Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Alla ricerca del sottobosco digitale (e open source)

meditazioni fra micelio e algoritmo

di Fabrizio Rinaldi, 1° maggio 2025

Dal bordo del dirupo collettivo nel quale l’umanità sembra stia precipitando, tra inni di guerra e dilaganti populismi, negazionismi, fascismi, sovranismi e tutti gli altri peggiori “-ismi” possibili, guardo oltre per cercare di aggrapparmi a qualcosa – mentre già la terra mi frana sotto i piedi –, di scorgere un qualche segnale di speranza.

Vorrei andare oltre le mitragliate trumpiane di decreti a cui non si riesce a star dietro, oltre l’inettitudine servile meloniana, oltre il riarmo intimidatorio dilagante che somiglia all’adolescenziale gara a chi ce l’ha più lungo, oltre i conflitti che somigliano sempre più a stermini e oltre anche la non nuova, ma sempre più pervasiva, droga che euforizza i giovani (e non solo): i mirabolanti prodigi dell’intelligenza artificiale.

ChatGPT e simili si rincorrono per superarsi a vicenda, masticando dati e sputando sullo schermo testi, immagini, video e stringhe di programmazione per compiacere le nostre sempre più bacate menti nell’ottenere da popò di tecnologia cose come questa

Sì, neppure io ho saputo resistere alla tentazione di vedere i Viandanti Beppe, Paolo, Cristina e Antonio trasformati in anime nello stile di Miyazaki, il creatore di Lupin. Nelle ultime settimane Sam Altman, il guru di ChatGPT, ha dichiarato che i loro elaboratori d’immagini “stanno fondendo” per creare imitazioni di cartoni animati e action figure di pupazzetti che ci somigliano. La tecnologia più avanzata degli ultimi decenni viene utilizzata per nutrire il nostro narcisismo.

Forse allora è meglio cercare altrove le intelligenze, perché quella umana sembra destinata ad esser soppiantata prima del previsto; non dal meteorite o dai cambiamenti climatici, ma dall’imbecillità dilagante che ci circonda.

Se ci liberassimo della nostra presunzione antropocentrica e osservassimo ciò che accade sotto i nostri piedi mentre passeggiamo in un bosco, ci renderemmo conto che lì avviene qualcosa di più sofisticato di quanto può fare un qualsiasi chatbot. Adottando la giusta lentezza, non possiamo fare a meno di notare come la vita sia pervasa di strategie, adattamenti e forme di “sapienza” che sono intrinsecamente più avanzate di quelle umane e digitali.

Tra gli scienziati che sono riusciti a diventare social senza sembrare ridicoli, c’è il botanico Stefano Mancuso. Da anni sostiene una tesi che per molti suona ancora come un’eresia: le piante pensano. O almeno, fanno qualcosa di molto simile, ma in verde, senza sinapsi, senza Google e, soprattutto, senza doversi collegare alla presa elettrica.

Mancuso ci invita a smontare il vecchio cliché secondo cui i vegetali sarebbero passivi, immutati, immobili e destinati a farsi mangiare, calpestare o dimenticare nei vasi. Le piante, ci dice, non subiscono il mondo, ma lo leggono, lo decifrano e lo modificano. Non hanno un cervello, ma sono un sistema di intelligenza distribuita. Un po’ come quella digitale, solo che loro lo fanno da tempi immemori, senza data center e senza sosta, con una complessità appena scalfita dal sapere umano, in una perenne evoluzione ed espansione. Se non è intelligenza questa…

Senza la competenza specifica di Mancuso, ma con una sana curiosità e qualche giga di sarcasmo, provo a giocare con il confronto non fra uomo e macchina (rimando questo esercizio ai romanzi distopici come Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), ma tra l’intelligenza vegetale e quella artificiale. Una partita che, avverto subito, finisce con una vittoria schiacciante del regno vegetale, ma sicuramente ci sono delle affinità. E non sono poche, né di piccola entità.

Sorprende che si parli tanto delle magnificenze del silicio, mentre raramente ci soffermiamo sui prodigi clorofilliani. Anzi no: nel computo dell’idiozia umana, il totale torna.

Una pianta non ha occhi né orecchie nell’accezione comune, eppure è costantemente immersa in un mare di informazioni ambientali: la direzione della luce, la temperatura, l’umidità, le vibrazioni sismiche, la presenza di acqua e di specifiche sostanze chimiche. Ricevendo ed elaborando questi segnali, non solo percepisce gli stimoli, ma li interpreta, modificando la sua crescita, la fioritura o la produzione di sostanze difensive.

Mi viene da pensare che, analogamente, anche un sistema di intelligenza artificiale si nutre dei dati (immagini, suoni, testi) che forniamo come input. Le AI generative, mentre consumano energia pari a quella di intere città, analizzano queste informazioni e prendono decisioni in un processo non dissimile, nella sua finalità adattiva, alla risposta di un vegetale al suo ambiente.

Le piante però vivono, si riproducono, interagiscono, consolidano il terreno e fanno qualcosa di essenziale per la nostra sopravvivenza: producono ossigeno. La macchina può batterci a scacchi, gestire il traffico degli aerei e dei treni, scrivere poesie, ma la betulla è poesia vivente e, nel frattempo, ci regala l’aria che respiriamo senza nemmeno vantarsene.

I vegetali dimostrano una sorprendente capacità di adattarsi all’ambiente in cui si trovano. Per esempio, un albero esposto a un vento costante svilupperà un tronco più robusto, plasmato nella direzione dell’aria; in un terreno povero estenderà invece le sue radici più in profondità per cercare nutrienti. Questa abilità nell’“imparare” dalle sfide ambientali ricorda i modelli di machine learning dell’intelligenza artificiale, che migliorano le loro prestazioni accumulando sempre più dati e attraverso la logica dei feedback. Proprio come le radici si ramificano per scovare acqua, gli algoritmi scovano soluzioni sempre più complesse per ottimizzare i risultati.

Se una pianta non si adatta, scompare; allo stesso modo, se una macchina non fa altrettanto, sommergerà il malcapitato per mesi con pubblicità di creme per il viso come è capitato a me, anche se non le ho mai usate e non ho intenzione di farlo.

Le piante dialogano fra loro senza usare le parole – un’invenzione piuttosto recente e limitata ad una sola specie –, ma rilasciano sostanze che si muovono attraverso l’atmosfera e il sottosuolo per interagire con quelle vicine (e non), magari avvertendole della presenza di un bruco che rosicchia le foglie o dell’avanzare di un incendio.

Sottoterra le radici intrecciano simbiosi con i funghi, dando vita al Wood Wide Web, una rete micorrizica talmente sofisticata che al confronto il digitale Word Wide Web sembra una Fiat Duna dell’87 col motore ingolfato. Altro che connessione 5G: il micelio non solo collega individui diversi (alberi, arbusti, erbe e qualche strambo con la smania di abbracciare tronchi e “sentire la loro energia”), ma smista nutrimenti e segnali in modo capillare, a basso consumo e senza interruzioni. Il tutto senza router, senza elettricità, e – soprattutto – senza abbonamento.

È, quindi, una connessione vibrante, che si adatta ed evolve in un sistema dove il benessere dell’individuo si intreccia con quello della comunità, in un contesto di cooperazione attenta nel dosaggio millesimale delle risorse. Un’ecologia delle relazioni che smonta qualsiasi idea di “sopravvivenza del più forte”.

Mentre le querce si scambiano messaggi criptati attraverso i funghi, noi ci ritroviamo a compulsare prompt da dare in pasto alle intelligenze digitali; queste elaborano soluzioni attingendo dai nostri dati, replicano le nostre manie con una precisione inquietante e producono risultati che riflettono i nostri limiti. Più che un’intelligenza collettiva, sembrano spesso un concentrato delle nostre idiosincrasie.

Il mondo vegetale, a differenza nostra, non si limita a imitare: si adatta e vive davvero. L’idea che le piante possano essere dotate di forme di intelligenza diffusa, consapevolezza ambientale e sofisticati adattamenti comunicativi dovrebbe farci riflettere sulla nostra concezione di benessere reciproco. Dovrebbe, ma non accade; anzi, mentre il bosco ci offre un esempio di mutualismo, noi approviamo leggi che riportano in auge il carbone e le trivelle (vedi le ultime sparate di Trump), convinti che la natura debba essere ottusamente dominata.

In questa farsa, l’unica cosa davvero artificiale sembra essere il nostro rapporto con il mondo naturale: abbiamo perso quella connessione, non quella a banda larga, ma quella biologica, relazionale e intima con ciò che ci circonda, che i nostri avi avevano, nonostante la loro visione limitata all’orto dietro casa. Mentre noi produciamo anidride carbonica e ci lamentiamo delle continue inondazioni, le piante continuano a scambiarsi zuccheri, produrre ossigeno e – a modo loro – ridere di noi, tra un fruscio di foglie e l’altro.

I veri maestri dell’economia circolare sono i vegetali: da milioni di anni, praticano un comunismo discreto ed efficace, basato su scambi mutualistici e alleanze fotochimiche complesse. E tutto questo senza mai aver ricevuto un premio Nobel in economia. Le semplici simbiosi mutualistiche, come le micorrize tra i funghi e le radici delle piante, metterebbero in crisi qualsiasi ideologia neoliberista.

Non c’è competizione, non c’è profitto, nessuna offerta pubblica; solo scambio reciproco e redistribuzione di risorse, supporto e cura sistemica. E tutto avviene senza regolamenti, amministratori delegati strapagati, sindacati e scioperi: un mutualismo che funziona perché nessuno cerca di fregare l’altro. È una sapienza collettiva che sa reagire a stimoli per mantenere un equilibrio di risorse a beneficio di tutti.

La fotosintesi clorofilliana, poi, è una forma di autosufficienza energetica che farebbe impallidire qualsiasi pannello fotovoltaico: energia solare trasformata in zuccheri condivisi all’interno della comunità, senza tasse sul sole e senza copyright sui cloroplasti.

Nel bosco, il capitale non si misura in PIL o followers, ma nella capacità di sostenersi vicendevolmente. Certo, a scapito di altri, ma in un’ottica di evoluzione e non di semplice prevaricazione. È un sistema in cui lo scarto di uno diventa il nutrimento di un altro, non una guerra commerciale a colpi di dazi. Tutto si regge su una rete di assistenza lenta e silenziosa. Nessuno urla, nessuno cerca di primeggiare. Eppure, tutto funziona. Altro che utopia: il comunismo vegetale è una realtà praticata ogni giorno, da milioni di anni, nei boschi, nei prati e nel terreno. E resiste, nonostante la nostra compulsiva tendenza a cementificare, a capitozzare gli alberi lungo le strade e poi lamentarci quando cadono.

La biochimica vegetale è un intricato sistema di segnali complessi, feedback ambientali, algoritmi naturali che elaborano stimoli e rispondono con movimenti, secrezioni, adattamenti. Sotto i nostri piedi c’è un sistema che processa dati, reagisce, si adatta e lo fa meglio di molte aziende che gestiscono i dati che noi regaliamo loro.

Mentre noi stanziamo risorse immense e prosciughiamo quelle naturali affinché degli algoritmi risolvano problemi più o meno complessi, nel verde la rivoluzione finalizzata al problem solving ambientale è in atto da milioni di anni ed è clorofilliana.

Le piante non si lamentano mai quando subiscono dei torti, che siano tagli indiscriminati, schianti, parassiti o animali che le danneggiano. Eppure, non vanno in burnout e, soprattutto, non chiamano l’avvocato. Semplicemente si adattano, cicatrizzano, deviano le risorse altrove e continuano a crescere, finché possono. Sono testarde ed efficaci.

Questa resilienza vegetale non è romantica, ma semplice – e tuttavia intrinsecamente complessa – strategia biologica evoluta, collaudata e ottimizzata nel tempo per non sprecare nemmeno una goccia di linfa. L’albero sa che non tutto può essere salvato, ma molto può essere rigenerato. E lo fa senza conferenze stampa sul nulla.

Curiosamente, proprio questa logica di perseveranza nonostante qualche inciampo sta alla base della progettazione delle attuali intelligenze artificiali: sono pensate per resistere ai guasti, per continuare a processare informazioni anche se un nodo si interrompe o un sensore va in panne. Vanno avanti senza filosofeggiare sul significato della vita (a meno che dei dementi umani non lo chiedano). Ricalcolano, correggono, procedono, proprio come fa un ciliegio quando la galaverna spezza un suo ramo: fa di tutto per farlo fiorire un’ultima volta prima che i tessuti conduttori di linfa si chiudano.

Se la capacità umana di affrontare e superare ostacoli si esaurisce dopo tre messaggi senza risposta, la natura – sia vegetale che digitale – ci mostra che il danno non segna la fine, ma è solo un’interruzione temporanea nella connessione. Come per l’esempio del ciliegio, se un sistema informatico va in crash – a patto che sia progettato bene – ha le risorse per rimettersi in carreggiata e ripartire. Noi umani ci troviamo in mezzo: tra piante e codice: potremmo davvero imparare qualcosa da entrambi. Senza clamore, senza app, senza guru della performance.

Mentre noi alziamo gli occhi al cielo ogni qual volta dobbiamo aggiornare l’antivirus o il sistema operativo (col terrore di perdere qualcosa), il faggio ha bisogno di intere stagioni per decidere se valga la pena sporgersi verso la luce o aspettare che il compagno di bosco lo faccia lui o schiatti.

Questo per dire che la risposta vegetale non è lineare e soprattutto non è schizofrenica: si iscrive in un tempo biologico, ciclico, stagionale, paragonabile a secoli rispetto a quello umano e ad ere rispetto a quello digitale. Tuttavia gli algoritmi complessi (quelli seri, non quelli che ti scrivono il tema su Foscolo in due secondi) che governano le machine learning, consentendo un apprendimento da dati, hanno anch’essi bisogno di un lasso temporale piuttosto lungo, fatto di tentativi, errori e altre azioni correttive affinché possano esprimere delle soluzioni più elaborate e finalizzate alla risoluzione cercata.

Basta guardare i primi video dei robot umanoidi: quei goffi golem elettronici che cadevano come ubriachi ogni volta che provavano a fare un passo, e poi confrontarli con le versioni attuali, in grado di correre, saltare, cucinare e pure interfacciarsi con noi per interpretare la nostra psiche.

Forse allora, prima di aggiornare compulsivamente la nostra tecnologia, dovremmo aggiornarci alla pazienza del creato. O almeno prenderci il tempo di uno sguardo differente, prima di condannare il progresso.

In conclusione, le piante — sì, proprio quelle che ignoriamo fino al giorno in cui ci accorgiamo che le peonie sul terrazzo, dietro il cesto della rumenta, sono morte — se osservate con un minimo di attenzione, rivelano una sorprendente intelligenza distribuita, articolata in molteplici forme. Nessun cloud, eppure elaborano segnali, apprendono dai traumi, comunicano con i vicini (senza bisogno della chat “Vicini inopportuni” su WhatsApp), risolvono problemi e, soprattutto, resistono nonostante noi. Tutti aspetti che, da qualche tempo, anche l’intelligenza artificiale tenta goffamente di imitare.

La prossima volta che un chatbot ci risponde con il consueto “Mi dispiace, non ho capito la domanda”, potremmo provare a fare come le piante: aspettare, osservare, metabolizzare. Non per buonismo biofilo, ma per pura sopravvivenza cognitiva.

Forse il problema è proprio lì: continuiamo a progettare intelligenze che vogliono somigliarci, quando sarebbe molto più sensato prendere ispirazione da un sistema che vive, si adatta e non va in tilt quando perde la connessione. Dovremmo progettare un’intelligenza che ragioni per scambio e non per dominio; che risponda attraverso una rete diffusa di stimoli percettivi, non come un assistente esasperato.

Insomma, se volessimo immaginare la prossima mente artificiale, potremmo cercare ispirazione nel regno vegetale: non fondata sulla logica binaria del sì/no, ma su quella fotosintetica del trasforma e condividi; un sistema che non miri alla profilazione, ma alla simbiosi tra individui. Le sue reti non si limiterebbero ad individuare convergenze mediane da compulsare in facili risposte assolutorie, ma favorirebbero l’intreccio di relazioni tra elementi differenti, capaci di redistribuire la consapevolezza come nutrimento. Sarebbero connessioni che si rafforzano nella cooperazione, che elaborano segnali lenti ma profondi, e che, riconoscono il valore dell’attesa — come si aspetta il cambio di stagione —, offrendo soluzioni davvero adeguate al bisogno.

Non per diventare alberi – anche se a volte non sarebbe male –, ma per smettere di comportarci come piante in vaso dimenticate sul balcone: convinti di sapere tutto, mentre ci secca pure la terra.

Alle domande ansiogene e prestazionali dell’esemplare umano frustrato, questo chatbot vegetale risponderebbe senza fretta, affinché il sapiens provi prima a cercare lui la risposta. A differenza dei colleghi virtuali attuali che mirano a rifilare al malcapitato un corso intensivo di yoga tantrico alla modica cifra di 1000 euro, l’intelligenza vegetale sintetica porrebbe delle domande del tipo: quanto sole hai preso oggi? Oppure: hai intrecciato qualche relazione significativa durante la tua giornata?

Mi auguro infine che questa intelligenza possa avere una caratteristica che quella artificiale ancora ha difficoltà a riprodurre, creare e cogliere: l’ironia. Potrebbe farsi una grassa risata quando capirà che l’essere umano, nel suo sforzo di dominare tutto, si è dimenticato come si vive dentro un sistema, e non al di sopra di esso. In fondo, se dobbiamo essere superati, che almeno sia da un’intelligenza con una giusta dose di sarcasmo e che pensi con le radici e non i piedi.

P.S.: Se un giorno un’intelligenza artificiale risponderà ad un tuo quesito urgente, dicendo: Mi sto orientando verso la luce, torna tra un mese, non infuriarti, è solo l’inizio di qualcosa di realmente pensante a cui ho già dato un nome e un logo e che sto “addestrando” …

Collezione di licheni bottone

Nanni Moretti e la morte del Cinema

Note su “Il sol dell’avvenire” 1.1

di Giuseppe Rinaldi, 21 settembre 2023 (rivisto il 15 gennaio 2024)

Una premessa dell’editor (che potete saltare a piè pari)

Meno di un anno fa usciva sugli schermi italiani Il sol dell’avvenire, di Nanni Moretti. Era stato preceduto come al solito da grandi aspettative, ma anche dalle perplessità manifestate da chi già l’aveva visto a Cannes. Conoscendo da un lato le sudditanze psicologiche e le ipocrisie che immancabilmente scattano di fronte all’opera di un Grande Autore, e memore dall’altro del disagio che avevo provato nei confronti dei film più recenti di Moretti, ho cercato di liberarmi delle une e dell’altro e di esercitare uno sguardo imparziale. Risultato: ho visto un lungo selfie autocelebrativo, presuntuoso e pasticciatissimo.
Si badi bene, riconosco al regista una notevole intelligenza, e so che sul mio giudizio pesa un altrettanto marcata antipatia, ma nel caso de “Il sol dell’avvenire” non ho dubbi: ciò che mi ha disturbato, e tanto, è proprio l’uso distorto della prima, che lo ha portato a buttare una occasione e, peggio, a chiudere in partenza con una pagliacciata (letteralmente) un ripensamento e un dibattito che erano rimasti in sospeso per settant’anni. Mi riferisco naturalmente ai fatti d’Ungheria del 1956 e alle loro ricadute sulla sinistra italiana (l’unico vero motivo per il quale ero rientrato in una sala cinematografica, dopo le pene sofferte con La grande bellezza), e che il film banalizza con insopportabile superficialità. Per me, il discorso su Il sol dell’avvenire era chiuso.
Qualche mese dopo, però, ho avuto occasione di leggere su “Città Futura” la dettagliatissima analisi che ne proponeva Beppe Rinaldi. E ho dovuto tornaci sopra, perché la dissezione autoptica operata da Beppe ha evidenziato una serie di particolari che nella stizza del momento non avevo colto, ma mi ha suggerito soprattutto nuovi angoli prospettici dai quali inquadrare tutta l’opera. Non che il mio giudizio sia cambiato, continuo a considerare Il sol dell’avvenire un hellzapoppin sconclusionato ed irritante: ad appassionarmi sono stati invece il modo in cui è condotto l’esame radiografico, la minuziosità con la quale ogni indizio e ogni sintomo sono sviscerati, così che alla fine la diagnosi non concerne tanto Moretti quanto l’intero mondo nel quale si muove, sul piano professionale e su quello politico. Beppe parte da un’attitudine molto diversa dalla mia, Moretti gli riesce in fondo simpatico, ma una volta indossato il camice analitico non gli fa sconti. Ho l’impressione che per il futuro, se vorrò ancora divertirmi col cinema, mi converrà leggere a posteriori recensioni di questo livello (recensione è però una definizione molto riduttiva: si tratta di un vero e proprio saggio di lettura filmica) e prescindere dalle mie valutazioni di pancia.
Per questo motivo ho chiesto all’autore di poter rilanciare la sua analisi sul sito dei Viandanti, anche se rispetto ai ritmi odiernamente impressi ai “consumi culturali” potrebbe apparire un’operazione tardiva e inattuale. Non sono di questo parere. Coloro che hanno visto il film ne vedranno un altro, indipendentemente da come l’hanno giudicato. Coloro che ancora non lo avessero visto, saranno forse indotti a farlo, ma sapendo a cosa vanno incontro. E chi a suo tempo avesse a priori ricusato di vederlo godrà almeno della lettura di un testo esemplare. (Paolo Repetto)

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1. Che il Cinema [1]fosse ormai un morto che cammina era evidente da un pezzo. Per Cinema, intendo qui l’unico cinema per me degno di questo nome e cioè il Cinema d’Autore. L’altro Cinema sta benissimo. Personalmente, da un paio d’anni non vado più al cinema. Ho fatto però un’eccezione per Il sol dell’avvenire, il lavoro più recente di Nanni Moretti. Intanto perché proprio Moretti può essere considerato effettivamente un Autore e poi, senz’altro, per motivi personali, poiché questo Autore, come altri del resto, mi ha accompagnato in lungo e in largo, in tanti momenti della mia vita. Il film in questione è stato, mi pare, accolto piuttosto positivamente, è stato ovunque plaudito e non ho avuto sentore di critiche sostanziali[2]. Il film è stato plaudito, certo, tuttavia non mi pare di avere colto, tra tutti gli applausi, una prospettiva interpretativa dotata di qualche solidità. Tutti d’accordo, senza sapere perché.

Nanni Moretti e la morte del Cinema 022. Siccome ho visto il film solo poco tempo fa, e dunque con un certo ritardo, mi era capitato di fare, a diversi amici che lo avevano già visto, la classica domanda: «Com’è il film?». Sempre le stesse risposte: «Bello!», «Interessante!», «Eh!, il solito Moretti!». Sì, ma cosa vuol dire? «Mah, non è molto chiaro, ci sono dei film nel film». Per finire nell’immancabile: «Magari sarebbe il caso di rivederlo!». Diciamolo pure, questo film di Moretti è un film di cui, alla prima visione, non si capisce proprio un accidente di niente. E anche dopo una seconda visione non ci si sente tanto bene.

Sento già la cantilena: «Sei vecchio! Sei ancora uno che vuole avere il significato complessivo! Il significato di un’opera non c’è e non ci può essere. Oppure ci sono mille significati. Come dire che non ce ne può essere uno che conti più di un altro. Per questo è ormai del tutto inutile fare i dibattiti, tanto ognuno nei film ci vede quel che vuole. E poi, nessuno è più disposto a confrontarsi e a cambiare idea. Accontentati della superficie. Sotto la superficie c’è soltanto il nulla!». Dopo quarant’anni di critica postmoderna[3] siamo purtroppo a questo punto. Siamo ormai da tempo passati dall’opera aperta[4] all’opera spalancata. Per non sconfinare dunque nei territori proibiti della critica postmoderna, premetto che questo che state leggendo non dovrebbe essere inteso come un articolo di critica cinematografica. E non sarà certo inteso come tale dai critici sedicenti. Questo è soltanto un modesto e paziente esercizio di lettura del film, peraltro forse anche piuttosto noioso, tanto per andare oltre alla prima visione, con qualche pretesa in più di analisi e di riflessione, proprio a partire dal testo. In generale, i presupposti della mia comprensione di un film implicano, ahimè, che lo si debba in qualche misura raccontare[5]. Soprattutto nel caso di un film come Il sol dell’avvenire che è terribilmente denso e, in qualche misura, proprio non raccontabile. In casi come questo, soprattutto i dettagli costituiscono il materiale testuale indispensabile che può poi supportare le analisi, le argomentazioni e, infine, l’eventuale giudizio. Ma i dettagli possono anche servire per parlare di altro, poiché un qualsiasi testo è pur sempre connesso, per vie imperscrutabili, con il Testo universale.

Tanto per anticipare le conclusioni della mia analisi, a me è parso, per dirla in estrema sintesi, che con questo suo film Nanni Moretti abbia deciso di affrontare, con una prospettiva dall’interno, proprio il tema, senz’altro di attualità, della morte del Cinema. Moretti, finalmente, dice «qualcosa di sinistra», non sulla sinistra che purtroppo abbiamo e ci meritiamo, ma proprio sul Cinema.

3. Allora partiamo pazientemente dal testo. Solo così potremo accertare se io e il mio lettore abbiamo visto lo stesso film. Moretti è notoriamente un simpatico egocentrico e non poteva che partire da sé stesso, questa volta, in particolare, dal suo stesso mestiere di Autore cinematografico (“regista” qui mi parrebbe riduttivo, perché ci sono tanti cani che sono “registi”). In quest’ultimo suo film si parla quasi esclusivamente del Cinema. Si tratta di un film sicuramente autoreferenziale, un film dove il Cinema viene usato per riflettere su se stesso. Si può anche pensare che, al punto di crisi cui il Cinema è arrivato, questo sia ormai un esercizio piuttosto inutile, fuori tempo massimo, ma tant’è. Moretti ha scelto così. E per me ha fatto bene, poiché la sua riflessione è tutt’altro che banale.

Il filone narrativo principale del film, che cerca con qualche fatica di tenere insieme tutto l’arduo coacervo, emerge solo poco per volta dalle vicende di cui sono protagonisti Giovanni (impersonato dallo stesso Moretti) e Paola (Margherita Buy). Si tratta di vicende che occupano sia il campo professionale sia il campo della vita privata dei protagonisti, in un intreccio denso e inestricabile. Diciamo che la dimensione privata farà fatica a emergere, ma poi si scoprirà essere forse la dimensione principale. I due sono una coppia non più giovane e sono marito e moglie. Lui fa il regista e lei la produttrice. Hanno una figlia Emma, che fa la compositrice di musiche per film. Un’impresa casereccia, insomma, tutta incentrata intorno al Cinema.

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Veniamo quasi subito avvisati che quella di Giovanni e Paola è una coppia in crisi. Questo si capisce poiché Paola è insoddisfatta della sua relazione e va dallo psicoanalista, a insaputa di Giovanni. Vorrebbe lasciare Giovanni, ma non ne è capace. Giovanni invece, alquanto egocentrico, sembra tutto contento del suo rapporto con Paola, cita spesso il loro lungo matrimonio e la loro collaborazione di quarant’anni nel campo professionale. Paola, infatti, ha prodotto tutti i film di Giovanni. Solo ultimamente, probabilmente proprio in relazione alla crisi coniugale, si è risolta a produrre, con l’appoggio finanziario di un gruppo coreano, un film con Giuseppe (Giuseppe Scoditti), un giovane regista all’inizio della sua carriera. Giovanni è completamente concentrato sul suo film che si titolerà Il sol dell’avvenire e su una serie di molteplici altri progetti. Scoprirà tardi e male i problemi di Paola e il suo disagio nei suoi confronti.

Entrambi, poi, scoprono, in maniera quasi casuale, che la loro figlia Emma si è innamorata di Jerzy, a quanto pare console polacco, un uomo molto più anziano e maturo di lei, sebbene persona simpatica e di notevole cultura. La vicenda di Emma, oltre a riproporre la nota e ricorrente questione dei difficili rapporti intergenerazionali, costituisce anche la sottolineatura di una certa difficoltà relazionale che si respira nella famiglia di Giovanni e Paola[6]. Emma, avendo avuto un padre artista che si mostra bizzarro e problematico, non avendo avuto cioè un vero padre, evidentemente ha cercato un sostituto. E pare averlo trovato.

Giovanni, che fa il creativo, è presentato come un personaggio egocentrico, secondo lo schema morettiano classico. Paola gli rimprovererà di averla sempre considerata in termini soltanto utilitaristici e ammetterà di avere in fondo sempre accettato questo ruolo. Anche se ora (dopo quarant’anni!) non intende più continuare così. Allo psicoanalista dice che lei e Giovanni parlano di tutto, tranne che di loro due. I due sembrano in sintonia sul piano culturale e professionale ma del tutto incapaci di discutere del loro rapporto affettivo. Su sollecitazione esplicita dello psicoanalista, lei dichiara con fermezza di non voler affrontare l’argomento della loro vita sessuale.

4. Accanto al filone principale dei rapporti interpersonali tra i due, abbiamo poi una schiera di numerosi film nel film che si accavallano. E che sono spesso mostrati allo spettatore con un montaggio vertiginoso, tanto da lasciare confusi e interdetti. Proviamo intanto a vedere sommariamente quali film ci sono all’interno del filone narrativo principale.

C’è intanto il film più evidente, quello che Giovanni si accinge a girare e che investe lo spettatore fin dall’inizio, di cui sappiamo il titolo: Il sol dell’avvenire. Questo titolo è volutamente ambiguo: quando è usato esternamente per indicare l’opera di Moretti allude al titolo del film di cui si narrano le vicende di realizzazione. Quando è usato internamente allude al contenuto del film che viene girato da Giovanni. Si tratta di un film che apparentemente riguarda la storia del PCI nel 1956, nel frangente dei fatti di Ungheria. Diciamo subito che questo film nel corso degli eventi subirà disavventure varie e sarà infine modificato, soprattutto nel finale previsto dal copione. Il film è prodotto da Paola ed è cofinanziato da Pierre, un produttore francese piuttosto superficiale che ammira senza riserve, in modo addirittura untuoso e servile, il lavoro autoriale di Giovanni. Nel corso degli avvenimenti, Pierre metterà gravemente a repentaglio la stessa lavorazione del film.

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Poi c’è il film (il cui titolo non è esplicitato) diretto dal giovane regista Giuseppe, prodotto sempre da Paola, con una coproduzione coreana. Si tratta, eccezionalmente, della prima produzione di Paola con un regista diverso dal marito. Una rottura dunque nelle consuetudini ultradecennali della coppia. Il film sarebbe – si dice all’inizio – una riproposizione shakespeariana del conflitto amletico tra il padre e il figlio. In realtà comprendiamo ben presto che si tratta di un film di tipo splatter, piuttosto demenziale. Il giovane regista viene mostrato come un creativo esaltato dalle scene di violenza gratuita che abbondano nel suo film. Insomma, si tratta dell’esatta antitesi del Cinema di Giovanni, che rifiuta invece la violenza gratuita, che si rammarica di fare un solo film ogni cinque anni, che fa girare una scena anche 20 volte. Mentre per l’istintivo Giuseppe è sempre «Buona la prima!». Giuseppe e Giovanni sono evidentemente due modelli di Cinema che si collocano uno all’opposto dell’altro. La scelta di Paola di produrre il film di Giuseppe ha senz’altro qualche relazione con la sua crisi coniugale e con l’intenzione di divorziare, ma ciò non è esplicitato più di tanto.

5. Ci sono poi almeno due accenni, vaghi ma ricorrenti, ad altri film che il creativo Giovanni ha in progetto di realizzare. Come quello che Giovanni ha già in fase di scrittura, quello che dovrebbe titolarsi Il nuotatore, in cui, alla lettera, un nuotatore dovrebbe tornare a casa, passando da una piscina all’altra. Tratto da un racconto di John Cheever. Un film decisamente bizzarro a proposito del quale in una scena ci si domanda se, nella storia del nuotatore che salta di vasca in vasca, sia più in questione lo spazio oppure il tempo. Se il film riguardi un futuro utopico o distopico.

Oppure quello, a quanto pare ancora solo in fase di pura immaginazione, ma con due personaggi già perfettamente definiti e vividi nella mente del regista. I quali ogni tanto si prendono il loro spazio. Il film dovrebbe essere incentrato su cinquant’anni di vita di una coppia, e dovrebbe avere «tante canzoni italiane». Alcune parti del film immaginato irrompono abbastanza casualmente e vengono mostrate al pubblico in varie occasioni. Questo nel progetto doveva essere un film d’amore, ma evidentemente, anche solo nel percorso immaginativo, sfuggirà di mano al regista poiché i due protagonisti alla fine si lasciano[7]. Tuttavia Giovanni, forse in un tentativo estremo di salvare la storia d’amore, immaginerà anche un secondo finale, dove i due attori appariranno in un flash, in un prato, ridenti e felici con due bambini piccoli, mentre fanno la danza dei dervisci sulle note di Battiato. Giovanni sembra avere la propensione a riflettere sulle relazioni di coppia solo attraverso la scrittura dei suoi film. Sembra ossessionato dalle relazioni, eppure incapace di capirle e di governarle. Perfino gli elefanti, da usare in scena, pare abbiano problemi a lavorare insieme sul set. A un certo punto accade che «la loro familiarizzazione è fallita», dice Arianna, l’aiuto regista.

Insomma, progetti, idee, tentazioni di scrittura che Giovanni esibisce morettianamente, col suo solito egocentrismo autoriale, a partire dalle sue ossessioni profonde. Attraverso queste opere Giovanni/ Moretti sembra voler mostrare, dall’interno, le varie fasi del lavoro autoriale, da quella puramente immaginativa (il film sulle canzoni) a quella della elaborazione del copione (il nuotatore), a quella della vera e propria lavorazione, come nel caso del Sol dell’avvenire. Nella storia dei due giovani è già posta la questione del doppio finale, che avrà esiti imprevisti. Oltre a questi film di cui si parla esplicitamente, ci sono tante altre citazioni cinematografiche più o meno occasionali, unite a molte canzoni che, di quando in quando, irrompono, più o meno a proposito. Tutti questi film e tutti gli altri materiali si mescolano continuamente e interagiscono con le tappe di lavorazione del film principale in cui Giovanni è attualmente impegnato, che è Il sol dell’avvenire, quello sul PCI del 1956. Insomma, per quanto possa essere anche intrigante, siamo di fronte a un gran minestrone. Di tutto e di più. E ciò contribuisce a fare del film un’opera non facilmente fruibile. A volte lo spettatore fa fatica a seguire le diverse repentine soluzioni di continuità. Pezzi di vita personale della coppia Giovanni/ Paola e della figlia, che s’intrecciano costantemente con i pezzi dei film in lavorazione o in progetto. Cinema e vita per davvero. Fino all’esasperazione.

Nanni Moretti e la morte del Cinema 056. Giovanni è tutto concentrato sul suo lavoro creativo e procede nella lavorazione del suo film, Il sol dell’avvenire, inconsapevole di ciò che lo attende. Lo stile che usa sul set è quello cui Moretti ci ha abituati: egocentrico, maniacale, dispotico. Potremmo dire dittatoriale, tanto per evocare una delle tematiche politiche del suo stesso film. Ma vediamo il film più in dettaglio. In apertura, lo spettatore incappa nella lavorazione da parte di Giovanni del film sul PCI del 1956, tanto da far pensare che proprio questo sia il film che vedrà. Un film storico politico. Siamo a Roma. I titoli di testa si aprono con la scritta Il sol dell’avvenire sul muro, seguita poi dall’inaugurazione dell’arrivo della luce elettrica al Quarticciolo, il quartiere romano dove è ambientata la storia. Si capisce che a promuovere l’impresa dell’elettrificazione sia stata la locale Sezione Gramsci del PCI, guidata da Ennio Mastrogiovanni (Silvio Orlando) e dalla sua collaboratrice Vera Novelli (Barbora Bobuľová).

