della Francia, in quanto la nazione francese non poteva avere alcun interesse alla formazione di una nuova potenza militare alle sue frontiere;

3) un fautore della legge e dell’ordine, perché egli ripetutamele sosteneva che «governo politico» significava in realtà anarchia sociale, mentre la libera associazione ed il principio federale erano la sola base possibile per un reale diritto ed un reale ordine nella società;

4) un filisteo, perché egli attaccava alcuni fra i più noti scrittori ed artisti del suo tempo -Victor Hugo, George Sand, Delacroix ed altri- come «immorali e falsi»;

5) un futurista perché, scrivendo di arte, egli non soltanto ammirava Courbet come un grande artista, ma attaccava anche il «culto assolutistico della Forma», prediceva che «veri artisti sarebbero stati perseguitati come nemici della Forma e della moralità pubblica», ed esprimeva una concezione di idealismi critici nella quale la verità circa il mondo umano e la negazione delle convenzioni morali, sociali ed artistiche erano sintetizzate in una maniera non molto dissimile da quella di Tolstoi e Van Gogh.

In realtà, tutto ciò prova soltanto la grande originalità di Proudhon come pensatore, la sua ansia di scoprire nuovi aspetti della realtà e nuovi metodi di dimostrazione delle verità in cui credeva, la sua abilità dialettica che prendeva sempre lo spunto dagli argomenti fondamentali dell’avversario -ciò che è uno degli aspetti del suo socratismo e lo conduce a delle affermazioni che sono straordinariamente vicine ad alcune tesi fondamentali della filosofia moderna.

In tutto ciò, è però implicita una questione più generale. Essa non riguarda specificamente né il sig. Schapiro né Proudhon, ma piuttosto due tipi di mentalità interamente diversi. Ciò che colpisce nel «caso Schapiro» è l’incapacità di questi ad intendere un tipo di mentalità complesso come quello rappresentato da Proudhon. Perché?

Io penso che sia impossibile comprendere l’atteggiamento del sig. Schapiro se non si premette che ciò che egli cerca effettivamente è una teoria unitaria, monolitica, una teoria che possa fornire tutte le risposte richieste, complete di istruzioni sul modo come saggiarle e confutarle.

Una simile teoria dovrebbe essere costruita su un piano di semi-verità dogmaticamente asserita. Si ha il sospetto che il sig. Schapiro voglia ridurre le idee di Proudhon ad una affermazione di questo genere: « II mondo è cattivo perché i crediti finanziari non sono concessi liberamente. Una banca di libero credito metterebbe tutto a posto». In questo caso egli avrebbe la scelta fra due alternative. Potrebbe dire: «In fondo la cosa non è del tutto assurda, poiché il credito libero sarebbe effettivamente una buona cosa», oppure potrebbe (alla stregua di Marx) indignarsi e trattare Proudhon come un facilone che pretende di risolvere la questione sociale con il colpo di bacchetta magica del libero credito. La cosa essenziale in ambedue i casi è però che non ci troviamo di fronte a delle affermazioni «contraddittorie» e «disarmoniche», ma solamente di fronte a posizioni semplicistiche.

Fortunatamente Proudhon è ben lungi dall’essere uno di quei pensatori comodi con i quali il signor Schapiro (e cento altri) amano aver commercio. Proudhon è uno di quei pensatori che, credendo nella verità, si sentono liberi di sfidare qualsiasi cosa, eccettuata la verità stessa. Per Proudhon le soluzioni pratiche non possono essere che parziali e l’essenza del problema sociale è che esso rimane aperto. Infatti, alla radice del pensiero di Proudhon si trova la convinzione incrollabile che la società umana costituisce un problema sempre presente e sempre risorgente, il quale potrà o non potrà avere una soluzione finale, ma esige ad ogni modo di essere tenuto aperto attraverso tutte le vicende della storia. Questa è, per Proudhon, la missione dell’uomo onesto e dell’intellettuale, missione che non può essere compiuta se non attraverso la libertà intellettuale ed il lavoro comune.

Ma difendere Proudhon contro certi malintesi può sembrare, in ultima analisi, cosa superflua. Poiché il semplice fatto che, dopo essere stato per tanto tempo sepolto sotto il terribile epitaffio «piccolo borghese», egli venga ancora vilipeso, costituisce una prova sufficiente della vitalità e veridicità di ciò che ci è rimasto di Pierre-Joseph Proudhon «uomo del popolo».

(*) J. Salwyn Schapiro: P. J. Proudhon, precursore del fascismo, nella «American Historical Review».

Nicola Chiaromonte

Parole confuse

Tratto da La Stampa, 30 dicembre 1969

Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

Perché stai così zitto?

Perché parlare dell’inutilità di parlare mi sembra piuttosto inutile. È di questo che si tratta. Tutti dobbiamo constatarlo nella vita di ogni giorno: la parola è diventata un’appendice del fatto. Soltanto fra i pochi che già s’intendono, essa serve a comunicare. Fra i più l’abitudine delle epoche civili e socievoli, di rispondere alla parola con la parola, al discorso coerente col discorso coerente, si è perduta. Alla parola oggi si risponde con l’atto, col gesto, con la lusinga, con la minaccia, o semplicemente col silenzio. Quando si parla, è solitamente solo per accompagnare o sottolineare il fatto, che è sempre un fatto compiuto o un’opinione prestabilita.

Eppure, ecco, noi stiamo parlando. E, attorno a noi, fra carta stampata, radio, televisione, cinematografo, le parole diluviano.

Naturalmente. Noi parliamo fra di noi, e attorno a noi la moneta cattiva scaccia la buona. La svalutazione della parola è un fenomeno galoppante. Ed è già un fatto di violenza, anzi il principio stesso della violenza. Sicché viene da ridere amaro, a leggere i molti predicozzi che si vanno impartendo per deprecare la violenza. La violenza è istallata nella forma stessa dei rapporti umani quali oggi si svolgono, meccanici, forzosi e inerti.

Allora i giovani violenti hanno ragione

No, non hanno ragione affatto. Son presi in una trappola. Giustificare la violenza con delle ragioni ideali non ha senso; rispetto a una qualsiasi ragione ideale, socialismo, anarchismo o comunismo, la violenza è stata sempre considerata un male: necessario, al momento giusto, ma male sempre, da ridurre al minimo e tenere sotto stretto controllo. Che poi il demone, una volta evocato, non abbia più obbedito all’apprendista stregone, è un’altra faccenda. Ma l’apologia della violenza, la convinzione che solo con la violenza si cambia il mondo, è stata, da un secolo a questa parte, il proprio dei politici realisti e dei teorici della forza, non di quelli che cercavano la giustizia.

D’altra parte è vero che non si può fare appello alla violenza senza darne una qualche giustificazione. Teorizzare la violenza pura è come teorizzare la pazzia furiosa. Ma, nel momento che la si giustifica con qualche ragionamento, allora è il ragionamento che conta, e vale quel che valgono le sue premesse e le sue conseguenze, né più né meno.

Con i giovani rivoltosi d’oggi, però, sembra inutile ragionare.

Doppiamente presi in trappola, i giovani violenti. Vogliono l’azione efficace e finiscono col dire, di fatto, che qualunque azione violenta è efficace. Efficace a che? A scardinare il «sistema». In realtà, la violenza non fa che rafforzare il cosiddetto sistema, in quanto, creando un disordine che non mena a nulla, costringe a rimettere bene o male le cose in ordine: non è un’operazione di polizia, è una necessità organica della vita collettiva. La quale, oggi, ha questa particolarità, che da una parte funziona secondo regole meccaniche, non in base a leggi sacre o credute tali; dall’altra, appunto per questo, può sopportare molto più disordine che non si creda, perché la meccanicità del suo funzionamento è sostanzialmente imperturbabile, neutra, e presto ristabilita. Lo esige l’inerzia irresistibile della collettività medesima, molto più che i padroni o i governanti.

La violenza, nella società industriale, o prende la forma di un colpo di Stato ben concepito e rapidamente eseguito, impresa per la quale i giovani rivoltosi non sembrano particolarmente indicati (e d’altra parte la rifiutano a favore della spontaneità rivoluzionaria), oppure diventa una sorta di happening, o, come ha ben detto Raymond Aron, di «psicodramma», anch’esso necessariamente di breve durata.

Allora, insomma, non c’è da preoccuparsi.

No, anzi, c’è da preoccuparsi moltissimo. Che la violenza fisica non porti a nulla, non cambia la natura della situazione in cui ci troviamo. Il fatto che i giovani ribelli non sanno riconoscere, e che li porta all’estetismo della violenza e insieme a un moralismo politico il quale consiste nel dividere una volta per tutte il mondo in buoni e cattivi, è questo: la strada a quella che dal 1848 al 1917 s’è chiamata «rivoluzione sociale », oggi è chiusa. Ed è chiusa perché la società stessa è in rivoluzione nelle credenze religiose e nelle idee.

Rivoluzione, o meglio: dissoluzione. Tutto è in questione e tutto è in confusione. La violenza sporadica non fa che aggiungere confusione a confusione: è uno dei fenomeni caratteristici dello stato di fatto; fa parte del quadro, e i giovani sovversivi non si accorgono fino a che punto la loro rivolta contribuisce a fomentare il disordine e i mali propri del disordine, quindi a ritardare l’avvento di quel «nuovo ordine di cose» che essi desiderano.

In queste condizioni, quello che sarebbe veramente nuovo e necessario sarebbe una restaurazione: un movimento per la restaurazione delle basi prime della società, anzi della convivenza umana. Ma un tal movimento non può cominciare altrove che nelle coscienze e nei rapporti fra persona e persona. Per questo, i giovani ribelli dovrebbero rinnegare molti idoli ai quali viceversa sacrificano: gl’idoli della novità, della sregolatezza supposta liberatrice, della violenza e dell’incoerenza, che sono gl’idoli stessi della società contro la quale essi credono di ribellarsi.

Insomma, il ritorno all’ovile.

No, perché non ci sono ovili cui ritornare. Ci sono delle trame antiche da riprendere, che sono quelle della semplicità del vivere e del pensare. Ed è un compito talmente contrario al nostro attuale modo d’essere che fa paura solo a pensarci.

Nicola Chiaromonte

A lume di ragione

Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Contro l’Università?

Fra i documenti che abbiamo letto per renderci conto delle idee che ribollono nella rivolta degli studenti, uno dei più radicali e sostanziati ci è parso quello di Guido Viale «Contro l’Università», stampato nel fascicolo 33 dei “Quaderni piacentini”, rivista che ha fornito al movimento studentesco (o alla parte estrema di esso) l’essenziale dei suoi motivi ideologici. Nell’articolo di Viale si trova espressa, in modo alquanto ponderoso e professorale, ma in ogni caso esauriente, la posizione detta di «contestazione globale». Oltre a essere un esempio considerevole dell’attuale polemica studentesca, esso è dunque un testo che vale la pena di discutere senza indulgenza né sufficienza.

L’articolo comincia con la seguente perentoria affermazione: «Il primo compito del movimento studentesco è operare delle distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica».

La frase, e le asserzioni che la seguono, non lasciano dubbi. Siamo nell’orizzonte di un linguaggio prestabilito, quello marxista (diciamo «linguaggio» e non «ideologia» per scrupolo d’esattezza, perche non è chiaro dove precisamente conduca il linguaggio adottato da Viale). Si tratta di un linguaggio chiuso il quale comunica solo con se stesso (ossia con chi lo condivida) e non è certo destinato a persuadere chi, per esempio, non veda l’utilità, a proposito di una questione che riguarda il buon corso degli studi, d’introdurre un concetto non solo controverso (è il meno che se ne possa dire) come quello marxista di classe, ma obnubilante, essendoché non sembra affatto evidente che la «popolazione scolastica» sia unita da un interesse anche minimamente simile a quello marxista del «rapporto di produzione». Per definizione, direbbe il senso comune, lo studente non produce, ma riceve semmai i mezzi per una produzione futura. Dato e non concesso che la cultura si possa assimilare sic et simpliciter a un mezzo di produzione

Ma vediamo che cosa intende Viale per «distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica». Egli intende quanto segue:

Se è vero che nel periodo della loro formazione tutti gli studenti sono assolutamente privi del potere e sottoposti alle manipolazioni delle autorità accademiche, è altrettanto vero che per alcuni inserirsi nella struttura di potere dell’università non è che un primo passo del loro inserimento nelle strutture di potere della società, mentre per la maggioranza degli studenti la subordinazione al potere accademico non è che l’anticipazione della loro condizione socialmente subordinata all’interno delle organizzazioni produttive in cui sono destinati a entrare.

Eccoci di fronte alla ben nota questione del «potere studentesco», debitamente confusa con quella del potere sociale in senso lato, sicché diventa praticamente impossibile sbrogliare l’imbroglio. Il quale imbroglio consiste in questo: l’autoritarismo, anzi l’arbitrarietà sciatta e indecorosa, che regna nella scuola italiana (e non solo nell’università) è un fatto ampiamente riconosciuto. Che il rapporto fra docenti e studenti vada riformato nel senso di abolire «baronie», despotismo, camorre varie, nessuna persona sensata lo negherà. Ma quando si parla di «potere», si crea un equivoco al quale nessuna persona sensata vorrà prestarsi. In primo luogo, l’università non appartiene né agli studenti né ai docenti, ma, semmai, alla nazione: lì non può essere questione di potere, ma che ciascuno faccia l’ufficio suo onestamente. II potere, propriamente parlando, appartiene al ministero dell’Istruzione, ed è a questa centralizzazione assurda che burocratizza e umilia sia l’insegnamento che l’apprendimento che sono dovuti i massimi mali. Per conto nostro, vedremmo con sollievo una riforma che abolisse puramente e semplicemente il ministero dell’Istruzione, e instaurasse una completa libertà d’insegnamento, abrogando quel principio della scuola di Stato che non solo ha fatto il suo tempo, ma di fatto è stato abolito dalla licenza assoluta data alla scuola «libera». Non si vede proprio, in particolare, perché il prestigio di un’università debba dipendere da altro che dalla qualità dell’insegnamento che essa fornisce, qualità che nessun ministro e nessun funzionario ha numeri per giudicare, ma che invece risulta immediatamente chiara agli interessati, che sono da una parte gli studenti e dall’altra la società nel suo insieme. Un sistema che sostituisse al ministero dell’Istruzione un organo di semplice coordinamento e ispezione risolverebbe di per sé la questione del «potere studentesco», ossia di un rapporto di comunanza e relativa eguaglianza. Giacché eguaglianza quanto al fondo, ossia al fatto che da una parte c’è chi, sapendo, comunica il proprio sapere e dall’altra chi, non sapendo, lo riceve, non è sennatamente concepibile, come non è sennatamente concepibile la commedia dei controcorsi e degli esami per acclamazione d’assemblea. Che poi la discussione libera faccia parte dell’insegnamento è certo, ma è anche certo che viene dopo.

Insomma, abolire l’autoritarismo accademico, sì, quanto si vuole. Ma sostituire ad esso un «potere studentesco» irresponsabile, arbitrario e carico di pretese ideologico-politiche significherebbe in sostanza immettere anche nella scuola il sistema delle influenze e pressioni di partito che domina così bellamente la nostra vita pubblica. Senza contare che i sostenitori estremi del potere studentesco non hanno affatto l’aria di voler dividere il loro «potere» con altri, bensì di esercitarlo in condizioni di maggioranza assicurata e secondo una ideologia prestabilita di «contestazione globale». Di un tale progetto, l’unica cosa da dire è che non ha senso.

Ma, continuando, quali sono le «distinzioni di classe» che Viale discerne fra gli studenti? Eccole:

Fin dall’inizio dell’occupazione abbiamo individuato grosso modo tre strati della popolazione universitaria: quelli che l’università la usano (come base di lancio verso il conseguimento di posizioni di potere nella struttura sociale); quelli che l’università la subiscono (come fase necessaria attraverso cui bisogna passare per andare a occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale); e quelli che dall’università vengono soltanto oppressi (in quanto essa funziona come strumento di legittimazione della loro posizione sociale subordinata).

Diciamo subito che queste asserzioni ci sembrano logicamente prive di base, oltre che di riferimento a una qualsiasi situazione specifica e concreta. Giacché, insomma, la linea di confine fra quelli che, per parlare il linguaggio di Viale, «usano» l’università e quelli che la «subiscono», ci si può domandare se esista davvero, e in che senso.

Si può certamente subire al fine di usare e, per conto nostro, da quello che ricordiamo dei nostri anni d’università, i due strati si confondono in uno, il quale poi costituisce semplicemente la maggioranza. Minoranza sono quelli che studiano perché vogliono studiare e riuscir bene nella vita; e minoranza ancora più esigua quelli che studiano per amore dello studio. I socialmente privilegiati poi (contrariamente a una strana analisi fatta dal Comitato d’agitazione dell’università di Torino e citata da Viale) di solito non credono né nella scienza né nella cultura, e hanno un bisogno molto relativo di studiare seriamente, dato che appunto sanno di avere comunque un posto che li attende.

Quanto agli «oppressi», non si capisce proprio che cosa voglia dire Viale quando accusa l’università di ribadire le catene della schiavitù sociale. Questa è un’asserzione dedotta nel vuoto dalla premessa che nella società «capitalista» (o «neocapitalista») ogni istituzione (e a maggior ragione quelle della sovrastruttura culturale) è uno strumento della classe dominante. Ma, a parlar concreto, in qual mai senso una laurea in legge o un diploma di farmacista è «uno strumento di legittimazione di posizione sociale subordinata»? Forse perché non sempre il suo detentore farà una gran carriera? Ma è davvero nel fatto di non far carriera che si rivela l’oppressione sociale? In qual senso che non sia bassamente «borghese» e «capitalista», la funzione degli studi si misura dalla garanzia di carriera che essi forniscono? Una cosa è imparare, si direbbe, e una cosa tutt’altra sapersi far strada nella vita. Doversi «far strada nella vita» non sembra, d’altro canto, una schiavitù peculiare della società borghese. Negli Stati detti socialisti, è pur vero che lo Stato provvede a dare impiego a ogni diplomato; ma è anche vero che, non potendo allogare tutti al vertice della piramide, ribadirà non pochi in «posizione sociale subordinata». E si vorrebbe aggiungere che è normale, se non giusto, che così sia, dato che non s’è mai visto né mai si vedrà un sistema sociale attivo e funzionante nel quale alcuni individui non si trovino, per continuare a parlare il linguaggio di Viale, «ad andare ad occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale».

Quale gerarchia non è fittizia? si potrebbe domandare a Viale. E quale stratificazione sociale non è mistificatoria? si potrebbe insistere. Di non fittizio, c’è solo il vero: in questo caso, il merito personale. Ma il merito personale, in una determinata situazione sociale, quale essa sia, diventa immediatamente relativo alla «funzione» in cui può essere esercitato; e le funzioni sociali non si creano su misura se non al vertice della gerarchia. Comunque, una società la cui gerarchia, giudicata in assoluto, non sia al tempo stesso fittizia e mistificatoria non s’è mai vista. Quel che s’è visto e si vede sono delle società in cui le carriere sono più o meno largamente aperte al talento. Concetto, questo, borghese e democratico (napoleonico, per precisare), com’è borghese e democratico l’ideale di una scuola aperta a tutti e di una cultura a disposizione di tutti. Ma inerente a tale ideale è l’accettazione del fatto che, se va perseguito per principio, esso d’altra parte non è realizzabile di colpo e in assoluto. Onde la società democratica e «borghese» accetta senz’altro il fatto della propria imperfezione e della relativa necessità di riformarsi continuamente. Mentre lo Stato socialista puro postulato evidentemente dal discorso di Viale si limita a dichiarare giuste e rispondenti alle esigenze della Storia e dell’Umanità le proprie «stratificazioni»; e, in quanto alle proprie «mistificazioni», non sa che dichiararsene immune per natura e dannare chi per avventura ne sospetti l’esistenza.

«Mistificazione», «mistificatorio», «de-mistificazione»: si fa un grande uso di queste parole, fra i giovani d’oggi. Sarebbe più semplice e meglio verificabile parlare di vero e di falso. Ma, appunto, quel che un tal gergo intende evitare è la verifica. Il vero e il falso sono fatti specifici e limitati per natura, e riguardano determinate situazioni di fatto espresse per mezzo di proposizioni egualmente determinate. La «mistificazione», invece, è un fatto globale, totalitario. Se, per esempio, uno stato di cose non è giusto in assoluto (cioè in astratto, giacché solo in astratto può uno stato di cose coincidere assolutamente con la giustizia), esso è assolutamente ingiusto, dunque totalmente «mistificatorio», con le relative «stratificazioni» e «subordinazioni». Quindi va «demistificato» senza pietà, contestato «globalmente» e immediatamente. Il che porta con eguale immediatezza alla azione violenta. Ma se d’azione violenta deve trattarsi, si esca allora dai recinti dell’università, e si parli di rivoluzione, di come farla, con quali mezzi, e a quali scopi. C’è qualcosa di peggio che infantile nell’idea di fare la rivoluzione rimanendo barricati nelle aule scolastiche: qualcosa che sminuisce e discredita tutto ciò che v’è di legittimo nella protesta degli studenti. Dopotutto, per fare la rivoluzione, dal 27 al 29 luglio del 1830 gli studenti parigini andarono sulle barricate, non in Sorbona; e la rivoluzione, gli studenti russi la prepararono per cinquant’anni, passando dalla scuola alla galera e dalla galera alla scuola, non rimanendo seduti sui banchi a discutere eventuali controcorsi. Parlare di «contestazione globale» sembra veramente una maniera di evitare sia ciò che v’è di serio nei problemi dell’università, sia ciò che v’è di ancora più serio, oggi, nella questione politica. La quale, se è «mistificata» alla radice, non è per il gran machiavellismo della classe dirigente, ma in primo luogo e anzitutto perché il pensiero autentico se ne è ritirato, e al suo posto regnano incontrastate le idee prefabbricate e le formule fisse.

Quanto al resto, ci son molte osservazioni giuste, nell’articolo di Viale. Ma sono quelle sulle quali ogni cittadino cosciente è in sostanza d’accordo, o sulle quali l’accordo sarebbe comunque facile da raggiungere. è l’ideologia che è non solo sbagliata, ma diremmo perversa, in quanto fondata su quello che non esiteremo a chiamare «il ricatto dell’assoluto». Ricatto che in buona logica si riduce all’assurda proposizione che quando non c’è tutto non c’è niente e se non si ha tutto non si ha nulla. Proposizione dalla quale il nostro articolista deduce rivendicazioni come quella di sottoporre la vita dell’università alla «critica politica», ossia di abolirvi i residui di libertà che pur vi lascia il «despotismo accademico», riducendola a una specie di tumulto totalitario.

Nel «despotismo accademico», d’altra parte, il Viale (in uno con i suoi colleghi) fa rientrare anche il fatto che si esiga «un criterio di qualificazione professionale nella preparazione del curriculum». Secondo lui (e i suoi colleghi) ciascuno studente dovrebbe esser libero di programmarsi detto curriculum «a proprio piacimento». Onde «la preparazione universitaria diventa l’autoprogrammazione del proprio curriculum di studi che ciascuno studente fa in modo non individuale, ma sottoponendolo almeno parzialmente alla discussione dell’assemblea». Tra corsi, controcorsi, discussioni di ogni curriculum individuale e esami plebiscitari, davvero è un’università «di pieno impiego» che questi giovani sembrano avere in mente. Tutto ciò partendo dalla «critica del concetto di cultura come dato oggettuale reperibile in qualsiasi sede».

Al qual punto, c’è veramente da domandarsi di che cosa si stia parlando. Perché, certo, la cultura non è patrimonio dell’università, né tanto meno dei singoli docenti. E certo la cultura non è un «dato oggettuale» da andar «reperendo». Ma se si tratta di questo, si ammetta una volta per tutte che all’università si va per acquistare alcune nozioni e compiere alcuni esercizi, e che la cultura -la vera- è quella che ognuno si fa da sé e nella libera compagnia degli individui che si sceglie per amici e maestri, e la si smetta di chiedere alla scuola al tempo stesso una formazione professionale efficace e una cultura disinteressata. Le due cose non vanno insieme. E il gran problema della scuola d’oggi sta proprio lì, non nel fatto che gli ingegneri formati dal Politecnico di Torino vadano poi per lo più a lavorare alla Fiat, fatto di scarsissima importanza culturale, ma insomma, praticamente parlando, positivo, dato che, a Torino, a Mosca o all’Avana, quel che la maggior parte degli ingegneri cerca è un impiego. E se proprio dovessimo dir la nostra su questa situazione di base della scuola nella società odierna, la quale non può esistere se non fornisce a tutti un certo grado piuttosto alto d’istruzione, noi diremmo che in essa la cultura «disinteressata», la conoscenza per amore della conoscenza sono diventate praticamente impossibili tranne in privato. Il problema, quindi, sembra duplice: da una parte organizzare una «scuola per tutti» che funzioni, ma essendo chiaramente inteso che una tal scuola non può fornire che nozioni da usare in officine, laboratori o altre scuole (per fabbricare nuovi specialisti e formatori di specialisti, includendo in questa categoria anche i cultori delle cosiddette «scienze umane»); dall’altra, creare una scuola senza obblighi né sanzioni né diplomi, il cui unico scopo sia la cultura disinteressata e l’acquisizione di conoscenze pure, cioè «inutili»

Oggi come oggi, crediamo che nessuno Stato, capitalista, neocapitalista, demosocialista, comunista o altro, darebbe il suo accordo a un tal principio. Né alcun Comitato di agitazione studentesca. Perché quel che tutti vogliono è precisamente la cultura che «serve»: la cultura serva. La quale è, più o meno bene organizzata, già a loro disposizione, e se non vi provvede l’università vi provvede l’industria culturale.

Fatto che, d’altra parte, non dà allo studente Viale il diritto di uscirsene a dichiarare che «come nella società medievale chi decideva se una teoria era vera o falsa era il papa, così in quella industriale chi decide della validità delle teorie scientifiche è il Pentagono». Questo è un genere di volgarità molto stantio, se ne renda conto Guido Viale.

Nicola Chiaromonte

Carissimo Andrea…

Provenienza: Archivio privato Adriana Bianco

Pubblicata in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell’altra tradizione, 1, Una Città, 2002

New York, 10 aprile 1946

Carissimo Andrea,

mi perdoni se non ho risposto prima alla sua lettera, così incantevole (penso alla messa in guardia contro le “sirene”… suvvia, davvero pensa che il bravo Husserl abbia una voce così pura e melodiosa?). Albert Camus è qui -gli faccio un po’ da guida per New York- talvolta questo mi prende una mezza giornata, e ho anche dovuto scrivere un articolo che mi ha affaticato oltre misura.

Aldo si scusa di non scriverle più spesso. E’ molto preso dalla faccenda di […] che fatica molto ad avviare.