Diverse recensioni hanno presentato Ennio e Vera come marito e moglie. Anche Wikipedia lo sostiene. Tuttavia nel testo del film non c’è proprio nulla che lo dica esplicitamente o che lo suggerisca implicitamente. C’è in effetti una scena in cui Vera prende le misure a Ennio per una giacca nuova. Qui i due si ritrovano sullo sfondo di un ambiente domestico e non nel solito ufficio della sede del partito. Ma siamo già stati avvertiti che Vera, di mestiere, fa la sarta, dunque la situazione non può essere invocata come segno certo di vita coniugale. Giovanni poi, nel dirigere la scena, tende a negare qualsiasi relazione affettiva tra i due e rimbrotta l’attrice che interpreta Vera per essere troppo seduttiva. Quel che deve emergere, evidentemente, non è una eventuale vita privata dei due ma solo la loro stoica attività di militanza politica. L’attrice che interpreta Vera, sul set, abbastanza chiaramente tende invece a ricamare su un’ipotetica attrazione tra i due. Nel corso degli sviluppi del film saranno i due attori (per capirci, Orlando e la Bobuľová) a manifestare progressivamente un’attrazione reciproca, ma in quanto attori sul set, ben oltre la rigida estraneità richiesta dai loro due personaggi. Che i due siano o meno marito e moglie, non sfugge comunque allo spettatore che il sodalizio di militanza politica tra Vera e Ennio è esattamente analogo al sodalizio di militanza cinematografica tra Giovanni e Paola. Un sodalizio che tendenzialmente esclude la vita privata.

Che nel film si stia girando un film lo spettatore lo capisce poco per volta, nel passaggio continuo tra le scene girate e il lavoro di troupe. In particolare, durante un briefing con i suoi collaboratori, Giovanni è costretto a spiegare ai più giovani gli aspetti storici più elementari che costoro ignorano del tutto. Ebbene sì, in Italia c’erano i comunisti! Giovanni viene presentato come un esperto di quell’epoca, quello che sa quel che accadeva, tanto da poterci fare un film sopra con una certa sicurezza. Ma, come vedremo, non bisogna credere del tutto a questa impressione. Giovanni comunque è dipinto un po’ come il testimone di un’altra epoca che i giovani odierni non sanno più neppure immaginare. Testimone anche di un modello di impegno politico come quello dei comunisti italiani di allora, oggi impensabile. Insomma, Moretti sente il bisogno di proporci, attraverso il lavoro di Giovanni, un viaggio nel tempo. Vedremo con quale scopo.

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7. Lo spettatore è indotto a interrogarsi più e più volte su cosa abbia in mente Giovanni nel girare il suo film. Apparentemente sembrerebbe voler essere un film storico, intorno alle vicende di una sezione romana del PCI, nel frangente drammatico dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Lo spettatore tuttavia si accorge ben presto che non si tratta di un film storico. Il che si chiarisce poco a poco, soprattutto di fronte alla disinvoltura del regista proprio rispetto ai fatti e ai documenti storici.

Apparentemente Giovanni mostra attenzione per la ricostruzione esatta degli ambienti. Un tormentone ad esempio è quello di alcuni oggetti di scena “fuori tempo” che Giovanni rintraccia e di cui rimprovera Diego, il tecnico di scena. Poi si chiarirà l’origine di questi oggetti vaganti. Ma l’ossessione per la documentazione storica si trova sempre in bilico tra il vero e il falso. Le etichette autentiche delle acque minerali del tempo non piacciono a Giovanni, tanto da volersene inventare una: l’Acqua Rosa, in omaggio a Rosa Luxemburg[8]. Il titolo originale de l’Unità che annuncia l’invasione non va bene perché è troppo lungo, dunque si può liberamente accorciare, cioè falsificare. La foto di Stalin, la cui presenza è del tutto verosimile nella ricostruzione di una sezione del PCI di quell’epoca, si deve stracciare «perché Stalin è un dittatore», e così via. Avremo poi modo di discutere anche del finale del film, che, sul piano storico, stravolgerà completamente gli avvenimenti.

Nel film che Giovanni sta girando, si fa senz’altro molto uso della storia ma non si può proprio dire che si tratti di un film storico. Certo, ci sono anche citazioni storiche puntuali, soprattutto sul costume dell’epoca. Ad esempio, l’importanza del giornale di partito, l’Unità; il rito condotto da Ennio dell’intervista a coloro che chiedono l’iscrizione al Partito; il controllo asfissiante sulle abitudini sessuali personali degli iscritti e il pressante controllo ideologico. Tuttavia tutto ciò costituisce più che altro uno sfondo, ed è ben lungi dal costituire il centro del film. La ricostruzione di costume evidentemente è solo un mezzo per altro.

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8. L’attrice interprete di Vera, in seguito a uno degli innumerevoli battibecchi con Giovanni, pone il problema e ipotizza che si tratti di un film d’amore travestito da film politico. I rapporti tra Giovanni e questa attrice sono sempre piuttosto tesi. In questo quadro si colloca la sua insofferenza per il fatto che lei indossi i sabot, le ciabatte. Giovanni viene mostrato discutere seriamente con Paola se licenziare l’attrice che considera disobbediente e inopportuna, con tutte le sue domande sul film, con le sue idee sul personaggio e poi, con le ciabatte. Pur di cacciarla, sarebbe disposto a rigirare con un’altra attrice il materiale già realizzato.

Tra l’attrice che interpreta Vera e Giovanni si instaurerà una vera e propria dialettica, non solo incentrata sulla natura del film ma soprattutto sull’autonomia dell’attore nei confronti del copione. Su questo argomento viene tirato in ballo lo stile di regia di Cassavetes, disposto a un lungo lavoro di discussione con i suoi attori. Giovanni, stizzito, ci tiene a precisare che il suo stile sta all’opposto di Cassavetes. Si tratta di una questione evidentemente di qualche rilevanza per Moretti e che serpeggia un po’ per tutto il film. Tutti i tentativi da parte degli attori di dire la loro sul copione tuttavia sono cassati. Solo verso la fine, con una specie di ribaltone, la rielaborazione del finale del film sarà il frutto di una specie di adombrata riscrittura collettiva[9].

9. Poco a poco si chiarisce che non solo si tratta di un film su una storia d’amore (e poi, vedremo, di altro ancora) ma anche che Giovanni, nella scrittura del film, sta usando inconsapevolmente una serie di meccanismi proiettivi. Del resto è noto l’interesse di Moretti per la psicoanalisi. Giovanni evidentemente proietta nei suoi personaggi elementi della sua vita privata dei quali non è del tutto consapevole o intorno ai quali tende a rimuovere. Vera è abbastanza chiaramente la trasfigurazione di Paola, che forse, nelle intenzioni di Giovanni, dovrebbe essere tutta dedita alla causa, senza una vita privata e che dovrebbe reprimere la sua sensualità. Una figura completamente idealizzata, fino a divenire irreale. L’attrice che interpreta Vera tende invece costantemente a rompere questo schema, irritando Giovanni. La scena in cui Vera, verso la fine del film, restituisce la tessera costituisce, in effetti, l’analogo di un divorzio. Quando si girerà la scena della restituzione della tessera, dove il copione prevede un tentativo articolato di chiarificazione tra i due, Giovanni reagisce negativamente, si mostra allarmato e contrariato. Dice che la scena fa schifo e così taglia via ogni dialogo, ogni tentativo di spiegazione e impone il semplice gesto della consegna del documento. Subito dopo – trovata tipicamente morettiana – parte la danza dei dervisci, troupe con sottofondo di Battiato, che poco a poco contagia tutta la nello studio. Le parole possono essere pericolose. Meglio l’estasi derviscia.

10. Se Vera è la trasfigurazione di Paola, allora il dirigente politico Ennio funge perfettamente da alter ego di Giovanni. Lo suggerisce anche il cognome scelto, Mastrogiovanni. Anche di Ennio nulla si dice di personale. La sua dedizione alla causa è totale, come la sua imbrigliatura dell’affettività e della sessualità. Lo vediamo addirittura esercitare il controllo sulla moralità sessuale dei suoi collaboratori. Un perfetto militante di partito di quegli anni, apparentemente tutto d’un pezzo. Veniamo informati del fatto che Ennio ha un certo peso nel PCI poiché è anche nientemeno che redattore de l’Unità, dunque assai vicino alla Direzione romana del PCI. Insomma, il tipico intellettuale militante comunista degli anni Cinquanta. Grazie a questa sua posizione, Ennio può promuovere le iniziative amministrative e politiche della sezione del Quarticciolo. Può invitare addirittura Togliatti alle sue iniziative. Può decidere cosa si deve pubblicare sul giornale. C’è una componente di tacito fanatismo nella figura di Ennio in cui evidentemente Giovanni proietta il suo stesso fanatismo autoriale.

Evidentemente, per Giovanni, nella relazione di coppia le parole non servono. Anzi, sono pericolose. È evidente che Giovanni, inconsciamente, proietta nei due protagonisti del film che sta facendo la sua situazione irrisolta con Paola. Il suo bisogno di comunicare si risolve volentieri nei gesti, nella musica, nella danza. Tutto va bene, purché rimanga confinato nel non detto sul piano verbale. Il film che Giovanni sta dunque girando appare dunque sempre più come un gigantesco meccanismo proiettivo della sua stessa vicenda personale. Ci sentiamo allora autorizzati a domandarci se anche secondo Moretti questo non sia proprio il senso della scrittura filmica in generale. Qui potrebbe trasparire una teoria psicoanalitica della autorialità, ma Moretti non si impegna più di tanto.

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11. Una trovata sicuramente efficace è quella che permette a Giovanni la connessione tra la Budapest del 1956 e la sezione romana del PCI. Si tratta dell’arrivo, proprio su invito della Sezione Gramsci del Quarticciolo, del circo ungherese Budavari, proprio nei giorni in cui avverrà l’invasione della Ungheria e la conseguente rivolta di Budapest. L’arrivo dà luogo a fermenti di solidarietà e a festeggiamenti vari con i “compagni” ungheresi. Qui Moretti ne approfitta per giocare con le memorie felliniane, sue e dei suoi spettatori. Alla prima dello spettacolo del circo si diverte con tendoni, pedane, musiche da circo, cavalli, acrobati e clown. Alla serata inaugurale del Circo è anche presente Togliatti, che però s’intravvede soltanto e che Giovanni, discutendo con l’aiuto regista Arianna, non vuol mettere in primo piano.

A un certo punto della serata però, Togliatti e i suoi accompagnatori (sempre mostrati in ombra) si alzano di scatto e abbandonano lo spettacolo di corsa, come colti da una notizia sconvolgente. Alla fine della serata tutti allora si precipitano in un appartamento vicino, dove hanno la televisione, per sapere cosa è successo. Le immagini sono spietate. I carri armati sovietici sono entrati a Budapest ed è iniziata la repressione. I titoli de l’Unità poi rendono chiaro che la Direzione del PCI ha condannato duramente la rivolta di Budapest e ha appoggiato l’intervento dei carri armati.

12. Faccio osservare che in una simile occasione, dove si manifestava solidarietà col nuovo corso ungherese, la presenza di Togliatti era altamente improbabile. Un Togliatti filo ungherese, inconsapevole e “sorpreso” dagli avvenimenti di Budapest, stride pesantemente con i fatti storici. La storiografia ha ormai appurato in modo incontrovertibile che Togliatti fu tra coloro che chiesero con insistenza a Mosca proprio di procedere all’invasione dell’Ungheria per mettere fine al nuovo corso. Togliatti poi, non contento dell’esito dell’invasione, fu tra coloro che appoggiarono la condanna a morte di Imre Nagy (il padre ispiratore della rivolta ungherese, per chi non lo sapesse) e del generale Maléter (l’eroico difensore di Budapest). Solo che Togliatti – è tutto ampiamente documentato – chiese che la loro esecuzione capitale avvenisse solo dopo le elezioni italiane del 25 maggio 1958, perché il Migliore aveva paura di squalificarsi con l’opinione pubblica italiana e di perdere voti. Chi abbia appena un po’ studiato gli avvenimenti, queste cose le deve sapere. Se Moretti/Giovanni si fosse minimamente documentato, avrebbe evitato certe macroscopiche incongruenze. Se invece l’incongruenza è voluta non se ne capisce proprio la ragione, forse per distinguere un Togliatti moderato dai sovietici cattivi? In ogni caso, la hybris autoriale non giustifica il travisamento dei dati e dei fatti storici. Ma alla critica e al pubblico queste cose non interessano. Proprio perché il pubblico odierno non sa nulla dell’Ungheria del 1956, diffondere versioni stravolte e/o edulcorate di quella storia rischia di mettere Moretti un po’ sullo stesso piano dell’odiato Netflix. Il rischio è sempre quello di sconfinare nel bullshite/o nella postverità.

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13. Tornando alla ricostruzione filmica, gli avvenimenti producono la costernazione dei “compagni” ungheresi del Budavari, ma provocano anche una lacerazione interna tra i militanti della sezione. E producono la spaccatura tra la coppia militante Ennio/Vera. Vengono così alla luce le differenze accuratamente celate dal rigorismo della vita di partito. Ennio si rivela qui come il dirigente inflessibile e ligio alle direttive, mentre Vera, aperta e solidale, prende posizione per i rivoltosi. Vera combatte valorosamente la sua battaglia per la libertà e si farà promotrice di una petizione con una raccolta di firme a sostegno degli insorti. Forse, a nostro giudizio, questa è un’allusione al famoso “Manifesto dei 101” che fu stilato da un centinaio di personaggi di primo piano della politica e della cultura di sinistra in appoggio alla rivolta ungherese e che l’Unità rifiutò di pubblicare. Il testo del Manifesto è qui riportato in nota[10]. L’appello di Vera con le firme, che era destinato alla pubblicazione sull’Unità, segue puntualmente lo stesso destino del vero Manifesto dei 101. Ennio, ligio alla consegna del Partito, rifiuterà di pubblicare la petizione sul giornale. Tutto ciò porterà Vera a riconsegnare la tessera, atto che, probabilmente, implica anche una vera e propria rottura nel campo dei loro rapporti personali. Per lo meno un divorzio simbolico. Ma di ciò per Giovanni poco o nulla si deve mostrare.

Moretti dunque, attraverso le scene girate da Giovanni, ci fa vedere, pur con qualche grave stravolgimento, quello che serve a intendere, in termini davvero elementari, la questione del 1956 anche dal lato storico. Tuttavia, a questo punto, quella che poteva anche sembrare l’avvio di una riflessione politica sul comunismo viene in un certo senso sospesa. Giovanni qui, giunto a mostrare la crisi della militanza che sopravviene nei suoi due personaggi, comincia a essere sempre più impegnato da questioni personali. Avanzano sempre più i segni di una crisi della sua stessa militanza professionale, la militanza cinematografica. I segni cioè di una crisi dell’Autore e del suo Cinema. Nello stesso tempo prendono spazio le questioni, sempre più problematiche, riguardanti la lavorazione stessa del film. Questioni che hanno a che fare con il lato economico della produzione, ma anche con il significato stesso del film.

Nanni Moretti e la morte del Cinema 1014. Dapprima il confronto tra Giovanni e Paola avverrà sul piano dei loro rapporti professionali e non su quello dei loro rapporti personali, che restano sempre rigorosamente nel non detto. Giovanni non pensa neppure che ci sia qualcosa da discutere, mentre Paola continua a non essere capace di dire a Giovanni quello che davvero pensa e vuole. Cioè la separazione. Un primo confronto drammatico avverrà sul piano delle scelte etiche ed estetiche coinvolte nel nuovo film prodotto da Paola, insieme con i coreani. Ed è di questo che converrà ora occuparci. Di questo film non ci è detto neppure il titolo. Sappiamo solo che il giovane regista Giuseppe aveva esordito con un film intitolato Orchi. Titolo che comunque è già tutto un programma. A Giovanni, in giro per Roma, era già capitato di trovarsi sul set del film dove si riprendeva la scena di una sparatoria, con un Giuseppe dietro la macchina da presa, esaltato come uno psicopatico, a mimare le mitragliate. In un altro luogo del film si dice, en passant, che sul set di Giuseppe si stava girando una scena con bambini disciolti nell’acido. Ora Giovanni capita per caso, con Paola, sul set dove si sta girando, con una certa aria di festa, proprio l’ultima scena del film. Si tratta di un’esecuzione mediante un colpo di pistola in fronte, con molto sangue sparpagliato, dove un esecutore, in piedi, punta una pistola contro una vittima inginocchiata. Non sappiamo chi siano e non conosciamo la storia che c’è dietro.

Giovanni interviene bruscamente e interrompe la scena con un’accusa pesante a Giuseppe: «La scena che stai girando fa male al Cinema, lo capisci? Fa male alle persone, allo Spirito. Fa male a te che la giri e a noi che la guardiamo!». Inizia così un lungo monologo sulla questione, che potremmo catalogare sotto la rubrica di cinema e violenza. Si tratta di una parte davvero interessante ed efficace, anche se apparentemente priva di legami con la lavorazione de Il sol dell’avvenire su cui lo spettatore era stato indotto a concentrarsi in precedenza. Giovanni tiene tutti in sospeso “per tutta la notte” – così ci vien detto – in cui si esibisce in una filippica ininterrotta contro la violenza nel cinema. Si tratta di un’orazione che ha davvero dei punti notevoli. In ciò, come aveva già fatto Woody Allen con McLuhan[11], chiama in supporto della sua tesi illustri personaggi come l’architetto Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio, che nella sua veste di matematica spiega, dal canto suo, «la geometria del lupo e dell’agnello». Cerca anche di interpellare Scorsese per telefono. Rivolto a Giuseppe, che cerca confusamente di giustificare il proprio operato, dice: «Il fatto è che a te la violenza proprio piace, ne sei affascinato». Ancora: «Tutti sono in preda da anni di un incantesimo. Poi una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato». Stupendo poi, a mio modesto avviso, è il monologo di Giovanni sull’episodio Non uccidere del Decalogo di Kieslowsky. La troupe e tutti i presenti sono ammutoliti. Sembrano tuttavia colpiti e incapaci di reagire. Paola cerca di convincere Giovanni a smetterla e a permettere di girare l’ultima scena del film. Solo all’alba, dopo la consegna dei cornetti da parte del venditore di passaggio, all’esecutore esausto è permesso far partire il colpo di pistola, ma il tutto si vede in lontananza, dietro le spalle di Giovanni che si sta allontanando.

Sempre nel contesto del lungo discorso sulla violenza, Giovanni rivolto a Paola, sul finire, aveva detto: «Nella vita, due o tre principi bisogna pure averceli, no?». Paola irritata aveva risposto che quel tipo di film lì li fanno tutti e li vedono tutti. E Giovanni amareggiato: «Tu non eri come tutti!». Qui risuona evidentemente il richiamo al mondo perduto del PCI del 1956, quando la fedeltà ai principi, quali che fossero, poteva anche dare un senso alla vita, poteva determinare destini e rapporti tra le persone. Qui è abbastanza chiaro che non c’è in gioco solo una polemica contro l’uso della violenza nel cinema, bensì anche una presa di posizione contro la svolta commerciale del Cinema, la tendenza alla produzione seriale di film che rincorrono i bassi gusti del grande pubblico, scritti a tavolino da equipe sbrigative e girati da registi altrettanto sbrigativi. Insomma, una polemica contro il Cinema che adotta lo stile delle serie televisive. Una polemica contro il Cinema che ha messo da parte l’Autore. Contro il tipo di Cinema cui Paola colpevolmente avrebbe aperto le porte, cercando implicitamente la propria personale liberazione da Giovanni.

15. Possiamo a questo punto tentare di accennare una risposta appena un po’ più complessa alla domanda: che c’entrano il PCI e l’Ungheria con la violenza e con la morte del Cinema? Per capire questo punto essenziale dobbiamo cercare di ricostruire i termini di quella che potrebbe essere stata la riflessione morettiana – a dire il vero per i miei gusti un poco contorta – sulla storia recente del cinema italiano[12]. Quella riflessione che può averlo condotto a connettere l’Ungheria del 1956 con i film splatter dei giorni nostri e con le serie televisive. Si tratta certo qui di supposizioni, ma dotate di qualche fondamento in base a ciò che Moretti ci ha mostrato finora.

Il Cinema d’Autore italiano è stato quasi sempre un Cinema di sinistra. E questo è un fatto. La genesi di questo Cinema sta nel neorealismo del secondo dopoguerra, nel rapporto tra politica e cultura, così com’era stato impostato proprio da Togliatti. E talvolta anche polemicamente contestato. Si ricordi il famoso dibattito tra Togliatti e Vittorini. Per quel mondo, che comunque agiva nel solco del sol dell’avvenire annunciato dall’Unione Sovietica, il 1956 è stato effettivamente un momento di grave crisi, di disorientamento, di riflessione. Abbiamo già citato e riportato il Manifesto dei 101. Molti intellettuali, in quel frangente, hanno rinunciato alla militanza politica. Si sono scrollati di dosso l’occhiuto controllo del Partito. Ne è testimonianza il dibattito, aperto proprio nel 1956 sulla rivista Cinema Nuovo[13]. L’avvio del dibattito fu promosso da un articolo di Renzo Renzi che si intitolava «Sciolti dal “giuramento”»[14]. Tuttavia – e questo è il punto cruciale che forse interessa a Moretti – quegli intellettuali che si erano allora emancipati dal Partito non hanno mai rinunciato all’impegno. Dopo la rottura del 1956, il cinema autoriale ha continuato a sviluppare un suo impegno militante. Non più sotto le ormai truci bandiere rosse ma sotto il vessillo dell’impegno autoriale libero. Questo vale per l’Italia, ma anche per le più importanti cinematografie straniere. Sembra dire Moretti che anche quando, come nel suo caso, ha sviluppato un cinema davvero molto personale, con i tratti di egocentrismo che egli stesso ha sempre esibito, il suo Cinema non ha mai rinunciato all’impegno. A costo di esibire anche maldestramente la propria dimensione più intima e personale, a costo di fare un film ogni cinque anni, a costo di comportarsi sul set come un dittatore autoritario: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?».

Per Moretti allora, di fronte all’andazzo odierno del cinema commerciale, di fronte alle imposizioni del mercato, di fronte alla progressiva corruzione dei gusti del pubblico, si tratta di tornare a interrogarsi sul senso dell’impegno dell’Autore. A interrogarsi, cioè, intorno al rapporto tra politica e cultura, tra intellettuali e potere. Tra l’opera artistica, la tecnologia e il mercato. E a interrogarsi sulle conseguenze sociali e culturali di tutto ciò. Insomma, un richiamo alla responsabilità. Interpretato in questo modo, quello di Moretti (per il tramite del personaggio Giovanni) si configura come un vero e proprio appello. Un Manifesto, se vogliamo. Una chiamata a scegliere urgentemente da che parte stare, giacché non è possibile stare a metà, proprio come non era possibile stare a metà nel 1956: «[…] una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato».

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16. Ma riprendiamo il corso del filone narrativo principale. Intanto per Giovanni si tratta di prendere atto del fatto che la lavorazione del suo film è messa a repentaglio da un evento imprevedibile: l’arresto del coproduttore Pierre da parte della Guardia di Finanza per reati fiscali. Così il duro peso delle incombenze materiali si fa sentire. Si scopre che Pierre era già ricercato fin dall’inizio della lavorazione del film e, per questo, si nascondeva e soggiornava proprio negli studi. Era lui il disseminatore degli oggetti “fuori epoca” e dei cartoni delle pizze che facevano impazzire Giovanni e di cui egli rimproverava il povero Diego.

Pierre, che esce di scena in maniera goffa e ingloriosa, aveva comunque già offerto a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Rivolgersi a quelli di Netflix, che avrebbero potuto essere interessati a subentrare nella produzione. L’incontro con gli esponenti di Netflix si tiene effettivamente ed è narrato in forma caricaturale, sebbene assai significativa. Questo incontro è davvero rivelatore e offre allo spettatore una importante chiave di lettura del film di Giovanni (e dello stesso film di Moretti). Il dialogo tragicomico che avviene tra le due parti è fatto apposta per evidenziare la loro distanza lunare. Da un lato, Giovanni che spiega come San Michele aveva un gallo dei Fratelli Taviani potesse essere, insieme, un film politico e poetico. Dall’altro, quelli di Netflix che spiegano a che punto del film (cioè, dopo 2 minuti!) lo spettatore medio decide se continuare a guardare o meno. Il copione di Giovanni viene rifiutato perché sostanzialmente non soddisfa i canoni del cinema commerciale e perché il contenuto deve essere suscettibile di essere compreso universalmente, visto che Netflix è diffuso in ben «190 Paesi». In estrema sintesi, poi, secondo Netflix, rappresentato qui da una distinta signora, nel copione manca il momento «What the fuck!».

Sarà un caso, ma proprio durante il colloquio con gli esponenti di Netflix Giovanni comunica allo spettatore un’informazione sul copione che costituisce effettivamente un colpo di scena, un vero e proprio momento What the fuck!, un elemento finora accuratamente celato, intorno al quale prenderà forma tutta l’ultima parte del film di Moretti. Dice Giovanni en passant: «San Michele aveva un gallo […] era un bellissimo film e finiva con il suicidio del protagonista, proprio come il mio!». Moretti, evidentemente, allude qui nientemeno che al suicidio di Ennio. Insomma, apprendiamo qui che il “film d’amore” di Giovanni ha un finale tragico. Era piuttosto un film d’amore e di morte! Questa novità è clamorosa ed è effettivamente in grado di unificare le due parti apparentemente sconnesse del filone principale. Cominciamo forse a capirci qualcosa!

17. Intanto, dopo il monologo sulla violenza e il relativo scontro, Paola ha trovato il coraggio di esplicitare la propria intenzione di separarsi e così si trasferisce nell’appartamento che aveva affittato da tempo, proprio in vista della separazione. Giovanni va a dormire a casa della figlia Emma. Dove Moretti ha modo di mettere a segno alcune ulteriori osservazioni di tipo generazionale, discutendo di dipendenza, di sonniferi e antidepressivi. Giovanni continua a non capire i motivi della separazione e continua a chiedere a Paola di ripensarci. Paola mantiene la sua decisione ma, nello stesso tempo, offre a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Grazie alla mediazione di Paola, il copione del film viene fatto leggere ai coreani. Sorprendentemente, i coreani ne sono molto colpiti e decidono su due piedi di finanziarlo, subentrando così allo sciagurato Pierre. Qui la portavoce dei coreani spiega accuratamente, in un modo che più chiaro non si può, il senso effettivo del copione appena letto: «La sceneggiatura è stata davvero apprezzata. Soprattutto il finale, così drammatico, senza speranza. È un film sulla morte dell’arte, sulla morte dei comunismi, sulla morte dell’amore e della morale. È proprio un film sulla fine di tutto quanto!». Giovanni risponde con un laconico: «Certo!».

Forse un film d’Autore sulla «fine di tutto quanto!» deve essere apparso ai coreani ben più potente della violenza infantile e gratuita del film del giovane Giuseppe. O forse, più semplicemente, per i coreani un film “sulla fine di tutto” è solo una corsa al rialzo, la logica conseguenza del trend nichilistico aperto dai film splatter. O forse, ancora, Moretti ha voluto fare una strizzata d’occhio benevola al nuovo cinema coreano[15]? Non è del tutto chiaro. Non è chiaro neanche se la diagnosi dei coreani, cui Giovanni acconsente, sia anche la chiave condivisa dallo stesso Moretti e valida dunque, estensivamente, per l’intero film. Un Moretti così didascalico (e ideologico) da mettere nel film un’esplicita traccia per la sua corretta lettura? Oppure Moretti tenta comunque ancora di mascherarsi e di sfuggire a qualsiasi definizione?

18. Grazie all’intervento dei produttori coreani, si riprende a girare il film. Tuttavia, al momento dell’ultima scena del film, il finale «drammatico e senza speranza», cioè il suicidio di Ennio, le cose si complicano. Sulla scena, Giovanni, per spiegare a Orlando/Ennio come recitare l’impiccagione, gli dà questa dritta, con la sua voce strascicata: «Pensa a quello che disse Calvino: Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere. Pensaci, poi però dimenticalo!». Poi, quasi come per una coazione inconscia, Giovanni, nella sua foga dimostrare come fare, caccia la testa dentro il cappio e se lo stringe al collo. Diventa allora chiaro che qui si tratta proprio del suicidio dell’Autore, un suicidio sospeso tra la realtà e la fiction. Gli astanti guardano la scena palesemente angosciati. Paola è attonita. Forse per la prima volta Paola capisce il dramma di Giovanni, messo per iscritto da mesi nel copione del film, ma mai veramente approfondito e discusso. Forse per la prima volta Giovanni è riuscito davvero a spiegarsi senza l’uso delle parole – come ama fare – e a ottenere l’attenzione di tutti.

In quel momento tuttavia si ha una specie di catarsi. O forse, più banalmente, a Giovanni si accende la classica lampadina. Giovanni si toglie il cappio e decide che quella scena non avrebbe più fatto parte del film. Insomma, rifiuta il finale che aveva previsto, quel finale così necessario nell’economia del copione e così ammirato dai coreani. Si noti che in precedenza aveva detto, en passant, che l’intero film lo aveva scritto solo dopo che gli era venuto in mente il finale. Era stato dunque il finale tragico, il suicidio, il motore dell’intera scrittura del film. Ma allora, senza quel finale, che senso può ancora avere quel film?

Qui comunque appare ancor più chiaro come l’alter ego psicoanalitico di Giovanni sia proprio Ennio, lo stalinista riluttante. Colui che doveva essere destinato al suicidio per un irriducibile conflitto tra sé e il mondo. Se riteniamo – come credo sia giusto pensare – che per Moretti il film altro non debba essere se non una sorta di autoanalisi, una presa di coscienza attraverso la scrittura, qui Giovanni si rende finalmente conto che il film che sta girando altro non è se non il pretesto per mettere in scena la propria crisi, forse anche politica ma soprattutto esistenziale e artistica. Del tutto speculare alla decisione di Paola di andare in analisi per riuscire a separarsi da Giovanni.

19. Successivamente a questo moto di rifiuto del finale, tutta la troupe, compresi i produttori coreani, si ritrova riunita attorno a un tavolo, in una specie di ricevimento alla ambasciata polacca, ospiti di Jerzy. In questo contesto, tra l’altro, la figlia di Giovanni annuncia l’intenzione di sposarsi proprio con Jerzy. Jerzy assume così sempre più la figura del padre maturo. Qui Giovanni dichiara che il finale del film non gli piace più, di non voler mai più vedere quel cappio. A questo punto, come se si fossero passati la parola, tra i convitati si sviluppa una specie di concitato e sonoro brainstorming cui partecipano tutti appassionatamente (attori, collaboratori, produttori coreani inclusi …) il cui risultato sarà un radicale cambiamento di finale.

Giovanni ascolta il brusio e pensa tra sé qualcosa di abbastanza singolare: «La storia non si fa con i “se”. E chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i “se”!». Il suo “se”, come si vedrà, è grosso come una montagna ed è, purtroppo per noi spettatori, piuttosto difficile da comprendere. Tanto da lasciare, forse, un po’ di amaro in bocca a chi è arrivato fin qui. Comunque val la pena di seguire fino in fondo la nuova intuizione creativa di Giovanni.

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20. Subito parte il nuovo finale, fatto vedere al pubblico in diretta. I numerosi “compagni” sottoscrittori della petizione promossa da Vera a favore della rivolta ungherese si ritrovano sotto la Direzione del PCI (più o meno una storica ricostruzione delle Botteghe Oscure) e inscenano una grande manifestazione. Tra la folla, violando la logica temporale della narrazione, si trovano anche Giovanni e Paola, forse finalmente riconciliati in seguito agli eventi precedenti. Dal basso della piazza s’intravvedono in alto i dirigenti comunisti, Togliatti in primis, confabulare dietro le finestre del primo piano. Poco dopo viene fatto uscire un numero de l’Unità che ha come titolo un clamoroso e sorprendente: «Unione Sovietica addio!» scritto a caratteri cubitali.

Le prime copie del giornale con l’addio all’Unione Sovietica sono diffuse e di lì, col supporto della banda musicale, degli artisti del circo Budavari e degli elefanti, parte un corteo – in stile da circo equestre sempre decisamente felliniano – che si dipana per le vie di Roma. Un corteo che figurativamente nelle inquadrature evoca un po’ il Terzo Stato di Pellizza da Volpedo. Nella sfilata, Moretti provvede a salvare Ennio (alter ego di Giovanni) e Vera (alter ego di Paola), i quali si vedono, finalmente, felicemente abbracciati, non si sa se come personaggi o, più probabilmente, come attori, visto il loro progressivo innamoramento durante la lavorazione del film. Sempre Cinema e vita, dunque. I due stanno a cavalcioni di un elefante, uno dei quattro elefanti del corteo, resi ora disponibili dalla onnipotente produzione coreana e, anche loro finalmente “familiarizzati”, divenuti cioè socievoli e disponibili a lavorare insieme. Nel corteo sono compresi anche Togliatti e i produttori coreani.

Si tratta di un corteo, collocato ormai al di là dello spazio e del tempo, dove compaiono tutti i protagonisti, non solo del film di Giovanni ma anche dei diversi altri film di cui si tratta nel film, cui si aggiungono addirittura anche molti attori e protagonisti di precedenti film di Moretti. Attraverso la sfilata dei protagonisti dei suoi film precedenti, evidentemente Moretti vuol rivendicare qui il proprio lavoro autoriale, compreso il suo egocentrismo vagamente staliniano, la sua difficoltà ad affrontare i sentimenti e le relazioni interpersonali. Rivendica insomma la causa del Cinema contro la spazzatura mediatica dilagante. Rivendica una sorta di Cinema totale che si intrecci con la vita. Un intreccio così autentico da farsi psicoanalisi per chi scrive i copioni e decide i finali. Alla fine della sarabanda – ed è questa la ancor più sorprendente chiusura del film – compare, inaspettatamente, un cartello, su sfondo rosso, che recita così: «Da quel giorno il Partito Comunista Italiano si liberò dell’egemonia sovietica, realizzando in Italia l’utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, che ancora oggi ci rende tanto felici».

21. Non possiamo proprio trattenere qui un sonoro gulp! Un finale siffatto è senz’altro da opera aperta. Spalancata. Ma si potrebbe anche dire da opera inconclusa. Che cosa ha voluto dire Moretti? E, soprattutto, ha voluto dire qualcosa? O si è limitato a menare il can per l’aia riproponendo tutte le sue macchiette più o meno scontate? In sostanza, come dobbiamo intendere la nuova determinazione di Giovanni di voler «fare la storia con i “se”»? Se non vogliamo rassegnarci alla critica postmoderna, si tratta senz’altro di domande più che lecite. Quel tipo di domande che tra il pubblico ci si poneva quando si faceva il dibattito, dopo la visione del film.

Intanto va osservato che «Fare la storia con i “se”» non è di per sé negativo ed è presente, seppure in tono minore, nella stessa metodologia della scienza storica. Per meglio valutare l’importanza di certi avvenimenti, gli storici possono talvolta, in mera sede teorica, come esperimento mentale, sopprimere o modificare un certo evento per vedere quali conseguenze ne sarebbero potute derivare. Si tratta di meri esercizi teorici che possono tuttavia aiutare a meglio valutare il peso di determinati eventi nella storia[16]. Di qui purtroppo ha anche preso piede una certa letteratura minore, di carattere piuttosto popolare, attraverso la quale sono state proposte varie ipotesi, più o meno strampalate. Non ci pare proprio tuttavia che questo tipo di esperimenti possa effettivamente essere stato nelle intenzioni di Moretti.