Domenica scorsa, Camus è venuto a pranzo a casa mia. C’era Tucci (purtroppo si era invitato anche Santillana, ha prodotto l’impressione spiacevole, che lei ben conosce, di chi parla tanto per parlare). Si parlava del “che fare?” Mi ha colpito udire Camus insistere sulla necessità di creare “una società nella società”. Uomini legati da una solidarietà materiale spontanea – conducono vita semplice e modesta (ma senza regole ascetiche o sospetti di “falansterismo”) e si limitano, per lo meno all’inizio, a manifestare integralmente la loro opinione sui problemi della polis senza concedere nulla all’opportunismo politico, allo spirito di parte, o alla prudenza pratica in conformità ad un limitato numero di principi chiaramente definiti, i quali, tanto per iniziare, avrebbero probabilmente una forma “negativa”. Mi ha detto che i suoi amici, Brice Parain e Pascal Pia, sono d’accordo con lui.

Non voglio aggiungere altro per paura di cadere nell’ottimismo (stimolato dalla grandissima simpatia personale che ho per Albert Camus). Le sottopongo questo episodio come un “segno”. Aggiungerò che Camus ha anche osservato che l’Assurdo e la Disperazione sono fatti “privati”, e come tali vanno considerati.

Le racconto tutto ciò perché, venendo da un uomo che mi sembra essere uno dei pochi (fra quelli che si rivolgono al “pubblico”) a prendere veramente sul serio i problemi di oggi, mi pare rilevante.

Riguardo ai miei rapporti con la filosofia, carissimo Andrea, il mio unico rimpianto è di essere così ignorante in storia, come in medicina e matematica. In altre parole, mi creda, il mio desiderio più profondo sarebbe riuscire a spiegarmi nella forma del linguaggio corrente e nutrito di esempi terra-terra. Se non ci riesco, è perché sono confuso ed ignorante. Il mio soggiorno in America mi avrà aiutato un po’ ad evitare il linguaggio astratto, ma non è così facile porre rimedio ad una pessima educazione.

La filosofia, desidero soprattutto servirmene per sistemare non tanto le mie conoscenze (che sono quanto di più frammentario e periclitante ci possa essere) quanto la mia esperienza personale, nella quale faccio fatica a mettere ordine, e che fatico a comprendere tout-court. Ciò detto, le analisi di Husserl sono alquanto affascinanti – anche quando cadono nel banale. Riguardo a “politics”, sono completamente d’accordo con lei. Ho messo a parte Dwight delle sue preoccupazioni. Anche lui si è detto d’accordo; ma lui, io lo conosco, le interpreta nel senso che potrebbe essere un po’ più “politica”, e non nel senso di spingere la critica molto lontano. Dwight è gentile e ingovernabile, gliel’ho già detto (nel senso del “timone” e non del “governo”), il che andava bene, perché risolutamente non conformista, durante la guerra; diventa inutile oggi. Devo insistere che la posizione anti-stalinista e anti-guerra di molti americani ha sempre avuto un che di astratto – un partito preso per fedeltà alla logica di una dottrina e alquanto privo di esperienza vissuta. Il “trotzkismo”, qui, è stato una setta, come tante altre che da sempre si costituiscono e si dissolvono in questa caotica società. Dwight non ne può più della setta – andava bene, ma oggi il puro e coraggioso “non conformismo” non ha molto senso, senza una chiara decisione intellettuale, c’è il rischio di non avere altro risultato che aggravare la confusione generale, se ne renderà conto di persona, del resto – perché la prima parte di “The root is man” sta per uscire. Il fatto, caro amico, è che se c’è qualcuno che avrebbe bisogno davvero di un’iniezione di “metafisica” questi sono proprio gli americani. Perché non hanno l’abitudine di provar stupore. Un abbraccio, Nicola   (traduzione dal francese di Marco Bellini)

 

Nicola Chiaromonte

Violenza e non violenza

Tratto da «Tempo presente», agosto 1968

Anche in Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, a cura di Cesare Panizza, Una città, 2009

Non è arbitrario far risalire l’impulso decisivo che condusse Tolstoi a fare del principio di «non resistenza al male» il fulcro del messaggio cristiano al I° marzo 1881, giorno in cui un gruppo di giovani terroristi fra i quali due donne, Sofia Perovskaia e Vera Figner, eseguirono la sentenza di morte pronunciata dal Comitato esecutivo della Narodnaia Volia contro lo zar Alessandro II.

Ciò che colpì Tolstoi nell’atto di quei giovani fu l’astrattezza del motivo: «Un assassinio di teorici, perpetrato senza odio, senza necessità reale, solo perché giusto in teoria…». Come si sa, Tolstoi rimase molti giorni sconvolto da quell’evento: pensava alle sue conseguenze politiche, ma soprattutto alla sorte che attendeva i giustizieri, e in particolare Sofia Perovskaia. Scrisse un appello al nuovo zar, Alessandro III, in cui lo supplicava: «Date al mondo il più grande esempio di sottomissione alla dottrina di Cristo: rendete bene per male…». La supplica fu fatta consegnare al procuratore del Santo Sinodo, Pobiedonesev, perché la rimettesse d’urgenza allo zar. Il procuratore la trattenne finché le sentenze di morte contro cinque degli imputati, compresa la Perovskaia, non furono eseguite, e poi la fece restituire allo scrittore senza neppure averla mostrata allo zar.

Tra l’astratta giustizia dei rivoluzionari e la bieca cecità del potere, che fare?

«Voi avete udito che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico: Non resistete al male; anzi, se alcuno ti percuote la guancia destra, volgigli anche l’altra. E se alcuno vuol contender teco, e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello… Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi fanno torto e vi perseguitano. Giacché siete figli del Padre vostro che è nei cieli, ed egli fa levare il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti»: queste le parole del Sermone della Montagna sulle quali Tolstoi non cessò d’insistere dal 1881 fino alla morte, rifiutandosi di recedere anche minimamente, anzi ragionandole con sempre maggiore fermezza.

Nel 1908, l’interpretazione tolstoiana delle parole di Cristo raggiunse, attraverso una lettera di Tolstoi al direttore della rivista indiana Free Hindustan, l’avvocato Mohandas Karamciand Gandhi, allora impegnato nella difesa dei diritti degli immigrati indiani nel Transvaal. L’anno dopo, Gandhi scrisse a Tolstoi per dirgli quale profonda impressione gli avesse fatto il suo scritto e come l’avesse trovato d’accordo sul principio della «non violenza». L’incontro fra il messaggio di Tolstoi e la vocazione di Gandhi ebbe conseguenze non piccole. A parte l’azione propriamente politica che ne derivò, Gandhi ripensò a fondo, in termini propri alla tradizione indiana, il principio tolstoiano. Come si sa, nella sua predicazione, la «non violenza» divenne il satyagraha o «forza della verità».

Si potrebbe dunque dire che, per forti, anzi travolgenti che siano state nel corso del ventesimo secolo le tendenze contrarie, e anzi la vera e propria ripugnanza mostrata anche (se non soprattutto) dalla classe intellettuale per il principio della «non violenza», questo ha tuttavia avuto un’influenza tale che merita ampiamente di esser chiamata «storica», secondo il linguaggio culturale tuttora prevalente. Ciò senza parlare dei grandi predecessori, da Lao Tse al Budda alle molte sette cristiane, fino agli americani William Lloyd Garrison e David Henri Thoreau e oltre.

Insomma, l’idea che c’è qualcosa di assurdo nel voler combattere la violenza con la violenza, cioè la sopraffazione con la sopraffazione, per ottenere la libertà e la giustizia, è perlomeno altrettanto antica quanto il fatto stesso della violenza organizzata. Però, la verità è che il principio che Tolstoi credette di derivare dal Vangelo e chiamò «non resistenza al male», facendone un principio risolutivo di azione morale e sociale, è stato generalmente deriso come inefficace se non stolto (in quanto non farebbe che lasciar libero il campo alla malvagità dei malvagi) e sostanzialmente negativo (perché non potrebbe costituire né uno scopo né un ideale) sin da quando lo scrittore lo proclamò. Il fatto che Gandhi lo riprendesse con successo e lo portasse al trionfo, ottenendo alla fine lo scopo che si era prefisso, ossia la liberazione dell’India, non sembra convincente, dato che il trionfo dell’azione di Gandhi per la libertà del suo Paese significa non già il trionfo della non violenza, ma piuttosto la costituzione di uno Stato indipendente analogo agli Stati della società occidentale, dei quali Tolstoi aveva detto, senza che nessuno potesse smentirlo in sede di ragione, che erano «fondati sull’assassinio», ossia sulla repressione violenta dei propri sudditi all’interno, e sulla distruzione violenta dei rivali all’esterno. Senza parlare degli orrendi massacri cui procedettero senza tardare, appena proclamata l’indipendenza, i musulmani contro gli indù e gli indù contro i musulmani, in uno scoppio di fanatismo collettivo di cui Gandhi stesso cadde vittima; com’era, per chi consideri la follia intrinseca della cosiddetta Storia, degno destino di quel giusto.

L’ idea della «non violenza» conserva tuttavia qualche prestigio fra i gruppi di dissidenti che hanno cercato e cercano di applicarla, in forma di metodo d’azione non violenta alla lotta per il miglioramento della condizione dell’uomo nella società contemporanea, la quale è erosa non soltanto dal razzismo e da simili forme di oppressione brutale, ma da quel male anche più nefasto che è l’indifferenza al proprio destino e quindi, a maggior ragione, a quello delle minoranze (o maggioranze) reiette che vivono nel suo seno.

Questi movimenti, anche se son stati guardati con simpatia (come quello guidato da Martin Luther King), son rimasti tuttavia marginali: alla fine, sotto la pressione se non della violenza, dell’inerzia sociale, tendono a esaurirsi e, anche se non si esauriscono, vengono oscurati e almeno apparentemente sommersi da movimenti violenti i quali mirano a ottenere risultati tangibili nel minor tempo possibile; e in apparenza anche li ottengono, se non altro con la minaccia di esplosioni sempre più furiose e devastatrici che fanno pesare sulla società. Oggi come oggi, nel campo dei «rivoluzionari» (che è quello al quale si rivolgeva in special modo Tolstoi), la violenza è più che mai in onore, più che mai idealizzata. «Senza violenza, non si ottiene nulla» ha proclamato il capo degli studenti parigini in rivolta, Daniel Cohn-Bendit. Screditate le ideologie macchinose che tenevano il campo fino a pochi anni fa, l’idea della guerriglia, di origine cinese e vietnamita, e ulteriormente teorizzata da Ernesto Che Guevara e dal suo seguace Régis Debray, è quella che sembra affascinare i giovani ribelli europei. E, così com’è concepita attualmente, l’idea della guerriglia quale punto di partenza di ogni azione rivoluzionaria si riduce veramente all’esaltazione della violenza come un bene assoluto, e perdipiù assolutamente efficace, nella lotta contro il male capitalista. O meglio, la questione del male e del bene neppure si pone: si tratta di agire nel modo più risoluto e immediato possibile contro l’ingiustizia. Non per nulla, Ernesto Che Guevara, eroe e martire di quest’idea, ha potuto lasciar scritto: «In qualunque luogo ci sorprenda la morte, sia benvenuta, a condizione che questo nostro grido di guerra sia giunto a un orecchio ricettivo e che un’altra mano si levi per impugnare le nostre armi e gli uomini si apprestino a intonare i canti di lutto con il crepitare delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria».

In parole come queste si esprime un romanticismo della violenza che, quale che sia il rispetto che si deve avere per un uomo che ha testimoniato della sua convinzione sacrificando la vita, non può non suonare antiquato e sinistro al tempo stesso. Certo, esso non sarebbe stato condiviso dagli uccisori di Alessandro II, i quali concepivano la «lotta sanguinosa» come una «triste necessità» e per i quali -come si legge nelle memorie di Vera Figner- l’uccisione di un uomo, per tiranno che fosse, rimaneva tutta la vita un peso soffocante sulla coscienza.

Ma è qui il paradosso: la questione della violenza è in apparenza priva di contenuto, giacché la maggioranza delle persone diranno senz’altro che la violenza è certo deprecabile, ma talvolta necessaria, e crederanno con questo di aver parlato secondo il senso comune più irrefutabile. Ma, appunto, quest’atteggiamento dei più dimostra il contrario di quel che sembra dimostrare: dimostra, cioè, che la violenza, quali che ne siano le circostanze, non comporta, anzi non tollera, giustificazioni. Essa può scaturire da una situazione violenta, o di violenza accumulata e repressa, ma rimane sempre un fatto, non diventa mai un mezzo, per quanto ne dicano i suoi apologeti. Giacché nel momento in cui si parla di mezzo, bisogna anche discutere il fine, e che allora il mezzo appaia in qualche modo commisurato al fine. Ora, il solo fine chiaro della violenza è l’eliminazione fisica del nemico. Ma come si misurerà il male causato da ogni parte per ottenere un fine che da ultimo si rivela puramente fisico? Dov’è, qui, il contrappasso morale senza di cui un’azione umana rimane al di fuori di ogni possibilità di giudizio, quasi un fatto di natura o un «atto di Dio»?

Tale, seriamente parlando, sembra rimanere la violenza, sia considerata in sé e per sé, sia nella forma attuale di azione efficacemente organizzata a fine di distruzione sanguinosa. Ed è per questo -perché intendeva essere azione giusta e non semplicemente scoppio furioso- che a Tolstoi l’uccisione di Alessandro II apparve come «un assassinio di teorici»: una specie di contraddizione in termini, ma più enigmatica che assurda. Non si poteva condannarla o approvarla, solo rimanerne sbigottiti e cercar di capire.

Ci sono nell’uomo fatti più enigmatici della violenza, la quale anzi è uno dei moti più elementari e relativamente più comprensibili: enigmatiche sono le vie dell’amore e quelle dell’odio, la brama di possesso e di dominio, l’ambizione, il tradimento, il gusto del male. Queste sono passioni, e ognuno ammette che la ragione non vi ha parte. Mentre la violenza giustiziera ha questo di particolare, che si vuole razionale sia nei mezzi che nei fini. Nelle forme di violenza che si sentono teorizzare e esaltare oggi, che si tratti del «potere nero», della guerriglia in America Latina o persino del «potere studentesco», c’è poi un’assurdità supplementare: qui, infatti, la violenza viene considerata come l’inizio e l’origine di un atto di giustizia, l’incarnazione attiva di una volontà di riscatto che si rifiuta addirittura di dar conto delle sue operazioni perché si considera semplicemente ideologia in atto, libera finalmente da ogni scolastica e da ogni burocrazia organizzativa.

A questo punto, la violenza assume in pieno il carattere inconcepibile di «assassinio teorico» che sbigottiva Tolstoi, e sfugge a ogni argomento. Eppure, essa non può mai affermarsi fine a se stessa. Anzi, più terribili sono le forme che essa prende, più idealistica (nel senso di omaggio ipocrita al mondo delle idee) è la giustificazione che se ne deve dare.

Qual è, d’altra parte, il punto di vista dal quale la violenza può esser condannata senza che la condanna cada nel vuoto e nel risibile, dato che si tratta di un fatto che sfugge per natura a ogni presa della ragione?

Se continuiamo a seguire le tracce di Tolstoi, vediamo subito che tutta la sua argomentazione contro la violenza e in favore della «non resistenza» si basa sul postulato evangelico che impone di amare non solo il prossimo, ma anche i propri nemici. La parola di Cristo è l’autorità su cui si fonda esplicitamente la predicazione tolstoiana. La quale non si limita -notarlo è importante- a raccomandare l’insegnamento di Cristo come esemplare, ma ne deriva la «non resistenza» come norma d’azione pratica più efficace della violenza (anche se per vie diverse e a più lunga scadenza) ai fini di stabilire una società più giusta. In altri termini, Tolstoi faceva della «non resistenza» un imperativo di carattere universale applicabile non solo da pochi credenti, ma da qualunque individuo volesse comportarsi da vero cristiano, che per lui era sinonimo di vero uomo. Dopo di lui, Gandhi farà dello stesso imperativo un principio praticabile da grandi masse di popolo, e al quale perciò alla lunga nessun potere avrebbe potuto resistere, proprio come, secondo Marx e secondo Lenin, nessun potere avrebbe potuto resistere all’urto finale delle masse organizzate.

È su questo punto cruciale che verte la questione della violenza, oggi. Giacché, evidentemente, l’obiezione secondo la quale opporre il metodo dell’assassinio a un mondo fondato sull’assassinio è una contraddizione in termini, per quanto logicamente giusta, non tocca la questione principale, la quale è quella dell’efficacia, della praticabilità, del valore universale del principio della «non violenza»

Il principio su cui Tolstoi fondava il suo messaggio di «non resistenza al male» si trova espresso con grande semplicità fra gli altri testi in quello che toccò così profondamente l’animo di Gandhi: la «Lettera a un indiano». Si legge in questa, insieme ad argomenti di tolstoiana semplicità e forza, un passo in cui la difficoltà -per non dire la debolezza- principale del ragionamento di Tolstoi si manifesta, per così dire, allo stato puro: «La verità, naturale all’umanità, secondo la quale la vita umana dovrebbe esser guidata dalla sorgente spirituale che è il fondamento dell’umana esistenza e si manifestò nell’amore, per poter permeare la coscienza dell’uomo si è trovata a dover lottare con l’incompletezza della sua espressione e le distorsioni volute o involontarie di essa, come pure con la violenza istituzionale che costringe, mediante punizioni e persecuzioni, ad accettare le spiegazioni della legge religiosa sancite dall’autorità, e la quale contrasta con la verità rivelata. Tale distorsione e tale offuscamento della nuova, ma ancora imperfettamente rivelata, verità, si è verificata dovunque: nel confucianesimo, nel taoismo, nel buddismo, nel cristianesimo, nell’islamismo, come pure nel bramanesimo di cui voi siete seguace».

Si sono sottolineate, in questa citazione, le parole «naturale all’umanità», che non sono sottolineate nel testo, lasciando invece non sottolineata la frase che segue, sottolineata dallo scrittore, al fine di far risaltare la petizione di principio evidente che il passo contiene: è insomma l’umanità stessa che, secondo Tolstoi, ha, per umana perfidia da una parte e debolezza dall’altra, lasciato distorcere e offuscare la verità più naturale di tutte, fondamento di ogni altra, che sarebbe la legge dell’amore.

Dato che Tolstoi annette grande importanza al fatto che la legge dell’amore si ritrova in tutte le tradizioni religiose, ma unita sempre al fatto, pure da lui notato, che fin dal principio della storia conosciuta gli uomini hanno vissuto divisi in tribù e nazioni, discordi e rivali tra loro, e in seno alle quali la forza di coercizione di una minoranza s’imponeva alla gran maggioranza degli individui, egli stesso autorizza a concludere che non v’è ragione di sperare o anche pensare che la «non resistenza al male», corollario di quella legge dell’amore per tanto tempo così efficacemente (e bisognerebbe aggiungere: naturalmente) pervertita, non subirebbe la stessa sorte.

E allora? Da dove verrà la fiducia in un metodo d’azione così paradossale come quello proposto da Tolstoi? Forse dalla fiducia nel progresso morale dell’umanità più che dal messaggio cristiano esso stesso; nella sostanza del quale, tuttavia, Tolstoi certamente credeva, il sentimento d’amore per il prossimo essendo considerato da lui fin dai primi scritti come segno e sinonimo di gioia traboccante. Giacché, mentre l’orgoglio dell’uomo moderno per il progresso materiale non trovava in lui altra risposta che il più sprezzante sarcasmo, gli rimaneva certo tenacemente ancorata nell’animo la fiducia nella possibilità di un progresso morale se non unanime, però almeno generale, dell’umanità. E questa gli veniva, sì, dal sentimento cristiano della vita, ma forse ancor più dalla philosophie des lumieres di cui era profondamente impregnata la sua mente. In questo senso, la «non resistenza» si potrebbe considerare la risposta razionale al fatto irrazionale della violenza organizzata, e a quello ancora più irrazionale e contraddittorio della violenza sistematica concepita come mezzo di stabilire sulla terra il regno di una giustizia concreta.

Tuttavia, se il progresso materiale, fondato sulla scienza e sulla tecnica, appare poca cosa quando lo si confronta al vero problema, che è quello di un mutamento stabile per il meglio della disposizione di intere masse d’individui, i suoi effetti, per quanto grossolani li si giudichi, hanno almeno il vantaggio di essere tangibili. Mentre il progresso morale armonico dell’umanità tutta intera appare, più che improbabile, inconcepibile. Tranne, beninteso, che non lo si voglia postulare come conseguenza automatica del progresso materiale, cosa che Tolstoi non era certo disposto ad ammettere.

Qual è dunque il vero movente della predicazione tolstoiana contro la violenza, e quale il fondamento vero del principio di «non resistenza»?

Per chi legga oggi i suoi scritti morali senza prevenzioni, la risposta non è dubbia: la contestazione veramente globale che Tolstoi opponeva alla societa contemporanea, la quale era secondo lui «fondata sull’assassinio» non solo perché fondata sulla divisione delle genti in tribù nazionali armate le une contro le altre, e ognuna contro i propri soggetti, ma soprattutto perché la violenza ne costituiva l’anima e il principio ispiratore; ed era una violenza che cominciava con l’esercitarsi sull’animo del fanciullo nella cosiddetta «educazione» e continuava con i costumi e i vizi della classe privilegiata, alimentati grazie alla violenza fatta agli «inferiori», per finire in quella delle istituzioni politiche e della scienza stessa, tutta tesa a far violenza sia alla natura che all’uomo stesso, in nome di una supposta razionalità. Al che bisognava aggiungere, secondo Tolstoi, la profonda vanità della cultura ufficiale e dell’arte stessa.

Dal punto di vista di tale contestazione davvero globale, l’idea che, usata contro una società radicata in modo così essenziale nella violenza, la violenza stessa, purché impiegata efficacemente da un determinato gruppo di persone, potesse riuscire ad altro che a perpetuare una tale pessima condizione di cose, non poteva che apparire assurda.

Insomma, quella contro cui Tolstoi si ribellava in nome di una religione che chiamò in un primo tempo cristianesimo, ma per la quale si può dire (sulla base di ciò che si legge nei diari degli ultimi anni della sua vita) che alla fine non trovava più nome, era la falsa religione della scienza.

Nella «Lettera a un indiano» si leggono su questo parole di una virulenza particolare: «Con la parola scientifico -scrive Tolstoi- s’intende la stessa cosa che era implicita un tempo nella parola religione, e cioè tutto quello che si chiamava religione si supponeva fosse sempre indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiamava appunto religione. Esattamente nello stesso modo, tutto ciò che oggi si chiama scienza è presunto essere indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiama scienza. Sicché, in questo caso, l’antiquata giustificazione religiosa della violenza, che consisteva nell’unicità e divinità dei personaggi che si trovavano al potere, è stata sostituita dalla giustificazione che consiste nel dire che, siccome la coercizione c’è sempre stata, questa è la prova che tale violenza deve continuare indefinitamente. L’idea che l’umanità non debba vivere secondo ragione e coscienza, ma obbedendo a ciò che è avvenuto da molto tempo a questa parte, si manifesta in quella che la scienza denomina legge della Storia… La seconda giustificazione scientifica della violenza è che, siccome fra le piante e gli animali esiste una continua lotta per l’esistenza che culmina sempre nella vittoria del più adatto, la stessa lotta dovrebbe esistere fra gli uomini… La terza giustificazione scientifica della violenza, la più autorevole e, sfortunatamente, anche la più diffusa è, in realtà, la vecchia giustificazione religiosa leggermente modificata. L’argomento è il seguente: nella vita sociale, l’uso della violenza contro alcuni per il bene della maggioranza è inevitabile; quindi, per quanto desiderabile sia l’amore del prossimo, la coercizione è inevitabile. La differenza fra la giustificazione della violenza da parte della pseudo-scienza e quella della pseudo-religione consiste nelle diverse risposte che esse danno alla domanda: perché certe persone, e non altre, hanno il diritto di decidere contro chi la violenza possa e debba esser usata? La scienza non dice che tali decisioni sono giuste perché pronunciate da persone investite di un potere che viene da Dio, ma che esse rappresentano la volontà del popolo…». E, in un’irruenta perorazione finale, lo scrittore conclude: «L’indiano, come l’inglese, il francese, il tedesco, il russo, non ha bisogno di Costituzioni, di rivoluzioni, conferenze, congressi, di nuovi ingegnosi congegni per la navigazione sottomarina o aerea, di esplosivi potenti, o degli aggeggi d’ogni sorta per il piacere delle classi ricche e governanti; e neppure di nuove scuole e università che propinino istruzione in scienze innumerevoli, né dell’aumento del numero dei giornali e del libri, dei grammofoni e dei cinematografi, e neppure delle sciocchezze infantili e in gran parte corrotte che vanno sotto il nome di arti. Una sola cosa è necessaria: la conoscenza di quella semplice e chiara verità… secondo la quale la legge della vita umana è la legge dell’amore, e che essa dà sia al singolo individuo sia all’umanità tutta intera la più grande felicità possibile».

La contestazione non potrebbe essere più globale, né l’affermazione più netta. Ma, mentre la contestazione appare oggi in una luce singolarmente vivida, e quasi profetica, l’affermazione rimane soggetta a un grande se, il se supremo, se così si può dire. Tolstoi lo esprime in un’iterazione molto significativa: «Se la gente si liberasse dalla credenza di ogni specie di Ormuzd, Brama e Sabbaoth, con le loro incarnazioni in Krisna e Cristi… nonché dall’idea di un Dio che interferisce nella vita dell’universo; se la gente si liberasse anche dalla fede cieca in ogni sorta di dottrine scientifiche su infinitesimi atomi e molecole, e ogni sorta di mondi infinitamente grandi e infinitamente remoti, i loro movimenti, la loro origine, e le forze relative; se si liberasse dalla fede implicita in leggi scientifiche teoriche cui si suppone che l’uomo sia soggetto: le leggi storiche ed economiche, quella della lotta per vita, eccetera; se soltanto la gente riuscisse a liberarsi da questo terribile accumularsi d’inutile esercizio delle capacità inferiori della nostra mente e della nostra memoria che si chiama “scienza”, da tutte le innumerevoli branche d’ogni sorta di storie, antropologie, prediche morali, batteriologie, giurisprudenze, cosmologie, strategie, il cui nome è legione; se solo la gente si liberasse da questa intossicante e rovinosa zavorra… la semplice, esplicita legge d’amore accessibile a tutti e così naturale all’umanità… diventerebbe naturalmente chiara e impellente».

In altri termini, se l’umanità non fosse quella che è, e non fosse arrivata al punto in cui è arrivata, allora il messaggio tolstoiano sarebbe accolto unanimemente da tutti… Stando le cose come stanno, si potrebbe concludere che è la violenza, e non la legge d’amore, che è «naturale» all’umanità o, per essere più precisi, inerente alla situazione stessa dell’uomo nel mondo, oltre che alla sua «natura»; e che quindi un mutamento radicale -una metanoia- come quello postulato da Tolstoi è impensabile più ancora che impossibile.

Arrivati a una tale conclusione, però, il discorso non può essere chiuso. Se la violenza, infatti, è naturale all’uomo, non meno naturale in lui -o, meglio, in un certo numero di loro- è il disgusto per la violenza bruta, la sopraffazione, la coercizione. Ammesso pure che nessuno dei due impulsi possa esser elevato a legge universale, e con essi nemmeno la cristiana e tolstoiana «legge d’amore», bisogna pur rispondere alla domanda che cosa possano pensare e fare coloro che rifiutano per istinto la violenza come mezzo per rendere più giusta la società in cui vivono.