Mi sentirei di appoggiare un’altra tesi, anche questa tuttavia di plausibilità relativa. Moretti potrebbe avere inteso suggerire che stando ai fatti (cioè stando alla effettiva storia recente) la soluzione tragica, il suicidio di Ennio (e con lui, si badi bene, della parte preponderante della sinistra italiana) avrebbe dovuto essere il finale autentico, il finale più appropriato, quello conseguente all’effettivo andamento delle cose. Si sarebbe trattato di un film sulla grande tragedia dell’ultimo secolo vista dal Quarticciolo. Insomma, un dramma politico e poetico a livello dei Fratelli Taviani. Un drammone effettivamente del tutto plausibile, un’opera di riflessione senz’altro necessaria ma che Moretti, implicitamente, dichiara di essere incapace di portare a termine, forse data anche la caratteristica peculiare del suo linguaggio espressivo. Moretti, in altri termini, ci fa vedere pezzi di un film che sarebbe necessario fare ma che egli stesso ammette di essere incapace di portare avanti e di concludere col rigore necessario. La trovata geniale di Moretti resta tuttavia – e credo che in ciò abbia avuto perfettamente ragione – quella di avere individuato, con una certa precisione, il nodo, l’evento storico che ci ha resi quello che siamo, la nostra “giornata particolare”, per dirla con Aldo Cazzullo. Un nodo tuttora rimosso che la sinistra italiana non ha ancora compreso, non ha ancora analizzato e superato. E non ha alcuna intenzione di farlo.

È proprio dalla rimozione di quella storia – che poi costituisce un caso drammatico di fallimento dell’utopia – che deriva la «fine di tutto», cioè – come dice la portavoce dei coreani – la morte dell’arte, la morte dei comunismi, la morte dell’amore e della morale. E naturalmente, la morte del Cinema. Con la baraonda finale Moretti, di fronte all’incombenza di concludere degnamente, si sposta repentinamente sul piano fantastico e confessa implicitamente di essere incapace di procedere alla rielaborazione, incapace di produrre una psico – analisi dello smarrimento dei tempi nostri e incapace di indurre una decisiva ed efficace presa di coscienza. In proposito, la citazione calviniana è quanto mai chiara: «Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere».

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22. Se probabilmente questo è, in maniera del tutto generale, il senso plausibile della baraonda finale, questo non ci esime dall’entrare nel merito dei suoi specifici contenuti. Quel che Moretti ci ha messo dentro – a cominciare dalla scritta finale – non è sicuramente casuale. E con ciò ci dobbiamo ora confrontare.

Intanto è il caso di considerare che il «se» di Giovanni si dimostra neppure così tanto radicale. Nel 1956 qualcuno che ha dato l’addio all’Unione sovietica c’è stato davvero. Abbiamo già citato e riportato in nota lo storico Manifesto dei 101. La repressione della rivolta ungherese causò effettivamente una spaccatura profonda nella sinistra italiana. Il PSI prese tuttavia apertamente posizione a favore degli insorti. Tranne una sua minoranza interna, i cosiddetti “carristi”, i fautori dei carri armati, che poi, nel 1964 lasceranno il partito e andranno a fondare lo PSIUP. Anche la CGIL prese posizione a favore degli operai ungheresi insorti. Non era dunque davvero così impossibile a quell’epoca condannare l’Unione Sovietica. E molti lo fecero. Bastava non avere la mente prigioniera tipica dei comunisti allineati. Ma non è così semplice. Secondo Moretti, quell’addio avrebbe dovuto comportare non un passaggio nelle file del Blocco occidentale ma un riavvicinamento all’utopia comunista tradita. Fino alla sua realizzazione. Questo è il punto.

In realtà, volendo ragionare storicamente, “se” Togliatti avesse preso le distanze dall’Unione Sovietica nel 1956 sarebbe cambiato certo qualcosa, ma forse nulla di risolutivo. Se fosse riuscito a evitare una scissione estremistica a sinistra, la Guerra fredda in Italia avrebbe senz’altro avuto un altro corso. Forse ci saremmo risparmiati gli anni di piombo. Si sarebbero risparmiate, certo, molte lacerazioni interne, non si sarebbe disperso, com’è invece avvenuto, buona parte del patrimonio storico del movimento operaio italiano e, forse, in questo Paese avremmo oggi una migliore cultura civica e una democrazia più solida. Dubito tuttavia che avremmo realizzato la utopia di Marx e Engels «che ci rende tanto felici» e che ciò ci avrebbe preservato dalla «fine di tutto», dai postcomunisti, dai postmoderni, dai film splatter, da Netflix e dalla morte del Cinema. La nostra crisi culturale attuale è certo frutto anche ella crisi della sinistra del 1956, ma a questa non si riduce affatto.

23. Comunque, se si tratta volonterosamente di «salvare il soldato Ennio», occorre allora fare un po’ di pulizia anche nella cantina (o nel solaio, se si vuole) del nostro Moretti. Gli spunti politico ideologici seminati qua e là nel film, non certo casualmente, non promettono gran che sulla strada di una maturazione in termini di coscienza. Giovanni (insieme a Moretti) deve fare ancora un bel po’ di strada. Decisamente problematica per noi, oltre al cartello finale sulla utopia marx-engelsiana che “ci renderebbe tanto felici”, è la presenza, in questo corteo, di un gigantesco ritratto di Trotsky, benevolo e sorridente. Ci dispiace, ma qui non riusciamo proprio a seguire. Come già non avevamo capito la battuta dell’Acqua Rosa, sulla Luxemburg. All’inizio del film, nell’allestimento del set della sezione, per Giovanni non andava bene l’immagine di Stalin, tanto da determinare il famoso “strappo”, ma Lenin, certo non meno responsabile di Stalin nelle vicende del comunismo sovietico, era stato lasciato in bella mostra. Non possiamo poi neanche asserire che “se” avesse prevalso Trotsky le cose sarebbero andate diversamente. Trotsky non era certo migliore degli altri due, semplicemente è stato lo sconfitto dalle lotte interne. Forse perché era un po’ meno analfabeta dei suoi concorrenti. Oltretutto è stato uno dei principali perpetratori del massacro di Kronstadt del 1921. Forse per Moretti – come ancora per tanti “compagni” incanutiti – far fuori gli anarchici era allora il prezzo da pagare per salvare la rivoluzione. Le battute sul «pasticcere trotskista» in un precedente film di Moretti e la riproposizione in questo corteo finale della figura di Trotsky a mo’ di tormentone, lasciano molte domande aperte, soprattutto sulla cultura storica e filosofica di base del nostro Moretti.

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L’idea di fondo, sottesa a tutto ciò, è che l’ideologia comunista (o se si vuole, l’utopia comunista) fosse originariamente una cosa buona e giusta e che sia poi naufragata per una sorta di fortuita deviazione costituita da Stalin e dalla Unione Sovietica staliniana. Si tratta di un’idea piuttosto ingenua e superficiale. Se c’è una cosa ampiamente provata dalla storia del XX secolo è la totale inemendabilità della ideologia comunista. Certo, nessuno è perfetto. Rispettiamo profondamente l’Autore Moretti, anche se manteniamo enormi riserve sul politico Moretti. Chi si aspettava da Moretti – visto anche il titolo del film – una qualche intrigante riflessione sulla crisi della sinistra odierna è stato sistemato. Nel campo della militanza, il suo massimo Moretti lo ha dato con «D’Alema, dì qualcosa di sinistra!» e «Con questi dirigenti non vinceremo mai!»[17]. Non è compito del Cinema risolvere i problemi che la politica non è in grado di affrontare.

24. Se l’abbozzo di riflessione critica sulla sinistra italiana condotta da Moretti a partire dalla crisi del 1956 è decisamente insufficiente, non altrettanto lo è – nostro modesto avviso – l’analisi e la riflessione critica sui destini del Cinema o, come abbiamo detto, sulla morte del Cinema. Purtroppo, anche nel campo del Cinema, nonostante gli apprezzabilissimi spezzoni di lucidità che abbiamo segnalato, la presa di coscienza della situazione attuale non offre alcuno sprazzo di ottimismo. Anche qui Moretti ci suggerisce che oggi il suicidio dell’Autore sarebbe in realtà la giusta soluzione, forse del tutto inevitabile. Nello stesso tempo rifiuta quasi istintivamente il cappio, per una specie di istinto di sopravvivenza. O forse per proporre un invito alla Resistenza. Un invito forse fin troppo prevedibile e rituale, ma ci sta bene. L’autoanalisi totale di Giovanni attraverso il film, dopo essere passata per l’ipotesi drammatica del suicidio, si è compiuta infine con una fuga fantastica, una specie di evasione dalla storia, dal tempo, dando luogo alla costruzione di una comunità immaginata che può essere identificata con la comunità di coloro che credono ancora al cinema autoriale, nonostante Netflix. Non più la «fine di tutto», la fine dell’arte, come stava scritto nel copione originario, ma l’alba fantastica del mondo nuovo, politico e cinematografico insieme. Tra l’altro è qui suggerita implicitamente l’amara consapevolezza che senza la politica non c’è la cultura e viceversa. Quello che Moretti offre al suo pubblico è tuttavia un finale “politico culturale” destinato a rimanere nell’ambito consolatorio. Il suo corteo non va da nessuna parte e si chiude con quell’ambigua scritta finale che contiene in sé un elemento utopico insieme alla sua stessa delegittimazione.

Moretti conosce bene il suo pubblico e sa che esso è comunque disponibile alla critica ironica nei confronti della realtà, al distanziamento, magari alla fuga nell’utopia. Ma anche un pubblico capace di comprendere le debolezze individuali, i fallimenti, le rimozioni. Un pubblico poi che, sul piano morale, ha dietro le spalle una lunga storia di disillusioni e sembra costitutivamente destinato a guadagnare una sconfitta dopo l’altra. Un pubblico che apprezza un mondo politico e poetico, dove tuttavia può anche incombere il suicidio del protagonista. Un finale per il suo pubblico, dunque. Un finale comunque senz’altro non suscettibile di essere «diffuso in 190 Paesi», come richiesto dai rappresentanti di Netflix. Forse oggi non sarebbe neanche suscettibile di essere diffuso al Quarticciolo.

25. Non nascondiamocelo. Questo finale, comunque lo si rigiri, per quanto fantasioso e accattivante, sembra per lo meno insufficiente. Non all’altezza. L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi, per sollevare appena un po’ il generoso Moretti da questa débâcle, è la seguente. Si badi bene, non è certo che questa spiegazione sia stata mai effettivamente nelle intenzioni di Moretti, ma senz’altro, a mio modesto avviso, emerge con qualche plausibilità dal testo del suo film. La propongo qui nello spirito del dibattito.

Torniamo a Giovanni, che con ogni probabilità rischia ancora di essere la chiave di tutto. Vediamo in generale come si comporta, come lavora. È immaturo, pasticcione, capriccioso, irresoluto. Nella vita privata è un padre assente e un partner pesante e problematico. È superstizioso. A ogni nuovo film deve fare il rito di guardare Lola con tutta la famiglia; nei momenti di difficoltà invoca la mamma, dichiara di prendere gli antidepressivi. Sul lavoro è terribilmente inefficiente, visto che fa un film ogni cinque anni. Il film che Giovanni gira ostentatamente sotto i nostri occhi è un’opera erratica, indecisa, dall’incerta collocazione tra i generi, soggetta a mille condizionamenti, dalla vita privata dell’Autore ai diktat dei conti economici. Un’opera perfino indecisa riguardo al finale e al suo significato generale. Dalla figura di Giovanni, così com’è delineata, e dal suo film, così come viene mostrato nel suo farsi e nella sua in conclusione, sembra emergere l’intenzione di un vero e proprio elogio della imperfezione. Un’imperfezione che per Moretti è senz’altro ineluttabile, tipica della vita, delle relazioni interpersonali, degli Autori, dei produttori. Ma anche della politica e della grande storia.

Netflix (qui pars pro toto), a rovescio, non ha il retroterra umano troppo umano dell’Autore solitario, del free rider. Non subisce il peso dei condizionamenti più disparati. Non ha bisogno della psicoanalisi. È una macchina del consenso che produce e distribuisce merce «in 190 Paesi». È uno standard cui ci si deve adeguare per stare dentro al meccanismo produttivo e distributivo. Gli autori di Netflix calcolano minuto per minuto quale meccanismo narrativo sia preferibile per acchiappare e accontentare il pubblico. È possibilissimo poi che, di questo passo, gli autori di Netflix possano perfino essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Sicuramente una AI potrebbe produrre storie tecnicamente più efficaci di qualsiasi Autore o collettivo di autori. Perché la AI rappresenta il collettivo autoriale assoluto, quello che emerge automaticamente dal Testo universale.

Secondo Moretti invece – e questo discorso a nostro parere emerge dal suo testo –l’Autore solitario, il free rider potrà avere anche mille difetti, potrà anche essere enormemente imperfetto, ma sarà sempre meglio di Netflix, semplicemente perché è espressione della vita: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?». Gli intellettuali del 1956 avevano di fronte la macchina comunista in tutte le sue manifestazioni locali e mondiali. Gli intellettuali di oggi hanno di fronte una macchina ben più temibile. Di fronte alla «fine di tutto quanto» l’unica speranza di reagire, di restare umani, è quella di fare un ricorso intelligente alla nostra imperfezione. E di imperfezione intelligente Moretti certo se ne intende.

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NOTE

[1] Questo saggio è stato originariamente pubblicato su Città Futura on-line. Questa è una nuova versione (1.1), rivista il 15/01/2024, in occasione della pubblicazione sul sito de I Viandanti delle Nebbie. Ringrazio vivamente il sito dei Viandanti per l’attenzione e la condivisione. Ho cominciato a scrivere questo piccolo saggio l’08/09/2023, tanto per collocarlo rispetto alle uscite dei commenti e delle analisi altrui.

[2] Chiedo scusa se per caso mi fosse sfuggita qualche importante controversia critica. Non mi capita più tanto di leggere la critica cinematografica.

[3] L’espressione critica postmoderna è ovviamente una contraddizione in termini.

[4] Di opera aperta ha parlato Umberto Eco. Il quale era tuttavia ben consapevole dei pericoli connessi alla pretesa di un’interpretazione infinita. Cfr. Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990

[5] Sento qui ruggire i ritualisti fondamentalisti antispoiler.

[6] Giovanni, che fa un film ogni cinque anni, in occasione della partenza delle riprese del nuovo film vuole imporre a tutta la famiglia il rituale della visione di Lola, con tanto di poncho da Ecce Bombo, gelato e quant’altro. Ma rimane ben presto da solo. Mormora tra sé: «Questo film andrà male, lo sento!».

[7] Giovanni compare come una specie di Cupido che incita Lui a baciare Lei mentre sono al cinema. I due però poi si lasciano, sorprendentemente dopo una dettagliata spiegazione da parte di Lei, di fronte a un Lui che palesemente è inadeguato e non sa cosa dire (anzi, lo stesso Giovanni gli ingiunge di non dire niente). È tuttavia l’unica parte del film dove – almeno da parte di Lei – le relazioni di coppia sono esaminate e spie-gate con una certa cura e con una certa articolazione nell’analisi dei sentimenti.

[8] Qui abbiamo una prima violenza alla storia. Cosa c’entri la Luxemburg con il PCI del 1956 è davvero difficile da capire. Farà il paio con la citazione di Trotsky che comparirà alla fine del film.

[9] Questa faccenda non è occasionale e/o pretestuosa come potrebbe sembrare, poiché la scrittura collettiva è proprio la tecnica che usano i grandi network del Cinema per produrre i loro contenuti. Cioè proprio il tipo di cinema contro cui polemizza Moretti. È il tipo di scrittura che sta demolendo la figura stessa dell’Autore. Qui Moretti non dice, ma sicuramente accenna.

[10] Forse è il caso di riportare, per chi non lo conosca, il testo di quel Manifesto dei 101, che è piuttosto breve ma assai significativo: «Ai compagni del Partito Comunista Italiano. Ai lavoratori italiani. Agli uomini di buona volontà. La rivolta del popolo ungherese contro il regime staliniano ha suscitato nel mondo intero un’ondata di simpatia e di solidarietà. Noi, intellettuali comunisti italiani, sentiamo il dovere di esprimere la nostra ferma approvazione a questa rivolta, che è stata una manifestazione di coraggio e di libertà da parte di un popolo che ha lottato per la propria indipendenza e per il socialismo. L’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche è un atto di violenza e di sopraffazione che non può essere giustificato. Esso è un tradimento dei principi del socialismo e della solidarietà internazionale. Noi denunciamo questa aggressione e ci dissociamo dalla linea del Partito Comunista Italiano, che ha accettato passivamente l’invasione dell’Ungheria. Crediamo che la via del socialismo passa attraverso la democrazia e la partecipazione delle masse alla vita politica e sociale. Noi ci impegniamo a continuare a lottare per la costruzione di un socialismo autenticamente democratico e progressista. Roma, 29 ottobre 1956». Seguono le firme dei sottoscrittori. È stata lievemente modificata la spaziatura e la punteggiatura, per ragioni di spazio.

[11] La scena si trova in Io e Annie (1977).

[12] Moretti avrebbe potuto anche trattare della storia del cinema a livello internazionale, nel periodo della Guerra Fredda. Ma non ce la fa. E ha fatto bene a limitarsi al cinema italiano.

[13] Si veda – per chi fosse interessato – la ricostruzione documentata di quel lontano dibattito nel volume di Guido Aristarco, Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta, Dedalo, Bari, 1981

[14] Il “giuramento” cui si allude nel titolo non è in realtà il giuramento di fede comunista, bensì il titolo di un film stalinista osannato dalla critica filosovietica dell’epoca. Ovviamente, c’era un gioco di parole voluto.

[15] In effetti, il Cinema coreano ha recentemente portato alla ribalta alcuni notevoli Autori.

[16] Max Weber in proposito aveva suggerito il metodo delle “possibilità retrospettive” (o, detto anche della “possibilità oggettiva”). Funziona più o meno così: si tende a constatare se, escludendo o mutando una delle condizioni antecedenti, il corso degli eventi, in base alle regole generali dell’esperienza, avrebbe potuto assumere una direzione diversa.

[17] La prima frase si trova nel film Aprile del 1998. La seconda, collocata nel contesto del Movimento dei girotondi, è del 2 febbraio 2002.

Prolegomeni a una nuova sinistra

Una breve nota sull’immaginario della sinistra

Breve nota sull'immaginario della sinistra 01Per una volta siamo di parola. Ecco infatti il secondo intervento di Beppe Rinaldi, promesso un paio di settimane fa

Rinaldi prende spunto nel testo che segue da un piccolo saggio di Aldo Schiavone (Sinistra!, edito da Einaudi nel 2023), per guidarci in una riflessione sullo stato attuale del pensiero di sinistra e sulle sue future prospettive. In effetti ne abbiamo un gran bisogno, sia di riflettere con un po’ di calma che di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici. L’argomento non è affatto nuovo per il sito dei Viandanti: direi anzi che in modi e in misure diversi, esplicitamente o sottotraccia, ricorre in tutti gli scritti ospitati, anche in quelli che parrebbero andar per lucciole. La differenza sta nel fatto che in questa occasione è affrontato con la sistematicità analitica e con la lucidità critica di cui solo uno studioso di lungo corso come Rinaldi può essere capace. Sul salto di livello che qui si opera può essere illuminante il confronto con un paio di tentativi miei di fare un’operazione di questo genere, uno già lontano nel tempo (L’ultimo in basso, a sinistra, 1999) e l’altro più recente (Tre manifesti sul futuro dell’umanità, 2021). Tra l’altro, già in quest’ultimo l’occasione era offerta da un precedente testo di Schiavone, “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, nel quale venivano anticipate quasi tutte le tesi poi riprese in Sinistra!. Ciò non significa che il pensiero dello storico campano del diritto sia diventato per i Viandanti un riferimento obbligato: significa invece che Schiavone, al contrario dei “grandi maestri” cui guarda con acritica reverenza lo pseudo-anticonformismo postmoderno, ha il coraggio di affrontare senza troppi giri di parole o ingorghi di citazioni il tema dell’essenza e dell’esistenza di una sinistra. Lo fa a modo suo, magari entusiasmandosi troppo per prospettive difficilmente condivisibili, ma almeno parla chiaro e va dritto al cuore dei problemi, invogliando così anche animi stanchi come i nostri a discuterlo (e a mettersi in discussione). Ma tutto questo lo troverete appunto nella serratissima analisi che Beppe Rinaldi va a proporvi.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 02Due parole vanno invece ancora spese sull’iconografia inserita dalla redazione a corredo del testo. Le immagini scelte non sono un espediente per alleggerire la densità di quest’ultimo (intesa come peso specifico delle argomentazioni e non certo come caratteristica dello stile) e neppure vogliono ridursi a un puro e semplice reliquiario iconografico: sono state inserite ritenendo che abbiano una qualche attinenza con lo scritto, in quanto, sia pure sommariamente, raccontano le trasformazioni di un’idea, della concezione stessa di “sinistra” e delle modalità di appartenenza a questa categoria politica. La trasformazione può infatti essere letta anche attraverso l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) dei manifesti che celebrano ricorrenze o avvenimenti significativi del calendario liturgico della sinistra, in particolare di quelli relativi alla festa del Primo Maggio. Naturalmente le chiavi di lettura possono essere svariate: quella che molto schematicamente proponiamo ha solo un valore esemplificativo.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 05Al netto dei mutamenti del gusto intervenuti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, che attraverso le successive correnti artistiche hanno naturalmente influenzato anche l’illustrazione politica, ci sono in questi manifesti altre evidenze, non prettamente estetiche, relative ai contenuti piuttosto che allo stile, che balzano immediatamente agli occhi.

In quelli risalenti all’ultimo decennio dell’Ottocento e ai primi del secolo successivo, ad esempio, la sinistra è personificata in immagini quasi esclusivamente femminili: sono allegorie botticelliane, adattate ai canoni dell’Arts and Crafts di William Morris prima e a quelli dell’Art Nouveau dopo. L’atmosfera e le posture leggere delle giovinette, che sembrano sempre pronte a librarsi in volo (quando già non stanno volando) riflettono in fondo le ottimistiche speranze della Belle Époque in un crescente benessere. A tutto questo non è naturalmente sotteso alcun riconoscimento particolare del ruolo della donna nella realizzazione di una futura società egualitaria. Sono solo rappresentazioni simboliche: e tuttavia quella che trasmettono è l’idea di una possibile transizione armonica. L’immagine femminile non ha nulla di mi naccioso, al contrario, si fa garante di un futuro di bellezza. E i seni generosamente esposti al vento, oltre a sfidare il farisaico moralismo borghese, promettono abbondanza e libertà. 

Breve nota sull'immaginario della sinistra 03Al volgere del secolo cominciano a comparire invece sui manifesti delle figure maschili, di solito in pose statuarie, o immagini di coppie o di gruppi. Dall’idealizzazione allegorica si plana verso una rappresentazione “realistica”, sia pure virata in chiave epica. Cambia anche l’atmosfera. La guerra mondiale ha fatto strage delle vecchie speranze, mentre la rivoluzione bolscevica ne alimenta di nuove, almeno in apparenza più concrete. L’iconografia sovietica è esemplare in questo senso. Un trionfo di solidità e concretezza. Quella italiana invece per tutto il ventennio semplicemente scompare. Nel frattempo si impongono sempre più i loghi, che caratterizzano un modello comunicativo mirante più a creare una immediatezza identitaria che a infondere emozioni: l’immancabile falce e martello, il pugno chiuso, e poi trattori, strumenti di lavoro, paesaggi industriali di taglio futurista.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 06Nel secondo dopoguerra all’iniziale “realismo” di ispirazione sovietica (ma anche hollywoodiana) succede, soprattutto in Italia, un “razionalismo” di chiara matrice architettonica, che punta sulle geometrie dei volumi e allude al titanico impegno della ricostruzione. Ma non sono solo le immagini a perdere levità. Alla loro maggiore pesantezza corrisponde quella dell’atmosfera sociale (lo dicono esplicitamente gli slogan: non di una festa si tratta, ma di una lotta): non è più tempo di famiglie felici e di serenità, ma di guerra fredda, di contrapposizione dura. In quest’ultima direzione muovono a partire dagli anni sessanta i manifesti della sinistra sindacalizzata e radicalizzata, pre e post-sessantottina, mentre quella storica e partitica tende a mettere la sordina al conflitto (è l’epoca del centro-sinistra e poi del compromesso storico) optando per simboli rassicuranti: la rosa in luogo della falce e martello, campi e officine sempre più stilizzati. Nei decenni successivi anche il lavoro cede gradualmente la scena ad altri temi: l’ambiente, la questione di genere, l’informatizzazione, l’integrazione. Questo mentre si completa l’auto-intestazione della ricorrenza da parte dei sindacati e dei partiti, o addirittura delle loro guide storiche.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 04Col nuovo secolo i manifesti praticamente scompaiono. L’informazione e la celebrazione passano ora attraverso i nuovi media. Scompaiono anche, assieme ai cortei e ai comizi, le ultime occasioni per sentirsi bene o male accomunati da una idealità e da una lotta. Lasciano il posto a un’idea di festa di tutt’altro tipo: non si marcia nei cortei, non ci si aduna pei comizi, ma si balla, si urla e ci si sballa ciascuno per proprio conto al concertone. Ricordandosi ogni tanto di alzare il pugno chiuso o di scandire gli slogan lanciati dal palco.

L’immaginario della sinistra ha un gran bisogno di essere non solo rinnovato, ma addirittura rifondato, se vuol tornare a librarsi in qualche modo oltre la desolante realtà del presente: e a questo scopo diventano indispensabili le preliminari disincrostazioni, le ripuliture dalla zavorra ideologica operate da Beppe Rinaldi. Buona lettura, dunque. 

di Paolo Repetto, 15 novembre 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 39

Prolegomeni a una nuova sinistra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 6 marzo 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 021. Il recente libriccino di Aldo Schiavone[1], presentato niente meno che come manifesto, nonostante le riserve che può avere suscitato[2], ha una sua importanza, perché ha il merito di mettere sul tavolo una serie di problemi di cui la sinistra italiana ha completamente smarrito il senso. Osserva infatti l’Autore che: «La sinistra non discute da decenni dei suoi principî: e questo l’ha messa in uno stato di confusione totale. È ora di venirne a capo»[3]. Siamo perfettamente d’accordo. Tanto per chiarire come stanno le cose nello specifico, l’Autore aggiunge che: «[…] lo scadimento dipende non poco dalla rinuncia quasi unanime degli intellettuali, dopo la fine delle battaglie ideologiche del secolo scorso, a esercitare una funzione pubblica di stimolo, di conoscenza, di critica e di suggerimento, e dal loro ritrarsi – pur se spesso non senza qualche ragione – dalla frequentazione della vita pubblica, o di quel che ne resta»[4]. Ci sentiamo di aggiungere che i nuovi politicanti della sinistra hanno volentieri congedato gli intellettuali per restare essi stessi i soli depositari dei futili giochi tra gli improbabili leader dalla scadenza incerta, seppur sempre più ravvicinata. Sul rapporto sempre più evanescente tra la politica e gli intellettuali nel nostro Paese si veda il recente saggio di Giorgio Caravale[5].

Prolegomeni a una nuova sinistra 01Al di là dei meriti del manifesto di Schiavone, esso è senz’altro utile almeno per fissare i punti essenziali che dovrebbero essere oggetto di un dibattito che si prospetta come piuttosto urgente. Ad esempio, nelle recenti mozioni dei candidati per la Segreteria del PD si è vista in opera la tendenza, in voga da un po’, a compilare lunghi elenchi di obiettivi, lunghe liste della spesa, senza dare alcuno spazio alle considerazioni teoriche. In questo saggio discuteremo passo a passo le argomentazioni principali di Schiavone. Anche se dopo le recenti vicende elettorali della sinistra (compreso l’ultimo Congresso del PD) dubitiamo seriamente che in giro ci sia qualcuno che abbia ancora voglia di discutere di simili questioni. Il saggio che il lettore si appresta a leggere è sicuramente pesante e noioso, per la quantità delle questioni sollevate e anche a causa del numero elevato di citazioni. Non sono qui per divertire, e poi le strade più facili sembra non abbiano poi tanto funzionato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 032. Diverse pagine del saggio di Schiavone sono spese per mettere in evidenza il fatto, con cui concordo perfettamente, che la sinistra in Italia ha smesso di pensare: «L’aspetto che più salta agli occhi nella condizione in cui si trova la sinistra nel nostro Paese è il vuoto d’idee che la circonda»[6]. Questa situazione, secondo Schiavone, sarebbe dovuta principalmente a due eventi di lunga durata che hanno cambiato completamente la prospettiva della sinistra. Anzitutto la caduta del comunismo. In secondo luogo l’avvento delle nuove tecnologie. Si tratta oltretutto di fenomeni collegati tra loro. Una nota teoria sostiene, infatti, che l’implosione dell’Unione Sovietica sia avvenuta soprattutto per l’incapacità del sistema autoritario real-comunista di convivere con la diffusione di massa delle nuove tecnologie che include la libertà di produzione e circolazione dell’informazione. Perché andare così indietro nel tempo? Semplicemente perché per almeno un secolo e mezzo il concetto di sinistra è stato coniugato col socialismo e il comunismo. Un passato che è stato semplicemente rimosso, con il quale la “sinistra” deve ancora fare i conti.

Più ancora in profondità, la crisi della sinistra odierna sarebbe dovuta – secondo Schiavone – a un mutamento profondo nella prospettiva della eguaglianza. La sinistra che oggi è in crisi veniva da una storia plurisecolare (dopo la rivoluzione industriale) dove il motivo conduttore era il conflitto tra capitale e lavoro. Se si preferisce usare il linguaggio sociologico, possiamo parlare di lotta di classe. Gli eguali sfruttati e coalizzati avrebbero combattuto la fonte stessa dello sfruttamento e della diseguaglianza e avrebbero instaurato una società di eguali. Con ciò emancipando l’intera umanità. L’aspetto rilevante della questione è il fatto inconfutabile che l’obiettivo della eguaglianza che veniva perseguito era direttamente connesso a questo specifico conflitto. Afferma Schiavone che: «Da allora in poi, dovunque, in ogni partito della sinistra, lavoro ed eguaglianza sarebbero apparsi quasi come sinonimi: il binomio dell’avvenire socialista. La forza del lavoro sarebbe stata anche la forza dell’eguaglianza. Il problema era solo di trasformare la spinta socializzante e uniformatrice della classe operaia in regola generale dell’intera società»[7]. Il ragionamento stringente di Schiavone – ricorrente in tutto il saggio – è che il venir meno progressivo del modello tradizionale del lavoro industriale abbia intaccato l’obiettivo fondamentale dell’eguaglianza che si davano tutte le sinistre. La crisi generalizzata della sinistra sarebbe dunque la crisi di un modello epocale di eguaglianza. Ci sarebbe proprio questo dietro la perdita, di cui tanto si parla, del rapporto tra la sinistra e il suo popolo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 043. Si tratta allora di fare i conti fino in fondo con quella matrice culturale che aveva istituito quel legame. La sinistra degli ultimi due secoli – quella che Hobsbawm chiama seconda sinistra[8], è stata caratterizzata, in un modo o nell’altro dalla prospettiva marxista. Anche nelle versioni meno rivoluzionarie e più riformiste. Afferma Schiavone che: «Oggi sappiamo che il pensiero di Marx conteneva errori irrimediabili: fra i più decisivi, una sottovalutazione grave dell’importanza della politica in generale, e della democrazia liberale in particolare, e della loro capacità di retroagire sulle strutture economiche e di modificarle, sia pure solo entro certi limiti. Errori che avrebbero aperto la strada a tragedie su cui ora è inutile tornare»[9]. Tragedie che tuttavia dovremmo avere ben presenti, nel momento in cui ci accingiamo a discutere di una nuova sinistra.

Prolegomeni a una nuova sinistra 07aGli errori irrimediabili di Marx non sono ancora divenuti argomento di pubblico dibattito. E continuano ad agire nella nostra storia quotidiana. Alcune delle società post comuniste costituiscono oggi una gravissima minaccia per il Mondo intero. Insomma, l’assetto delle società capitalistiche e della universale lotta di classe era considerato come un assetto permanente ed eterno, un dato di fatto divenuto visione tradizionale del mondo. L’impianto marxiano era divenuto una specie di scolastica ritualistica che ha tarpato il pensiero e che ha reso la sinistra incapace di comprendere i cambiamenti del Mondo. La scolastica marxiana e marxista – grazie anche agli apparenti successi del socialismo reale – è stata mantenuta stoicamente contro tutte le evidenze e poi è stata abbandonata di colpo, alla fine della Guerra fredda, senza alcuna analisi. Spiega Schiavone che: «Nel nostro Paese, sin dalla Liberazione, il marxismo avrebbe costituito l’intelaiatura culturale e ideale dei due maggiori partiti della sinistra: una scelta difesa con ostinazione dal più forte di essi – il Pci – sino alla fine; per essere poi abbandonata di colpo, guardandosi bene dal pronunciare una sola parola. Un comportamento che non saprei dire se più politicamente disastroso o moralmente vergognoso. E tutto questo senza che nessuno – o quasi – degli intellettuali che pure si erano completamente riconosciuti in quella dottrina sentisse il bisogno di intervenire. La vittoria della destra – di questa destra – è cominciata allora: da quell’incredibile silenzio»[10].

Prolegomeni a una nuova sinistra 054. La caratteristica fondamentale dell’intero periodo della seconda sinistra[11] fu dunque – Secondo Schiavone – l’identificazione del lavoro con l’eguaglianza. Che doveva dare luogo non solo a una eguaglianza formale ma anche a una eguaglianza sostanziale. Il socialismo o comunismo reale era concepito come la terra dell’eguaglianza sostanziale. La fine dell’Unione sovietica significò non solo la fine del socialismo, ma anche la fine del connubio tra lavoro ed eguaglianza sostanziale. In altri termini, significò la fine dell’età del lavoro. Ciò non significherà evidentemente la fine effettiva del lavoro, inteso come attività e funzione sociale, bensì la fine del lavorismo, cioè della ideologia del lavoro. Se vogliamo, la fine della identificazione stretta tra il cittadino e il lavoratore. Una traccia di questa identificazione, peraltro del tutto priva di effetti di sostanza, resta nell’art. 1 della nostra Costituzione.

Secondo Schiavone: «Quel che stava accadendo era, semplicemente, che la trasformazione in atto aveva fatto sparire il contesto sociale e culturale in cui avevano vissuto sino ad allora i partiti progressisti in Occidente: e niente potrà mai restituircelo. Perché con l’età del lavoro finiva anche l’età della lotta di classe, che era connessa a un modo di strutturarsi delle società occidentali che oggi quasi non esiste più. Un epilogo che la sinistra non ha ancora assorbito e metabolizzato, e che riempie tuttora di sé il nostro tempo: la cui importanza, sebbene le conseguenze non smettano di colpirci e di disorientarci, non è stata ancora colta né dal punto di vista storico, né da quello concettuale, della teoria, se non da qualche isolato, grande sociologo. I giovani in particolare non se ne rendono conto, a meno che non gli venga precisamente spiegato, anche se – senza esserne consapevoli – ne vivono sulla propria pelle le conseguenze: tanto i più felici tra loro come i più sfortunati. Ed è sotto le macerie di questo mondo che giace il corpo della sinistra, non solo in Italia, ma più o meno in tutto l’Occidente: a pezzi, per quanto ricoperto di alloro»[12]. Il sociologo cui l’Autore allude nel testo è Alan Touraine.

È vero o non è vero che il mondo sociale della seconda sinistra è finito definitivamente? Se si vuol procedere oltre, con una nuova sinistra, indubbiamente bisogna prenderne atto. La fine dell’identificazione stretta tra cittadino e lavoratore ha costituito per la sinistra un processo lungo e travagliato che – almeno nel nostro Paese – non sembra neanche del tutto terminato[13]. Soprattutto per il fatto che la sinistra per un paio di secoli aveva parlato soprattutto di lavoratori e nel nostro Paese aveva poca dimestichezza con le nozioni relative al cittadino e alla cittadinanza, cioè con le nozioni relative al pensiero liberale e democratico (quello che, secondo Hobsbawm[14], ha caratterizzato la prima sinistra).

Prolegomeni a una nuova sinistra 065. Le trasformazioni tecnologiche ed economiche hanno dunque portato al tramonto della prospettiva della lotta di classe e alla sparizione della soggettività stessa della classe operaia. Che costituiva il riferimento sociale della sinistra, il cosiddetto popolo della sinistra[15]. La perdita del riferimento sociale fu dunque soprattutto un effetto dei grandi processi storici che non furono adeguatamente compresi e problematizzati. La poca dimestichezza della sinistra con il pensiero democratico rendeva poco appetibile l’idea che si potesse pensare a un partito semplicemente di cittadini. Il rifiuto della democrazia borghese avvenuto col Manifesto di Marx sembrava irreversibile. Cominciò così un inutile viaggio alla ricerca del soggetto trasformatore alternativo. Si fecero numerosi tentativi. Il Terzo mondo e le sue rivoluzioni, gli emarginati, le donne, i poveri, gli immigrati, gli scontenti della globalizzazione, i movimenti monotematici per le grandi cause. Si fecero vani tentativi di ripetere quello stesso schema che risale addirittura al giovane Marx. Trovare cioè un soggetto politico che emancipando se stesso riesca a emancipare l’intera umanità. Inutile dire che il soggetto rivoluzionario alternativo non fu mai trovato. In realtà le sinistre hanno continuato a perdere consensi e quello che era il popolo della sinistra si è spostato sempre più verso la destra.

Schiavone qui ha il merito di dire con chiarezza quale sia oggi – secondo lui – la sola soluzione possibile: «Staccare […] definitivamente l’idea di sinistra da qualunque idea di socialismo, con la quale ogni politica progressista si era più o meno identificata sin dalla nascita: un’idea che aveva ormai il sapore arcaico del ferro, del vapore e del carbone. E, di conseguenza, staccare l’idea di eguaglianza – che, se poggiata su nuove basi, mantiene, eccome, tutta la sua attualità – dall’idea di lavoro (e di socialismo); e la figura del cittadino da quella del lavoratore. Ricongiungere direttamente, in altri termini, sinistra e (nuova) eguaglianza, senza passare attraverso il lavoro e il socialismo: come non è stato mai fatto nella modernità dopo la rivoluzione industriale. Mettere in campo un’idea diversa di sinistra per un’idea inedita di eguaglianza: lontane tutt’e due dal mito della socializzazione attraverso il lavoro, ma capaci di svilupparsi in un mondo ormai invaso dalle differenze e dal moltiplicarsi delle soggettività. E collocate entrambe in uno spazio culturale e strategico frutto di una prospettiva finalmente davvero inclusiva e globale, che solo ora – non prima, come sbagliando si pensava – è possibile permettersi. Andando oltre la catastrofe irreversibile del socialismo, e oltre la fine della centralità del lavoro operaio: della classe operaia come classe generale che liberando sé stessa avrebbe liberato l’intera umanità, secondo la formula bellissima ma piena di inganni delle nostre illusioni di una volta»[16].

Sono parole, in un certo senso liberatorie, che hanno il merito di dare una sana scrollata a tutti coloro che hanno avuto in passato una formazione di sinistra, a tutti coloro che ancora albergano i fantasmi inconsci del sol dell’avvenire. A tutti coloro che ancora subiscono gli effetti deleteri della diseducazione comunista[17].

Prolegomeni a una nuova sinistra 076. Questo però significa – a nostro modesto avviso – tornare a prima della seconda sinistra, alla prima sinistra, quella liberaldemocratica[18]. La prospettiva, detta in soldoni, è quella di riprendere in mano il filone dell’emancipazione del cittadino. L’emancipazione del lavoratore (che sarà comunque sempre degna di rilievo) sarà solo un’implicazione, una conseguenza della prima. Schiavone addirittura interpreta questo nuovo programma come un recupero di una prospettiva umanistica del tutto coerente con lo sviluppo storico della civiltà occidentale. Una prospettiva la cui realizzazione solo ora è divenuta possibile: «È indispensabile avere chiarezza e saper distinguere. L’idea fondante della sinistra, che ne racchiude tutto il cammino ed esprime un principio che sta nell’anima dell’Occidente sin dall’antichità greca, è l’emancipazione dell’umano, di tutto l’umano; non il socialismo: che è stato solo un mezzo per raggiungere quell’obiettivo, ma non il fine, anche se spesso le due cose sono state confuse. E oggi proprio quella meta è diventata realistica come mai prima, grazie all’aumento vertiginoso di potenza che la rivoluzione tecnologica sta mettendo a nostra disposizione: solo che la si sappia usare nel verso giusto. Bisogna perciò andar oltre, con un pensiero in grado per prima cosa di restituirci un’immagine attendibile del mondo, e con una visione capace di guardare lontano: virtù oggi rare, che dobbiamo saper ritrovare. Non ne va solo del futuro della sinistra. Ne va del futuro di tutti»[19].

Insomma, arrovellarsi perché la sinistra abbia perso il consenso dei poveri (o degli emarginati, o di altre fumose categorie sociali) non serve a nulla. I poveri de facto non rappresentano il modello per costruire la nuova società e per emancipare l’umanità. I poveri non sono l’avanguardia nuova. Non sono il modello di umanità cui ci si debba riferire (anche se, ovviamente, rientrano a pieno titolo in un progetto di emancipazione umana). Infatti nella prassi politica comune – lo si vede tutti giorni – sono perfettamente compatibili con le ideologie e le politiche della destra. Poveri, emarginati e lavoratori votano tranquillamente i partiti di destra. Insomma, in estrema sintesi, il poverismo non è il rimedio ai limiti ormai storici del lavorismo.

7. Chiarita la questione di fondo, possiamo accingerci a passare ai temi del secondo capitolo. Un altro nodo fondamentale, nella ricostruzione della sinistra nuova, è quello della politica. Qui abbiamo ravvisato tuttavia un qualche limite nel ragionamento di Schiavone. Un non sequitur rispetto alle sue precedenti argomentazioni. Il vecchio manifesto marxiano, dopo la descrizione delle condizioni materiali del proletariato che contribuivano a costruire la classe in sé, si affannava a spiegare come quelle condizioni materiali stesse avrebbero contribuito ad alimentare la coscienza di classe, la nuova soggettività che avrebbe lottato per quel modello di eguaglianza e di cittadinanza basata sul lavoro. Il capitolo sulla nuova politica Schiavone avrebbe dovuto scriverlo dopo, alla fine, dopo l’individuazione del nuovo modello di eguaglianza da proporre non più ai compagni ma, evidentemente, ai citoyens. (Si veda oltre). Collocato invece in questa posizione, finisce per risultare sconnesso dal ragionamento generale e dunque piuttosto generico.

Prolegomeni a una nuova sinistra 088. Seguiamo comunque le argomentazioni proposte da Schiavone perché hanno comunque qualcosa di interessante da dire rispetto al dibattito attuale. È universalmente riconosciuto che le democrazie occidentali attraversino una crisi della politica. C’è una enorme letteratura in proposito. Schiavone riconduce questa crisi a due questioni principali. La prima è la selezione della classe dirigente e la seconda è quella della partecipazione politica.

La crisi della politica nelle democrazie occidentali sarebbe strettamente connessa alla diffusione del populismo. Purtroppo Schiavone non è il grado di dire, a partire dal suo modello, se il populismo sia la causa o l’effetto della crisi della sinistra tradizionale. Noi propendiamo per sostenere che il populismo sia piuttosto un effetto. Il populismo altro non è se non la ricerca dell’ennesimo soggetto trasformatore, di un nuovo protagonista della storia. Il popolo (termine quanto mai generico) messo al posto del lavoratore. Secondo la nostra analisi, il crollo della sinistra di classe – è successo visibilmente in tutti i Paesi dell’Est Europa – ha portato alla luce l’etno-nazionalismo e il sovranismo. Quello stesso che si è manifestato nella Ex Jugoslavia e che si manifesta oggi in Russia. Il populismo è l’ultimo disastroso esito della ricerca del soggetto sociale rivoluzionario. Com’è noto, il populismo è assai flessibile e può avere versioni sia di destra sia di sinistra. In Italia, dove gli orfani della sinistra di classe sono davvero molti (questo perché avevamo il maggior partito comunista dell’Occidente), li abbiamo avuti entrambi: la classe operaia, dopo la fine della civiltà del lavoro, ha ahimè riempito le file dell’etno-nazionalismo leghista e ha riempito le file del movimentismo del M5S. Poiché la politica era sempre stata identificata con la lotta di classe (soft o hard che fosse) la fine della lotta di classe è stata percepita ipso facto come fine della politica. La sinistra non conosceva altra politica che quella. Di qui il sostantivo e progressivo declino della politica, che ha portato la sinistra nell’attuale situazione di sfacelo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 09In ogni caso Schiavone è ben consapevole nell’esigenza di andare oltre il populismo che poi si sostanzia nell’antipolitica e nel rifiuto dello Stato. Nella proposizione di scorciatoie illusorie, risolutrici di tutti i problemi. Afferma Schiavone: «Riportare i cittadini – e i giovani in particolare – alla politica è dunque il primo compito di una sinistra tornata in piedi. Stare a sinistra questo innanzitutto significa, oggi: riconquistare alla politica lo spazio e il consenso perduti, ridarle sovranità, e con quest’ultima restituirle etica e conoscenza. Garantirle finalmente un orizzonte all’altezza dei problemi e delle opportunità che abbiamo di fronte»[20]. Non si può non essere d’accordo. Tuttavia Schiavone non coglie che con la lotta di classe se n’è andato anche un preciso specifico significato della politica, con tutto quel che era compreso: la partecipazione, la militanza, la specifica cultura politica della sinistra, un preciso modello d’impegno e di socialità. Un effettivo ritorno alla politica (di questo si tratta) dovrebbe essere in grado di produrre un equivalente di quel che si è perso. Su basi diverse, certo. Ma deve essere un equivalente.

Secondo Schiavone, la nuova politica dovrebbe essere connessa indissolubilmente con il progetto politico europeo. Per questo si tratta di andare oltre all’idea di nazione (altra nozione novecentesca da superare, per Schiavone, insieme a quella di classe). Qui Schiavone riprende implicitamente il riferimento alla cittadinanza nella forma di una comune cittadinanza europea. Afferma Schiavone: «Credo sia il momento di lanciare l’idea di una Costituente per la nascita di una sinistra d’Europa – da portare tra i cittadini dei diversi Paesi coinvolti e non solo nel Parlamento di Bruxelles: per la formazione di un partito progressista da Madrid a Berlino, da Parigi a Roma, in grado di proporre obiettivi e programmi condivisi, pur nella pluralità delle sue culture e delle sue ispirazioni»[21]. Evidentemente l’Europa non può funzionare come patria nazionale. Non può essere costruita con l’etno-nazionalismo. Per la costruzione di una comune patria europea non nazionale occorre mettere in campo quello che Habermas ha chiamato patriottismo della costituzione. Ne ha parlato a lungo il nostro Rusconi.

Val la pena di aggiungere, da parte nostra, anche l’esigenza improrogabile di un sindacato unitario europeo. Chi scrive ha iniziato la sua prima esperienza sindacale una cinquantina di anni fa, sentendo continuamente pronunciare, in quegli ambienti, la litania della unità sindacale. La divisione delle sigle sindacali poteva avere un senso all’epoca della cinghia di trasmissione tra lotta economica e lotta politica, nel contesto della civiltà del lavoro e della lotta di classe. Ora i residui divisivi di quella stagione continuano a intralciare la lotta economica dei cittadini/ lavoratori. A maggior ragione poi, le organizzazioni sindacali – nate tutte nella stagione della seconda sinistra – dovrebbero essere in prima file nel darsi una struttura europea, poiché i problemi dei cittadini / lavoratori sono sempre più dipendenti dal livello decisionale europeo. Schiavone non ne parla ma penso sarebbe perfettamente d’accordo. Adombra perfino l’esigenza di un coordinamento globale dei progressisti, almeno in Occidente. Si tratterebbe di una continuazione della vecchia idea dell’Internazionale dei lavoratori, che nella sua versione originaria fu più o meno limitata all’Europa ottocentesca. Una democratica Internazionale dei cittadini.

Prolegomeni a una nuova sinistra 109. L’altro problema connesso alla crisi della politica è quello della crisi dei partiti. L’analisi di Schiavone qui mi è parsa ahimè piuttosto sbrigativa e decisamente carente. Mi proverò ad aggiungere qualcosa di appena più sostanzioso. Com’è noto, la tradizione dell’eguaglianza lavorista europea aveva dato origine a un modello di partito di massa (il partito della tradizione socialdemocratica tedesca) che aveva una caratteristica fondamentale: quella di riprodurre nel partito le procedure egualitarie della democrazia formale. Sappiamo bene che quelle strutture non erano perfette, tanto che furono minuziosamente analizzate e criticate[22]. Tuttavia quelle strutture ebbero una loro efficacia e si diffusero tosto anche presso i partiti notabilari, tanto da caratterizzare poi un’intera epoca della politica europea. Restavano fuori da un lato il modello di partito nord americano (una tradizione notevolmente diversa, dove comunque la democrazia era recuperata sul piano dell’investitura diretta del leader/notabile) e dall’altro dai modelli di partito di stampo leninista (dove la democrazia interna era sacrificata in nome della compattezza “militare” dell’organizzazione). È rilevante il fatto che sia il modello socialdemocratico, sia il modello leninista si mostrarono funzionali in un modo o nell’altro al quadro storico della lotta di classe. Si tratta allora di capire se – essendo venuta meno la civiltà del lavoro e della lotta di classe – la sinistra nuova debba anche rinunciare alla sua forma partitica tradizionale, quella di derivazione socialdemocratica (quella leninista la possiamo trascurare poiché non ha passato il test della storia). Si tratta cioè di capire se, modificando i contenuti, la forma organizzativa si può salvare.

Indubbiamente, la crisi dei tre partiti di massa italiani che più di tutti avevano adottato e impersonato il modello organizzativo tedesco (PCI, DC, PSI) ha comportato anche l’insorgenza di una sfiducia verso quel modello. E la ricerca di nuovi modelli sperimentali. L’unico partito nuovo che ha adottato un modello approssimativamente leninista è stata la Lega Nord (oltre a qualche cespuglio di estrema sinistra). Abbiamo avuto poi l’epoca dei partitini personali, le cui regole di democrazia interna lasciavano alquanto a desiderare. Compresi i movimenti personali, che poi hanno sviluppato la deriva populista. Abbiamo nel nostro Paese due casi principali di sperimentalismo di nuove strutture organizzative: il M5S e il PD. Non possiamo qui entrare nel merito, ma col senno di poi si può dire che abbiano fallito entrambi. Lasciando una pesante incertezza su quale sia la forma partito adatta per la sinistra nuova. Il modello partitico/ movimentista del M5S è stato indubbiamente il più ambizioso, essendo fondato sulla pretesa novità del direttismo[23] e sullo strumento organizzativo della rete. Dopo un successo momentaneo, dovuto anche alle doti personali di Beppe Grillo nel gestire le adunate e gli spettacoli di piazza, il modello organizzativo grillino ha mostrato le gravi insufficienze tanto da divenire un partito proprietario, da produrre una sequela di espulsioni/scissioni da partito staliniano, e da mostrare un livello di dibattito politico interno prossimo allo zero. Alla faccia della democrazia diretta! Il PD ha invece scimmiottato il modello della democrazia americana, un modello con forti residui sette-ottocenteschi, una democrazia del leader che ha costantemente confuso il dibattito circa la linea politica con la scelta delle persone attraverso le primarie. Su questo argomento ho avuto modo di produrre una serie di analisi approfondite. Tutte reperibili sul mio blog. Chi abbia voglia di entrare nel merito dei gravi limiti organizzativi del PD odierno può studiare seriamente i due splendidi saggi di Antonio Floridia sull’argomento[24].

Prolegomeni a una nuova sinistra 11In ogni caso, il modello organizzativo del PD ha fallito miseramente, alimentando un sistema correntizio nient’affatto democratico e riducendo il PD stesso ai minimi termini. Gli ultimi ad accorgersene sono proprio quelli del PD. L’ultimo Congresso ha mostrato limiti evidentissimi proprio a livello di democrazia interna e partecipazione, contrapponendo la scelta degli iscritti a quella degli elettori. Al di là della scelta del nuovo segretario, il PD attuale sembra non mostrare alcuna consapevolezza critica circa il fallimento sostanziale del suo modello organizzativo sperimentale originario. Tutte le grandi promesse di cambiamento interno per ora restano sulla carta delle mozioni dei diversi candidati. Staremo a vedere.

Schiavone non entra nel merito della questione della democrazia interna dei partiti – come invece avrebbe dovuto fare, proprio a partire dalla sua impostazione. Secondo l’Autore, veniamo da una stagione di attacco ai partiti e ugualmente da una stagione di tentativi di trovare delle alternative ai partiti. Alternative che sono puntualmente fallite. Dichiara Schiavone: «In realtà, bisogna convincersi che i partiti servono, sono consustanziali alla forma rappresentativa della democrazia, e non se ne può fare a meno. Senza, non c’è politica e non c’è democrazia, almeno nelle forme che oggi conosciamo e che ancora ci appaiono prive di alternative credibili. Il pluralismo delle opinioni, l’articolazione delle differenze, senza delle quali non può formarsi nessuna dialettica democratica che abbia un minimo di affidabilità, richiedono necessariamente la presenza di una mediazione. Che le diversità si solidifichino e prendano consistenza strutturandosi in raggruppamenti politici distinti, in competizione fra loro»[25]. Sembra che Schiavone pensi che i partiti in termini organizzativi siano il male, ma che occorre rassegnarsi perché i partiti servono. Su queste basi non si va molto lontano.

Prolegomeni a una nuova sinistra 12Prosegue nella sua analisi: «Il punto è che il modello che si era delineato in Italia al culmine della «Repubblica dei partiti» – cioè di un partito a trama forte, densa di consistenza burocratica e di apparati territoriali – deve essere oggi rimesso seriamente in discussione senza però che questo significhi in alcun modo rinunciare alla funzione da esso svolta nell’organizzazione della politica. E ci sono molte ragioni per essere convinti che questo tipo di revisione debba riguardare soprattutto la sinistra, e che si debba approfittare della fase costituente di cui comunque non si potrà fare a meno per ridisegnare completamente il profilo del soggetto cui consegnare la rinascita»[26]. Si tratta di una proposta alquanto generica. Schiavone avanza in pratica due proposte: quella del “partito ponte” e quella del “partito laboratorio” che, se non andiamo errati, sono vicine al dibattito portato avanti nel PD da Fabrizio Barca e poi affossato da Renzi. Echi di tutto ciò si sono avuti nelle famose mozioni dei candidati al Congresso del PD. Anche qui, staremo a vedere. Schiavone in generale non sembra prendere sul serio la questione organizzativa, quando invece a nostro giudizio è una delle questioni principali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1310. Il terzo capitolo del saggio di Schiavone ha per titolo Lo sguardo critico sul presente. Qui l’Autore si occupa dell’avvenuta sparizione della critica dall’orizzonte culturale della sinistra. E cioè anche della rottura della sinistra con gli intellettuali e più in generale con l’attività della produzione culturale. Il posto della critica culturale – questa è una mia aggiunta – è stato scandalosamente preso dall’amministrazione delle cose. Generazioni di grigi amministratori hanno occupato il posto dei politici che un tempo avevano una statura intellettuale, scrivevano saggi impegnativi, dirigevano giornali e case editrici, e soprattutto, sapevano scrivere qualcosa di più dei tweet. Vi è mai capitato di leggere anche solo un articolo scritto di pugno da Bonaccini o dalla Schlein? Ma questi sanno scrivere? O twittano soltanto? Sono loro che scrivono quei libri di autopromozione elettorale che circolano, che nessuno legge e che non resteranno certamente nelle cronache letterarie? Sul divorzio tra intellettuali e politica ho già citato il recente Caravale 2023.

Afferma in proposito Schiavone, riallacciandosi ovviamente alla prospettiva di una critica illuministica: «Non c’è sinistra senza pensiero critico. Non c’è sinistra senza mettere in questione l’ordine del presente. Lo abbiamo a lungo dimenticato. Dobbiamo riportarlo al centro del nostro orizzonte. La sinistra, in Italia e in Europa (per l’America il discorso sarebbe in parte diverso), ha confuso la fine della lotta di classe con la fine di un atteggiamento critico di fronte alla realtà contemporanea. Ha confuso la fine del comunismo con l’obbligo intellettuale, prima ancora che politico, di accettare l’ineluttabilità della disciplina tecnocapitalistica del mondo come oggi si configura. E le sparute minoranze che non lo hanno fatto sono riuscite a opporsi a un simile abbaglio solo nel nome di un impossibile ritorno a ciò che abbiamo perduto. Si sono comportate da orfane del comunismo, ostinate a proporre di nuovo una strada che non esiste più»[27]. Adeguarsi all’esistente o riprodurre la tradizione sono per la sinistra reale solo due facce della stessa medaglia.

Il problema è allora quello di definire in modo nuovo il tipo di critica di cui la sinistra nuova si deve occupare e soprattutto il suo oggetto. Non si può evidentemente tornare al modello della critica marxista al capitalismo. Schiavone indica due principali oggetti intorno ai quali la sinistra dovrebbe recuperare un’attenzione critica rinnovata: la tecnica e il capitalismo. Si potrebbe dire di primo acchito che qui non ci sia nulla di nuovo. In realtà per Schiavone si tratta di mutare radicalmente l’impostazione generale di questa critica. Tecnica e capitalismo – mi permetto di aggiungere – non vanno combattuti con i toni diffusi dei molteplici intellettuali che cantano l’avvento del nichilismo e il declino dell’Occidente[28] – e che si spacciano per sinistra – ma vanno criticati affinché questi possano affermarsi proficuamente nel migliore dei modi, a beneficio di tutti. Alla critica disfattista occorre contrapporre una rinnovata critica progressista. La critica rigorosa non deve necessariamente essere disfattista. Deve essere costruttiva.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1411. Va riconosciuto che Schiavone è uno dei pochi intellettuali italiani postmarxisti che non si è unito all’universale piagnisteo reazionario alla moda contro la tecnica (nonostante alcune sue simpatie foucaultiane che traspaiono anche in questo libretto). Un altro ben noto nel nostro Paese è Maurizio Ferraris.

Dice Schiavone a proposito della tecnica: «La tecnica è potenza. Non è un dato metafisico, non si alimenta di forze incontrollabili. L’idea che essa in quanto tale nasconda una sua malefica oscurità, e che il suo intensificarsi non faccia che allargare questo fondo buio e insondabile, non nasconde una verità originaria da riportare alla luce, ma piuttosto un remoto terrore nutrito dalla nostra specie, connesso alla presa di coscienza delle proprie illimitate capacità. È il timore dell’onnipotenza, ben riflesso nel racconto biblico del peccato originale: del presunto carattere antiumano del troppo sapere, se spinto fino al punto da spezzare la barriera della finitezza. Ma la tecnica è solo storia: dalla prima volta in cui un ramo caduto o spezzato è stato usato come un bastone, fino al funzionamento dell’ultimo acceleratore di particelle. In essa c’è solo la pulsione umana, tutta evolutiva, a padroneggiare ciò che abbiamo intorno e dentro di noi per salvarci dall’ignoto, dal pericolo del non conosciuto. E c’è l’attitudine ad acquisire conoscenza e controllo: una spinta primaria che coincide con la nostra stessa forma biologica. Questione del tutto diversa è invece il suo uso sociale […]»[29].

La tecnica, insomma, non ha nulla di dis-umano. Noi stessi siamo tecnica, come sostiene Ferraris con fondate argomentazioni[30]. Quel che siamo, quel che stiamo diventando, lo dobbiamo alla tecnica. La tecnica comprende in sé eccezionali possibilità di liberazione e di invenzione dell’umano (che dipendono tuttavia dall’uso che ne sapremo fare).

Prolegomeni a una nuova sinistra 15In generale, aggiunge Schiavone sulla tecnica: «Più la tecnica diventa potente, sia pur sempre all’interno di rapporti di produzione capitalistici, maggiore risulta penetrante la sua forza trasformatrice, più rende sicure e stabili le condizioni materiali delle nostre vite (cibo, salute, altri beni di consumo primari), tanto più essa consente alle menti di sentirsi meno dipendenti da costrizioni oggettive, e di allargare le proprie vedute fino a renderle universali. E permette alla nostra etica di non restare prigioniera di vincoli imposti solo dalla limitatezza delle risorse disponibili, e di poter concepire l’interezza dell’umano nella sua unità, senza distinzioni e senza gerarchie: e di dare a questa scoperta la forza di una legge morale, il potere di una regola da non infrangere. Di conquistare alla nostra intelligenza la capacità di scoprire nuove connessioni e nuovi equilibri, e di non confondere pratiche sociali determinate solo dalla storia con principî imposti dalla prescrittività della natura. In altri termini: l’aumento di potenza della tecnica accresce la nostra libertà e la nostra capacità di autodeterminarci. O per essere più precisi: l’incremento di potere della tecnica crea le premesse indispensabili perché l’umano possa liberarsi, fino a concepire sé stesso nella sua totale integrità, e nelle potenzialità infinite racchiuse nelle finitezze delle singole vite che lo esprimono. Non è quindi il progresso tecnologico in quanto tale a diventare direttamente emancipazione. Esso determina solo le condizioni per rendere possibili nuovi dispositivi sociali sempre meno costrittivi, differenti quadri culturali, modelli etici più includenti e tendenzialmente universali. Sono questi cambiamenti a creare più libertà e maggiore emancipazione: le quali a loro volta possono gettare le basi per nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche, e quadri sociali ancora più avanzati a livello globale. Ed è in questo modo, attraverso questo circuito – dove si intrecciavano scienza, tecnica e umanesimo – che l’Occidente, e prima ancora l’Europa, che è stata a lungo la parte tecnologicamente più avanzata del pianeta, sono presto diventati anche il luogo dei diritti e delle libertà: certo molte volte calpestati o negati, ma pur sempre dichiarati come irrinunciabili[31]». Qui Schiavone invoca un radicale cambiamento di prospettiva. La tecnica dunque, con tutte le cautele critiche che si vogliano adottare, accresce la nostra libertà e la nostra capacità di auto determinarci. Altro che nichilismo! Sarà il caso dunque di liberarsi della cultura piagnona dei postmoderni (che sono in gran parte post marxisti), una cultura che è solo una reazione inconsulta di fronte a novità che non si sanno governare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1612. Lo stesso capovolgimento di prospettiva va fatto sul capitalismo. Per Schiavone si tratta di realizzare una nuova analisi del capitalismo. Il capitalismo è un fenomeno storico e noi stiamo assistendo a un’importante trasformazione del capitalismo. Occorre prendere atto della fine, almeno in Occidente del capitalismo industriale classico, al quale si era contrapposta la vecchia sinistra. Da decenni, dopo uno studio approfondito della letteratura allora disponibile, ci eravamo personalmente convinti che l’analisi marxiana e marxista del capitalismo fosse completamente sbagliata. Già riferita al capitalismo dei tempi suoi. La teoria del valore di Marx non ha alcun fondamento, è solo aristotelismo scolastico. A maggior ragione la sua teoria è inapplicabile al capitalismo odierno. La teoria marxista è oltretutto andata incontro a un’impressionante falsificazione da parte della storia. Le aberrazioni della Cina (tuttora comunista!), la follia criminale di Milošević e di Putin, il delirio di Kim Jong-un. Non dimentichiamo tuttavia anche l’ineffabile Pol-pot che aveva imparato il marxismo a Parigi.

Secondo Schiavone, nella nuova configurazione capitalistica che si prospetta: «[…] lo sfruttamento classico – quello che una volta si chiamava l’estrazione del plusvalore attraverso il pluslavoro, il lavoro cioè erogato ma non retribuito – è riservato solo alle forme di lavoro a più bassa densità tecnologica, dove continua a prevalere l’aspetto puramente quantitativo dell’attività umana. Esso è lavoro ormai senza difesa; diventato economicamente e socialmente marginale, perché attraverso di esso non passa nulla di decisivo per il capitale, e nemmeno per la società nel suo insieme. Mentre quanto più il lavoro incorpora competenze complesse – e oggi accade per fasce sempre più vaste di lavoratori, a diversi livelli – tanto più il suo rapporto con il capitale si fa equilibrato, e la differenza fra i loro redditi tende a diminuire. Perché il valore delle merci dipende ormai dalla tecnologia in esse incorporata, e non più dalla quantità di lavoro vivo necessario a produrle, perciò diminuisce il bisogno di nuovo sfruttamento da parte del capitale (un fenomeno che Marx stesso aveva nebulosamente intuito, senza trarne le dovute conseguenze)»[32].

Si noti che lo Schiavone persiste, nonostante tutto, nell’uso di certo vocabolario marxiano (“lavoro vivo”, …). Segno questo del radicamento dell’apparato concettuale marxiano anche nel nostro linguaggio comune odierno. Anche nel linguaggio “critico”. La critica di Schiavone – se rigorosamente adottata – ha notevoli conseguenze per una nuova sinistra. Si tratta di operare una distinzione, all’interno del capitalismo, tra le persistenze tradizionali del vecchio mondo industriale, che andranno via via superate e il carattere innovativo del capitalismo nell’ambito dei settori più avanzati. Questo significa che la sinistra nuova deve accingersi a convivere nella maniera migliore con il capitalismo, senza pregiudizi e demonizzazioni, criticandone duramente e correggendone gli aspetti deleteri. Questo significa che la nuova sinistra dovrà elaborare una teoria matura intorno alle modalità di rapporto tra Stato e mercato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 17Su questo punto Schiavone è oltremodo chiaro: «È chiaro che in questo scenario la creazione di merci materiali a media e bassa densità tecnologica non scompare del tutto; né scompare il lavoro meccanicamente esecutivo: ma entrambi vedranno diminuiti progressivamente i loro addetti, in parte sostituiti da macchine dotate di intelligenza artificiale, in parte delocalizzati in aree geografiche al di fuori dell’Occidente, dove per ora il loro costo è minore. Soprattutto, quei lavori diventano in un certo senso residuali, scaduti rispetto al cuore produttivo del sistema. E poiché non sono collegati a più nulla di decisivo per gli equilibri dell’intera struttura – diversamente da quanto succedeva per il lavoro operaio di una volta, che era invece al centro di tutti i principali processi produttivi di tipo industriale – essi non sono in grado di difendersi da forme anche estreme di sfruttamento, che però non costituiscono più contraddizioni rilevanti rispetto all’insieme del dispositivo economico»[33]. Si tratta allora di distinguere. Indubbiamente ci possono essere dei contraccolpi. Nei settori più arretrati possono comparire addirittura forme di lavoro servile o di schiavitù. I cattivi lavori andranno dunque progressivamente aboliti e sostituiti da lavori più a misura d’uomo. Questo non avverrà automaticamente e dovrà essere posto come obiettivo politico.

Allora: «[…] la sinistra deve ritrovare la forza – intellettuale, prima ancora che politica – di rimettere il capitale sotto la sua lente d’ingrandimento, di sottoporlo nuovamente al proprio esame critico. Non per porre all’ordine del giorno la sua fine, ma per misurarne le azioni e le strategie sul parametro – etico, prima ancora che politico – del bene comune della specie; valutarne l’eventuale distanza, e predisporre quanto necessario perché quella lontananza si riduca il più possibile. Riuscire a opporre cioè la razionalità universale e impersonale dell’umano a quella pur sempre specifica e particolaristica della produzione capitalistica. Questo confronto dovrebbe diventare l’anima della sua politica»[34]. Questo in generale significa che la sinistra deve essere in grado di rigettare il suo attuale piatto pragmatismo, che poi diventa assuefazione, adattamento al mondo così com’è, e sottoporre la propria azione a un indirizzo etico politico che abbia una solida fondazione nella propria visione del mondo, nella propria filosofia, nella propria nuova cultura politica. In altri termini, il capitalismo, l’economia di mercato, va governato e spetta alla nuova politica della sinistra mostrare come questo sia possibile. Rispetto al vecchio marxismo, si tratta di riconoscere una buona volta il primato delle idee, il primato della sovrastruttura, se si adotta il vecchio linguaggio marxiano. Del resto su questa strada Gramsci aveva già fatto notevoli passi avanti. E si tratta di rigettare il machiavellismo, il realismo politico, che quando professato come criterio unico non si ferma al pragmatismo ma scivola inevitabilmente nell’opportunismo e nel qualunquismo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1813. Nel suo quarto capitolo, Schiavone affronta – in maniera va detto non sempre lineare – una serie di questioni davvero importanti. Senza affrontar le quali la sinistra si confonderebbe immediatamente con un club di gretti individualisti. È tuttavia questo il capitolo più discutibile del manifesto. Il più aperto e certo anche il più meritevole di discussione. Anche perché qui potremo riprendere la questione della cittadinanza.

14. Anzitutto Schiavone affronta una questione particolare, non insormontabile. La questione dell’identità italiana. La questione identitaria è stata posta a lungo negli scorsi decenni, a partire dal dibattito sulla patria e sulla identità nazionale della metà degli anni Novanta[35]. È un dibattito su cui sono intervenuti molti studiosi e intellettuali, tra cui lo stesso Schiavone[36]. Un dibattito che manco a dirlo non ha interessato più di tanto il mondo politico.

Schiavone afferma che: «Tra i molti errori della sinistra c’è di sicuro quello di aver lasciato alla destra il monopolio della rivendicazione identitaria. È un tema che invece si deve riprendere con vigore, esibendone una visione completamente diversa rispetto a quella della destra, ma non meno forte, tutt’altro. L’identità italiana non è un bene acquisito una volta per tutte, che si recupera o si lascia perdere, come si cerca di far credere. Non è qualcosa di scritto nel passato. È un insieme di pensieri, di riconoscimenti e di costruzioni culturali che cambia di continuo, e che ogni generazione ricrea in modo diverso; è un patto di fiducia che si rinnova con la propria storia e con la propria coscienza civile. Ed essa non è alternativa all’identificazione europea, né all’auto percezione – che per fortuna avanza sempre di più – di essere cittadini del mondo, di far parte di una comunità globale. All’Europa e al mondo si aderisce con tanta maggiore consapevolezza, quanto più ci si avverte italiani: anzi, quanto più si sa proteggere e rafforzare questo riconoscimento. Intanto, perché il cosmopolitismo è una nostra antica vocazione, senza la quale, per esempio, il Rinascimento non sarebbe stato quello che è stato»[37].

La sinistra nuova, dunque, ha da essere identitaria ma non sovranista. Ma a mio modesto avviso questa conclusione non basta. Proprio dal dibattito sull’identità italiana mi sentirei di precisare che l’identità di cui abbiamo bisogno non è un’identità di tipo etno-nazionale (cui mira invece consapevolmente la destra), bensì un’identità basata sulla nozione habermasiana della cittadinanza della costituzione. Se si preferisce, del patriottismo della costituzione. Una identità dal carattere fondamentalmente politico e di derivazione illuministica[38]. Si tratta di concetti di una certa complessità che non ho spazio qui per approfondire. I nostri politici medi di sinistra ovviamente nulla sanno di queste distinzioni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1915. Schiavone comunque cerca di sostanziare, anche se non ne parla esplicitamente, i principi di una cittadinanza della costituzione, attraverso la proposta di un patto. Devo qui dire che personalmente non mi piacciono i patti in questi termini. Non è chiaro perché quando si legge qualcosa che assomiglia a un programma politico o a una mozione ci sia sempre qualcuno che propone un patto di qualche sorta. Si vedano le mozioni dei candidati alla Segreteria del PD che sono pieni di patti. Si tratta per lo più di artifici retorici poiché non si precisano mai le circostanze del patto stesso. Non siamo certo in presenza di un patto repubblicano. Schiavone propone (ahimè, anche lui) un patto di carattere politico, basato sulla costruzione europea e sul contrasto alle diseguaglianze. E qui, comunque, con la cittadinanza costituzionale ci stiamo: «L’intero Patto dovrebbe ruotare intorno a due soli punti: solitari e decisivi. Primo: impegno contro le grandi strutture di diseguaglianza attive nella società italiana. Secondo: impegno per fare del nostro Paese il leader di una nuova fase dell’unificazione europea, vista in una prospettiva di sempre più completa integrazione occidentale e planetaria. Formulato in altro modo, e in una sola frase: meno diseguaglianza, ma senza alcun appiattimento, e senza rinunciare ad alcuna differenza; e insieme: un’idea d’Italia con dentro più Sud, più mare, più Europa e più mondo. È tutta qui – in queste sole righe – la sinistra che aspettiamo»[39]. Il grande compito della nuova sinistra dunque dovrebbe essere quello di determinare l’introduzione di nuove forme di eguaglianza, per lo meno a livello europeo, lasciando massima libertà alle differenze. Un compito chirurgico di grande difficoltà.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2016. La questione delle diseguaglianze è ancora dunque fondamentale anche e soprattutto nella costruzione di un programma politico. In questa ultima parte Schiavone si accinge a discutere in profondità il senso nuovo che la nuova sinistra dovrebbe conferire alla questione della eguaglianza. Si tratta cioè – ricordiamolo – di connettere l’eguaglianza non più con il lavoro bensì con la cittadinanza.