La conclusione relativamente scettica che si può trarre dal discorso di Tolstoi sulla «non resistenza» è che l’appello all’umanità in genere perché riconosca una volta per sempre la «legge d’amore» e adotti la «non violenza» come mezzo per realizzarla non è sufficientemente giustificato. Dal che consegue che -vigoroso come rimane per la radicalità stessa della tesi- il discorso di Tolstoi diventa però debole nella misura in cui implica l’idea che la «non violenza» sia un mezzo pratico per far fronte alla violenza di cui è capace uno Stato moderno tecnicamente efficiente. La sua autorità rimane, cioè, puramente morale.

Se torniamo al testo su cui Tolstoi fondava esplicitamente la sua tesi, e cioè il Vangelo di Matteo (5, 58-45), notiamo subito che le parole qui attribuite a Cristo non potrebbero essere più chiare su un punto, e cioè che in esse si rifiutano insieme il principio sancito dalla legge ebraica (Levitico, 24, 17-21) «occhio per occhio, dente per dente» e quello greco, non sancito da alcuna legge, ma accettato come naturale anche da Socrate e da Platone, secondo il quale «è giusto fare il massimo bene agli amici e il massimo male ai nemici». «Vi fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici… poiché siete figli del Padre vostro che è nei cieli» risponde Cristo.

Che questa sia, in un certo senso almeno, l’essenza del messaggio cristiano non sembra si possa negare. Si noterà solo che nelle parole di Cristo si avverte anche l’eco di quell’universalismo «umanista» -o «cosmopolita»- già da tempo diffusi nella cultura ellenistica. È comunque certo che nel passo di Matteo si trova anche l’essenza di quella che Nietzsche chiamò con sovrano disprezzo «religione dei deboli».

Sorge a questo punto una delle domande cruciali che si sollevano di solito nel discutere di violenza e di non violenza: «Fino a che punto il debole è debole?».

Da una parte, quando a Tolstoi si obiettava che, non resistendo al male, non si otterrebbe altro che di lasciarlo trionfare, e quindi di lasciarsene distruggere, la risposta era che ciò sarebbe stato pur sempre male minore di una resistenza violenta dei deboli oppressi, la quale, mentre avrebbe causato male e distruzione aggiunti a quelli causati dai malvagi, non avrebbe neppure salvato i deboli dalla disfatta finale, dato che il potere organizzato è sempre più forte di quello che possono improvvisare gli oppressi inermi.

D’altra parte, però, oggi sappiamo bene che, quando si riesca con tecniche opportune a formarli in «masse», i «deboli» possono acquistare una forza insospettata e, scatenata da loro, la violenza può avere effetti alquanto devastatori. I deboli non sono deboli che quando sono oppressi e disarmati. E, d’altro lato, la forza dei moderni mastodonti meccanici non è neppur essa tanto forte quanto sembra. Nel fatto stesso dell’oppressione -di esser costretti a opprimere e reprimere- è implicito il timore di una forza latente incalcolabile, e di una violenza che, una volta scatenata, non ci saranno dighe capaci di arginarla.

Questo per sottolineare che l’argomento secondo cui la predicazione della «non resistenza al male» si fonda sulla debolezza dei deboli e sul fatto che essi sono disarmati è molto superficiale. Nella realtà delle situazioni sociali, debolezza e forza sono comunque dei fatti molto relativi; ed è stolto, in tale materia, fidarsi delle apparenze. Deboli erano i milioni di ebrei massacrati da Hitler; ma deboli anzitutto in quanto furono, per dir così, sorpresi nel torpore di un’esistenza pacifica: la rivolta del ghetto di Varsavia mostra che avrebbero anche potuto essere forti, perlomeno fino al punto da causare seri fastidi ai loro organizzatissimi carnefici. Forti, d’altra parte, contro il più forte Stato del mondo, si son dimostrati i guerriglieri vietnamiti. E oggi, la questione se la forza meccanizzata sia forte quanto sembra è diventata una questione molto seria. Uno dei fatti che sono apparsi chiari dalla gara per la strapotenza atomica è, ad esempio, che le forze contrapposte dei mezzi di distruzione moderni possono paralizzarsi (o atterrirsi come giustamente si dice) a vicenda.

Non si tratta dunque di forti e di deboli, ma di ben altro: di un principio da accettare o da rifiutare. Nel testo di Matteo, la «non resistenza al male» è espressa in forma di precetto universale fondato su una legge ugualmente universale: la legge secondo la quale gli uomini sono tutti figli di uno stesso Dio che fa «levare il suo sole sui buoni e sui malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gl’ingiusti».

Ma appunto per questo è d’altra parte chiaro in primo luogo che, parlando come parlava, Cristo non concepiva la non violenza come un metodo d’azione pratica da opporre alla pratica della violenza. Egli parlava evidentemente agli individui uno per uno, e concepiva le sue massime come norme di condotta individuale, da adottare senza considerazione alcuna d’efficacia. Si può dire, come è stato detto in sede di considerazioni storiche, che le sue parole avevano un senso molto preciso, rivolte com’erano a un popolo che aveva vivo il ricordo di rivolte sanguinose ed eroiche e della loro inutilità ai fini dell’abbattimento del potere di Roma.

Ma, in sostanza, ridotto in prosa esplicativa, il significato da attribuire alle parole di Cristo sembra essere questo: c’è l’oppressore armato e c’è l’oppresso disarmato; ci sono il potente, il ricco, il forte, e c’è l’indifeso, il povero, il debole. L’oppressore opprimerà finché ne avrà la forza. Che cosa potrà fare l’oppresso per rimaner fedele a se stesso e al Dio padre di tutti gli uomini nel quale crede? Non resistere al male perché è male in primo luogo, ma anche, al tempo stesso, perché non ne ha la forza. E non resistere non vorrà dire riconoscere il male e l’ingiustizia, ma anzi separarsi visibilmente dall’uno e dall’altra, mostrare negli atti che si è diversi dal malvagio. Il gesto di porger l’altra guancia a chi vi colpisce sarà appunto testimonianza visibile ed esempio di tale separazione e distanza. Ed esso non vorrà dire lasciare il campo libero al male, anzi fermarlo lì, non perpetuarlo opponendogli altro male, altro odio, altra violenza. D’altra parte, con questo il cristiano non pretenderà neppure di compiere un atto efficace, o di mettere in opera un metodo capace di vincere il male. Egli obbedirà alla legge del Dio in cui crede, e basta.

Qui sta forse la differenza fra il senso originario della parola di Cristo e la sua interpretazione da parte di Tolstoi, la quale assumeva la forma di un imperativo categorico non solo, ma anche di un principio efficace che si poteva validamente opporre al principio di violenza giustiziera predicato dai rivoluzionari. Donde i molti equivoci cui ogni movimento d’azione non violenta, da quello di Gandhi a quello di Martin Luther King, ha dato adito, primo fra tutti il tralignamento nella violenza cui è fatalmente soggetto. Ma più grave ancora dei dubbi e delle obiezioni teoriche è il residuo di impersuasione che permane anche dopo che siano state debellate le obiezioni teoriche.

La ragione prima di tale impersuasione è molto semplice: sta nell’impossibilita di fare appello a un gran numero di individui (anzi, in teoria, al genere umano in quanto tale) perché agisca in un dato modo senza in primo luogo fomentare la speranza di effetti immediati o comunque rapidi e, in secondo luogo -derivazione diretta di ciò- andare incontro a conseguenze imprevedibili: prima fra tutte, in questo caso, lo scoppio «naturale» della violenza nei momenti in cui «forti» e «deboli» si trovino faccia a faccia non individualmente, ma in massa. A questo punto, il diritto del debole a difendersi dalla violenza con la violenza rientra fatalmente in campo, come potè facilmente argomentare Martin Buber in risposta all’articolo nel quale, nel novembre 1938, Gandhi aveva consigliato agli ebrei tedeschi di adottare verso i nazisti il metodo della non violenza, anziché impegnarsi nella lotta per conquistarsi una patria in Palestina. Il che, d’altra parte, non significa che gli argomenti di Buber fossero logicamente più forti di quelli di Gandhi: quella che era forte era l’obiezione di fatto, accompagnata dal sentimento della giustizia offesa.

Ma, per tornare al Vangelo, quel che Cristo raccomanda nel Sermone della Montagna non è un metodo efficace, e neppure un comportamento di uomo «semplice» (il quale obbedisca, cioè, a un impulso irriflesso), bensì una condotta di uomo molto consapevole, dotato di una coscienza viva non solo del male che nasce dall’odio e dalla brutalità, ma anche della natura del vincolo sociale e delle condizioni in cui esso può essere mantenuto e ingentilito: un uomo, in altri termini, altamente «civile», o semplicemente «socievole», che è anche più chiaro. L’idea che Cristo si rivolgesse a folle ignare e rozze è certo fittizia: in primo luogo, egli parlava a pochi («Chi ha orecchi per intendere, intenda») e, in secondo luogo, questi pochi appartenevano a una società talmente provata dall’ingiustizia da una parte, e talmente ricca di fermenti spirituali dall’altra, che l’anelito verso una visione redentrice poteva assumervi forme addirittura febbrili.

Ma non è questo il punto cruciale del discorso. La questione che qui si vorrebbe chiarire per quanto possibile è un’altra, e cioè che senso si possa dare al principio cristiano di non resistenza al male in termini di vita morale e di effetto sulle coscienze.

C’è evidentemente, per primo, il rifiuto di agire come il malvagio e l’oppressore, la volontà di separarsi nettamente da lui: tanto nettamente da non tollerare neppure l’ombra del rancore o il pensiero nascosto della vendetta.

Ma in secondo luogo -sempre che non la si tratti come un’idea generale, bensì come un invito rivolto alla coscienza dell’individuo- c’è nella «non resistenza» il desiderio di preservare quel che è possibile preservare sia della vita fisica che della vita morale: una certa «integrità» non solo della persona singola, ma anche della società aggredita dal male; e il male non è soltanto la violenza vera e propria -quella armata- ma anche la prevaricazione smodata della ricchezza, l’arroganza dell’abilità tecnica (con il suo corollario: l’imposizione forzosa del cosiddetto «progresso»), nonché la presunzione della scienza, con il corollario della «culturalizzazione» coatta.

Si noti che queste conseguenze del principio evangelico riguardano tutte la difesa e la preservazione di una certa libertà «naturale», anzi puramente e semplicemente la libertà dell’animo umano: la dipendenza degli uomini dal Padre comune li affranca da ogni altra dipendenza e li incita a rifiutare ogni servitù temporale. Si noti però anche la parte che, nelle parole di Cristo, rimane paradossalmente «inattiva»: è quella contenuta nell’esortazione ad amare i propri nemici, la quale poi è parte integrante dell’universalismo del messaggio cristiano, del fatto, cioè, che esso si rivolge indistintamente a tutti gli uomini.

Non odiare -essere incapaci di odio- è un fatto morale semplice. Antigone sapeva che cosa fosse, quando si diceva «nata per amare, non per odiare». Ma «amare i propri nemici» che senso può avere, nella realtà dell’esperienza? Non si può amare che ciò che è amabile, e il carnefice, l’aguzzino, il prepotente non sono amabili. L’amante non corrisposto può dimostrare la forza del suo amore sacrificandosi per l’amata, distruggersi nel tentativo disperato di strapparle l’amore che essa non prova. Ma l’oppresso, che cosa può fare per vincere la brutalità dell’oppressore e renderlo più umano? Solo non resistergli, appunto, tentare di disarmarlo facendo cadere nel vuoto l’impeto della sua furia, della sua rapacità o della sua barbara sicurezza di essere nel giusto e di star esercitando un giusto potere. Ma questo non è un atto d’amore, né c’è necessità alcuna che lo sia. È un esempio di umanità che toccò raramente gli antichi persecutori e non sembra abbia mai toccato i persecutori moderni, ben altrimenti addestrati alla cecità morale.

L’atto di non resistere al male è, a considerarlo nella sua singolarità, un atto negativo che afferma, senza speranza alcuna di riuscire efficace, la presenza, nell’uomo, di una realtà che trascende ogni evento materiale, compresa la distruzione fisica. Tale atto potrà avere l’effetto inatteso di riuscire a stabilire col «nemico» un rapporto umanamente tollerabile, ma non è a tal fine, comunque, che sarà stato compiuto, bensì, come ogni atto umano autentico, per inevitabile necessità interiore. Il suo valore morale non dipenderà certo dal fatto di far parte di un «metodo d’azione» supposto efficace.

Ma, alla fine, che cos’è dunque realmente quest’atto negativo di non resistenza? È un atto col quale si riconosce il fatto della forza maggiore senza per questo umiliarsi a giustificarla o a guadagnarsi il favore del più forte, ma tuttalpiù per ottenere, in cambio del riconoscimento della strapotenza di quello, la nuda sopravvivenza.

Ora, questa era l’intenzione che ritroviamo all’origine del gesto greco del «supplice»: ikétes. Il supplice non si umiliava: era già umiliato dalla sventura, colpito dagli Dei, sacro. Il suo atto era un primo molto umano tentativo di risollevarsi, un chinarsi per poter alzare di nuovo il capo, e si esprimeva nel gesto di abbracciare le ginocchia del vincitore o del potente. Il gesto era considerato già di per se stesso audace, tanto che Ecuba, in Euripide, si domanda se non sia già troppo osare avanzarsi fino a stringere le ginocchia di Agamennone: il gesto comportava infatti un contatto fisico e, con questo, l’evidenza della comune umanità, rendendo empio di fronte a Zeus chi si fosse rifiutato di far grazia.