Dice Schiavone: «La storia – sia più antica, sia recentissima – ha sedimentato nel nostro Paese grandi strutture di diseguaglianza, che lo rendono estremamente fragile e che stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso della democrazia repubblicana. Con questa espressione – strutture di diseguaglianza – intendo l’esistenza, stratificata nel tempo, di complessi apparati di discriminazione, in ognuno dei quali si combinano variamente in un unico meccanismo amministrazione, economia, società, diritto, mentalità. Essi finora sono stati sempre in qualche modo favoriti o coperti dalla politica, e agiscono come vere e proprie macchine del diseguale, moltiplicando i loro effetti su fasce di cittadinanza sempre più ampie. Mi limito a indicarne quattro, a mio giudizio più significativi: la sanità, la scuola, il mercato del lavoro, il sistema-Mezzogiorno preso nel suo insieme: autonomie, burocrazie, intrecci di affari, politica e criminalità che dal Sud si sono estesi all’intera Penisola. Affrontare questi nodi e almeno iniziare a scioglierli sarebbe il segno di un’autentica rivoluzione italiana»[40]. Per questo occorre: «[…] il disegno di un nuovo progetto che sia in grado di costituire il nucleo di un Patto di eguaglianza da proporre al Paese per la salvezza della sua democrazia. Un Patto che sia già un programma politico, stretto non in nome di una classe – che porti cioè dentro di sé il segno dell’esclusione – ma del «comune umano» come soggetto e come valore includente e globale»[41].

17. È proprio la nozione del “comune umano”, che qui compare, a costituire un qualche problema, una potenziale pietra d’inciampo. Schiavone ribadisce che il programma egualitario andrebbe dunque perfezionato e portato avanti «non in nome di una classe». E questo è il rifiuto esplicito della vecchia prospettiva della giustizia socialista, di cui abbiamo già detto. Qui si pone tuttavia il problema di individuare il punto di vista generale che dovrebbe sostenere il nuovo programma egualitario. Nel linguaggio tradizionale del pensiero democratico si parlerebbe forse del bene comune o di una qualche ricetta per individuarlo. Si tratta in altri termini di definire il senso del nuovo egualitarismo. E, nello stesso tempo, anche il suo retroterra sociale universale.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2118. Cominciamo con il richiamare anzitutto perché non va più bene il vecchio modello di eguaglianza. E questo non è difficile. Secondo Schiavone, il vecchio modello di eguaglianza: «È ora di farlo scomparire del tutto: perché crea solo equivoci, e impedisce a chi ancora lo immagina di interpretare e capire davvero il mondo. Per farlo, bisogna guardare da un’altra parte. Bisogna spostare l’idea di eguaglianza dal piano dell’economia dove l’aveva messo lo sviluppo capitalistico di una volta – per non dire del pensiero di Marx – a quello dell’etica e delle coscienze. Un cambiamento non semplice, ma decisivo: prima impossibile, ma che adesso ci possiamo finalmente permettere, proprio perché le basi tecnologiche della società che sta nascendo ce lo consentono. Oggi infatti l’effetto di prossimità che le nuove tecniche permettono di acquisire rispetto a ogni luogo del pianeta – pensiamo alla difesa dell’ambiente come fatto globale, o all’immaginario delle giovani generazioni in tutti i grandi centri urbani – sta rendendo per la prima volta possibile il formarsi di una visione unitaria e totalizzante dell’umano – che ha appunto l’eguaglianza per sua misura – senza più legarla direttamente a un modo di lavorare e di produrre, bensì a una forma complessiva della vita: non l’unica, ma indispensabile. E soprattutto senza cancellare o mettere in discussione le ineliminabili diversità che pure sopravvivono all’interno di quella rappresentazione unificante: né quelle diciamo così naturali, né quelle sociali. E costruire questa nuova veduta – l’eguaglianza come misura dell’umano – non come l’intuizione di una minoranza, ma come l’autorappresentazione di un’intera civiltà»[42].

Quello che Schiavone vuol dire – credo – è che la messa da parte dell’eguaglianza socialista non deve precipitare in un tipo di società sul modello di Mandeville, dove ognuno persegue ferocemente solo e immediatamente il proprio particulare[43]. Uguali in quanto concorrenti. Se in campo economico è ammesso un settore privato, che è il settore dove si producono le differenze più pesanti, nella sinistra si dovrà dare risalto al momento del pubblico e del comune. Il pubblico e il comune deve avere come riferimento l’umano, cioè l’universale, che poi (credo) può essere interpretato come il cittadino universale di questo pianeta. Sarebbe questo presumibilmente il culmine di un lungo e tormentato processo che ha portato alla universalizzazione dei diritti umani, alla universalizzazione condivisa di un nucleo, in continua espansione, di diritti dell’uomo. Tipico dell’oggi tanto esecrato Occidente.

Prolegomeni a una nuova sinistra 22Secondo Schiavone: «Si riconduce così l’eguaglianza – il suo paradigma e il suo fondamento – a un altro riferimento, non più produttivo e sociale, ma morale e cognitivo, in qualche modo antropologico: una svolta senza precedenti, che libera questo concetto da un ancoraggio ormai assolutamente inattuale: quello della socializzazione operaia. E lo lega invece a un diverso modo, storicamente più adeguato e più proprio, di concepire l’indiscutibile universalità dell’umano, che oggi la nuova tecnica e la sua potenza esibiscono sotto gli occhi di tutti con un’evidenza prima impossibile da raggiungere: a quello della sua nuda impersonalità. Si può pensare e costruire cioè – eticamente, politicamente, giuridicamente – la nuova eguaglianza come la forma per eccellenza dell’impersonale umano, e rendere quest’ultimo, attraverso la sua costituzione istituzionale e sociale, il soggetto cui attribuire i diritti (universali) dell’umano: i diritti di un’universale e impersonale cittadinanza, non più connessa a una forma di lavoro, né a un modo di produzione, ma al riconoscimento di una comune identità, spersonalizzata e perciò totalmente inclusiva, l’identità dell’umano, che ha l’eguaglianza come sua unica misura. Un’identità certo consentita dallo sviluppo tecnocapitalistico, ma che tuttavia l’oltrepassa, sporge oltre di esso e della sua logica, e si apre sull’ignoto»[44].

Spiega ulteriormente l’autore: «[…] diventa non solo concepibile, ma estremamente realistica una figura diversa e complementare, che non si identifichi né con l’“io” individuale della vicenda capitalistico – borghese, né con il “noi” della tradizione socialista, ma con l’impersonalità di quell’ “egli”, di quella “non-persona” che, senza identificarsi con alcuno, permette a ciascuno di esistere e di pensare, e di potersi autorappresentare in quanto umano. Perché ognuno di noi sarebbe nulla se non potesse affondare il proprio sguardo negli occhi dell’altro – di ogni altro della terra – e riconoscerlo come parte di un tutto al quale anch’egli stesso appartiene»[45]. In tutto questo ragionamento sull’universale, il concetto che ci è parso più discutibile e bisognoso di qualche approfondimento in termini definitori è quello della impersonalità. Tornerò sull’argomento.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2319. Nel successivo paragrafo Schiavone fa un tentativo di dar corpo concreto a una definizione più precisa. Se abbiamo capito bene, nella nuova prospettiva l’eguaglianza deve venire a patti con le differenze, che rappresentano un bene altrettanto prezioso. Si tratta allora di definire con cura i campi ove deve assolutamente prevalere l’eguaglianza in nome del comune umano impersonale dai campi invece ove è possibile anzi doveroso lasciare spazio alle differenze. Se invece si lasciano le cose come stanno, si ha la produzione delle disuguaglianze e l’avanzamento sistematico del disumano.

Dice Schiavone in proposito: «Le si contrasta invece – quelle strutture [che producono diseguaglianza, ndr] – attraverso un approccio complessivo, che sia in grado di capovolgerle dalle fondamenta, investendo ciascuna di esse con i criteri di una logica sociale mai prima messa alla prova, che comprenda l’inclusione e la differenza, il pareggiamento e la diversità. Costruendo cioè isole di nuova eguaglianza opposte e simmetriche rispetto alle macchine del diseguale: un’eguaglianza non seriale e ripetitiva, ma riferita in maniera puntiforme unicamente all’accesso a beni e servizi molto precisi e determinati. Zone di parità che punteggiano oceani di differenze individuali, anche molto accentuate, che vanno lasciate intatte al proprio posto. E che però si dileguano fino ad annullarsi completamente quando si avvicinano a toccare aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità, ma soltanto il «comune umano», nella sua interezza e nella sua impersonale indivisibilità»[46].

Nel riconoscimento delle universali differenze esistono dunque – secondo Schiavone – degli «aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità». Qui sta il nocciolo della questione. Ci sembra di capire dunque che l’eguaglianza vada perseguita solo rispetto al “comune umano” e non rispetto ad altre particolarità, che invece vanno utilmente lasciate indisturbate, magari anche valorizzate. L’eguaglianza insomma non è mai assoluta. Occorre sempre dichiarare “Uguali rispetto a cosa?”. Diventa allora essenziale per la sinistra chiarire e concordare quali debbano essere i terreni dell’eguaglianza, i terreni del comune umano. Qui nascono le grandi fonti di disaccordo con cui la nuova sinistra dovrà comunque confrontarsi: le questioni relative ad esempio alla distribuzione, alla pace o alla guerra, ai diritti individuali, alla cittadinanza, alle limitazioni per la salvaguardia ambientale e quant’altro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2420. Una gran novità, secondo Schiavone, dovrebbe essere la seguente: «Si tratta di un processo che deve avere al suo centro non i singoli soggetti – gli individui – ma gli oggetti, i beni. Non deve localizzarsi all’interno di ciascuno di noi, ma all’esterno; nel tessuto stesso della realtà, sia naturale, sia artificiale: in quelle sue parti condivise dall’umano nel suo insieme. Una sfera, quest’ultima, in continua espansione, grazie ai meccanismi di controllo e di trasformazione che la tecnica introduce non solo nell’ambiente che ci circonda, ma nella nostra stessa conformazione biologica: sulla materialità dei nostri corpi, determinandone il destino»[47]. Un’eguaglianza di tipo distributivo rispetto a certi beni dei quali nessuno, in quanto umano, potrebbe esser privato? Qui siamo nel campo scivoloso e complesso dei diritti umani, quelli che Bobbio considerava in continua espansione, su cui la nuova sinistra dovrà prender posizione. Ben al di là dei miseri elenchi che circolano nei programmi dei candidati. Personalmente andrei cauto nel riservare la questione dell’eguaglianza solo ai beni, agli oggetti. Abbiamo ancora molti problemi di eguaglianza che riguardano i diritti individuali. A meno che non si voglia considerare anche certi diritti individuali come un tipo particolare di beni. Ad esempio il diritto per coppie omosessuali a sposarsi e ad avere dei figli, il diritto alla cittadinanza per i nati in Italia, e così via.

Così sembrerebbe: «Emergerebbero così segmenti di vita regolati da un’eguaglianza che agisce in modo intermittente e discontinuo, legata alla fruizione di alcune precise risorse, e alla protezione di alcuni beni: l’inviolabilità della vita stessa, prima di tutto, nella pienezza della sua esistenza, dall’alimentazione alla salute, alla formazione. L’ecosistema nella sua interezza; l’accesso al digitale e alle tecnologie in grado di modificare lo statuto genetico dell’umano, e così via. Mentre rispetto a tutto il resto rimarrebbero prevalenti quei criteri di differenziazione e di disequilibrio indotti dalla natura, dal genere, dal mercato»[48].

Prolegomeni a una nuova sinistra 25Aggiunge Schiavone, tanto per chiarire: «Negli ultimi anni la riflessione giuridica sui cosiddetti «beni comuni», come quella sui «beni pubblici globali», entrambi patrimonio dell’impersonalità umana che si fa soggetto giuridico e paradigma etico è andata avanti, con risultati significativi. In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza»[49].

Prolegomeni a una nuova sinistra 26Possiamo pensare a qualcosa come l’ambiente bene comune. Possiamo pensare forse a qualcosa come il FAI, oppure i beni che l’UNESCO ha dichiarato come patrimonio dell’umanità. Possiamo pensare a certi progetti che girano su internet di mettere a disposizione di tutti gli umani il patrimonio librario universale. Oggi si adombra l’idea di un’intelligenza artificiale con cui chiunque possa interloquire per ottenere informazioni distillate dall’enorme globale infosfera che l’umanità stessa sta costruendo collettivamente. Si può pensare alla messa in comune di brevetti che abbiano una rilevanza “umana” come ad esempio le cure per le malattie oppure le tecnologie per la produzione di energia pulita. Un’espansione, dunque, della sfera del comune umano a discapito del privato proprietario. Alla fine del paragrafo 3 Schiavone fa alcuni esempi ulteriori presi dal campo della discussione sui beni comuni. Dal campo della scuola e della questione del merito e dal campo del lavoro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2721. È chiaro che dietro a tutto ciò compare la questione (che in termini pratici diventa poi decisiva) del rapporto tra la sfera del comune e la sfera del mercato, che rimane comunque capitalistico, per quanto possa essere ben regolato dalla mano pubblica. Schiavone precisa che: «In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza. Essa rappresenterà un fattore di riequilibrio tra offerta (capitalistica) e bisogni (dei cittadini)»[50]. Su tutto ciò si può anche concordare. Tuttavia Schiavone dimentica una questione decisiva. Tutto ciò può essere realizzato grazie a un intervento deciso dello Stato. Lo Stato è l’ospite sconosciuto di tutti i dibattiti sul futuro della sinistra. Nell’inconscio della vecchia sinistra c’è un’ambivalenza – disastrosa nei suoi effetti – nei confronti dello Stato (e dell’amministrazione), il quale dovrebbe essere il solutore di tutti i problemi ma del quale fondamentalmente si diffida e che non di rado è considerato un nemico. Se la nuova sinistra dovrà far pace con la tecnica e con il capitalismo, dovrà anche far pace con lo Stato. Per far pace con lo Stato e per rafforzarlo l’unica strada è quella del patriottismo della costituzione. Bisognerà adottare la prospettiva per cui «lo Stato siamo noi». Solo così lo Stato potrà limitare il mercato, offrire le garanzie ai cittadini e impedire i soprusi. Questo esclude la prospettiva della deregulation neoliberista, se non in quei casi in cui la regulation si sia mostrata disfunzionale. Bisognerà riprendere i temi della riforma dello Stato, di cui nessuno si interessa. Come bisognerà riprendere il discorso sulle organizzazioni internazionali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 29Anche il mercato del lavoro potrebbe lasciar spazio a un altro tipo di mercato, oggi anticipato dal vasto settore del volontariato, basato sul dono alla comunità: «Mentre in società in cui si lavorerà sempre di meno – in modo sempre più qualificato, ma per periodi sempre più ridotti – si potrebbe prevedere di liberare in modo sistematico una parte del tempo di lavoro dal vincolo del mercato, e di destinarlo, sotto forma di servizio alla comunità, ad attività utili per l’insieme della cittadinanza, scelte da chi le compie in base alle proprie competenze e vocazioni. Questa possibilità è oggi realistica perché può passare attraverso una separazione cruciale, una volta improponibile: quella tra il lavoro in forma di merce – la forza-lavoro venduta e comprata sul mercato – e il lavoro in quanto tale, come impegno e fatica per la realizzazione di sé. Un lavoro, quest’ultimo, sottratto al mercato e alla forma di merce, e consegnato invece alla comunità senza la mediazione del capitale. La distinzione era stata finora impraticabile perché le condizioni tecnologiche non la consentivano: tutto il lavoro doveva finire sul mercato per permettere la sopravvivenza materiale e la dignità sociale di intere classi, di larghissima parte della società. Oggi invece comincia a non essere più così»[51].

Prolegomeni a una nuova sinistra 30La chiave di svolta è ancora una volta la natura storica del lavoro e della figura del lavoratore. Schiavone in prospettiva è convinto che: «La quantità di lavoro da destinare al mercato tenderà sempre più a ridursi, perché una sua parte sempre maggiore sarà sostituita dalla tecnica, e questo renderà disponibile per scopi diversi una quota sempre maggiore di energia psicofisica umana. Si libereranno in tal modo risorse che costituiscono un potenziale enorme, ma che oggi, per effetto di una distorsione culturale, sociale ed economica – forse addirittura antropologica – appaiono solo come eccedenza di forza-lavoro non impiegata, spesso con conseguenze drammatiche per le persone escluse dal circuito produttivo; mentre si tratta di una riserva preziosa, finalmente da poter destinare a compiti diversi, lontani dalla sola riduzione del lavoro umano a forza-lavoro in forma di merce. È un ordine di pensieri che si apre su immensi campi inesplorati, e che forse potrebbe anche dirci qualcosa sulla storicità del capitale, sulla sua non eternità. Ma c’è bisogno di studio e di coraggio intellettuale. La costruzione di un diverso modo di essere eguali non può fare a meno di simili ricognizioni»[52].

Prolegomeni a una nuova sinistra 3122. Dicevamo di una certa fatica teorica da parte di Schiavone, in questo ultimo capitolo. In effetti, le diverse questioni sembrano piuttosto affastellate. Tutte cose assai interessanti che tuttavia faticano a trovare un ordine concettuale ben definito. Qui si può tornare alla questione poco chiara del concetto di impersonalità. Occorrerebbe secondo Schiavone: «[…] distinguere le due forme in cui si realizza l’umano – quella individuale e quella impersonale – riservando per ciascuna di esse diverse funzioni sociali, economiche, politiche. Non è del tutto chiaro cosa intenda Schiavone con la nozione della “non-persona” come forma di auto realizzazione. Quando Schiavone parla di impersonalità si riferisce evidentemente a un superamento della “persona”. Si tratta evidentemente – per quel che abbia mo capito – di una nozione di stampo foucaultiano risalente a Roberto Esposito[53]. Queste parentele e connessioni si possono capire ricorrendo allo studio precedente di Schiavone, incentrato proprio sulla nozione dell’eguaglianza[54]. Non abbiamo però capito quale vantaggio si abbia nell’utilizzo di questo concetto. È – a nostro giudizio – un poco disdicevole che Schiavone, intendendo produrre un manifesto politico abbia deciso, nella sua parte centrale basilare, di legarlo ai sofismi di una discutibile filosofia postmoderna. L’impersonale di Esposito/Schiavone, spogliato del linguaggio della bioetica e della biopolitica postmoderna, assomiglia comunque alquanto, a nostro giudizio, al kantiano cittadino del mondo. Quello che ha dato l’avvio alla tradizione moderna del cosmopolitismo. Più in generale, c’è dietro tutta la tradizione umanistica, dai Greci ai giorni nostri.

Prolegomeni a una nuova sinistra 32Schiavone, nelle sue argomentazioni, riprende in realtà più o meno consapevolmente – con un linguaggio talvolta oscuro – tematiche vecchie e nuove che hanno alimentato analoghi filoni di discorso. In campo antropologico si è sviluppato da tempo una riflessione sulla economia del dono[55]. Esiste poi un’ampia letteratura nazionale e internazionale facilmente reperibile sull’economia dei beni comuni. La riflessione di Schiavone sul cambiamento del significato del lavoro, è abbastanza analoga alla riflessione prodotta recentemente da Maurizio Ferraris intorno alla produzione di valore che ciascuno di noi realizza, senza alcun comando, senza alcuna retribuzione, in rete, in quanto utente delle nuove tecnologie. Lavoro che impropriamente viene appropriato dai monopolisti del web e che invece in certa misura potrebbe essere ridistribuito. Si veda ad esempio Ferraris 2015 e Ferraris 2021. Una tematica analoga a diversi esempi proposti da Schiavone è quella del capitale sociale. Si tratta di un concetto di cui si è discusso assai nell’ambito delle scienze sociali e che ha trovato una varietà di formulazioni ma anche una varietà di applicazioni. Un’altra tematica analoga è quella della cultura civica della democrazia[56] a proposito della quale esiste un filone di ricerca e riflessione che dura da decenni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 33Insomma, si tratta di uscire dai confini disciplinari della tradizionale eguaglianza lavorista e socialista per dare luogo a una nuova elaborazione culturale che sappia fondere varie disparate riflessioni che ci sono già e che attendono soltanto di essere opportunamente e rigorosamente concettualizzate. E qui ci sarà senz’altro molto lavoro da fare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 3523. Schiavone contribuisce dunque, in questo suo manifesto, a delineare un nuovo quadro culturale per una futura nuova sinistra. O, almeno, a manifestarne fondatamente l’esigenza. Una futura sinistra sganciata dall’ ingombrante eredità socialcomunista, sganciata dal lavorismo, capace finalmente di non demonizzare la tecnica e di mettere il capitalismo al lavoro in nome dell’umano e non contro l’umano. Il riferimento politico di fondo è la cultura della democrazia e la individualità autonoma della tradizione umanistica occidentale che ha prodotto il cittadino della polis come migliore forma di vita. Se non piacciono le proposte di Schiavone, non lo si potrà comunque ignorare, perché quelli da lui individuati sono comunque i problemi che vanno affrontati. Hic Rhodus, hic salta!

Prolegomeni a una nuova sinistra 37Schiavone inoltre evidenzia – senza dirlo esplicitamente ma con le sue considerazioni complessive – un altro errore della sinistra tradizionale. L’errore di avere ridotto la democrazia a democrazia formale. Nell’ambito della prospettiva socialista, la democrazia era impegnata a fornire l’elemento formale, mentre l’elemento sociale e culturale era fornito dal sol dell’avvenire. Ora che il sol dell’avvenire sembra tramontato per sempre insieme alla civiltà del lavoro, è quanto mai urgente dar voce a un nuovo elemento contenutistico della democrazia, un nuovo profondo contenuto sociale e culturale, incentrato intorno a una nuova modalità di concepire l’eguaglianza. È quanto Schiavone ha cercato di fare e quanto dovremo continuare a fare noi tutti se vogliamo mettere in marcia autenticamente la prospettiva di una nuova sinistra democratica.

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Appendice

Le tre, o quattro, sinistre. Poiché si parla qui di sinistra, cosa il cui significato è oggi pressoché smarrito, può essere utile un inquadramento in prospettiva storica dell’oggetto in questione. Per rimanere nel campo della sinistra, secondo Hobsbawm[57], nel corso degli ultimi duecento anni, si sono succedute diverse sinistre. Almeno tre.

La prima sinistra è stata quella liberale. È la sinistra che ha combattuto l’aristocrazia: ai tempi di Luigi XVIII e di Carlo X in Francia i Liberali si contrapponevano agli Ultras. Insomma, la prima sinistra sarebbe quella che ha guidato le rivoluzioni borghesi e, parzialmente, i movimenti di costruzione della nazione, soprattutto in Europa. In prossimità alla sinistra liberale, ma anche in contrapposizione, tra Settecento e Ottocento è nata una sinistra repubblicana e democratica. Col passare del tempo, la sinistra liberale e quella democratica hanno trovato una sintesi ormai stabile nella cosiddetta liberaldemocrazia.

La seconda sinistra è quella che ha visto la contrapposizione tra i primi movimenti sociali popolari e la borghesia (in questo caso la borghesia si è spesso trovata spinta su posizioni di destra. È il caso, ad esempio, di Luigi Bonaparte). La seconda sinistra, si è sviluppata come una sinistra di classe, ha una storia molto lunga che, approssimativamente, dal 1848 giunge fino agli anni ‘70 del Novecento. È stata in gran parte egemonizzata dal pensiero socialista e comunista e dalla forma organizzativa del partito di massa. Ha dato un contributo importante alla costruzione della nazione e alla democratizzazione della nazione, nel senso dell’inclusione del maggior numero. Mediante un intreccio con la prima sinistra ha dato vita alla socialdemocrazia.

La terza sinistra secondo Hobsbawm (che scrive nel 1999) sarebbe una manifestazione recente, legata alla crisi progressiva del conflitto di classe, cioè alla crisi delle socialdemocrazie e alla crisi dei comunismi. È una sinistra che nasce sul terreno della società e della cultura di massa, e si caratterizza per avere una cultura politica composita, per il possesso di forme organizzative leggere e, spesso, per il carattere mono tematico (single issue) delle sue campagne politiche. Sembrerebbe meno interessata alle questioni specificatamente nazionali e più aperta a una prospettiva di tipo universalistico.

Le cose non sono andate proprio come previsto da Hobsbawm. Per questo mi sento di proporre una qualche variazione al suo schema. Dal mio punto di vista la terza sinistra è la sinistra populista, emersa (o riemersa) negli ultimi due decenni. La considerazione del populismo come un tipo di sinistra pone alcuni problemi, poiché il populismo si schiera spesso e volentieri anche a destra. Oggi tuttavia, soprattutto in relazione alla situazione italiana e al caso del M5S il problema non si pone. Possiamo pensare alla sinistra populista come uno sviluppo degenerato derivante dalla crisi della seconda sinistra. E forse da taluni problemi non risolti nell’ambito della prima sinistra.

Accanto a queste tre, abbiamo oggi ampi sviluppi (che Hobsbawm non poteva allora presagire) della sinistra single issue, che qui considereremo allora come una quarta sinistra.

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Opere citate

1963 Almond, Gabriel A. & Verba, Sidney, The Civic Culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton.

2023 Caravale, Giorgio, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Bari.

1997 de Mandeville, Bernard, La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefìci, con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, Laterza, Bari. [1724]

2007 Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino.

2015 Ferraris, Maurizio, Mobilitazione totale, Laterza, Bari.

2021 Ferraris, Maurizio, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari.

2021 Floridia, Antonio, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico. Postfazione di Nadia Urbinati, Castelvecchi, Roma. [2019]

2022 Floridia, Antonio, PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, Roma.

1996 Galli Della Loggia, Ernesto, La morte della patria, Laterza, Bari.

1999 Hobsbawm, Eric J., Intervista sul nuovo secolo (a cura di Antonio Polito), Laterza, Bari.

1950 Mauss, Marcel, Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris. Tr. it.: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.

1997 Rusconi, Gian Enrico, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino. Epub.

2019 Schiavone, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi, Torino.

1998 Schiavone, Aldo, Italiani senza Italia, Einaudi, Torino.

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Commenti

Prolegomeni a una nuova sinistra 42Riportiamo i commenti di Marco da Roma, amico di Vittorio, a questo pezzo e la risposta di Paolo.

M.: Grazie, lettura interessante. Sembra un vecchio articolo di Rinascita. Osservo solo che se nell’introduzione si scrive “di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici” (che poi è una contraddizione) si aggiunge poi, in palese, questa volta, contraddizione che “la sinistra non discute da decenni dei suoi principî”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 43P.: Mah, sono contento che qualcuno legga con tanta acribia le cose che pubblichiamo, ma in verità la contraddizione che rileva non esiste. Infatti i principi sono una cosa (libertà, equità, uguaglianza, ecc …) e le ideologie sono una cosa ben diversa: sono la pretesa di dare dei principi un’interpretazione insindacabile. Ad esempio, la concezione di “eguaglianza” che avevano Lenin e Pol Pot rientrava in una interpretazione ideologica, che contemplava una dittatura del proletariato, del partito o comunque di una “avanguardia rivoluzionaria”, e lasciava ben poco spazio ad altre possibili interpretazioni dello stesso principio. Io parlavo di “residuati ideologici”, appunto, mentre Beppe parla di “discussione sui principi”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 41M.: Non si tratta di far le pulci a un testo, peraltro la mia preparazione è puramente giuridica e solo nell’ambito dottrinale, ma, nonostante le ineccepibili precisazioni, resto convinto che vi sia una contraddizione di fondo. Per premessa seguo Aldo Schiavone dal 1975 quando lui era, se ben ricordo, anche impegnato con la scuola di partito. Ovviamente PCI per chiarire a Vittorio. Ma se, e velocemente entro nel merito, si vuol separare il principio di pensiero, non volendo chiamarlo ideologia, dalla sua applicazione reale possiamo essere d’accordo ma a questo punto cosa sono i residui ideologici? Perché si scrive chiaramente che un pensiero di sinistra deve esserne scevro. Libertà, equità e uguaglianza devo sparire da un ragionamento di sinistra o sono dei capisaldi per i quali dobbiamo trovare un principio applicativo? Se così fosse cosa cambia rispetto ad un passato sbagliato? Diventerebbe comunque ideologia. Nulla nel ragionamento del Rinaldi e anche di Schiavone, di cui ho letto il saggio (pensavo di essere il solo) mi illumina in merito. E trovo qui la contraddizione. Aggiungo, infine, che non ho rinvenuto alcuna traccia di una controparte, né una qualsiasi valutazione di quale sia e come si sia evoluto nel tempo il sistema di potere economico/politico/sociale eventualmente da cambiare. Se non marginalmente al punto 12. La chiudo qui e mi scuso. Non sono mai stato un intellettuale, ho solo il difetto di essere un vecchio comunista italiano. Posso sbagliare, anzi sicuramente sbaglio ma se devo sbagliare devo farlo con il Partito. Che non c’è più. Come cantava Guccini … godo molto di più

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Note

[1] Cfr. Schiavone 2022. NB: avendo utilizzato come fonte un testo in formato epub e non avendo gli epub una numerazione fissa delle pagine, le citazioni saranno posizionate per quanto possibile in riferimento all’indice del testo. Questo lavoro si serve in gran parte di un montaggio di citazioni. Poiché le citazioni provengono da libri di Einaudi, ho provveduto a uniformare gli accenti delle citazioni alla regola standard.

[2] Si veda la recensione assai critica di Egidio Zacheo, su questo stesso giornale.

[3] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[4] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[5] Cfr. Caravale 2023.

[6] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 1.

[7] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[8] Nella Appendice, con l’aiuto di Hobsbawm, ricostruisco una tipologia storica della sinistra.

[9] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[10] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[11] Si veda sempre la nostra Appendice.

[12] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[13] Ad esempio, la scissione del PD del 2017 ha dato vita a un partito denominato “Articolo 1”, con riferimento palese alla identificazione tra cittadino e lavoratore. Si veda la mia analisi di allora sulla natura di questa formazione politica. Cfr. Finestre rotte: Cosa resterà della scissione del PD?

[14] Si veda in appendice.

[15] L’uso del termine popolo al posto di classe è un pietoso mascheramento per occultare il fatto che la classe – semmai ci sia stata – ora non c’è proprio più.

[16] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[17] La diseducazione comunista è quella che – tra l’altro – ha impedito e impedisce tuttora di concepire il cittadino democratico come unico riferimento della politica progressista.

[18] Mi riferisco qui alla catalogazione delle diverse sinistre operata da Hobsbawm (cfr. Hobsbawm 1999). Egli distingue tra una prima, una seconda e una terza sinistra. La prima sinistra è la sinistra liberaldemocratica. La seconda sinistra quella socialista, mentre la terza sinistra è quella che si dovrebbe ancora costruire. Si veda l’appendice.

[19] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[20] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[21] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[22] Il Riferimento ovvio va agli studi degli elitisti, tra cui Roberto Michels.

[23] La teoria della democrazia diretta.

[24] Cfr. Floridia 2021 e Floridia 2022.

[25] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[26] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[27] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[28] Si veda il mio recente intervento, pubblicato su Città Futura, sull’ultimo libro di Diego Fusaro La fine del cristianesimo. Finestre rotte: Note sparse intorno alla fine annunciata della trascendenza.

[29] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[30] Cfr. Ferraris 2021.

[31] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[32] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[33] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[34] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[35] Il dibattito in Italia fu introdotto da un saggio di Ernesto Galli della Loggia ed ebbe notevoli contributi successivi. Cfr. Galli della Loggia 1996.

[36] Cfr. Schiavone 1998.

[37] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[38] Cfr. Rusconi 1997.

[39] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[40] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[41] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[42] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[43] Cfr. de Mandeville 1997 [1724]

[44] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[45] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[46] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[47] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[48] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[49] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[50] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[51] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[52] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[53] Cfr. Esposito 2007.

[54] Cfr. Schiavone 2019.

[55] Cfr. Il riferimento originario è Mauss 1950.

[56] Questa tradizione di studi è stata iniziata da Almond & Verba 1963. Significativo è lo studio realizzato in Italia dal Politologo Robert Putnam, che ha utilizzato anche la nozione di capitale sociale.

[57] Cfr. Hobsbawm 1999.

Teoria e pratica del pentagonismo

(che non è una disciplina olimpica)

di Carlo Prosperi, 18 maggio 2023

Teoria e pratica del pentagonismo 02Di Juan Emilio Bosch non conoscevo né le vicende umane e politiche né le opere letterarie. Sono quindi grato all’amico Francesco M. Bonicelli Verrina, che per primo ha tradotto in italiano il breve saggio El pentagonismo como sustituto del’imperialismo (1967)[1], di avermi dato modo di colmare in parte questa mia lacuna e di approfondire il tema trattato dallo scrittore e politico dominicano. Il quale ebbe la triste ventura di vivere sotto la dittatura, non meno grottesca che feroce, del dittatore Rafael Trujillo Molina, alla quale si sottrasse viaggiando e trascorrendo lunghi anni in esilio, tra Cuba e Venezuela. Solo nel 1961, dopo l’attentato che pose fine all’abominevole tirannide di Trujillo, fin allora sostenuto dagli americani con la scusa che era sì un “bastardo” (un autentico son of bitch, per dirla con l’icastica espressione roosveltiana), ma era pur sempre il “loro bastardo”, rientrò in patria e, nel dicembre del 1962, vinse le elezioni diventando il primo presidente eletto democraticamente dopo trentun anni di dittatura.

Teoria e pratica del pentagonismo 03Bosch, contando di avere l’approvazione di Washington, subito dopo il suo trionfo elettorale promise di “trasformare la Repubblica Dominicana in una vetrina dell’America Latina” che sarebbe servita come modello della “democrazia rappresentativa”. Ma il tentativo di proteggere gli interessi nazionali da lui intrapreso si scontrò con quelli del movimento conservatore che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti, timorosi di ogni novità sospetta che potesse intaccare il loro dominio su quello che fin dai tempi di James Monroe consideravano il loro “cortile di casa”. Tra le accuse mosse a Bosch c’era quella, infondata, di essere comunista. Così, dopo soli sei mesi, egli fu destituito e da allora smise di credere nella democrazia rappresentativa per vagheggiare l’idea di una “dittatura con l’appoggio popolare”. Fu proprio in questo periodo di amara disillusione che egli si sforzò di analizzare le cause del fallimento del modello democratico nei Paesi caraibici e il ruolo svolto in tutto questo dal capitalismo. Dopo Il pentagonismo sostituto dell’imperialismo, videro così la luce diversi studi sull’argomento: Tesi sulla dittatura con l’appoggio popolare (1969), Da Cristoforo Colombo a Fidel Castro (1969), Breve storia dell’oligarchia (1970) e Composizione sociale dominicana (1970). Negli anni successivi si dimise dal Partito Rivoluzionario Dominicano, del quale era stato uno dei fondatori negli anni d’esilio a Cuba, e diede vita al Partito della Liberazione Dominicana, che solo nel 1996, dopo vari tentativi, riuscì ad affermarsi, mandando alla presidenza Leonel Fernández.

Teoria e pratica del pentagonismo 04Convinto che “la mancanza di memoria più lieve può portarci su strade insospettabili”, Bosch continuò a riandare con la mente alla sua esperienza di governo e per primo intuì che alla base del fallimento c’era stato un errore concettuale derivante da un difetto nel valutare l’evoluzione storico-sociale. Si continuava a parlare di capitalismo e di imperialismo, senza rendersi conto che la realtà era nel frattempo profondamente cambiata. I formidabili progressi scientifici e – aggiungiamo noi – tecnologici non avevano solo prodotto, per dirla con John Kenneth Galbraith, una affluent society, moltiplicando a dismisura i consumi e il benessere economico degli americani, ma avevano altresì trasformato una società eminentemente individualistica in una società di massa. E tutto questo – si noti bene – senza che i cittadini se ne avvedessero, così che essi seguitavano a credere di vivere in una società di individui liberi. Mentre, in realtà, erano eterodiretti o, se vogliamo, telecomandati, dal momento che i nuovi mass media, a cominciare proprio dalla televisione ne condizionavano le idee, i comportamenti, i consumi. In questo la pubblicità giocò un ruolo di primo piano, giacché, sfruttando gli studi di psicologia delle masse, i “persuasori occulti” presero ad insinuarsi nella mente dei consumatori servendosi – a dire di Vance Packard – anche di messaggi subliminali alla stregua della psicologia usata dai governi per spingere al massacro migliaia di giovani nel conflitto mondiale.

Teoria e pratica del pentagonismo 05

Secondo alcuni storici – e Bosch sembra in effetti condividerne la tesi – a salvare definitivamente gli USA dalla grande depressione del 1929 non fu tanto il New Deal di Roosevelt, quanto l’enorme incremento che lo sforzo bellico impresse alla produzione americana. E che determinò la metamorfosi stessa del capitalismo, destinato ad un ipersviluppo che ne cambiò radicalmente la dimensione e i connotati. Tanto che in esso si riconoscono già i germi dell’odierno “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla “smaterializzazione” dovuta all’informatica e all’elettronica. Ora, il capitalismo, sia pure nelle nuove forme via via assunte, è sopravvissuto allo stesso imperialismo, del quale, secondo Lenin, avrebbe invece dovuto essere la fase suprema. C’è chi si ostina, nel caso degli USA e di altre grandi potenze, a parlare di imperialismo, magari qualificandolo come “economico” o “commerciale” (come è stato anche definito l’imperialismo “in salsa cinese”) o come “neo-imperialismo”, senza rendersi conto che siamo ora di fronte a una realtà affatto inedita, prodotta dal capitalismo ipersviluppato, che Bosch chiama “pentagonismo”.

Nel Pentagono ha infatti sede il quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, in cui si concentra il potere militare nordamericano: un potere nato “dal ventre dell’economia di guerra” e che non può considerarsi costituzionale perché nella Costituzione politica della nazione non è menzionato. Un potere de facto, non de iure. Nondimeno, nella società di massa statunitense esso si è affermato indipendentemente dalla volontà cosciente degli elettori, fino a diventare, nel giro di pochi anni, preponderante rispetto a quello civile. Laddove il potere si misura in denaro, chi di più denaro dispone è inevitabilmente destinato a prevalere. È quanto si è verificato negli USA, dove il Pentagono è giunto a spuntare finanziamenti superiori a quelli del Governo federale. Questo non sarebbe potuto avvenire se l’apparato militare non avesse avuto il decisivo sostegno delle grandi corporations, che – come la guerra aveva dimostrato – alle ingenti commesse provenienti da quel settore dovevano il proprio ipersviluppo. Profittando del tracollo dell’imperialismo, il pentagonismo – che il presidente Eisenhower definì con preoccupazione “complesso industrial-finanziario” – pensò di raccoglierne l’eredità, ma – qui sta la vera novità – senza dovere conquistare dei territori coloniali e senza proporsi di sfruttarli economicamente. Dice bene Bosch: «Il pentagonismo non sfrutta le colonie: sfrutta il proprio popolo», e lo fa colonizzando la metropoli, costretta a finanziare gli interventi militari necessari per conquistare e mantenere posizioni di potere all’estero: ambito su cui il pentagonismo ha più voce in capitolo dello stesso potere civile.

Teoria e pratica del pentagonismo 06Un vasto complesso industrial-militare domina il Congresso” ebbe a lamentare Fulbright nell’ottobre 1967, e il senatore Eugene Mac Carthy, che guidava la campagna contro Johnson, ribatté: “Tutti noi al Senato stiamo tentando di mettere un qualche limite al potere del complesso industrial-militare che controlla la politica estera di questa nazione”. Segno che il rischio di una deriva antidemocratica e guerrafondaia era già avvertito. Almeno da una minoranza illuminata. Ma come poteva questa opporsi ad operazioni che sembravano avere benefici influssi sul benessere della nazione? “In un calcolo puramente matematico – annotava il Business Weech nell’aprile 1965 – il crescere della guerra ordinata da Johnson cambia le prospettive economiche per il meglio”. Era allora in corso la guerra in Vietnam e nei mesi successivi alla scalata delle operazioni belliche, quando la costruzione delle infrastrutture cominciava non solo sul territorio di Saigon, ma anche nei paesi vicini, e specie in Thailandia, una cospicua serie di industrie si giovò di un “atteso boom”. Con l’intensificarsi della guerra, si moltiplicò la richiesta di pneumatici, apparecchiature elettriche e elettroniche, armi, munizioni, carburanti, ecc. E si moltiplicarono di conseguenza i profitti delle imprese di costruzione, meccaniche, aeree, alimentari. Per le più grandi corporations d’America (Lockheed, Aircraft, Ford, Westinghouse, General Dynamics, ecc.), ma anche per l’industria giapponese produttrice di napalm, fu una vera manna. Si disse – ed è uno dei paradossi ricorrenti delle guerre moderne – che le compagnie petrolifere finanziassero persino i vietcong (Fortune, marzo 1966).

La vicenda vietnamita, a preferenza di quella domenicana, che pure lo riguarda da vicino, è assunta da Bosch ad esempio paradigmatico dei guasti del pentagonismo, non solo perché più nota, ma anche perché a tanto dispendio di vite umane e di mezzi non corrisposero risultati adeguati sul campo. Gli USA riuscirono anzi nell’impresa di perdere una guerra senza perdere una battaglia. Oltre a questo, allarmarono l’opinione pubblica sia interna sia internazionale. Paul Kennedy, nel suo classico studio Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), riprendendo un concetto di Robert Gilpin, mise in guardia sulla “legge del costo crescente della guerra”, per la quale i costi del mantenimento dello status quo crescono più velocemente della capacità economica di sostenere lo stesso. A lungo andare, l’espansione del settore militare finisce quindi per danneggiare l’economia (come ha del resto dimostrato l’implosione dell’URSS).

Teoria e pratica del pentagonismo 08Forse, però, la parte più interessante del libro è quella dedicata alle motivazioni morali di volta in volta addotte dal pentagonismo. L’intervento militare non è mai giustificato da propositi dichiaratamente aggressivi, quantunque le guerre promosse o combattute dagli USA interessino ogni parte del mondo. Esse sono guerre preventive o volte comunque a soffocare presunti conati di sovversione (“dottrina Johnson”): guerre per “esportare la democrazia” o per combattere il terrorismo. A volte vere e proprie guerre per procura, qual è per certi versi quella attualmente in corso in Ucraina. Il pentagonismo ha così fatto degli USA “la polizia politica del mondo” (capitalista). E non c’è differenza in questo tra presidenze democratiche e repubblicane, perché, almeno nella politica estera, tutte, bon grè, mal gré, soggiacciono ai voleri del Deep State, cioè di quel variegato “complesso industrial-militare” che è per Bosch il pentagonismo. Mike Lofgren in The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government definisce lo Stato profondo come “un governo ombra” che opera al di fuori delle istituzioni rappresentative e “presta scarsa attenzione ai semplici dettami costituzionali”. Vi appartengono lobbies, massoneria, funzionari di Stato e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico, ma il nucleo preponderante è costituito dall’apparato militare, che, in combutta con le multinazionali, le agenzie di rating, i mercati finanziari, le banche centrali e le banche d’affari, influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici della nazione. In particolare, per quanto concerne la politica estera.

La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati. Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’URSS, glielo hanno impedito. Ma Trump non è stato l’unico a recriminare sul Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la sua battaglia contro i comunisti. Del resto, il cronista investigativo del Watergate Bob Woodward, in Peril, riferisce che il generale statunitense capo di stato maggiore dell’Esercito Mark Alexander Milley avrebbe istruito i vertici in carica al comando centrale militare, nella war room del Pentagono, “di non prendere ordini da nessuno senza il suo coinvolgimento”. La decisione di accentrare nelle mani del super generale tutti i poteri operativi militari sarebbe stata assunta (e quindi condivisa) durante una serie di vertici top secret tenuti da Milley con alti dirigenti della Cia, del Pentagono e in due contatti riservati avvenuti con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, allora leaders democratici dell’opposizione, rispettivamente alla Camera e al Senato.

Teoria e pratica del pentagonismo 07Il merito principale di Juan E. Bosch è stato quello di metterci in guardia da questi apparati, neanche tanto segreti, che agiscono da Stato nello Stato, senza averne alcuna legittimazione. Non lo consolerebbe certo sapere che il fenomeno non è più soltanto americano, se è vero che anche il capo della Wagner Evghenij Prigozhin, nel recente manifesto Solo lotta leale. Nessun accordo diffuso sui canali Telegram ha denunciato la tentazione circolante tra i segmenti dell’apparato militare russo che mirerebbero a un compromesso con gli USA onde “preservare i confini esistenti il 24 febbraio 2023”. Queste, secondo Prigozhin, che guarda alla trascorsa grandezza imperiale, sarebbero élites che “lavorano per padroni diversi: alcuni per il governo esistente, altri per coloro che sono in fuga da molto tempo”. Paradossalmente, anche una sconfitta in Ucraina potrebbe “portare a cambiamenti globali nella società russa” e spingere la gente ad abbandonare questi esponenti dello “Stato profondo” pronti – per difendere il proprio benessere – a tradire gli interessi della Russia scendendo a patti con Washington e Kiev.

[1] JUAN EMILIO BOSCH, Il pentagonismo. Come il “Deep State” U.S.A. tiene in pugno il continente americano, OAKS Editrice, Sesto San Giovanni 2022.

Sinistre immagini

di Fabrizio Rinaldi, 15 gennaio 2023

Vagando da un canale all’altro, l’altro giorno mi è apparso Cuperlo su Rete4. Era intervistato non so da chi, perché non frequento quel canale, ma soprattutto non so cosa dicesse (anche se non fatico a immaginarlo), perché la mia attenzione era concentrata su come si presentava ai telespettatori con l’intento di racimolare consensi uno dei candidati più autorevoli alla segreteria del PD. Dietro di lui non c’era l’ormai classica libreria coi libri, i ninnoli e i quadri che strizzano l’occhio allo spettatore, ma faldoni e fascicoli grigi e marrone con scritte a mano (chissà se era a casa sua o in qualche archivio segreto di Andreotti). Indossava una camicia bianca sotto un maglioncino beige pallido pallido e una giacca grigia, pendant con i faldoni sullo sfondo. Ora, va bene esser sobri e pacati, e volersi distinguere da chi indossava il giubbotto in pelle alla Fonzie (Renzi), ma non è il caso di personificare la tristezza più assoluta!

Senato: registrazioni al completo, mancano solo i 26 subentrantiCuperlo avrà detto pure delle cose sensate, ma mi rimane l’immagine di un uomo insipido, sbiadito, senza prospettive per un futuro diverso da quello attuale, senza proposte che vadano oltre la misera quotidianità del decidere se togliere o lasciare le accise sul carburante (che comunque è una scelta che al momento non gli compete). Umanamente potrei anche condividere ciò che pensa, ma mediaticamente è un disastro.

Sinistre immagini 03 BersaniUn’altra immagine della sinistra che mi viene alla mente è quella di Bersani al bar (forse quello di Happy days), dove, invece di confrontarsi con altri su cosa sia esser di sinistra, ha come unico interlocutore un calice di birra. È la perfetta raffigurazione di una dignitosa ritirata umana, che è tale anche politicamente, ma fa comunque tristezza.

È pur vero che c’è chi specula impietosamente, come un avvoltoio sugli animali morenti, nello scovare foto che esprimano al meglio le difficoltà e le debolezze del malcapitato personaggio pubblico, di turno: ma un politico avveduto dovrebbe porre molta più attenzione a come si propone rispetto a ciò che dice. Altrimenti è bene che resti nel privato e non ambisca ad occuparsi della cosa pubblica. Purtroppo è così che va il mondo attuale. “E tu non puoi farci niente! Niente!” (L’ultima minaccia di Richard Brooks). È passato il tempo in cui Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta e Berlinguer si fermava a parlare agli operai di un cantiere col trench alla tenente Colombo.

Sinistre immagini 04 Moro    Sinistre immagini 05 Berlinguer

Eppure negli ultimi decenni ci sono state delle immagini iconiche che hanno alluso a un diverso futuro: Prodi in bicicletta, ad esempio, e D’Alema in barca. Lo so, vien da chiedersi come siamo messi, però almeno un tentativo di offrire una “visione” c’era. Il primo, interpretato anche da Guzzanti come il “semaforo fermo e immobile”, sotto l’aspetto sornione sapeva esser risoluto e avere un’idea, giusta o sbagliata che fosse (vedi la rocambolesca entrata dell’Italia nell’area euro). Il secondo era – ed è tuttora, anche se ufficialmente si è ritirato dalle scene, – il “baffo” più odiato dagli italiani, accusato di incoerenza per il fatto di possedere una barca (e non solo quella) nonostante si professasse comunista: ma almeno, anche se più in apparenza che nella realtà, quel baffo pareva essere alternativo all’infoiato, colluso, mediatico e trapiantato Berlusconi.

Sinistre immagini 06 Prodi

Se la sinistra tradizionale vuole avere una qualche futuro e non sparire (è sotto il 15% ed è in discesa, di contro all’oltre 30% di Fratelli d’Italia) deve individuare poche ma chiare idee che la identifichino, diciamo pure dei segni o dei “sogni”, sui quali costruire prospettive differenti da quelle offerte dalla Meloni, ma pure da Draghi, Conte o Renzi.

Ed è necessario che lo faccia immediatamente, per poterne trarre un minimo di indicazioni di principio. Quelle che non verranno certo da un congresso presieduto da fantasmi litigiosi, i quali quasi sicuramente convalideranno un’insipienza congenita. Coloro che si riconoscono (o no) nel PD di oggi (come pure in quello di ieri) vorrebbero vedersi proporre, alle prossime elezioni, un’idea per la quale valga la pena andare a votare per quel partito. Saranno anche solo sogni, illusioni, ma si vive pure di quelli.

Sinistre immagini 07 PD

C’è innanzitutto bisogno di chiarirsi su ciò che s’intende oggi per sinistra progressista, su quali obiettivi si possano concretamente perseguire, e di escogitare anche una comunicazione mediatica che sostenga quelle affermazioni. È essenziale tradurre i concetti in immagini, in simboli forti e riconoscibili affinché ci sia una reciprocità fra la parola e la sua raffigurazione. È inutile ostinarsi a credere che la genuinità delle idee sia sufficiente per ottenere consensi. Non piacerà ai talebani della sinistra dura e pura, ma le cose stanno così: serve saper comunicare efficacemente e chiaramente. E spesso non basta neppure quello.

Chi si ostina a pensarsi di sinistra si nutre di sogni che possano narrare una società più equa; di “barbari” che arricchiscano la nostra cultura ferma da decenni; di scelte economiche a lungo termine concretamente praticabili, nella consapevolezza che quelle attuali vanno sempre e comunque a discapito dell’ambiente, e spingono l’umanità verso il suicidio; di recuperare una solidarietà e un interesse comune che offrono l’unica vera via d’uscita. Sono i sogni a mantenere in vita la speranza.

E per cominciare, occorre fare pulizia nel proprio cortile, liberarsi di tutte quelle ipocrisie relative al genere, alla razza, alla pseudo-correttezza politica, che portano a far su alla rinfusa figure come Soumahoro, pur di sventolare una bandierina “progressista”. A riempire il Parlamento o gli uffici di Bruxelles di canaglie o di incompetenti ci pensano già tutti gli altri: almeno in questo la sinistra dovrebbe distinguersi.

Ciò non mi toglie la convinzione che ci siano ancora persone che perseguono delle idee per avere un mondo ben differente da quello attuale, senza però perdere la lucidità di inseguire delle chimere. Basta cercarle e avere il coraggio di offrire loro spazio e dignità, smettendola di tarpare le ali a chi ha ancora l’“intenzione del volo”, per dirla alla Gaber.

Sinistre immagini 08 candidati segreteria

Quel che vale per la politica vale pure per la cultura. E qui vengo al mio disaccordo sull’opinione espressa da Vittorio Righini nel pezzo I libri che non mi sono piaciuti, in cui critica il modo pacatamente ruffiano che ha Cognetti di scrivere i suoi libri.

Sinistre immagini 09 CognettiHo letto quelli precedenti a Le otto montagne e mi sembravano buoni. Un po’ “semplici” e immediati, ma ciò è una colpa? Non saranno capolavori, ma è vero che Cognetti è diventato un riferimento per coloro che si riconoscono in un certo modo di concepire il rapporto con la natura. Io mi sento perfettamente in linea con lui (ricordo un suo pezzo contro l’ennesima pista da sci), e non penso che questo sia cavalcare una moda e sfruttarla a fini utilitaristici. Semmai è un modo per veicolare messaggi un po’ differenti da quelli che vanno per la maggiore. I suoi testi non saranno il massimo di originalità e di profondità, ma, visti i tempi, che vengano pure queste mode i cui riferimenti sono London, Levi, Rigoni Stern, ecc…

Non dobbiamo star sempre lì a cercare il pelo nell’uovo… E che cazzo! Almeno quest’anno al cinema c’è stata la possibilità di vedere Le otto montagne, anziché i soliti cinepanettoni di Boldi, Checco e simili.

In fondo, nella mediocrità culturale attuale, Cognetti spicca per delle iniziative finalizzate a promuovere modi più rispettosi di stare in montagna e ha provato a fare qualcosa di diverso, impiegando i soldi vinti con lo Strega per sistemare un rifugio ad uso di amici e montanari.

Facce come la sua e quella dell’amico illustratore Nicola Magrin rappresentano un’ottima alternativa a quelle dei vari Calenda, Conte e compagnia bella. Dicono che, nonostante tutto, il sogno non “si è rattrappito”.

Sinistre immagini 10 Cognetti e Magrin

Collezione di licheni bottone

Nicola Chiaromonte

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Nicola ChiaromonteSalva diversa indicazione, tutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it

La verità del dialogo. Un ritratto di Nicola Chiaromonte

Fra cinici e gesuit

La nuova sinistra

Prigioni in Spagna

Pierre J. Proudhon – un pensatore scomodo

Parole confuse

A lume di ragione

Carissimo Andrea

Violenza e non violenza

Stato e minoranze rivoluzionarie

Chiaromonte, l’America e “l’etica del limite” nell’età dell’estremismo

La verità del dialogo. Un ritratto di Nicola Chiaromonte

di Matteo Marchesini

Nel Novecento, la mitizzazione più appariscente ed equivoca della Grecia antica è stata tentata dai filosofi che hanno esaltato le fonti presocratiche, giudicando tutta la storia del pensiero da Socrate e Platone fino alla modernità come un compatto processo di razionalizzazione – cioè di tradimento e d’impoverimento – delle originarie verità tragiche e sapienziali racchiuse in quelle fonti. Per questi filosofi, la scienza strumentale e tecnocratica che asservisce l’uomo moderno è figlia legittima dell’idealismo platonico. Si tratta di un mito derivato dalle intuizioni antropologiche ed estetiche di Nietzsche, addomesticate in senso metafisico o magari esoterico, e accordate alla fascinazione primitivistica di molta cultura “decadente”. Il suo cantore più noto è Heidegger, ma sue versioni degradate e spesso involontariamente parodiche sono diventate luoghi comuni tardonovecenteschi grazie a numerosi ripetitori del tipo di Emanuele Severino. Questo mito non è rimasto estraneo neppure a correnti filosofiche molto distanti: come la Scuola di Francoforte, che ha cercato a sua volta di stabilire un legame tra l’“illuminismo” tracotante della società di massa e le sue presunte origini classiche.

Ma altri intellettuali, più o meno coetanei del secolo breve, hanno proposto un modello di rapporto meno appariscente, meno pretenzioso e forse più fecondo con queste origini. La loro passione politica, e il bisogno d’interrogare i testi per capire “come vivere”, li hanno preservati da ogni sacerdotale profondismo e da ogni retorica accademico-apocalittica, esattamente per le stesse ragioni per cui li hanno tenuti lontani dalle ideologie del progresso. La loro Grecia non ha nulla di ebbro o estetizzante; e non ha neanche i lineamenti sommari di chi se n’è fabbricato una immagine di comodo solo per leggervi in controluce i destini moderni. Gli intellettuali a cui alludiamo amano il loro oggetto di studio, e quindi ne rispettano la complessità e la distanza; ma al tempo stesso, e proprio per questo, sentono l’urgenza di dialogare in modo insieme umile e coraggiosamente diretto con le parole e le idee dei poemi epici e dei tragici, dei primi filosofi e di Platone.

Pensiamo ad Hannah Arendt, a Simone Weil. Ma pensiamo anche al meno noto Nicola Chiaromonte (1905-1972), che si confrontò con entrambe: che, come la Weil impegnato nella guerra civile spagnola, ragionò con parole simili alle sue sull’incapacità moderna di sottoporre a un «limite» i comportamenti e di esaminare eticamente la «forza»; e che come la Arendt, conosciuta negli Stati Uniti, sostenne l’irriducibilità della violenza a «mezzo» teoricamente giustificabile e analizzò i paranoici circoli viziosi delle ideologie contemporanee, contrappose al loro cieco dinamismo un immaginario spazio politico dai connotati teatralmente greci e radunò attorno a sé piccoli gruppi di amici con cui leggere i classici

2.La storia di Chiaromonte, liberalsocialista sui generis o meglio libertario singolarmente religioso, si potrebbe raccontare almeno in parte riferendosi a quella delle riviste con le quali entrò in contatto, senza peraltro quasi mai identificarcisi. Ventenne già convinto dell’assolutezza dei valori morali, esordì sul «Mondo» di Giovanni Amendola e sulla protestante «Conscientia». Collaborò a «Solaria», che attraverso lo schermo della letteratura riuscì ad aprirsi alla cultura europea, e a preservare alcuni frutti dell’eredità gobettiana, negli anni in cui Mussolini eliminava le opposizioni. Consegnò lungimiranti analisi del fascismo ai «Quaderni» di Giustizia e Libertà, gruppo che frequentò nell’esilio parigino degli anni Trenta e che poi abbandonò con gli altri giovani “proudhoniani” legati ad Andrea Caffi. Sbarcato in America all’inizio della seconda guerra mondiale, lasciò una forte impronta nel dibattito degli intellettuali radical newyorchesi scrivendo sulla «Partisan Review» e su «politics», oltre che sulla salveminiana «Italia libera». Infine, tornato nel dopoguerra in patria, divenne il critico teatrale del «Mondo» liberal-progressista di Mario Pannunzio, e redasse con Ignazio Silone «Tempo presente», un mensile che criticò senza sconti il totalitarismo comunista ma anche la cultura e la tecnica politica delle società affluenti occidentali, e che, pur traendo ispirazione dalle tradizioni del socialismo democratico care a entrambi i direttori, non si fece portavoce di nessuna proposta terzaforzista.

Purtroppo, a differenza di quelli di Arendt e Weil, gli scritti di Chiaromonte restano quasi introvabili. Da decenni, i grandi editori italiani li rifiutano o li mandano rapidamente al macero. Onore quindi a «Una città», bellissima rivista libertaria forlivese e degna erede dei migliori periodici politico-culturali del secolo scorso, che oggi si fa editrice pubblicando Fra me e te la verità. Lettere a Muska. Si tratta di un carteggio tra Chiaromonte e Melanie von Nagel (1908-2006) curato da Wojciech Karpiński e Cesare Panizza, e venuto alla luce dopo un lungo lavoro di scelta svolto nei decenni scorsi dalla corrispondente insieme alla vedova dello scrittore.

In un intellettuale così socratico, che non si preoccupò di pubblicare libri, e che alimentò le sue riflessioni saggistiche attraverso un continuo dialogo con gli amici, le lettere non sono una trascurabile appendice all’opera. Specie se i destinatari somigliano alla von Nagel. Nata dall’unione tra un aristocratico bavarese e una ricca newyorchese, cresciuta in Italia e vissuta in America, sposata a un pittore daghestano e poi, dopo la morte del marito, entrata in un’abbazia del Connecticut come suora benedettina, questa donna coltissima e poliglotta doveva avere una qualità magnetica, se colpì tanto l’austero Chiaromonte – che secondo la sua amica Mary McCarthy diffidava per istinto delle donne intelligenti – e se in seguito riuscì a nutrire anche le idee di un altro critico radicale della modernità come Ivan Illich. La qualità della von Nagel non possiamo verificarla qui direttamente (nella raccolta, purtroppo, di suo ci sono soltanto due lettere, qualche verso e alcuni disegni), ma traspare dal pathos e dall’insolita esaltazione del suo sobrio corrispondente italiano.

Nicola e Melanie, affettuosamente chiamata Muska, si conobbero nel ’57 a Roma, subito prima che lei intraprendesse il noviziato; ma il coup de foudre risale al viaggio statunitense compiuto da Chiaromonte nel ’66 per tenere a Princeton le lezioni da cui nacque la sua raccolta di saggi Credere e non credere (Bompiani 1971, già pubblicata l’anno prima in Gran Bretagna col titolo The Paradox of History). Dopo quel viaggio, il magro carteggio precedente diventa un dialogo fittissimo. Per un lustro, fino alla morte, Nicola scrive a Melanie più di seicento lettere, circa una ogni tre giorni. E nel frattempo si attenuano anche le sue perplessità sulla monacazione dell’amica: perplessità ben comprensibili, se si pensa a quel chiaromontiano animo “greco” che – lontano in ciò dalla Weil – non crede alle risoluzioni personali delle crisi religiose, perché ritiene queste crisi dipendenti dall’esistenza collettiva, e quindi superabili solo collettivamente.

Citando i sonetti di Shakespeare, Chiaromonte definisce il rapporto con Muska un «marriage of true minds»; si riferisce più volte al Simposio, e arriva a parlare di «amor cortese». Tra questi due esseri umani così fuori dell’ordinario, così affamati di vita e insieme così a disagio nel mondo, era nato un legame molto stretto. La lontananza, e le differenti scelte esistenziali, contribuivano a sublimarlo: ma senza placare un bisogno fortissimo di condivisione. Spesso Nicola esprime la sua sofferenza per l’impossibilità di un dialogo faccia a faccia; e quasi per fisicizzare la relazione, oltre a scambiare foglie, fiori e immagini, si sofferma sulla salute di lei, si preoccupa dei suoi dolori, o si commuove con tenerezza tra amorosa e paterna davanti alle confessioni della sua sonnolenza.

Ma ciò che più importa è che in queste 250 pagine di carteggio si ritrovano in scorcio tutti i temi centrali della riflessione chiaromontiana, espressi a volte in una forma sintetica e lapidaria di rara efficacia, anche perché irrobustita da quei riferimenti biografici che negli articoli sono di solito pudicamente esclusi.

Com’è naturale, le lettere riflettono in primo luogo i fatti, le circostanze e le occasioni che nell’ultimo scorcio degli anni Sessanta caratterizzarono la vita di Chiaromonte e l’attualità pubblica. Si parla del movimento studentesco e dei faticosi traslochi romani, della fine di «Tempo presente» (con la morte di Pannunzio, la fine di un’era) e dell’inizio della collaborazione col non amato «Espresso», dei viaggi tra i circoli intellettuali europei e degli articoli sul Vietnam della McCarthy, delle passeggiate con l’impegnativa vedova Camus e della solida amicizia con Gustaw Herling, dello strutturalismo e di Aleksandr Solženicyn, del nuovo teatro grotowskiano e della stesura di Credere e non credere (per cui l’autore cerca un titolo diverso dall’esatto ma pomposo L’uomo e l’evento).

Ognuno di questi argomenti è però quasi sempre filtrato dal riferimento a un contesto classico, è contrapposto o associato a una dominante “passione greca”. Da questa passione scaturisce anche lo stile, che è poi più o meno lo stesso dei taccuini antologizzati in Che cosa rimane (Il Mulino 1995): quei taccuini da cui Nicola ricopia brevi brani per Melanie, e da cui trae lo scheletro dei saggi più impegnativi. Si tratta di uno stile spoglio e geometrico, incolore e perentorio. Ogni argomentazione vi appare scarnificata da un implacabile rasoio occamiano. In Chiaromonte, come nella Weil, un rigore intransigente e una quasi fanatica castità intellettuale tendono a bruciare tutti i falsi intrichi “psicologici”, tutte le capziose zavorre culturalistiche, per arrivare a contemplare le questioni nella loro nuda, platonica essenzialità. Per questi autori, riflettere significa subito verticalizzare, portare alle conseguenze estreme un’ipotesi e accettarne stoicamente, fino in fondo, la logica e fatale cupezza. Ma è una cupezza che, come la disperazione della lirica leopardiana, regala anche il rovescio di una gioia energetica, corroborante: la gioia che si prova, weilianamente, davanti a tutto ciò che ci restituisce un primario e irrefutabile senso di realtà, davanti a tutto ciò che ci strappa alla confusa opacità in cui ci agitiamo quando restiamo invischiati nei compromessi quotidiani, o chiusi nell’immaginario dei nostri desideri. Sia Weil che Chiaromonte pensano che vivere in pienezza significhi scontare la sofferenza senza menzogne, esporvisi senza alibi o risarcimenti ideologici. Solo così s’impara a circoscrivere ciò che dura, oggettivo e indistruttibile, al di là dei torbidi, passeggeri e dunque “irreali” stati d’animo privati, e al di là delle moderne riduzioni del vero, del bello e del buono a questioni d’impressione soggettiva. Solo così si può sperare di spezzare le catene della «bestia sociale», e di sottrarsi per un attimo alla cattiva infinità di un mondo centrato sui miti dell’individuo e della Storia.

  1. A questo proposito, anche nelle lettere a Muska è centrale la polemica chiaromontiana contro l’«egomania» dei contemporanei, cioè contro la loro totale mancanza di senso del limite. Al Leitmotiv dell’hybris Nicola ritorna sempre, qualunque sia lo spunto cronachistico della lettera. Ci torna, magari, dopo aver tracciato per la sua corrispondente “reclusa” qualche schizzo delle civiltà in cui si muove nei suoi rapidi viaggi culturali: una Venezia ancora umana ma architettonicamente improbabile, un’Inghilterra che il tradizionalismo mantiene meno alienata e più coesa del resto d’Europa, una Parigi mutante ai cui stanchi riti da chiesa moderna partecipano giovani ormai simili a una nuova «razza», una Trieste ariosa e «strana» (aggettivo già usato dallo “psicologo” Saba, comprensibilmente mai citato), una Napoli irredimibile eppure capace di umanizzare perfino la paccottiglia plastificata della nuova industria… Ma sempre al suo Leitmotiv ritorna, Nicola, soprattutto quando fisicamente torna a Roma: massimo simbolo decadente, squallido e intollerabile, dell’atomizzazione e dell’insensatezza della vita tardonovecentesca. Questa vita, ribadisce a Muska, concepisce se stessa come una «pura fuga d’istanti». Gli uomini che la sperimentano, nuovi «barbari per volontà», non trovandovi un senso che superi i loro volubili desideri diventano incapaci di una vera, durevole comunicazione, e guardano alla morte come a un fatto insopportabile perché non redimibile da nessun “progresso”. Così non resta loro che lasciarsi trascinare da un’avida quanto disperata volontà di successo, e dall’illusione di poter possedere sempre più oggetti.

Per Chiaromonte, l’egomania è il frutto di un umanesimo privo del senso del sacro: un umanesimo che è assoluto proprio perché relativizza tutto, facendo degli individui l’unico metro di misura, e destinandosi quindi a sfociare in una disumanità massificatrice o pseudoribelle. L’obiettivo panumanistico resta «le plus grand bonheur du plus grand nombre». Ma ciò che davvero si può procurare non è la felicità, bensì soltanto il surrogato del benessere: e per produrlo, i moderni hanno dovuto piegarsi in massa alla logica dello sviluppo meccanico. La maggiore felicità del maggior numero si è tradotta perciò nella maggiore servitù del maggior numero.

Il primo vero profeta di questo umanesimo resta Rousseau, il «teorico della democrazia totalitaria» che in una folgorante lettera a Muska Chiaromonte associa agli hippie, citando una frase in cui il filosofo contrappone al teatro del suo tempo un progetto di feste spettacolari all’aria aperta già simile all’«invito a un “love-in”». L’autocoscienza ultima dell’egomania è invece l’esistenzialismo alla Sartre, un pensiero dove la libertà assume un aspetto mostruoso, prefigurando una condizione umana insieme gratuita e coatta.

L’umanesimo assoluto esclude dal suo orizzonte ciò che trascende l’uomo, ma proprio per questo non ha poi il coraggio di confrontarsi senza paracadute ideologici con l’effimero, con la fragilità intrinseca della vita. E’ il contrario della visione greca, per la quale l’individuo vive fino in fondo la fugacità della sua esperienza proprio perché si sente «tramite del durevole». In questo senso Chiaromonte dice a Muska che i Greci sono il popolo più religioso del mondo mediterraneo. A differenza di romani ed ebrei – di cui anche la Weil diffida – tra il «sentimento diretto delle cose» e il loro «modo d’essere» non frappongono infatti la volontà di stabilire leggi e convenzioni che li proteggano dal mutamento: e «il sentimento del “sacro” è molto più profondo nell’animo di colui che si considera “inerme” di fronte al tempo». I greci chiaromontiani sono una comunità permeata da un rispetto oggi inconcepibile del «divino», ossia di ciò che nella natura, nelle azioni e nei sentimenti degli uomini resta sempre nascosto, e indica il confine delle nostre forze e della nostra capacità di comprensione: «il senso del sacro non è altro che il senso del “limite” (…) di essere parte di un tutto che non si conosce».

Mentre scrive queste riflessioni a Muska, così Chiaromonte le fissa nel saggio La bestia meccanica, pubblicato su uno degli ultimi fascicoli di «Tempo presente»: «L’egomania, che solo la necessità materiale e la forza tirannica possono contenere, è il male della società contemporanea; l’odiosa prigione dell’io in cui l’individuo viene a trovarsi rinchiuso è la forma della schiavitù di cui siamo vittime. Male e schiavitù provengono dalla convinzione radicalmente empia secondo cui il mondo appartiene all’uomo, ed egli può farne quel che gli talenta; e così la vita è proprietà esclusiva di ogni individuo, e ogni individuo ha il diritto di usarne e abusarne come vuole. Una tal convinzione nega tutto ciò che nel mondo è nascosto, indicibile, arcano; si fonda su un’ignoranza cocciuta del mondo stesso e delle più umili verità d’esperienza, prima delle quali è la dipendenza in cui ognuno si trova dai propri simili per cominciare, ma, più profondamente e essenzialmente, dall’insieme delle cose, dal loro ordine, quale esso sia e comunque lo si chiami».