Se non la si idealizza facendone un principio universale astratto e un metodo d’azione, la «non resistenza al male» finisce dunque col somigliare alla «non resistenza al Destino» che, per il greco, era non già un principio etico, ma un semplice riconoscimento della realtà di fatto. Giacché, a ben riflettere, Destino e Male, che si tratti di azioni umane o di catastrofi naturali, sono la stessa cosa.

he nell’uomo e nella sua «storia» sia all’opera la stessa necessità che agisce nella natura, e che dunque il male che viene all’uomo dalle azioni dell’uomo stesso sia altrettanto misterioso e inevitabile quanto quello causato dallo scatenarsi delle forze della natura (le quali noi chiamiamo «cieche» unicamente perché non hanno aspetto umano), questa è la verità contro cui recalcitra l’uomo moderno, ostinato com’è nella convinzione insolente che l’uomo è, in ultima analisi, l’autore e l’origine prima delle sue azioni, e quindi anche del suo destino. Ma se si torna a riflettere sul modo di vedere degli antichi greci, secondo cui il fondo delle cose è uno ed eternamente oscuro, e non è neppure possibile dire di che natura sia la necessità che governa ogni moto, allora quello che noi chiamiamo «male» e che consideriamo errore o colpa fatale, sì, ma in teoria pur sempre eliminabile per via d’astuzia, d’abilità tecnica o di opportuna violenza, ci apparirà della stessa natura del Destino; e l’ordine umano, allora, non ci parrà ultimamente meno arcano di quello dell’Universo; e quindi, da ultimo, neppure più docile di esso alla nostra volontà demiurgica. La lezione appresa per questa via sarà una lezione di misura, non di inerzia.

Ma l’uomo contemporaneo rimane, almeno nelle sue dichiarazioni e azioni pubbliche, convinto che la forza dei meccanismi, delle armi e del potere organizzato lo rende ormai capace di opporsi efficacemente sia al Male che al Destino, riducendone progressivamente gli effetti fino ad annullarli del tutto, o almeno a ridurli e contenerli a tal punto da poter dire di averli praticamente eliminati.

L’idea di mobilitare la Forza per abolire il Male sulla terra (e specialmente nella società) è la grande idea moderna. Essa continua a far strage da quasi due secoli, e da cinquant’anni a questa parte a un ritmo pazzamente accelerato. Giacché, facendosi signore della Forza, l’uomo si fa anche signore e arbitro del Male, avanzando di fatto la pretesa di onnipotenza, o almeno di rappresentare lui l’unica potenza efficace, in quanto dotata d’intelligenza. Così egli rischia di far tornare ogni cosa al caos primigenio attraverso lo scatenamento della violenza, dell’ingiustizia e del Male allo scopo finale di far regnare il Bene assoluto.

È di fronte a questa arroganza assoluta che il principio di non violenza, proprio mentre si mostra inefficace come metodo d’azione, viene ad assumere il significato semplicissimo di affermazione di un modo di concepire la vita e di viverla tutt’altro da quello contemporaneo: un modo che non si esprime né in messaggi evangelici né in catechismi né in manifesti politici, ma consiste per cominciare nella fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo il suo proprio ritmo e la legge inscrutabile che opera in ogni cosa è vera e vale, mentre i mutamenti sono tanto più illusori quanto più repentini, violenti e totalitari. Ciò non significa rifiutarsi di partecipare alle vicende della vita associata, ma solo dare alla politica la sua parte e negarle ciò che non le spetta.

Questo si può esprimere anche nelle parole di Lao Tse: «Chi agisce con violenza può ottenere il suo scopo, ma solo ciò che rimane fermo al suo posto dura».

Nicola Chiaromonte

Stato e minoranze rivoluzionarie

Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Ci è giunto, con questo titolo, un comunicato che porta l’indicazione «Faro – Agenzia stampa», con sede a Vigevano, e della quale è direttore responsabile Gian Franco Invernizzi. Non conoscevamo l’agenzia Faro, né conosciamo il suo direttore, ignoranza di cui ci scusiamo. L’articolo che porta il suddetto titolo, ed è da lui siglato, ci è parso comunque interessante, in quanto, nella non poca confusione di motivi che accompagna la sommossa degli studenti, c’è qualcuno che ha voluto mettere i punti su qualche i e cercare di distinguere ciò che va distinto, anche se poi le distinzioni si prestano secondo noi a critiche sostanziali. Lo pubblichiamo perciò qui di seguito per intero, facendolo seguire da alcune osservazioni.

Le recenti manifestazioni studentesche che si sono sviluppate in Europa e in America sui temi della “contestazione globale” ad opera di minoranze insofferenti alla organizzazione della società quale si è venuta configurando in Occidente, rappresentano un fenomeno politico di tipo nuovo nel sistema occidentale. Nonostante le apparenze, è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la “rivoluzione culturale” in Cina. Anche nei Paesi occidentali il moto autonomo e spontaneo dei gruppi studenteschi si è manifestato contro la burocrazia politica. Ma, mentre la “rivoluzione culturale” cinese non contesta il sistema vigente, limitandosi a prenderne di mira alcuni aspetti, alcune frange riformiste e autoritarie, in Occidente il movimento studentesco mette in discussione l’organizzazione della società, il “sistema”. Il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune “tare” autoritarie, in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione. L’uno infine è un fatto di massa, l’altro un fatto di élite, di avanguardia. È altrettanto sbagliato vedere analogie fra le manifestazioni studentesche in Occidente e quelle dei Paesi dell’Est europeo, Polonia e Cecoslovacchia in particolare. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi occidentali contesta un tipo di sistema che ha raggiunto una avanzata fase “consumista” nel quadro della società industrializzata. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo, contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà, tout court. Il movimento politico studentesco in Occidente si presenta in realtà più “avanzato” nei suoi contenuti di tutta una fase storica rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo. In questa differenza di “qualità” e di “quantità” nei fenomeni politici giovanili delle aree comuniste, moscovita e cinese e dell’area occidentale, c’è spazio per un discorso franco e obbiettivo. La violenza delle manifestazioni di alcuni gruppi politici in Occidente sembra direttamente proporzionale al grado di “integrazione” delle varie classi sociali nel sistema. Più il sistema “integra”, più sembra radicalizzarsi nei Paesi industrializzati dell’Occidente l’azione di alcune minoranze, fino all’uso della violenza, da parte di alcuni gruppi più ristretti, come strumento di protesta e di lotta politica. Non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale. Si perviene quindi, ed è bene parlarne, ad uno dei temi più delicati e cruciali, quello cioè del rapporto fra lo Stato e l’azione di alcuni gruppi quando questa sfocia nella violenza. Nelle moderne società industrializzate, l’apparato produttivo raggiunge un alto grado di efficienza e sempre più complessa diviene l’organizzazione civile. L’azione irresponsabile di gruppi violenti, che potrebbe arrecare all’una e all’altro danni gravi, non può essere tollerata. Vi è pertanto un problema di prevenzione, di “democratizzazione” e un problema di repressione. Vi è la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei ed efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione. Occorre prevenire e reprimere le azioni di violenza, lasciando la più ampia libertà di espressione a tutti. Purtroppo, a considerare da come ci si è mossi nei Paesi europei occidentali nei confronti delle manifestazioni studentesche, v’è da temere che da parte delle vecchie classi politiche che si trovano a gestire (male) il “sistema”, si assumano atteggiamenti radicalmente sbagliati. Reprimendo cioè libere e lecite manifestazioni di cittadini e mostrandosi deboli, incerti, persino paurosi e codardi nei confronti delle azioni di violenza di alcuni gruppi politici minoritari. In America ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza.

È bene che, per cominciare, il direttore dell’agenzia Faro abbia tenuto a dire chiaramente che «è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la “rivoluzione culturale” in Cina». Quando però egli aggiunge che «il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune “tare” autoritarie», mentre «in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione», è difficile non rilevare che, per quanto se ne sa, e quali che siano peraltro stati i suoi effetti e meriti eventuali, la «rivoluzione culturale» cinese ha avuto in ogni caso il carattere di un movimento scatenato dall’alto, sostenuto dal meccanismo statale non poco autoritario che regge attualmente la Cina e in particolare dal formidabile centro di potere costituito dal dittatore Mao Tse Tung e dai suoi fedeli.

Tale movimento è d’altra parte tornato nell’alveo prestabilito non appena detto centro di potere -e più particolarmente il potere militare- ha ritenuto che le cose fossero andate abbastanza avanti, gli scopi prefissi più o meno raggiunti, e i pericoli del preordinato straripamento più grandi ormai dei possibili vantaggi che esso poteva offrire, al fine di sgominare la resistenza di certi quadri del partito e del regime al potere del dittatore Mao Tse Tung. Chiudere le scuole, scatenare quaranta milioni di ragazzi sulle strade e nelle città della Cina, mettendo a loro disposizione le ferrovie e gli altri mezzi pubblici di trasporto e procurando che venissero nutriti e alloggiati a spese dello Stato, sono misure forse politicamente geniali, ma che non sembrano caratteristiche di un movimento spontaneo destinato a «purificare» un regime delle sue «tare autoritarie». Si direbbe piuttosto che un tal movimento è tipico di un moderno e assai astutamente concepito regime di massa. E regime di massa è sinonimo, ci sembra, di regime non solo autoritario, ma totalitario. Ciò non soltanto, nella fattispecie, per la mostruosa fanatizzazione condotta in base al famoso libretto dei pensieri di Mao, ma semplicemente perché manovrare le masse (e in particolare le masse giovanili) per mezzo di meccanismi ideologico-burocratici, anche e soprattutto quando le si scatenano contro obbiettivi prestabiliti, è il segno non equivoco dei regimi totalitari moderni, passati, presenti e (probabilmente) futuri.

Ribellarsi contro un «sistema» -quello occidentale- definito «autoritario» e «alienante» basandosi su tali esempi e su tali definizioni sembra parecchio contraddittorio. A meno, naturalmente, che la «rivoluzione» auspicata non sia di specie massiccia e totalitaria: un’ideocrazia sostenuta da una burocrazia, diretta (come sembra suggerire la nota di Gian Franco Invernizzi) a sgominare ogni bieco «riformismo ».

Ma in qual modo d’altra parte conciliare un simile ideale (se di esso si tratta), o quanto meno un simile giudizio e la logica in esso implicita, con l’affermazione che, contrariamente a quello cinese, il movimento studentesco occidentale è un «fatto di élite, di avanguardia»? Sarà esso per caso qualcosa di analogo all’«avanguardia del proletariato» secondo Lenin (diciamo «secondo Lenin» e non «secondo Marx» perché la concezione che aveva Marx dell’avanguardia rivoluzionaria era alquanto più complessa di quella nettamente minoritaria e autoritaria, propria di Lenin)? Ma, in tal caso, sarebbe pur sempre a un regime di massa che si aspirerebbe, a quella dittatura del proletariato della quale già prima del 1914 Charles Peguy diceva che gli sarebbe piaciuto sapere chi -quale individuo particolare- l’avrebbe impersonata e esercitata.

Una dittatura, quale che sia il motto sulla sua bandiera, ha, fra le altre conseguenze, quella di «alienare» duramente non solo tutti coloro che non l’applaudono e non se ne lasciano irreggimentare, ma anche (e forse soprattutto) quelli che la applaudono e la seguono entusiasti: basta il fatto di vestire un’uniforme, di agitare un libretto, di sfilare in parata, di alzare il braccio nell’una o l’altra forma di saluto al «capo geniale» per essere alienati e asserviti in quanto individui autonomi e possibilmente pensanti. Sarebbe interessante conoscere l’opinione del direttore responsabile dell’agenzia Faro su questo punto, con aggiunta la dimostrazione della superiorità dell’alienazione proletaria, socialista, comunista, o comunque denominata, su quella attribuita al neocapitalismo «consumista».

D’altra parte, con generoso impulso, il direttore responsabile dell’agenzia Faro prende partito in favore dell’attuale rivolta della gioventù e degli intellettuali in Cecoslovacchia e in Polonia (e insomma anche in Russia) contro i rispettivi regimi totalitari, affermando che «l’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà tout court». Il quale fatto sembra peraltro, all’autore di questa nota, indicare che il movimento occidentale è «più avanzato, nei suoi contenuti, di tutta una fase rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo».

Strana argomentazione. La «formale creazione di istituti» di cui si tratta in Cecoslovacchia e in Polonia è, in sostanza, esigenza di democrazia effettiva nella gestione degli affari pubblici e di «libertà tout court» quanto al diritto di comunicare con i propri simili sia per mezzo della parola parlata che della stampa e degli altri mezzi d’espressione. In che senso in Occidente tali diritti e istituti «cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza»? In che senso, poi, tale usura e inadeguatezza sarebbero prove del carattere più avanzato dei movimenti studenteschi occidentali? Sarebbe per caso ormai, in Occidente, la «libertà tout court» «un cadavere putrefatto», secondo la celebre asserzione fatta nel 1922 da un notevole manovratore di masse di nazionalità italiana, del quale certo il direttore responsabile dell’agenzia Faro non ha bisogno che gli si ricordi il nome? E sarebbe d’altra parte per caso l’«alienazione» di cui tanto si parla altro che asservimento e mancanza di libertà? Non potrebbe per avventura darsi che ogni rivendicazione politica, quale che ne sia l’impulso ispiratore, fosse sempre una rivendicazione di «libertà tout court», di libertà senza aggettivi, e che un tal fatto andasse riconosciuto una volta per tutte da tutti coloro che si dicono «rivoluzionari», e i quali invece oggi indulgono in una distinzione fra «vera libertà» e «falsa libertà», «libertà concreta» e «libertà astratta» che non può non confondere le idee e far dimenticare il senso della cosa di cui si tratta? La quale è proprio la libertà tout court, anzi la libertà formale, la libertà come forma del vivere civile, eguale per tutti e a disposizione effettiva di tutti: la libertà che Rosa Luxembourg rivendicava fieramente di fronte a Lenin nell’ora del trionfo della dittatura del proletariato, e cioè di quella «libertà concreta» rappresentata, secondo il medesimo Lenin, dal «fucile sulla spalla dell’operaio».