  1. Di questa dipendenza, di questo «arcano» non sappiamo nulla, e pretendere d’imbrigliarlo in qualche legge o d’intravedere nel mistero un disegno è tracotanza: in questo senso, per Chiaromonte anche la Provvidenza è un’idea che «diminuisce la divinità del divino», come scrive a Muska senza nessun accento polemico, ma senza nemmeno velare ciò che lo separa dal cattolicesimo di lei. Anzi, con la sua opera l’autore di Credere e non credere vuole mostrare anche come l’abominevole culto moderno delle azioni storiche e dei fatti compiuti non sia altro che la laicizzazione di questa idea cristiana. Il solo fatto di concepire un Dio incarnato nella Storia induce infatti a leggerla come un unico sistema, e a ricondurre tutte le vicende umane sotto un unico significato generale. Nasce allora il provvidenzialismo, che rapidamente viene mediato dalla Chiesa, la quale finisce per vedere nella durata del suo puro potere mondano un segno della propria santità. Nel frattempo, dalla stessa teologia sorge e si libera un razionalismo tritatutto che porta alla reincarnazione del divino nelle cose, al mito laico del progresso. Poi, tra Sette e Ottocento, davanti ai contraccolpi inauditi della rivoluzione francese, questo mito inizia a trasferirsi dall’interpretazione della natura a quella dei rapporti sociali, partorendo il determinismo storicista. In modo più tirannico di qualsiasi religione, un tale determinismo aliena all’uomo il senso della propria vita, perché lo rende schiavo della società e delle manifestazioni della sua stessa volontà di potenza. Ignorando la dipendenza delle loro esistenze dal cosmo, cioè da un «tutto» inconoscibile, i moderni credono di possedere incondizionatamente e di potere incondizionatamente controllare, con la ragione e con l’azione, le dinamiche sociali e tecniche che vanno via via scatenando. A differenza dei greci, dice la Weil, considerano la forza sprigionata dal gioco delle loro relazioni come un fatto meramente fisico e non morale: sono così convinti dell’idea secondo cui ognuno si forgia da sé il proprio destino, che non hanno neppure una parola adatta a esprimere il concetto di «nemesi». Il loro errore sta nell’estendere il paradigma delle scienze naturali, e in particolare della fisica, alla storia, al mondo umano, alla realtà tout court e ai problemi ultimi, impoverendoli e condannandosi a un deprimente vuoto ideale. In una lettera a Muska, Nicola cita un passo dove Bertrand Russell osserva come la «astratta fisica del nostro tempo» ci chiuda in una prigione «senza splendore», senz’anima. E’ un passo in cui il progressista, l’empirista per eccellenza della filosofia novecentesca sembra avvicinarsi a culture da lui lontanissime. Nelle sue parole riecheggiano quelle del fenomenologo Husserl, e perfino quelle di Rimbaud sul «forçat (…) sur qui se referme toujours le bagne», citate altrove da Chiaromonte per descrivere lo Stato moderno. Ma soprattutto, il giudizio di Russell richiama in questo contesto la diagnosi della platonica e iperidealista Weil, secondo cui «dal rinascimento in poi (…) l’idea della scienza è quella di uno studio il cui oggetto è posto al di fuori del bene e del male», e «se i fatti, la forza, la materia vengono isolati e considerati di per sé, senza relazione con altro, non v’è in tutto ciò proprio nulla che un pensiero umano possa amare». La Weil fa esplicito riferimento alla differenza con la scienza greca, ancora fortemente connessa a una compatta visione etica e cosmica. Abbozza addirittura una critica dell’algebra come pratica livellatrice (la paragona al denaro), e in generale stigmatizza le tecniche che non producono saggezza, che permettono di inventare senza pensare. Anche la Arendt affronta il tema, e si chiede che effetto abbia l’impossibilità di tradurre il codice sempre più influente della scienza moderna nel linguaggio pubblico: ossia che effetto politico produca l’evidente incapacità di questo codice di dare un senso alla realtà comune, la sua tendenza a creare un mondo artificiale dove la conoscenza si scolla dalla riflessione. Si può rispondere che l’effetto è appunto la nascita di una ideologia della scienza, cioè di una pseudoteoria che estende ingannevolmente il paradigma scientifico all’intera cultura anche quando in apparenza vi reagisce, come ostentano di fare gli storicismi idealistici e finalistici che inseguono una verità superiore a quella matematica, fisica o biologica. Questa ideologia pretende di assimilare gli atti umani ai fatti di natura, e quindi di poter spiegare e prevedere razionalmente le dinamiche relative a esseri mai analizzabili nella loro integrità: pretende, in definitiva, di poter rivelare una volta per tutte le origini sempre oscure del complesso di moventi che ci induce a muoverci e a condizionarci a vicenda. Così, caduta ogni fede nel trascendente, si cerca la verità proprio dove non può darsi: cioè nel terreno dell’azione, della Storia, della suprema contingenza. Ne risulta quello che il Chiaromonte di Credere e non credere definisce come un paradossale «scetticismo teologico» o «dogmatismo scettico»: da un lato si è così sfiduciati da puntare tutto sull’attimo nel quale si agisce, ma dall’altro lato si giustifica il più effimero dei gesti affermando che «la storia lo esige». Qui sta l’aporia dello storicismo, per cui «l’Oggi è il Domani, il senso della vita di oggi sta nel Domani, un Domani storico di cui l’oggi non è che l’oscura cifra. La formula è oracolare, ma riassume molto efficacemente quella fede ottimistica nella Storia – cioè nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi – che fa dell’esistenza il fantasma di se stessa, rinviandone il significato all’infinito, cioè annullandolo».

E questo oracolo grottesco, com’è ovvio, è elaborato in primo luogo dagli intellettuali: che quindi, anziché essere autentiche guide e “avanguardie” della società, nel mondo contemporaneo tendono a massificarsi prima delle masse, a sacrificare il proprio pensiero ai feticci ideologici e alla Storia con maggior zelo e con più imperdonabile falsa coscienza.

Fino all’inizio del Novecento, prima del ’14, questi feticci erano ancora in parte un mito vero, una credenza diffusa e legittima nel progresso storico. Ma la carneficina assurda della guerra l’ha fatta crollare («E’ ciò che fa rovinare i miti, la realtà», dice Chiaromonte nella Bestia meccanica). Da allora in poi, la gran parte degli uomini finge di confidare nel progresso, ma in verità non fa altro che arrendersi, tra ipnotizzata e inerte, a un meccanico succedersi di eventi schiaccianti, a un mondo «nudo e insensato», e alla fatalità di una crescita puramente tecnologica. E’ ormai in malafede che si pronuncia il proprio credo nella democrazia e nel miglioramento universale: nei comportamenti quotidiani, si oscilla invece tra nichilismi e improbabili restaurazioni “religiose”.

  1. La guerra, secondo Chiaromonte, ha colpito al cuore soprattutto la versione più avanzata della credenza nel progresso umano, e cioè il socialismo, che dagli anni Venti in poi s’è irrigidito in una ortodossia sempre più tirannica quanto più profonda era la disillusione riguardo alla sua autentica vitalità. E l’ortodossia ideologica, di nuovo, non è altro che una versione laicizzata, umiliata e parodica della fede cristiana. Il cristianesimo infatti, afferma Chiaromonte, ha trasformato il flessibile significato antico del «credere» in un dogmatico «voler credere» (e qui si pensa ancora alla Arendt, che in La vita della mente spiega come la civiltà cristiana, gettando una luce inedita sull’esistenza interiore, abbia posto al centro delle sue riflessioni appunto la «volontà», tema quasi assente nei filosofi antichi). Il credere greco, il credere naturale implica una costante coscienza dell’ambiguità che è inscindibile dalla relativa robustezza sociale di ogni credenza; implica, soprattutto, la capacità di accettare e assorbire nella propria visione la mutevolezza del mondo così come appare, in tutte le sue sfaccettature: quella mutevolezza che i greci rappresentavano guardacaso nelle figure di mutevoli dèi, sottoposti anch’essi a un Fato impenetrabile. Invece il Dio dei monoteismi, isolato e onnipotente, si stacca dalla realtà umana in un modo che costringe poi chi tenta di concepire il loro legame a impantanarsi in volontaristici sofismi. Il cristiano, per aver fede, deve escludere dal proprio orizzonte religioso una gran parte di ciò che sperimenta nell’esperienza quotidiana, e in cui dunque, nel senso greco e chiaromontiano, dimostra comunque di “credere”: crea cioè nella vita quella scissione, notata suo malgrado anche dalla Weil, che tende a sfociare in un irrigidimento pericoloso e che a un certo punto si fissa nella doppiezza del gesuitismo. E’ dalla mondanizzazione moderna di un simile irrigidimento che scaturisce la tendenza ad addomesticare empiamente la realtà, a leggere un univoco senso della vita nella Storia, a fornire «spiegazioni ultime» che pretendono di disfarsi della varietà delle apparenze. L’esempio più chiaro è quello di Marx, secondo cui l’economia sarebbe “più reale” di tutto il resto, ossia costituirebbe l’essenza dei fenomeni più diversi. Ancora peggiore è l’ortodossia dei marxisti del pieno Novecento, che trasformano un’ipotesi teorica in un angusto dogma, e che poi si disfano anche del dogma per imporre una tattica di partito impermeabile non solo alla realtà, ma anche alla logica, e destinata a mutare ora per ora. Propagandati con le armi, sostenuti da una disciplina coercitiva sempre più capillare e spietata, i tattici “dogmi del giorno” coincidono col potere terrorizzante delle dittature comuniste. E tuttavia, come Chiaromonte ha visto per tempo e come hanno visto con lui Orwell e la Arendt, la rapidità del loro succedersi denuncia la corsa dei sistemi totalitari verso un fatale autoannichilimento: per quanti sforzi di sottomissione faccia, la coscienza normale degli uomini non è in grado di adattarsi a venerare idoli che cambiano volto ogni mattino.
  1. Mentre tenta di chiarire queste intuizioni nei saggi di Credere e non credere, Chiaromonte ripete a Muska che la storia non può avere in sé la sua ragione, che è solo un seguito di «atti insensati», e che somiglia alle «rovine che lascia dietro di sé un cataclisma – o anche i rifiuti che trascina un torrente». Parole così lapidarie spiegano l’irritato interesse con cui, nel frattempo, segue un fenomeno che sembra appunto condensare e bruciare in un’estrema, cupa parodia le falsità enfatiche della recita politica e culturale otto-novecentesca, le sue oscillazioni apparentemente schizofreniche tra idolatria del Corso Storico e pseudoanarchia nichilistica. Questo fenomeno è il Sessantotto occidentale, presto egemonizzato dai giovani che in una lettera alla sua corrispondente americana definisce «pedanti ribelli». Approdato, come in modo diverso il suo coetaneo Adorno, a una riflessione sempre più geometricamente pessimistica riguardo alla possibilità d’intrecciare teoria e prassi, anche Chiaromonte giudica la rivolta «conformista». E il conformismo sta nel fatto che per contestare la società esistente i rivoltosi ne accettano e ne estremizzano le patologie, cedendo al suo caos senza avere il coraggio di andare al cuore dei problemi. I giovani occidentali non mettono in questione il meccanismo dell’estensione illimitata dei bisogni, e non si pongono domande radicali sul significato dell’esistenza. Ereditano placidamente il culto del Nuovo, del successo egomaniaco che tutto assolve, dell’azione per l’azione e magari della guerriglia per la guerriglia. Il loro guevarismo, il loro maoismo è solo una moda, un atteggiamento assunto a costo zero. Come Pasolini e Arbasino, e come oltreoceano il suo amico Dwight Macdonald, anche Chiaromonte nota che questa ripetizione frivola di vecchi errori è legata al rifiuto di confrontarsi con le generazioni precedenti. E’ un rifiuto comprensibile, dato che quelle generazioni sono prive di ogni autorevolezza; ma ciò non toglie che il suo prezzo sia un’ennesima versione del moderno settarismo. Da una parte si diffonde la pedanteria subculturale, dall’altra dilaga un attivismo giovanilistico senza argini né obiettivi seri, che a un ex ragazzo degli anni Venti non può non ricordare un’esperienza sinistra. In particolare il Sessantotto italiano, nato in una società senza ordine né libertà, ma «fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva», rischia di sfociare subito in una demagogia del tutto o niente, e in una ricattatoria sofistica da demoni dostoevskiani in sedicesimo.

Questo almeno, dice Chiaromonte, accade a ovest. Diversa è la rivolta dei giovani dell’est, che si battono per liberarsi dall’oppressione politica, cioè per qualcosa di molto più chiaro e importante. Ma ai giovani intellettuali d’Occidente, e agli intellettuali non più giovani che li corteggiano pateticamente per inseguire l’ultima incarnazione dello Spirito del Tempo, una tale rivolta sembra “ottocentesca”, “sorpassata” dalle punte più avanzate della Storia. Convinti di possedere già la libertà «come si possiede un mobile», considerano questa esigenza basilare della vita umana meno rilevante di qualunque nebulosa ideologia palingenetica dell’ultimo minuto, di qualunque pseudonovità “storica” pubblicizzata dalle cronache dei media.

Come si vede, i giudizi di Chiaromonte sulle azioni dei movimenti politici occidentali sono duri almeno quanto quelli che dà del comunismo applicato. Tutto gli appare ormai inquinato dall’idolatria degli «atti insensati». Ma se le cose stanno così, cosa opporre in concreto al fatalismo storicistico? Le lettere a Muska, e gli scritti coevi, sembrano avvicinare lo scrittore a un altro tipo di fatalismo, che potremmo definire laotsetiano. Dopo avere attraversato le tragedie del Novecento, Chiaromonte è ormai lontanissimo dal suo volontarismo di ventenne cresciuto nella cultura dei Gobetti e dei Tilgher. Ora non vede più nella massificazione un’opportunità per disfarsi dell’inerzia individuale e per riaffermare le istanze morali assolute con una decisione finalmente pura e libera da equivoci. Nato in una terra dove il passaggio d’innumerevoli popoli ha lasciato in eredità alla gente un misto indefinibile di rassegnazione e orgoglio, questo maturo uomo del sud rifiuta in modo sempre più netto non soltanto l’idea della violenza rivoluzionaria, ma anche ogni visione che attribuisce più importanza alla volontà di fare il bene anziché alla volontà di tenere fermo il vero.

Di nuovo, davanti a questi passi delle lettere, torna in mente la Weil. Ci si ricorda delle parole con cui la pensatrice francese contesta il catechismo cattolico (così cavilloso che non basterebbe una vita a esaminarlo), e della nettezza con cui gli oppone il bisogno dell’intelligenza di restare totalmente libera nel suo legittimo campo d’azione. E’ altra, per lei, la facoltà destinata a contemplare e onorare i dogmi. «L’intolleranza» dice con una frase quasi chiaromontiana «deriva da una confusione tra i modi di credere»; e aggiunge senza reticenze che il potere amministrativo della Chiesa e la formula «anathema sit», con la conseguente confusione dei piani e il conseguente tentativo di ostacolare la ricerca del vero in nome di un malinteso bene, ha aperto la strada alle derive totalitarie moderne.

Partendo da una concezione distante del cristianesimo, ma da un’idea platonica del bene pur sempre sorella di quella weiliana, Chiaromonte insiste con altrettanta forza sulla necessità che l’intelletto rispetti nella sua sfera soltanto i vincoli che si pone da se stesso. La sua polemica però, anche quando tocca la religione, lo fa per puntare dritto alla politica. Nelle lettere, con una definitività brusca e quasi liberatoria, ripete che qualunque progetto umano finalizzato al bene, quando offende il vero, è destinato a sfociare nella violenza. E’ la violenza di chi crede di poter forzare gli esseri e le cose a diventare ciò che non sono. «Voler “cambiare” significa voler far violenza a ciò che è», scrive a Muska, «non credere nella semplicità delle cose che sono (…) credere fanaticamente alle apparenze, ossia che cambiando, per così dire, la disposizione degli oggetti nel mondo si cambi radicalmente il mondo stesso. Mentre a me sembra che il mondo si cambi unicamente (…) grazie a norme accettate, al modo di vivere degli uomini stessi».

Le speranze palingenetiche di origine cristiana, e la fede moderna nel progresso che ne deriva, coincidono con l’idea che sia possibile introdurre nel mondo una novità radicale. Chiaromonte non lo crede. Come non crede alla concezione lineare del tempo che questa idea implica, e che anche la filosofa della Vita della mente associa al modo tutto cristiano e moderno di concepire la libertà e la volontà. Toccando un tema caro a Karl Löwith (non a caso, come la Arendt, discepolo di Heidegger), Nicola dice a Muska che la saggezza sta invece nell’intuire i segni di quella sostanziale, greca ciclicità del tempo che Nietzsche sbandierava in modo ancora volontaristico, e che la vita ci mette davanti agli occhi ogni giorno contraddicendo le nostre ideologie. L’universo che abitiamo non sembra affatto trasformabile nei suoi oscuri elementi primi, ma semmai infinitamente «mutevole» nella sua permanenza, come il mare così amato dal mediterraneo Chiaromonte e dal mediterraneo Camus.

I sogni di novità assoluta hanno sempre qualcosa di empio o retorico: vogliono disconoscere la realtà così come ci è data, o non tenerne conto, in nome di una pretesa centralità delle aspirazioni umane. Indimenticabile, a questo proposito, è l’esempio che Chiaromonte propone nella Lettera a Caffi edita in Il tarlo della coscienza (Il Mulino 1992). La dichiarazione di Ivan Karamazov, tanto celebre e universalmente amata, secondo cui varrebbe la pena di rifiutare il proprio biglietto per il Paradiso davanti al pianto di un solo bambino, a lui sembra «teatrale e incomprensibile», perché «l’idea di un mondo senza bambini che piangono» è «coestensiva di un mondo senza bambini affatto». Viceversa, «senza pretendere al Paradiso», Chiaromonte vuole soltanto «vedere le cose come sono (e non create da me)». Secondo la Weil, questa visione della realtà si ottiene sospendendo la volontà che il mondo si pieghi ai nostri desideri. E Nicola, rivolgendosi a Muska, le fa eco assimilando la purezza di un tale sguardo alla capacità di «fermarsi al limite», «riconoscere il sacro – e il divino – piegare il capo – inchinarsi». Un simile riconoscimento morale non può tradursi in leggi o convenzioni, come vorrebbe la mediocre saggezza, ma può solo derivare di volta in volta da un ambiguo “avvertimento” davanti alla situazione concreta.

Chiaromonte tende dunque a identificare i progetti di palingenesi con una violenza menzognera. E per spezzare la catena di azioni e reazioni che questa violenza accerchiante produce, per contrastare gli atti di forza con cui gli uomini provano a imporre alla società la loro visione del mondo, gli sembra non rimanga altra risorsa che una mite separatezza, una saggia inazione interrotta solo per concedere alla politica quel che le è strettamente dovuto dal punto di vista del «buon cittadino» (a questo dovere limitato si può ricondurre, nel ’56, la eccezionale adesione chiaromontiana al Partito Radicale).

Al limite, manifestazione di un tale spirito potrà essere la «non violenza», su cui ragionò in modo analogo anche la Arendt. Ma Chiaromonte è convinto che la non violenza non possa diventare norma d’azione pratica e universale senza rischiare di tradursi essa stessa in violenza, o comunque di snaturarsi: resta, per lui, niente di più e niente di meno del comportamento che alcuni singoli individui altamente civilizzati sono in grado di tenere allo scopo di arrestare l’effetto domino del male, o, come direbbe la Weil, allo scopo di sospendere l’ordine inerziale della forza. Rappresenta, insomma, una nobile accettazione del destino: è la coscienza, fatalmente destinata a un’autentica aristocrazia, che vale ciò che cresce nella sua intrinseca verità senza forzature – è il rifiuto di violare più del necessario la natura delle cose, la capacità d’indirizzare il proprio amore sulla realtà circostante in maniera non dispotica e non servile.

In sintesi, all’orizzonte non si vede alcuna soluzione collettiva dei mali moderni: forse, anzi, l’idea stessa è contraddittoria. E Chiaromonte, teorico delle credenze che si consolidano senza volontarismi, si tiene ben lontano da velleità edificanti. Tuttavia, tornando sempre da capo alle stesse conclusioni fosche, anche nelle lettere a Muska insiste sulla sola immagine di speranza offerta da tutta la sua opera, un’immagine che è in qualche modo l’altra faccia del “laotsetismo”. Si domanda, Chiaromonte, se prima o poi l’illimitato e coatto bisogno di dominio non condurrà i moderni davanti a un’aporia così insormontabile, a un baratro così profondo da costringerli a tornare a misurarsi con le eterne questioni essenziali, a fermare lo sguardo sul problema del divino senza equivoci deterministici o soggettivistici arbitrii. Allora forse, dietro le false fedi, dietro i nichilismi irriflessi e perciò tracotanti, nascerà in loro un «nichilismo positivo», un modo d’essere in grado di confrontarsi nuovamente con le nude cose e con le scelte elementari tra il vero e il falso a cui i contemporanei sfuggono istante dopo istante fino alla morte. Solo a quel punto si potrà ritrovare la comune consapevolezza del fatto che la realtà degli eventi e la realtà del pensiero, la contingenza di ciò che accade e l’ordine continuo delle idee sono separati da un confine sacro e inviolabile. Si riscoprirà così che le utopie sono modelli destinati a nutrire la vita spirituale, cioè a tradursi solo mediatamente e per vie inimmaginabili nei comportamenti pratici; e che perciò volerle trattare come progetti politici palingenetici è mostruoso come sarebbe mostruoso per il poeta voler vivere la sua poesia. Coloro che sbandierano le utopie come programmi d’azione immediata cadono nell’equivoco bovaristico intrinseco a ogni storicismo: si vedono cioè come «personaggi storici». E negli ultimi due secoli, dall’età napoleonica al Sessantotto, le prime vittime di questo equivoco dagli effetti stupefacenti sono stati prevedibilmente i giovani: il Fabrizio stendhaliano che vuol essere sicuro di vivere una «vera battaglia», i Sorel e i Raskolnikov che si atteggiano a Napoleoni, e i loro eredi novecenteschi di Sartre e di Kundera che mitizzano le nuove figure rivoluzionarie.

«Nella mentalità “storicista”» scrive Chiaromonte a Caffi «la Storia diventa quel che è (…) la Prosa per il Borghese Gentiluomo», o «quel che l’America è per i selvaggi di Pascarella», e per i beoni romani che ne raccontano le avventure all’osteria. Nella vita collettiva moderna, e da ultimo nella fiammata movimentista dei giovani sessantottini travestiti da guerriglieri, a causa della confusione tra i ragionamenti e i fatti «il pensiero diventa una forma immaginaria d’azione, e l’azione una forma immaginaria di pensiero». Con l’effetto di una pessima recita, al tempo stesso potenzialmente sanguinosa e kitsch. Una recita ingigantita, nel pieno del Novecento, da quei media di massa che danno un senso ancora più semplificato e mistificatorio all’aggrovigliata frammentarietà degli eventi, e a poco a poco addirittura li producono e li sostituiscono.

  1. Come la Arendt, ma senza la sua fiducia “agostiniana”, Chiaromonte ritiene che ogni azione inneschi processi irreversibili quanto imprevedibili, sia «un atto libero e nuovo, un’aggiunta al mondo e una modifica dello stato di fatto». Non sopporta quindi di essere considerata come l’esecuzione di un modello teorico che separi disinvoltamente mezzi e fini. In politica, ciò squalifica ogni machiavellismo, sia quello di piccolo cabotaggio, sia quello che pretende di realizzare le utopie: perché entrambi la riducono a tecnica, ad applicazione di un meccanismo, cioè pretendono di «possedere il segreto del reale», quasi che la loro “realtà” non sia la riduzione indebita del «segreto» a un modello quantitativo semplicistico e fazioso, sorretto quando può e come può dall’argomento della forza.

La Arendt, però, fa risalire l’errore addirittura a Platone, osservando che già nei suoi testi l’«agire» tende a confondersi col «fabbricare». Chiaromonte, invece, non muove accuse al suo mito filosofico. Secondo lui, Platone non fa altro che proporre le sue utopie come «statue di parole». Scrivendo a Muska, ripete che l’autore della Repubblica non è un idealista nel senso moderno, ossia un uomo che s’illuda di realizzare le proprie idee. E forse, al contrario di quel che dicono le storie della filosofia, non è nemmeno un idealista in senso assoluto. Forse, come suggeriva Caffi, Platone è addirittura uno «scettico»: un ragionatore che sottopone continuamente le ipotesi alla prova del dialogo, lasciandole sospese in una zona ambigua e non smettendo mai d’interrogarsi. Si tratterebbe, insomma, di un filosofo che ha già ben chiara la differenza indicata dalla Arendt in La vita della mente: quella che corre tra la «conoscenza», sempre strumentale, e il «pensiero», incapace di raggiungere obiettivi stabili, e mai applicabile alla realtà senza conseguenze violente o nichilistiche. E’ attribuendo al suo Platone questa gratuita e feconda mobilità teorica che Chiaromonte può opporlo ai moderni, e trarre dalla sua lettura la liberatoria «allegria» di cui dice a Muska. La proverbiale spietatezza delle utopie platoniche, spiega alla corrispondente americana, non ha niente a che vedere coi fanatismi del Novecento. Dipende semplicemente dal fatto che quando si costruisce un’architettura ideale, le si può dare un senso non effimero soltanto estremizzandone con coerenza i presupposti. «Riflettere significa proprio spingersi al limite dei significati possibili», afferma altrove; ed è infatti questa consequenzialità netta, estrema e magari unilaterale, che Chiaromonte insegue negli scritti suoi e dei suoi autori. E’ questa necessità di andare fino in fondo che lo appassiona nella tragedia greca e nel Tolstoj critico dell’arte, davanti a cui continuano a scandalizzarsi i tanti «spiriti mediocri» a tal punto immersi nei sofismi moderni da essere ormai incapaci di tornare alle questioni prime dalle quali quei sofismi sono derivati.

Confrontarsi con la coerenza, con la purezza economica e con la verticalità proprie del vero pensiero, non significa affatto perdersi nell’irreale: perché in questi caratteri sta anzi la peculiare, specifica realtà delle idee e delle rappresentazioni scaturite dalla mente umana, una realtà che solo il fanatismo e il filisteismo si ostinano a negare, riducendo artificiosamente l’esperienza a ciò che si vede, si fa e si tocca.

Questo bisogno di ricordare ai suoi contemporanei l’esistenza di una realtà non pratica riconduce spesso Chiaromonte a un episodio della storia filosofica ricco d’implicazioni metaforiche: la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Anche nelle lettere a Muska, come nei taccuini e nei saggi, lo scrittore la cita affascinato. E ciò che lo affascina è il fatto che l’Essere immutabile e perfetto, concepito da quell’essere imperfetto e transeunte che è l’uomo, ha davvero una esistenza necessaria, ma come «esigenza del pensiero», di quel pensiero che è appunto una parte ineliminabile della nostra vita. «Il fatto di concepire “un essere del quale è inconcepibile che ne esista uno più grande” – l’Essere Supremo» argomenta Chiaromonte «ne implica l’esistenza non come di un “oggetto” – ma di una necessità tale del pensiero che, senza di essa, il pensiero non può pensare che il contingente – l’occasionale – questa o quella cosa, come capita, ma non mai esser certo di essere in rapporto con la realtà delle cose. Soltanto che io direi che ciò non “dimostra” il Dio dei teologi, bensì il “divino” in sé – l’inevitabile necessità del “vero” – al di là di ogni fatto casuale e, soprattutto, di ogni cosiddetta “verità di fatto”».

Non a caso, negli stessi anni, la Arendt che nella Vita della mente separa conoscenza e pensiero, verità di fatto e ricerca di «significato», fa proprio lo stesso esempio, e indica nella dimostrazione di Sant’Anselmo una di quelle ricerche mai concluse in cui l’uomo pensa attraverso sistemi di idee eterne e inverificabili (nei termini della mistica Weil, invece, l’inverificabilità riguarda il piano dell’amore soprannaturale necessario a contemplare i dogmi di fede).

Chiaromonte, come Arendt e Weil, mira insomma a restituire alla riflessione non immediatamente traducibile in prassi quel suo insostituibile posto nel mondo reale che i moderni a torto le negano. Anche perché la sua astrattezza, la sua “inconcludenza” non coincidono affatto con una sua presunta inutilità in senso assoluto. Sebbene esista un confine sacro che separa eventi e idee, non si può infatti dimenticare la funzione essenziale che le idee hanno nel metterci in rapporto «con la realtà delle cose». Nei taccuini, Chiaromonte cita una dichiarazione di Tolstoj secondo cui la realtà più vera è addirittura quella che non esiste, e che tuttavia proprio per questo conosciamo con certezza: «la linea dritta, la verità esatta e la virtù perfetta». Soltanto «grazie all’ideale», dice Tolstoj, «sappiamo qualcosa» del mondo, cioè diamo forma a ciò che altrimenti è insensato. Così, ricorda Chiaromonte, solo nella «irrealtà» dell’arte, nella contemplazione teorica delle sue figure ci è dato conoscere davvero le passioni, le figure, le vicende umane che nella quotidianità rimangono un brulichio d’impressioni opache e ottuse.

  1. Ma questi discorsi acquistano il loro significato pieno solo se legati a un altro tipico concetto chiaromontiano, il concetto di «comunità»: unico spazio, secondo lo scrittore, in cui potrebbe ricostituirsi un certo equilibrio tra azioni sensate e pensieri non sofistici. Questa «comunità» è l’opposto di quell’anonima società globale dove gli uomini, soli in mezzo alla massa, fronteggiano alienati e impotenti dei fenomeni che minacciosamente li sovrastano. Per Chiaromonte la cosiddetta comunità mondiale è un’astrazione, perché «la comunità reale non può mai essere universale». E pur non rinunciando a ragionare, com’è ovvio, sui grandi problemi del suo tempo – le architetture teoriche, dopotutto, servono anche a questo – arriva a scrivere a Muska che anche «la “sorte dell’umanità” mi sembra un concetto astratto». Non dimentica che tutto è in qualche modo collegato a tutto: ma sa che è velleitario pensare di muoversi su un palcoscenico planetario come se fosse il proprio giardino. La comunità ha senso solo se mantiene una misura umana. Ed è, naturalmente, la misura mitica della polis: quella che la Arendt tenta di ritrovare in certe «repubbliche elementari» moderne, e che il più fiducioso Illich prova a realizzare nelle sue antiburocratiche istituzioni «conviviali». Ma si tratta di forme fragilissime. Scomparsa la miracolosa invenzione cittadina dei greci, semplifica Nicola nel suo dialogo con Muska, sembra di assistere a una enorme interminabile diaspora di individui erranti. Qua e là, alcuni di questi individui hanno provato a ricreare delle labili forme di “città”: prima con il monachesimo (altrove Chiaromonte cita entusiasta i versi di Dante sui seguaci di San Benedetto resistenti alla «brutalità del secolo»: «Qui son li frati miei che dentro ai chiostri/fermar li piedi e tennero il cor saldo»), e in seguito con le alleanze tra i dotti. Nelle sradicate società moderne, è comunque difficile che la comunità possa darsi come realtà visibile: quando c’è, sarà piuttosto formata da pochi individui sparsi per il mondo che nutrono idee abbastanza simili sulla vita umana.

E’ questa l’esile «comunità» che Nicola costruisce coi corrispondenti come Muska, e che ogni tanto riacquista una provvisoria concretezza fisica grazie agli incontri di qualche gruppo di studio. E’ interessante, a questo proposito, il rapporto che legò Chiaromonte ai suoi amici libertari newyorchesi. Durante l’esilio statunitense, di comunità concrete l’intellettuale italiano parlò molto, stimolato anche dal suo empatico confronto con Camus, che durante una visita a New York aveva auspicato la nascita di piccole «società nella società». E non a caso la McCarthy – che considerava la conoscenza di Chiaromonte un evento decisivo della propria vita – ne fece l’ispiratore e «Fondatore» della cittadina rurale di Utopia, rappresentata nel suo romanzo L’oasi. Ma l’autrice sapeva bene quanto il suo amico diffidasse delle immediate realizzazioni delle utopie, perfino di quelle così circoscritte: e infatti lungo tutto il racconto, che lo evoca in un leggendario Monteverdi il cui limpido metafisico pensiero si riassume tutto nella «idea di limite», Chiaromonte resta lontano e invisibile, impegnato a lottare in un’Europa pericolante; mentre i compagni, ritiratisi nella loro utopica comunità di campagna, finiscono per smarrirsi in battibecchi goffi e sterili, descritti con una verve critica e satirica che utilizza molti argomenti chiaromontiani. Le idee dell’italiano, che aveva corretto le superstizioni attivistiche e ancora un po’ marxistiche degli amici americani col suo rigore filosofico e col suo esempio morale, servono insomma alla McCarthy non soltanto per evocare un sogno, ma anche e soprattutto per indicare l’improbabilità della sua realizzazione.

A Muska, Nicola dice che è stato Caffi, suo «solo vero amico e maestro», a insegnargli il valore delle comunità ristrette. Però il vagabondo Caffi, se da un lato appare più solitario e idiosincratico, dall’altro resta assai più affamato di socievolezza del suo allievo. In questo ultimo rappresentante del socialismo libertario fiorito prima del ’14, il mito comunitario è legato a uno spirito caotico ancora ottocentescamente, fiduciosamente agitatorio e malgrado tutto “pansociale”, che non si ritrova più nei discorsi chiaromontiani sulla possibile «secessione» e «separazione» di piccoli gruppi dal complesso della società.

In ogni caso, il modello resta: solo, ora il suo valore politico è tutto indiretto, e la comunità immaginata sembra raccogliersi sostanzialmente intorno alle idee e alla cultura, a una “scettica” discussione socratica da cui emergono però seri giudizi morali ed estetici. Questo modello non nasce da uno sprezzo elitario, ma dalla consapevolezza che in certe situazioni, come nelle società di massa occidentali del tardo Novecento, ogni tentativo d’impegnare le proprie convinzioni in qualche azione ad ampio raggio mette inevitabilmente gli uomini in una posizione irreale e falsa. Ma a dire il vero, anche qui il comunitario Chiaromonte è più netto e più radicale. Senza alcuna soddisfazione pseudoaristocratica, ma anzi col dolore di chi è costretto a prendere atto di una inspiegabile ingiustizia, si ritrova a constatare che il «numero» svaluta e disumanizza fisiologicamente qualunque esperienza. Così è per la scuola, così è in generale per le organizzazioni sociali; e così è per quella comunicazione di massa in cui ormai consistono e si annullano sia l’agire cosiddetto politico sia le relazioni sociali quotidiane. Questa comunicazione, proprio perché si vuole universale, si riduce a un codice di segnali poverissimo, che tende a svuotare ogni vero dialogo. «Sono arrivato alla convinzione» scrive Chiaromonte a Muska «che la parola ha senso solo per quelli per i quali è stata pronunciata – ed è stata pronunciata nella convinzione che potessero capirla. Ogni parola. Ossia che non c’è falsità più grande di quella di un supposto linguaggio “per tutti”: cinema, televisione o altro congegno che sia. Un linguaggio “per tutti” dev’essere necessariamente una convenzione, un artificio, una falsità – giacché, essendo rivolto a tutti per essere (soi-disant) compreso da tutti, sarà anche necessariamente rivolto a nessuno in particolare: a nessun “individuo”, voglio dire». Solo in una comunità ristretta i gesti hanno un senso, e solo lì esiste una «parola significante». «Stia fra me e te la verità, il più vero dei beni», dicono i versi di Mimnermo tradotti da Nicola per Muska, da cui è stato tratto il titolo del loro carteggio. La verità è relazionale, o non è. Ma la relazione deve riguardare individui legati da un retroterra comune, persone che non siano nella condizione di anonimi uomini-massa: «piaccio a quelli cui devo piacere», dice l’Antigone cara a Chiaromonte. E tanto basta.

Queste sono le condizioni necessarie per pronunciare quel genere di parola sensata che «dà luogo a “discorso”»; e «solo dal “discorso” (e dal “dialogo”) nasce l’ordine, e con l’ordine la possibilità d’armonia». Dal che s’intende che la comunità non è solo il presupposto del vero dialogo e dell’azione significativa, ma anche, di conseguenza, la cornice di ogni vera contemplazione estetica. Quando, con termini simili a quelli che identificano la sfera pubblica arendtiana, descrive a Muska lo «spazio libero creato in comune perché serva a tutti – e tutti possano manifestarvisi per quello che sono», Chiaromonte ha in mente sia il modello della polis che le armonie severe delle sue architetture e del suo teatro. Emblematico, da questo punto di vista, è il passo in cui individua una delle caratteristiche più notevoli di Venezia, e di certe città toscane, nel fatto che vi «si vedono le persone. Il campo visuale è ristretto – i “fondali” sono sempre oltremodo ravvicinati, e si sta sempre “de plain pied” (…) e ogni persona o gruppo che avanza è come se entrasse in scena»; il contrario di quel che avviene nelle metropoli, specie nelle metropoli americane, dove «il volto umano è parte di un magma di volti, e non si vede nessuno perché non si può guardare».