Ma, se non sembra avere idee molto chiare quanto alla libertà e alla democrazia, il direttore responsabile dell’agenzia Faro, bisogna riconoscerlo, si rende conto della china pericolosa su cui si può scivolare seguendo il richiamo del mito rivoluzionario. Questa china è secondo lui, quella della violenza, la quale apparirebbe tanto più attraente, come strumento di lotta politica, quanto più forte diventa «il grado d’integrazione del sistema». E di fronte a questa attrattiva sempre più grande della violenza, «non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale».

La conclusione di Gian Franco Invernizzi è che esiste, nelle nostre società, «un problema di prevenzione, di democratizzazione e un problema di repressione», quindi «la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei e efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione». Ad esempio di buona soluzione di un tal problema, il direttore dell’agenzia Faro non esita a proporre quello dell’America, «dove ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza».

Conclusione altrettanto sensata quanto inattesa. E tuttavia poco convincente. Non solo perché ci sarebbe pur qualcosa da dire sui metodi usati dalla polizia americana quando si trova dinanzi a scoppi di violenza di massa, ma soprattutto per l’ovvio non sequitur del ragionamento. Il quale non sequitur si riduce a questo: se il «richiamo riformista» è inutile, e quel che le minoranze rivoluzionarie studentesche vogliono è il mutamento totale del «sistema», la violenza è il mezzo non solo logico ma inevitabile a cui esse devono ricorrere, correndo al tempo stesso il rischio -è evidente- della violenza contraria dell’apparato repressivo statale. Non si può volere tutto, e volerlo nel futuro immediato, senza perciò stesso volere la violenza: la violenza è già nell’idea, e dall’idea al fatto il passo è più che breve.

Ma se poi «rifiuto del sistema» e «contestazione globale» sono dei modi di dire massimalisti (come in fin dei conti sembra il caso nella sommossa degli studenti), e si tratta invece in sostanza di «richiamo riformista», e di «lasciare a tutti la più ampia libertà d’espressione», allora non siamo forse nell’«ambito del sistema» (il quale, in Italia come in altri luoghi d’Occidente, è a dir poco alquanto ambiguo sia quanto a energia riformista che quanto a libertà di espressione), ma siamo certo fuori dal rivoluzionarismo senza oggetto di cui tanto abuso s’è fatto, e per tanti anni, assai prima che dai giovani, dai loro pessimi maestri e falsi pastori intellettuali.

Chiaromonte, l’America e “l’etica del limite” nell’età dell’estremismo

Sono onorato di essere qui oggi a condividere alcune riflessioni su Nicola Chiaromonte, eroica figura antifascista della “Generazione della Resistenza”, la vita e l’opera del quale, saranno presto, così spero, celebrate e studiate con maggiore ampiezza sia in Italia, suo paese natale, che in altri paesi. Nello specifico, vorrei parlarvi dell’impatto che Chiaromonte ebbe su un gruppo influente di americani mentre si trovava in esilio a New York negli anni ’40. Il suo umanesimo, che lasciò una traccia così profonda, fu il frutto di una dura esperienza di vita durante l’era di Hitler e Mussolini e delle ideologie che giustificarono il genocidio durante la seconda guerra mondiale; rappresentò la speranza che potesse esistere un’alternativa, che la giustizia, il dialogo e l’idea di comunità fossero ancora praticabili pur nell’ombra dell’Olocausto e di Hiroshima. Io sono convinto che le idee di Chiaromonte, fondate sul principio etico classico del “limite”, siano più attuali che mai oggi, a trent’anni dalla sua morte, non solo per gli americani, ma per molti altri che fanno parte della comunità globale, specie in quest’epoca caratterizzata dall’estremismo e dagli abusi di potere.

  1. Ho scoperto Nicola Chiaromonte una decina di anni fa, mentre facevo ricerche per la mia dissertazione di dottorato: uno studio sulla figura del dissidente newyorkese Dwight Macdonald, giornalista e critico. Macdonald era un membro del gruppo della “Partisan Review” che nel 1930 si occupava di marxismo -prima che le purghe di Stalin lo inducessero a rifiutarne le pretese utopistiche. Macdonald mi interessava in quanto il più vivace, iconoclasta -e quindi meno datato- degli intellettuali newyorkesi di quel periodo. Chiaromonte una volta lo descrisse affettuosamente come un’”intelligenza libera”, “un americano vecchio stile, un individualista esuberante e ricco di immaginazione”, come da miglior tradizione del paese che, per carattere e convinzioni, risultava incapace di ortodossia ideologica (questo andava con l’idea di Chiaromonte che “nessuna ideologia preconfezionata poteva avere presa sulla realtà americana”). Altri furono meno indulgenti sulle eccessive esuberanze di Macdonald. Un esasperato Leon Trotsky, alla fine degli anni ’30, mentre rifiutava con rabbia le domande sugli esordi sanguinosi della Rivoluzione bolscevica, commentava il suo atteggiamento con queste parole rimaste famose: “ognuno ha diritto alla propria stupidità ma il compagno Macdonald abusa di questo privilegio”. All’interno dell’atmosfera di conformismo patriottico e di autocensura che caratterizzò l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, Macdonald fu uno dei pochi che rifiutò di mettere a tacere le sue facoltà critiche. Nel 1944 aveva lasciato la “Partisan Rewiew” per mettere in piedi un proprio giornale di opinione, chiamato semplicemente “Politics”, che doveva servire come forum di discussione sulle politiche degli stati alleati, per dar voce ai rifugiati europei e ai veterani della Resistenza e per incoraggiare il dialogo fra le alternative democratiche alle potenze militarizzate che, come giustamente aveva predetto, si sarebbero trovate l’una di fronte all’altra dopo la fine della guerra.

Fu durante questo periodo di sperimentazione che Macdonald incontrò e divenne amico di Nicola Chiaromonte, nuovo ingresso nella crescente comunità di esuli a New York. L’influenza fu immediata e così totale da far dire in seguito a Macdonald che la rivista “Politics” era “una coproduzione italo-americana”. Anche la scrittrice Mary McCarthy entrò a far parte di questo gruppo di amici. Per lei “parlare con Chiaromonte fu un’esperienza nuova e così stimolante che non si esaurì mai”. McCarthy ricordava con particolare tenerezza le discussioni dell’estate ’45 su Shakespeare, Tolstoj e la misteriosa scrittrice contemporanea Simone Weil, durante una vacanza a Cape Cod la cui tranquillità fu distrutta dalla notizia della bomba atomica. Chiaromonte ammirava l’apertura e l’entusiasmo dei suoi amici americani che, a loro volta, erano affascinati dalla calma saggezza, dalla profondità e dalla “serietà” di “questo bell’uomo, scuro di pelle, che sembrava un monaco”.

Come altri esuli del gruppo Macdonald-McCarthy, legati alla rivista “Politics” (importante era la presenza di Hannah Arendt), Chiaromonte aveva portato con sé il peso di anni di lotta al fascismo e alle sue orribili conseguenze. La maggior parte di voi conosce la sua storia. Nato nel 1905 nel sud, nella cittadina di Rampolla, Chiaromonte non perse mai l’amore per la forza, la dignità e l’innato anarchismo dell’ambiente contadino che l’aveva circondato nei suoi primi anni. Durante gli studi a Roma, presso i gesuiti, preferì l’umanesimo classico alle astrazioni teologiche in voga allora, sia cattoliche sia marxiste. Seguì l’esilio da Mussolini a Parigi, sotto la tutela di Andrea Caffi e del gruppo “Giustizia e Libertà”, e la pericolosa partecipazione alla guerra di Spagna con André Malraux. Il saggio di Chiaromonte che rendeva omaggio all’idealismo dei repubblicani a fianco dei quali aveva combattuto apparve nel 1939 negli Stati Uniti sulla rivista “Atlantic Monthly”.

“Stando insieme a queste persone talvolta uno ha l’impressione di essere in mezzo a tanti Patrick Henrys (eroe della rivoluzione americana del 1776, Ndr) -scriveva Chiaromonte- ‘Libertà o morte’ sembra essere il motto generale. Essi hanno in comune l’urgenza di liberare il mondo intero dalla minaccia fascista e questo spesso si esprime col darsi delle arie e assumere degli atteggiamenti. Ma c’è anche la fede, una fede fanatica fondata su un concetto semplicissimo: un paese libero e una società fatta di persone oneste, che non debbano patire la fame né vestire di stracci. Esiste qualcosa di più semplice di tutto questo?”.

Poi venne quella che Chiaromonte definì “l’ora zero dell’umanità”, ovvero le prime sconvolgenti vittorie della guerra-lampo nazista. Con la caduta di Parigi nella tragica primavera del 1940 Chiaromonte fu costretto a scappare di nuovo, perdendo la sua prima moglie durante il difficile viaggio verso sud, ma traendo un po’ di conforto dalla generosità e dalla resistenza degli amici rifugiati in quelle comunità improvvisate.

“A Toulouse c’erano degli amici, c’erano compaesani che parlavano il proprio dialetto, c’erano gli amici degli amici; un uomo poteva trovare un letto e qualcosa da mangiare. Arrivavano da ogni luogo: dalle loro case, da reggimenti stranieri, da gruppi di lavoro forzato, da campi di concentramento, dalla Lorena, dall’Alsazia e anche dai sobborghi di Parigi, dal Belgio e finanche dall’Inghilterra, via Dunkerque… Ci stringevamo tutti intorno ad un tavolo in uno scantinato distrutto e non c’era mai posto a sufficienza né al tavolo né a sedere. Dal più abissale sconforto risorgevano gli spaghetti e si organizzava la mensa. Sulla più elementare delle basi comuni -ovvero la necessità di mangiare- nasceva una piccola comunità o piuttosto si formava una famiglia alquanto composita”.

La sua destinazione successiva fu il Nordafrica, dove nel 1941 incontrò Albert Camus, con cui avrebbe condiviso molte affinità artistiche e politiche. Chiaromonte ricordò l’intensità dell’incontro con Camus e con la sua “famiglia” di compatrioti algerini: “Hitler aveva appena occupato la Grecia e la svastica sventolava sull’Acropoli -scriveva-. Soffrivo di una nausea continua per questi avvenimenti. Ma solo e sradicato com’ero, in quel momento ero l’ospite di questi giovani. Per conoscere veramente il valore dell’ospitalità uno deve essersi trovato solo e senza casa”.

  1. Chiaromonte portò tutte queste esperienze con sé quando finalmente arrivò alla salvezza in America, dando inizio ben presto al sodalizio con l’instancabile Dwight Macdonald. Ebbe una grandissima influenza sulla rivista “Politics” di Macdonald proprio nel modo di affrontare la violenza delle ultime fasi della guerra e, più tardi, cercando di articolare una “terza via” di opposizione post-marxista nella prima fase della Guerra fredda. Condannò l’ideologia della “responsabilità dei popoli”, la nozione disumana della colpa collettiva, del “noi contro loro”, che faceva sì che i civili diventassero obiettivi legittimi di armamenti da giudizio universale (che già allora includevano le opzioni nucleari). Introdusse i lettori della rivista al pensiero di Simone Weil, la cui riscoperta della concezione greca del “limite” sembrava arrivare al momento giusto per essere applicata al rinnovato estremismo ideologico. La Weil, come anche Chiaromonte, rifiutava ogni schematismo -specialmente il determinismo marxista e la fede dell’Occidente nel “progresso” materiale- che trasformava gli individui in unità disponibili per un grande calcolo storico, a giustificazione dell’uso cieco del potere. Chiaromonte capì molto bene come la Weil avesse colto l’aspetto malato della modernità, l’”hubris” di quella che lei chiamava la nostra “era tecnologica che si autocelebra”. “I concetti del limite, della misura, dell’equilibrio che dovrebbero determinare la condotta della nostra vita -scriveva con parole che sono valide oggi come allora- nell’Occidente sono relegati ad una funzione servile nel vocabolario della tecnica”.

Chiaromonte, inoltre, presentò le idee di Albert Camus a Macdonald e ai lettori americani della rivista. Quando Camus arrivò a New York per una lunga visita nella primavera del 1946, Chiaromonte lo accolse al suo arrivo al molo. Si trovarono d’accordo sull’impegno a non diventare “né vittime né carnefici” in tempi di violenta polarizzazione e Chiaromonte registrò con approvazione il monito di Camus alla Columbia University: “il veleno di cui era impregnato Hitler (rimane) presente in ciascuno di noi”.

Le parole di Camus continuano a risuonare ancor oggi: “Viviamo nel terrore perché la persuasione non è più possibile, perché non riusciamo più a tirar fuori quella parte di noi che recuperiamo contemplando la bellezza della natura e dei volti umani, perché viviamo in un mondo di astrazioni, scrivanie e macchine, di idee assolute e di rozzo messianesimo. Soffochiamo in mezzo a questa gente che pensa di avere assolutamente ragione sia rispetto alle loro macchine che alle loro idee. E per tutti coloro che riescono a vivere solo in un’atmosfera di dialogo e socialità fra gli uomini, questo silenzio è la fine del mondo”.

Chiaromonte lavorò con Camus alla fine degli anni ’40 per costruire una cultura cosmopolita del “dialogo e della socialità” che operasse “al di fuori” delle istituzioni ufficiali, governo e partito, fuori dalla politica convenzionale, attraversando le frontiere indurite delle nazioni e delle ideologie nei primi giorni della Guerra fredda. Queste idee descritte da Gino Bianco come “il pensare al di fuori della politica” dovevano molto al mentore di Chiaromonte, Andrea Caffi, che aveva parlato di creare “una società nella società”. E’ un approccio ricorrente nella nostra storia: per esempio in Polonia, dove Chiaromonte veniva letto ed ammirato durante le repressioni degli anni ’70 e ’80, e il dissidente Gÿorgy Konrad lanciò un appello molto simile alla solidarietà internazionale spontanea, dichiarando che “coloro che pensano violano le frontiere”.

Con l’aiuto di Macdonald, Mary McCarthy e altri intellettuali newyorkesi alla ricerca di una “terza via”, fuori dalla minaccia di una terza guerra mondiale, Chiaromonte co-produsse “Europe-America Groups”, un progetto che prevedeva l’invio di aiuti materiali e incoraggiava la creazione di reti di comunicazione e solidarietà oltre l’Atlantico (cosa che allora, senza gli aerei, i satelliti e internet costituiva un problema per la grande distanza).

Chiaromonte ritornò in Europa nel 1947, insieme alla moglie americana Miriam, e lavorò come punto di collegamento di questo progetto che ancora oggi, nonostante sia stato definitivamente chiuso, è un modello per i movimenti transnazionali impegnati per la pace e la democrazia. Al momento della partenza da New York, Macdonald (che aveva dato ad uno dei suoi figli il nome di Chiaromonte) riassunse così l’impatto che l’italiano aveva avuto su di lui: “Ho imparato molto da te, Nick, e tu hai cambiato interamente le mie idee (tu e la bomba atomica)”.

  1. Nei successivi venticinque anni Chiaromonte, Macdonald e Mary McCarthy mantennero i legami d’amicizia, scambiandosi visite e corrispondendo su tutto, dalle cose personali alle controversie politico-letterarie del momento. Ho avuto il piacere voyeuristico di leggere gran parte di questa documentazione dattiloscritta, che viene conservata nei “Macdonald Papers” all’università di Yale e all’archivio McCarthy presso il Vassar College, e il calore e l’intimità del loro rapporto brilla oltre il tempo e la distanza. Chiaromonte apprezzava molte cose dell’America, ma confessava di sentirsi meglio a casa dopo tanti anni all’estero. “L’Europa si trova in uno stato disastroso -scriveva a Macdonald nel 1947- ed intellettualmente non è molto interessante, pur tuttavia l’Europa è una società, strade alberate, cose strane e belle, mentre per me New York vuol dire qualche amico qua e là, molto cemento ed un’incredibile… mancanza di qualità in tutto”.

Per un breve periodo Chiaromonte visse in Francia, lavorando presso la sede dell’Unesco di Parigi, ma trovò piuttosto demoralizzante quella routine “vuota ed assurda” della vita burocratica. “Così mi trovo qui -scriveva in un’altra lettera a Macdonald lamentandosi- a fare poco o niente ma… legato agli orari d’ufficio, ai discorsi idioti da camicia inamidata, con la sensazione di perdere giorno dopo giorno il controllo sulla mia vita e sul mio cervello…”.

Finalmente, nel 1953, i Chiaromonte arrivarono a Roma, dove Nicola trovò lavoro come critico per il settimanale “Il Mondo” diventando, a metà degli anni ’50, coeditore con Ignazio Silone del giornale “Tempo presente”.

Nicola, Dwight e Mary mantennero ostinatamente la propria autonomia critica anche nei giorni più “frigidi” della Guerra fredda. Condannarono i crimini dello Stato sovietico, ma contemporaneamente misero in evidenza i limiti dei sistemi occidentali. Ben presto, per esempio, si resero conto dell’assoluta follia della guerra americana in Vietnam. “C’è qualcosa di particolarmente nauseante nella brutalità americana -scriveva Chiaromonte a Macdonald nel 1965- non solo perché si accompagna ad un discorso ipocrita sulla democrazia, sulla libertà e sulla pace ma anche perché è così scoperta, cruda, così fine a se stessa, un gioco, una questione tecnica”.

A proposito degli architetti della guerra osservava: “Potere, potere, potere. Non gli viene neppure il sospetto che il potere possa essere speso molto più velocemente e male dei soldi?”.

Richiamando la Simone Weil dei due decenni precedenti, Chiaromonte metteva in guardia sulla possibilità che l’impresa avesse un esito disastroso per gli Stati Uniti poiché andava incontro a quel tipo di “punizione meritata” causata “dalla corruzione, dalla brutalità e dalla volgarità che si manifestano nello stesso momento in cui il potere viene usato come fine a se stesso”. Nello stesso tempo, tuttavia, lamentava che gli europei, così come altri paesi, guardassero allo stile tecnocratico americano con invidia e paura al contempo. In discussione c’era la definizione della vera identità americana e il suo ruolo nel mondo. In una lettera del 1965, Chiaromonte concludeva: “C’è una questione che ha a che fare con la guerra del Vietnam ed è stabilire che tipo di America si vuole. Se si vuole un’America superpotente, super ricca, supermeccanizzata, completamente tecnologicizzata e programmata elettronicamente e che corrisponde a quello che alcuni vorrebbero, … allora (il Presidente) Johnson ha ragione… ma se uno pensa che il potere dell’America debba avere un significato e uno scopo completamente diversi e che l’imperialismo sia del tutto estraneo alla sua natura, perché si fonda su un processo di ‘espansione naturale’ e non di forza militare, allora si deve essere fermamente decisi e contrari a qualsiasi discorso di ‘prestigio nazionale’ o di ‘salvare la faccia’ o di propria convenienza”.

Nel 1966 Chiaromonte fece una serie di conferenze all’Università di Princeton conservate nel volume The Paradox of History (trad. it. Credere e non credere) in cui riassumeva la sua critica all’assolutismo ideologico e all’abuso di potere che ne derivava. Chiaromonte ancora una volta rifiutava le scuole di pensiero -marxista, liberale o conservatrice- che sacrificavano il popolo per realizzare i grandiosi schemi del “Progresso”, salvo poi inondarli con la sanguinosa “rappresentazione spettacolare” della guerra. In scrittori come Stendhal e Tolstoj, come pure nella poesia epica greca, Chiaromonte trovava una conferma di come l’impulso a imporre razionalità, leggi consolidate, storie di eroi o un senso di “unità finale” sulla “molteplicità inesauribile” dell’esperienza umana si rivelasse una delusione irrispettosa, condannata al fallimento e a periodiche catastrofi, come dimostrato dagli sconvolgimenti del XX secolo. Il potere e la forza devono essere usati con limitazione, riconoscendo i limiti della conoscenza umana. In realtà, dal suo punto di vista, queste limitazioni costituiscono la base della nostra autonomia.

Chiaromonte scriveva: “Se riuscissimo a conoscere tutte le conseguenze delle nostre azioni, la storia non sarebbe nient’altro che un intreccio armonico ed idilliaco di volontà libere o lo svolgersi infallibile di un disegno razionale. Così non faremmo altro che agire sempre razionalmente ovvero non agiremmo proprio dal momento che non faremmo altro che seguire uno schema sterile e prestabilito. In questo modo però non saremmo liberi. Ma noi siamo liberi, e questo significa letteralmente che non sappiamo quello che stiamo facendo”.

E’ importante notare che Chiaromonte riscontrava questa “hubris”, questa pericolosa “volontà di potere”, non solo all’interno di ideologie politiche rigide, ma anche nella fede dell’Occidente in un inevitabile progresso materiale, con relativo consumismo e feticismo tecnologico, e nel “culto dell’auto, della televisione e della prosperità derivata dalle macchine”. Questo modo di vivere si fonda su una visione molto impoverita dell’individuo come “animale completamente dedito alla soddisfazione dei propri appetiti e ad una illimitata autoesaltazione”. In un mondo di tal fatta, la cultura diventa “parte di una ricerca mortifera e automatica della novità”, con le persone che si muovono superficialmente “da una vanagloria all’altra, da sazietà a sazietà, di noia in noia”. Chiaromonte illustra l’alienazione con un esempio della vita di tutti i giorni: “L’immagine che più colpisce in questa inflazione egomaniacale dell’individuo prodotta dall’estensione indiscriminata del potere fisico nella società moderna è il volto di un uomo al volante. Tutto teso nello sforzo di sostenere il peso ed il prestigio del potere a sua disposizione, procede con arroganza a tutta velocità, prepotente e sprezzante di qualsiasi cosa lenta o ferma: ha tutto l’aspetto di un essere… soprannaturale”.

(Ci si può solo immaginare cosa direbbe oggi Chiaromonte delle nostre autostrade americane e dell’”inflazione egomaniacale” di automobilisti che sfrecciano aggressivi in Suv dopate “dominati” da cellulari e da stereo a tutto volume). Per contrastare questo clima di paura e di egoismo, Chiaromonte proponeva una cultura dell’umiltà, della proporzione, della limitazione, del “limite”, basata sul dialogo e sul rispetto reciproco. Altrimenti “diventiamo stranieri nella nostra società, niente più che unità numeriche all’interno di un calcolo trascendentale”.

  1. Nei suoi ultimi anni Chiaromonte si trovò in disaccordo, talvolta anche aspro, con i suoi amici americani, Macdonald e McCarthy, ma l’amore e l’amicizia fra loro non venne mai meno. Per esempio, criticò severamente Dwight Macdonald per quello che giudicò un appoggio insensato ai manifestanti della Nuova Sinistra alla Columbia University nel 1968. Mentre capiva la protesta contro un “Establishment” corrotto ed autocratico, Chiaromonte trovò le ribellioni studentesche di quell’anno “sterili” ed inconcludenti, troppo spesso caratterizzate da slogan insignificanti e gratificazioni immediate e che riproducevano il nichilismo delle istituzioni contro cui erano dirette. Ancora una volta si trattava di una questione di proporzioni, misura, limite. Chiaromonte paragonava il fermento nell’Europa dell’Est, che ammirava, ai sussulti messianici dell’Occidente. “La libertà che stanno chiedendo gli studenti polacchi è una sfida chiara e precisa ad un regime chiaramente oppressivo, mentre lo ‘scontro generale’ di cui parlano gli studenti italiani e tedeschi è una formula tanto generica quanto violenta”. Il “rifiuto totale” teorizzato da molti manifestanti costituiva per Chiaromonte una strada senza sbocco, “una ribellione contro tutto e contro nulla”.

Scrivendo a Mary McCarthy in questo periodo, Macdonald si preoccupava del crescente pessimismo del suo amico italiano; gli rimase comunque sempre fedele cadendo in una grande crisi personale quando, nel 1972, giunse notizia della sua morte improvvisa.

McCarthy giudicò significativo che da molti paesi, come da tutta la stampa italiana, giungessero tributi alla figura di Chiaromonte e che tutti sembrassero sinceri e spontanei, “solo qualcuno aveva un tono ufficiale e convenzionale”. Più tardi avrebbe concluso che le idee di Chiaromonte “non rientravano in alcuna categoria: non erano di destra né di sinistra. Non significava per questo che fosse di centro: era semplicemente se stesso”. E’ forse per una tragica ironia che proprio questo suo “essere se stesso”, questo rifiuto di seguire la massa, questa difficoltà ad “incanalare” il suo pensiero spiegano perché oggi ci sia una conoscenza così limitata della figura di Chiaromonte.

  1. Nicola Chiaromonte era un moralista e i suoi umanissimi istinti, il suo rifiuto delle ideologie assolute a favore di un’etica del “limite”, la sua voce dall’”ora zero” del trionfo fascista e della guerra mondiale ci possono parlare ancora oggi, in questo nuovo secolo di tecnologie pericolose, fedi messianiche (sacre e secolari) e di altri possibili “ground zero” ancora più devastanti di quello sperimentato dal mio Paese lo scorso settembre. Le sue idee sono particolarmente importanti per gli americani. Infatti, quali cittadini della superpotenza mondiale, dobbiamo agire con misura, proporzione e intelligenza anche di fronte al terrore. Dobbiamo evitare di rimanere intossicati dal nostro potere e di reagire incuranti delle nostre azioni. Dobbiamo rifiutarci, come disse Camus decenni fa, di essere o “vittime” o ” carnefici” e così diventare simili ai mostri contro cui combattiamo.

Chiaromonte, nonostante i tanti difetti, mantenne la sua fiducia nella “promessa” dell’America, suo rifugio in tempo di guerra, e le sue critiche, talvolta severe, vollero essere un contributo costruttivo alla lotta del paese per la propria identità, un tentativo di aiutare la sua gente a vivere per i propri ideali migliori, vera alternativa alla neo-imperialista pax americana. Come scrisse in una recensione di scritti di Macdonald per “L’Espresso”, nel 1970. “In termini politici si tratta di porre le basi di una nuova democrazia. Cosa che non sarà possibile se non si riuscirà a dare al gigantismo americano… una dimensione umanamente accessibile e controllabile”.

Il messaggio di Chiaromonte è senza tempo e noi lo ignoriamo a nostro rischio e pericolo.

Testo di Sumner Gregory tradotto da Enrica Casanova – 2006

Da:  http://www.unacitta.it/newsite/altritesti

[1] Stokely Carmichael (1941-1998), originario di Trinidad, ma emigrato negli Stati Uniti giovanissimo, uno dei leader del Student Nonviolent Coordinating Comittee (Sncc), organizzazione impegnata nella promozione dei diritti civili degli afroamericani, inizialmente su posizioni integrazioniste, spostatosi via via su posizioni più radicali, espulso nel 1967 dallo stesso Sncc, assunse una notevole celebrità divenendo il portavoce del Black Panter Parthy, che, influenzato dal marxismo, oppose al principio della non violenza, proprio dell’azione di Martin Luther King, quello della autodifesa come strumento di lotta, teorizzando per i neri non già l’integrazione nella società bianca, ma il suo rifiuto e la conquista violenta del potere. (Nota del curatore)

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