Questo campo visuale «ristretto» offre un’immagine plastica dello spazio comunitario chiaromontiano. Che già così, lo si vede bene, è uno spazio intrinsecamente teatrale. E il teatro, per Chiaromonte, non è infatti nient’altro che la mise en abîme formale della comunità, il «tribunale» che ha il compito di schematizzare e giudicare il suo legame coi singoli e con il cosmo, rappresentando i modi in cui l’uomo si rapporta a «il mondo, gli altri, la verità».

Nel pensiero di Chiaromonte, discorso ordinato, comunità e «situazione drammatica» sono quindi termini strettamente connessi. Per questo, quando recensisce una pièce, può passare dal giudizio estetico a una riflessione sul contesto sociale senza soluzione di continuità, e senza mai trattare lo spettacolo come pretesto. Ed è per la stessa ragione che, malgrado i suoi molti dubbi sul confuso miscuglio di cerebralità e brutalità realistica delle nuove tendenze sceniche, nelle lettere a Muska parla con simpatia di Eugenio Barba, dopo averlo sentito descrivere il suo gruppo come una «piccola società» monacale in cui ognuno occupa il proprio posto in piena libertà e responsabilità.

Chiaromonte ha maturato le sue opinioni teatrali sotto l’influenza di Pirandello, e dell’interpretazione che ne ha dato Adriano Tilgher. A differenza di Gramsci e Silvio D’Amico, Tilgher insisteva sul contenuto filosofico dei drammi pirandelliani, proponendo così una concezione dell’arte come discorso intelligibile che era quasi estranea alla cultura italiana, e soprattutto ai contemporanei letterati variamente crociani o dannunziani. Da questa concezione nasce il pensiero estetico di Chiaromonte, e in particolare la sua idea di teatro come «azione ragionante». E’ un’idea che riporta la letteratura drammatica alla sua origine e al suo valore comunitario, identificando nella scena l’unico luogo in cui gli uomini siano in grado di realizzare il sogno di Malraux: quello di una coincidenza limpida e totale tra agire e ragionare. Nel gioco estetico, dove mezzi e fini s’identificano strutturalmente, le trame ambigue di fatti e pensieri che definiscono i rapporti umani, e le umane credenze sul mondo, si concentrano e convergono in un contrasto di trasparenza geometrica. Qui la trasparenza è resa possibile, tra l’altro, da quell’annullamento del tempo che anche per la Weil caratterizza il teatro più grande. Nel dramma perfetto, quando si alza il sipario, le avventure, le storie, i «casi» che hanno formato la biografia dei personaggi sono già bruciati: resta solo una situazione da svolgere con implacabile necessità logica, e un dialogo attraverso cui si mostra come l’eroe che agisce sia condotto dal destino a subire gli effetti di una forza collettiva e naturale senza scampo. Perciò il teatro puro schiva il realismo storico e quello psicologico, inevitabilmente legati al tempo. La sua problematicità è tutta razionale, astratta: e l’abilità del drammaturgo sta nell’isolare dal corso della vita sociale il tema che meglio ne rappresenta le contraddizioni insolubili.

Nell’apparenza scenica, «fingere» significa eliminare il «casuale» in nome dell’autentico, la cronachistica “realtà” in nome dell’essenziale “verità”. In questo senso, per citare ancora un passo dove si stringono in un solo nodo vita e “teatro”, è molto interessante la lettera a Muska in cui Chiaromonte se la prende con Ernesto De Martino e con la sua idea che la supposta interiorizzazione cristiana del dolore costituisca un “progresso” rispetto agli antichi lamenti funebri. Gli sembra infatti che l’espressione aperta e rituale delle lamentatrici greche o lucane sia “teatrale” in senso alto. E’ cioè una forma che riesce a portare alla luce e a comunicare a tutti la sofferenza proprio perché la stacca dal «linguaggio servile del quotidiano», perché non la affida al mero istinto ma a un vero «gesto», appropriato in quanto regolato comunitariamente, tramandato, «ieratico». Non ha nessun senso, secondo Chiaromonte, parlare di banale «finzione» o di banale «sincerità»: la verità emerge qui grazie all’apparenza. E da una situazione simile scaturisce il dramma in senso stretto.

  1. Pur attribuendo una evidente preminenza al teatro, Chiaromonte chiede qualcosa di simile anche alle altre forme d’arte. In tutte, cerca la stessa semplicità chiara e intelligibile a cui invita anche la Muska poetessa: «quella dei templi greci, di Santa Sofia, dei mosaici bizantini, di Masaccio». Ama l’arte che dà forma alle essenze ideali, non a un’espressione dell’io. Il modello di questa estetica è ancora greco, e a Muska Nicola ne confessa l’origine. Se torna così spesso sulle figure classiche, le dice, dipende forse dalla forte impressione provata da ragazzo davanti a una colonna dorica vista in un libro di Reinach, e rimasta per lui «l’immagine della pura e severa bellezza»: la bellezza che sprona a un’austera limpidezza morale, che ispira una pace armoniosa, e insieme addita un persistente enigma. Un enigma non molto diverso, forse, da quello che lo affascina nelle parole e nei versi della sua corrispondente, assimilati a una «statua arcaica» e a «un’immagine di mosaico, tutta splendida e impenetrabile», cioè a forme che indicano ancora il «divino».

Ma se tutto questo è vero, ci si potrebbe chiedere come mai Chiaromonte abbia speso tante pagine sul romanzo, l’arte per eccellenza moderna e realistica. Certo, le sue analisi gli servono a inquadrare e a criticare le credenze della modernità; e tuttavia, come spiegare la sua indubitabile ammirazione per le creazioni narrative più emblematiche di quell’Otto-Novecento da lui così bersagliato e detestato? In realtà, basta leggere attentamente per capire che anche qui il suo discorso teoretico-estetico mantiene una mirabile e per nulla volontaristica coerenza. Alla forma-non forma del romanzo, l’autore di Credere e non credere e della Situazione drammatica riserva un atteggiamento costantemente e motivatamente ambiguo, una specie di ammirata perplessità che non è affatto un segno d’incertezza critica, bensì il riflesso esatto delle contraddizioni intrinseche all’oggetto esaminato. Infatti, da un lato il romanzo si sviluppa col trionfo della Weltanschauung storicista; ma dall’altro lato, i suoi esemplari più autentici non fanno che contrapporsi ai referti ufficiali della Storia, tentando di raccontare una contro-storia più vera. Questo però, s’intende, non è sufficiente a sottrarli all’ideologia dominante. Perché anche le contro-storie si basano sulla convinzione che esista un’omologia tra i destini privati e i fenomeni sociali; e poco importa, poi, se da una tale convinzione si ricavano rappresentazioni ottimistiche o pessimistiche. A volte, tuttavia, capita che l’antagonismo sia portato così a fondo da mettere in crisi perfino la concezione organicistica su cui si regge il genere. Allora il romanzo tende a esorbitare dai suoi confini. Si dirà che questi confini sono molto malleabili: che si tratta della forma letteraria per eccellenza indefinita, e anzi destinata, se vuol restare genuina, a reinventarsi ogni volta da capo. Ma Chiaromonte ribatte che c’è un tipo di discorso davanti al quale il romanzo deve per forza arretrare: ed è la discussione aperta – non mediata dai personaggi, non ridotta a un puro ingrediente narrativo – delle idee e delle visioni del mondo che gli consentono e gli impongono il suo realismo, la sua fiducia intuitiva nell’intelligibilità psicologica e sociologica delle vicende umane. Il romanziere, finché resta del tutto romanziere, non può ragionare, affrontare un problema nei suoi elementi primi e nelle sue implicazioni ultime, senza depotenziarlo e trasformarlo in uno dei tanti contenuti che sostanziano il flusso dell’intreccio: questa nudità è consentita solo al teatro.

Il genere principe della modernità, figlio delle peripezie cristiane, può insomma raggiungere altissime vette d’arte, ma non può interrogarsi senza schermi sulla propria ideologia umanistica senza diventare qualcos’altro. In questa incapacità di darsi una rigorosa forma logica somiglia allo Stato moderno, che è quasi il suo corrispettivo politico. In un saggio giovanile, in cui tra l’altro anticipa Orwell e Arendt descrivendo gli effetti dei regimi totalitari sul linguaggio e la loro impermeabilità alle verità di fatto, Chiaromonte parla dello Stato appunto come di una istituzione compromissoria, di una forma informe destinata a ricevere dall’esterno i suoi contorni. Il fascismo è il fenomeno che rompe questa indefinitezza, traendo tutte le conseguenze implicite nell’idea moderna del potere: e così, in qualche modo, porta a compimento il destino della macchina statale mentre la riduce all’assurdo. Stato e romanzo sono forme “medie”, destinate a sopravvivere solo finché una crisi traumatica non rimette gli uomini faccia a faccia coi problemi elementari della vita comune, e insomma finché non torna a imporsi l’urgenza di pensare a questa vita con una coerenza più radicale, preclusa per principio ai loro compromessi tra singoli e collettività. Davanti alla crisi novecentesca, l’equilibrio fittizio, il mito di un’armonia prestabilita tra “interno” ed “esterno” su cui sorgono le narrazioni politiche e letterarie della modernità, si rivela ormai un meccanismo inerte, una pelle secca da strappare via per far emergere la realtà che preme sotto. E questa realtà può indurre gli uomini a inventare con coraggio nuove coerenti istituzioni, o ripresentarsi nella totale informità dei nichilismi distruttori che sono dilagati dopo il 1914. Velleitari, comunque, diventano tutti i tentativi moderati, ossia tutti i tentativi di restaurare forme ormai vuote.

Sul piano delle istituzioni politiche, furono queste idee a provocare l’allontanamento di Chiaromonte e degli altri «novatori» da Giustizia e Libertà. L’ideologia “media” e ibrida dei Rosselli, infatti, non approfondiva con coerenza né il contenuto del socialismo né quello del liberalismo, finendo per manovrare dei vaghi pseudoconcetti e per inquadrarli nella vecchia cornice del parlamentarismo prebellico e dello Stato centralizzato. I Rosselli rifiutavano di prendere atto della tara fisiologica di questa cornice – tara rivelata una volta per tutte dal fascismo – e quindi di ripensare radicalmente il teatro della democrazia, che per Chiaromonte, e in parte per i suoi compagni caffiani, poteva acquistare un senso e inverarsi sul serio soltanto in comunità di base autonome. Come in letteratura i narratori del Novecento che scrivono romanzi epigonali, improbabilmente ottocenteschi, così in politica i Rosselli continuano a credere nell’astrazione dell’Individuo Liberale, quell’Individuo che sottovaluta il potere del fato, che si ritiene fabbro della propria fortuna, e che s’inserisce “naturalmente” nel quadro di istituzioni borghesi refrattarie a porsi domande sui loro fondamenti ultimi, sulle conseguenze estreme quanto inevitabili della loro logica interna. Il “contratto” su cui i liberali fondano la società è il romanzo politico che serve ai moderni per esorcizzare ciò che di necessariamente oscuro resta sempre alle origini dei legami sociali e naturali. Ma quando una tale forma si evolve secondo i suoi principi, il volontarismo che la sostiene si ribalta a poco a poco nel fatalismo storicista, in una sclerotizzazione burocratica e in un immobilismo a loro volta liquidati dalla soluzione finale dei totalitarismi. E’ la stessa parabola che tocca al romanzo in senso stretto, specchio poetico di questa Storia.

La perfetta corrispondenza che si riscontra nel pensiero di Chiaromonte tra i due lati della questione ne dimostra una volta di più la compattezza. E’ una compattezza mai esibita, impermeabile agli orgogli autopubblicitari della filosofia sistematica e professorale, ma perciò anche molto meno superficiale e più credibile. Tra il Chiaromonte libertario, che difende un’idea platonica di libertà ma rifiuta di fissarla nelle definizioni del liberalismo classico, e il Chiaromonte teorico dell’arte che al tempo delle narrazioni moderne oppone l’atemporalità del teatro antico, c’è fin dagli esordi un rapporto stretto e spontaneo.

Ma a differenza dello Stato, come si diceva, il vero romanzo oltre che specchio delle ideologie moderne è anche una loro critica impietosa. E a Chiaromonte interessano gli esperimenti nei quali questa contraddizione si estremizza fino a incrinare l’impianto formale. Lo interessano cioè i romanzieri che tengono fermo lo sguardo sulla vanità di quelle ideologie con un coraggio e una lucidità tali da spingerli a tagliare il ramo su cui sono seduti. Il caso più esemplare è ovviamente quello di Tolstoj. Ma anche l’altro protagonista di Credere e non credere, l’autore della Certosa di Parma, mostra sullo stesso piano una spregiudicatezza sorprendente, tanto più se si considera che scrive ancora nell’età eroica del romanzo. Già in Stendhal, spiega Chiaromonte, questa forma è messa sottilmente ma strutturalmente in discussione: tende a divenire una “favola”, un apologo che illustra l’estraneità degli “eventi” e dei “sogni”, accomunati solo da un’uguale inconsistenza. «Tutto Stendhal sta, si può dire, nella capacità di tenersi allegramente alla punta estrema del paradosso per cui né il cosiddetto mondo esterno – la società con le sue trame, gli altri con i moti imprevedibili del loro animo – è reale, né i sentimenti e le immaginazioni dell’individuo: reale è sempre e soltanto lo scontro fra i due ordini di fatti, la “commedia di equivoci” che ne scaturisce», scrive Chiaromonte. Questo scontro è l’argomento fondamentale di Stendhal: e se riesce a trattarlo in una forma ancora apparentemente romanzesca, è perché quel suo mondo narrativo, in cui il vissuto e la Storia rischiano di dissolversi a ogni pagina, è tenuto in piedi da un ultimo fragile mito individualista, il mito della vulnerabile ma indomabile energia giovanile, della fresca sensibilità adolescente che s’impone poeticamente su tutto e malgrado tutto.

Anche Tolstoj ha un mito: la naturalezza della vita “semplice”, la vita fatta di passioni pure, elementari, e dunque rousseauianamente morali. Ma questo mito è ancora più fragile. Nei capolavori del romanziere russo, infatti, la naturalezza si scopre illusoria non appena un’emergenza, un improvviso disordine esistenziale e soprattutto il disordine della guerra mostrano la «grave dipendenza» che lega tra loro gli uomini, denudando quelle relazioni dal cui groviglio si sprigionano le forze incontrollabili di un potere malvagio e impuro. Nella Storia, nelle gravi faccende pubbliche non c’è alcuna verità; ma infine anche la vita semplice si rivela un’illusione in sé. Anche la quotidianità, come prova Anna Karenina, viene inevitabilmente scossa dalla furia arcana del destino e della nemesi. Anzi, per apparente paradosso, quel sentimento del divino che nelle vicende umane sembra il solo spiraglio offerto alla ricerca del vero, getta sui personaggi la sua luce più pura proprio davanti alla violenza bellica. La guerra, certo, tende a trasformarli in oggetti con brutalità inaudita: ma proprio per questo, assai più dell’esistenza normale, li obbliga anche a intuire ciò che in loro non può mai essere ridotto a materia, sottomesso o distrutto. Questa, in Guerra e pace, è l’esperienza totale di Andrej e di Pierre. Ma si tratta pur sempre di un’epifania istantanea, di un’intuizione e di un sentimento che balenano un attimo squarciando le opacità della coscienza per poi subito svanire, o comunque per perdersi in una ineffabilità inutile e incondivisibile. Non si possono esprimere, trasformare in durata e discorso, se non al prezzo di tradirne la purezza: ed è ciò che avviene quando Tolstoj prova a tradurli in una religiosità universale, dando nomi sempre più improbabili o quasi filistei a una fame di verità che di filisteo non ha nulla. Ma questo difetto, che riguarda il Tolstoj pedagogo, non inficia la superiore onestà del romanziere, la cui obiettività di sguardo è tale da escludere o comunque problematizzare al massimo ogni mitizzazione della vita “naturale”. E a metterlo in guardia è prima di tutto la scoperta decisiva compiuta al tempo di Guerra e pace: la coscienza, cioè, del fatto che è impossibile naturalizzare davvero la vita degli uomini, interpretarla e modificarla come s’interpreta e modifica il mondo della natura.

  1. Niente come l’atteggiamento di Chiaromonte verso Tolstoj spiega il suo modo di guardare alla narrativa moderna: il romanziere che più ama è quello che col suo estremismo etico e teoretico mette sotto scacco il romanzo, è lo scrittore che porta questa forma al suo massimo splendore ottocentesco, ma al tempo stesso si mostra già novecentescamente insofferente dei suoi limiti. Tolstoj muore nel 1910. Nell’ottica chiaromontiana, imbastire plot romanzeschi senza peccare di volontarismo e malafede diverrà di lì a poco quasi impossibile, come diverrà quasi impossibile tentar di restaurare senza volontarismo e malafede lo Stato liberale e le credenze su cui poggiava. La “realtà” compatta da cui emanavano le narrazioni moderne si rivela nel Novecento un mito, una fantasia ormai logora e staccata dai fatti. Perciò le riproposizioni del realismo ottocentesco suonano false, e la trama del romanzo “medio” diventa un succedersi di meri casi insignificanti, del tutto surrogabile dal succedersi dei fotogrammi cinematografici. A questo punto, delle due l’una: o si dissolve il romanzo dall’interno, immergendosi nelle pieghe e nei tempi interiori della psicologia e fabbricandosi una «eternità» estetica come Proust; oppure si abbandona il campo, e si torna alle domande extraestetiche e primarie, interrogandosi sulle ragioni per cui le vecchie credenze sono morte. Così, almeno, vorrebbe il rigore chiaromontiano. Nei fatti, ovviamente, la situazione è molto più ambigua. E uno dei casi più interessanti di ambiguità glielo offre il suo amico Moravia: che, come Forster, trucca superstiziosamente da romanzi realistici parabole il cui pregio è invece la nuda e non più romanzesca esemplificazione di un mondo ormai carente di realtà.

In ogni caso, ciò che rimane di romanzesco e di naturalistico nell’arte sembra ormai inservibile e tendenzialmente menzognero. Del resto è proprio per mentire, per escludere artificiosamente una parte di esperienza vera, che gli artisti engagés e soprattutto i cosiddetti “realisti socialisti”, cioè le incarnazioni intellettuali dell’ortodossia politica, si rifanno a modelli ottocenteschi piegandoli alla propaganda. Il fatto, nota Chiaromonte, è particolarmente evidente nelle arti figurative: qui i rappresentanti del realismo socialista credono di potersi servire del naturalismo dell’Ottocento come i gesuiti si servivano del classicismo del Cinquecento e del Seicento. Ma poiché l’arte postromantica non è normativa, e il suo realismo esiste solo come continua e anarchica ridefinizione del reale, se s’irrigidisce la sua tradizione in norma si scade subito in un eclettico poncif.

Per fortuna, però, proprio dall’est schiacciato sotto i sistemi del socialismo reale e del realismo socialista sembra venire anche la reazione più promettente alla crisi estetica novecentesca, almeno a quella letteraria. A leggere certi autori dissidenti, sembra anzi che di là possa perfino rinascere una forma non volontaristica di romanzo, magari ancora pervasa dalle vaste aspirazioni d’integrità spirituale della tradizione russa e tolstojana. E’ per questo che nelle lettere a Muska Chiaromonte insiste speranzoso sul nome di Solženicyn. L’autore di Arcipelago Gulag gli sembra una miracolosa alternativa all’intellettualismo egomaniaco, una straordinaria incarnazione dell’umanità che ama il mondo ma ne rifiuta l’illusorio possesso, e che nelle condizioni più estreme sa ritrovare i modi giusti per comunicare le verità basilari e durevoli della vita. Per la stessa ragione, nelle lettere ragiona su Pasternak, cita Brodskij, e scrive di apprezzare il Kundera dello Scherzo. Pare quasi che l’emergenza, la sofferenza, l’oppressione da cui nascono i libri di alcuni di questi autori siano le uniche condizioni perché la letteratura torni credibile, e in particolare perché torni credibile la narrativa romanzesca prosciugata dall’Occidente del pieno e tardo ventesimo secolo.

Ma si tratta, appunto, di casi eccezionali. In assoluto, per Chiaromonte il romanzo non è più il centro della letteratura. I traumi bellici, e quelli economico-mediatici, impongono di progettare soprattutto opere in cui sia possibile interrogarsi esplicitamente, senza mediazioni, sui rapporti tra arte e società, e sulle ragioni per cui si è rimasti privi di vere credenze, cioè di credenze condivise. Perciò, caduti i miti fondanti del realismo, riacquista un senso nuovo il teatro, «luogo dove la realtà è messa pubblicamente in questione». Pur con molta cautela, Chiaromonte suggerisce allora che forse per la prima volta dopo duemila anni, anzi per la prima volta dopo la fine della civiltà greca classica, la «situazione drammatica» potrebbe risorgere nella sua purezza. Ma s’intende che il teatro degli orfani del cristianesimo, ai quali la realtà appare come una serie di evidenze nude, irrelate e dunque incredibili, non può che essere speculare al teatro greco: una «azione ragionante» tutta tesa a rendere intelligibile non la coesione, il «cosmo», ma il caos a cui il fato novecentesco ci condanna.

Tuttavia, anche quando accenna a una prospettiva, a una speranza di cambiamento, Chiaromonte si guarda bene dal trasformarla in un programma campato in aria, e quindi in un’ennesima forma di compensazione ideologica. Nell’idea ossimorica del «nichilismo positivo», il sostantivo importa quanto l’aggettivo, e riflette tutta la sua disapprovazione per i troppi censori della modernità che credono di poter sottovalutare la crisi di credenze e valori. La verità è che nessuno può superarla da solo e di colpo, nessuno può tirarsi su per i capelli alla Münchhausen: nemmeno gli artisti. Si dirà che questa posizione potrebbe in qualche modo giustificare l’afasia dell’arte otto-novecentesca. E’ vero. Ma la giustifica solo a patto che gli autori dei suoi abbozzi informi e assurdi accettino di considerare le loro opere per quello che effettivamente sono: sintomi dolorosi dell’impossibilità di un’arte autentica, e non frutti compiuti di una legittima, soddisfacente concezione estetica. Chiaromonte pretende che non si chiami l’informe nuova forma, e che si abbia il coraggio di scontare la crisi in tutto il suo peso senza rifugiarsi in un presunto privilegio di casta. Perché l’arte non può vivere sdegnosamente staccata dal mondo da cui affiora, e non può essere fondata sull’arbitrio soggettivo o sulla capziosità teorica. In una delle prime lettere a Muska riporta un passo dei suoi taccuini sulla bellezza, Leitmotiv del carteggio, che spiega bene il suo punto di vista antimoderno: «La differenza fra godimento estetico e senso della Bellezza», scrive, «si può paragonare a quella che esiste fra la verità secondo la logica formale (che è una verità negativa, nel senso che ci offre la regola del falso, ma non il modo di accedere al vero) e la verità vissuta e contemplata, che è accordo fra l’esperienza del reale e la necessità propria del pensiero».

La bellezza nasce da un mondo ideale costruito in comune: concentrandosi sulla sensibilità del soggetto, ciò che si ottiene è solo un’effimera impressione (piacevole o shockante) o un’effimera ideologia poetica. In un saggio famoso su una terzina di Dante, Chiaromonte osserva che noi siamo così abituati a delibare l’arte secondo i presupposti del soggettivismo estetico, che fatichiamo a onorare in pieno la complessa bellezza intelligibile di testi costruiti su altri fondamenti. Generalizzando quell’analisi, e opponendosi alle strumentalizzazioni ermeneutiche, afferma decisamente che se il senso di un’opera sta in ogni esecuzione o lettura, tuttavia «l’opera rimane al tempo stesso una realtà in sé, inesauribile. Così della “lettura” del mondo che noi vivendo facciamo: ne siamo interamente responsabili e autori. Ma “leggiamo” il mondo, non il nostro “ego”»

.11. E così, siamo tornati a quello che insieme con la Storia è l’altro bersaglio grosso di Chiaromonte: l’ego, e nello specifico l’ego delle sedicenti scienze psicologiche. Le quali scienze, poi, non sono altro che il côté “individualistico” delle ideologie storiciste. Per Chiaromonte, platonico e husserliano, l’idea di trattare la persona e le sue ragioni come un oggetto “obiettivo” delle scienze naturali, quasi che chi le giudica non si trovi profondamente implicato nel giudizio, è una bestemmia, un sintomo di tracotanza intollerabile estremizzato nella psicanalisi. Pretendere di avere per specialità «l’animo umano» significa coltivare di fatto una tendenza «totalitaria». La psicologia accettabile è per lui una faccenda d’intuizioni, di tatto e di verosimiglianza: è quella, senza pretese di verità obiettiva, proposta dai più acuti moralisti, filosofi e romanzieri. Ha senso se «negativa» e «ironica», cioè se serve a demistificare un’idea dogmatica della natura umana. Il resto è truffa; ed è, come la psicanalisi, la parodia delle narrazioni moderne. Questo giudizio ferocemente liquidatorio è determinato anche dal fatto che il sogno «totalitario» degli psicanalisti intende portare l’uomo a uno stato del tutto opposto all’equilibrio sognato da Chiaromonte. Anche su questo tema, le lettere a Muska offrono passi sintetici e definitivi, che si possono associare alle requisitorie della Weil contro i cedimenti agli impulsi e alle immaginazioni interiori. «Che cosa significa “manifestarsi”?», le scrive Nicola. «Non certo, assolutamente no, quello che intendono gli psicanalisti. Ma arrivare al punto in cui c’è equilibrio di verità fra il proprio “essere interiore” (il “meglio” di sé) e quello esteriore. Gli psicanalisti per “essere interiore” intendono l’opposto: il subbuglio mostruoso degli istinti, impulsi, voglie, appetiti – e questo, io direi, non è niente di “reale”: è quello che Blake intendeva per “pestilence”. In sostanza, è il cattivo sogno del quotidiano». E di questo sogno, dei fantasmi passeggeri e non chiarificabili degli «stati d’animo», il teatrale Chiaromonte è così insofferente da avvisare Muska che cercherà di non condividerli con lei: anche se poi, per fortuna, infrange la regola e ci restituisce vivacemente gli umori da cui nasce la sua nettezza teorica.

  1. Il rifiuto d’interpretare la realtà mettendo al centro i moti che si agitano nel singolo da una parte, e il puro seguito delle sue azioni “storiche” dall’altra, favorisce un curioso rapporto tra l’autore di queste lettere e la cultura antiumanistica che negli anni Sessanta conquista l’egemonia contro il vecchio umanesimo storicistico. Come e più che altrove, Chiaromonte dichiara qui la sua ammirazione per lo strutturalismo di Lévi-Strauss e di Foucault – con cui ha modo di dialogare in pubblico – oltre che per il loro antenato Saussure. Sempre in cerca di modelli astorici e puri da contemplare, è affascinato dalla loro lettura astratta del mondo e del linguaggio. Al tempo stesso, però, non può accettarne una caratteristica decisiva: la vocazione alla tecnocrazia, la tendenza a ritenere l’uomo superato da strutture concepite come meccanismi. Perché per Chiaromonte, al contrario, i modelli e gli ordini che sovrastano fatalmente le contingenze della vita umana non sono mai del tutto afferrabili. Tipico il caso del linguaggio, da lui così amorevolmente indagato, anche in queste lettere, attraverso le etimologie. Ogni idea sulla sua origine si dimostra a suo avviso insufficiente. La sua natura resta inspiegabile, la sua nascita un mistero; ed è da questo mistero che deriva il resto, l’ordine propriamente e solamente umano. Ciò equivale a dire che le “strutture” hanno a che fare col divino: mentre gli strutturalisti lasciano intendere che somigliano a schemi calcolabili e magari manipolabili. Riemerge qui di nuovo la diffidenza di Chiaromonte davanti a tutte le visioni che cercano la verità e il senso nelle tecniche, ricadendo così in una ingannevole semplificazione antidealista anche quando dal gioco puro delle idee erano partite.

Nel carteggio, una notevole ramificazione della polemica contro la “obiettività tecnica” riguarda la fotografia e il film. Per Chiaromonte il cinema, al contrario della vera arte drammatica, propone solo una successione di meri segni incapaci di trasformarsi in significati complessi: sta tutto nell’effetto immediato, e appena cerca di proporsi mete intellettuali, magari pretendendo che indugi e lentezze rendano un paesaggio o un volto oscuramente significativi, rischia di cadere nella comicità involontaria di certo Antonioni e certo Bergman. Scrive a Muska che la fotografia, l’immagine meccanica, riporta «a un falso primitivismo e pre-logismo». Nella ottusità fotografica, nel puro documento non può esserci verità. Ricopiando passi dei taccuini, arriva a proporre all’amica un esempio eloquente. Se avessimo una registrazione totale, una documentazione assoluta delle vite di Socrate e Cristo, le dice Nicola, ciò non ci aiuterebbe affatto a conoscerli davvero, come una fotografia del Cristo e della Vergine dentro una chiesa non favorirebbe per nulla l’adorazione. La verità, il senso della loro presenza sta solo nell’idea: sta, cioè, solo nel mito e nel discorso ordinato che l’esperienza del rapporto con queste figure e con le loro parole hanno prodotto.

  1. Come si vede, dal carteggio con la suora benedettina emergono davvero quasi tutti i motivi salienti dell’opera chiaromontiana. Ed emerge, con più aperta insofferenza, l’opposizione a un modo d’essere contemporaneo che sembra lasciare come sola via d’uscita una sorta di fatalistica saggezza. Ma in realtà Chiaromonte è troppo combattivo per diventare del tutto “laotsetiano”. Diciamo piuttosto che la sua è una forma molto personale di resistenza stoica. Con un’assertività drastica, antica, impaziente di ridurre l’importanza dei problemi sociali e individuali, ripete a Muska ciò che dice nei taccuini: che la vita è «intera» in ogni condizione, che la differenza tra gli stati e le fortune è disprezzabile. Quel che resta da fare, in ogni caso, è tenere fermo il vero e la propria identità; accettare il dolore, e fissarne senza paura l’aspetto indecifrabile. Bisogna, insomma, far la parte del Sisifo di Camus: avere il suo senso del limite e del fato, ma conservare anche il suo sempre rinascente pathos della libertà, una libertà da condividere con individui in carne e ossa, al di qua e al di là di ogni fanatica astrazione. Però bisogna fare tutto questo senza perdere di vista quella religiosità “greca”, che a Camus era velata dall’insistenza sull’assurdo e su un troppo generico umanismo.

A questo punto, tuttavia, è davvero difficile dire cosa davvero «rimane» dell’uomo, del suo senso. E non è un caso che quando cerca di farlo, il piano Chiaromonte si avvicini quasi alla mistica Weil o al non amato Kafka, e in genere a un linguaggio impensabile senza la modernissima tradizione kierkegaardiana. Se la vita umana somiglia a un frammento, a una serie di occasioni insensate e di situazioni incompiute, «conta (…) alla fine, questo fatto soltanto: ciò che si sentiva o si avvertiva di significato possibile della vita – ciò che dell’Essere del mondo arrivava fino a noi, insomma – e non era in ogni caso – né poteva essere – che l’ombra di un’ombra. Eppure questo resiste al Nulla. Non può essere distrutto perché non è mai appartenuto al mondo del cambiamento: è stato, se si vuole, un miraggio fermo e fisso, più forte in noi di ogni supposta “realtà”!».

Ma in Chiaromonte, lo stoicismo da cui nasce un pensiero così vertiginosamente antimondano non è mai scindibile dai destini generali. Come ribadisce ovunque, il singolo individuo può capire o vedere alcune cose che restano oscure ad altri, ma non può sfuggire alle credenze comuni attraverso cui una società concepisce il rapporto tra l’uomo e il cosmo: «del mondo nel suo insieme non si può credere che quel che ce ne appare attraverso i modi d’essere e di pensare dei nostri simili». Perciò Nicola scrive a Muska che «non si può essere superiori al destino che vi colpisce». Questo pensatore antimarxista, e così platonicamente convinto della realtà del puro mondo ideale, comprende benissimo la dialettica che lega ciascuno al suo tempo, e a quelle visioni che non coincidono né con idee astratte né con contingenti stati d’animo, ma rinascono ogni giorno negli scambi sociali. Così, sa che è impossibile separare dalla massa delle élites d’irriducibili individui integri: perché siamo tutti in parte individui integri, o almeno resistenti, e in parte uomini-massa arresi all’apatia e all’ignavia, abituati a vivere rimandando le scelte nette tra bene e male e agendo «senza persuasione e, nel contempo, senza violare chiaramente nessuna norma intima; ma anche senza osservarne chiaramente nessuna». Anche a Chiaromonte, nel suo lavoro di pubblicista controvoglia, capita perciò di sentirsi «metà compromesso e metà intransigenza», incapace di attingere quella «estrema semplicità» senza schermi che sola riporta alle circostanze elementari della vita e dunque alla verità. E’ questa consapevolezza che lo distingue da tanto aristocraticismo in finto oro del Novecento, cioè da chi crede o finge di credere a una restaurazione dei valori, e pensa di potere salvarli e salvarsi restando immune dall’involgarimento del mondo in cui vive. E’ una consapevolezza che si riflette anche nello stile. Come osserva Karpiński, Chiaromonte non vuole sedurre il lettore, strappare l’applauso da aforista brillante, ma mettersi a ragionare con lui, scrivere in modo che in primo piano appaia sempre il nocciolo essenziale del problema trattato; e se accosta bruscamente esperienze culturali lontane nel tempo, non lo fa per stupire postmodernisticamente il pubblico, ma perché una volta spogliate degli involucri rivelano nuclei di pensiero che si fecondano a vicenda e aiutano il ragionamento a procedere. Non è illegittimo ritenere che questi tratti della sua opera abbiano contribuito alla sua sfortuna presso gli editori (i curatori del carteggio con Muska ricordano il rifiuto di Adelphi): certo è quasi impossibile stilizzare Chiaromonte in uno scintillante e vendibile logo culturale. Così i suoi scritti, spesso usciti in prima battuta all’estero – sulle riviste polacche della dissidenza, negli ambienti anglosassoni – o in edizioni italiane ormai quasi introvabili, rimangono pressoché sconosciuti ai lettori del Duemila. Hanno fecondato le riflessioni delle sue esili e prestigiose comunità cosmopolite novecentesche; ma oggi che quelle comunità non ci sono più, rischiano di non poter nutrire con la loro energia intatta le nuove generazioni di cittadini dell’Italia, dell’Europa e del mondo. E’ anche questo un piccolo esempio dello sconfortante gioco di forze in cui si concretizza la poca sensatezza della Storia – storia della cultura compresa. Chiaromonte insegna a non farne un idolo, a preservare la propria vita mentale dai suoi ricatti e dalle sue immagini stereotipate, ma sa che non si sfugge al loro manifestarsi; non li si controlla: ma non si può fare a meno, tenendo fermo il vero, di scontrarcisi e di tornare di continuo a denunciarli. Spesso, nel carteggio con Muska, torna il riferimento a una grotta di Paros, emblema di uno spazio puro e alieno dal caos; e spazio puro, mentale, è il giardino immaginario che la suora disegna per l’amico. A un certo punto, la fame platonica di idee che Nicola mostra nelle sue lettere deve averla indotta a ricordargli l’importanza della vita “reale”, dei «piatti da lavare». Lui risponde rassicurandola sul fatto che «i piatti», volente o nolente, li lava ogni giorno: nei “fatti” ci si urta sempre e comunque. Eppure non si può non notare che anche accennando ai lavori pratici, Chiaromonte mette subito l’accento su un loro valore in qualche modo ascetico. Per quanto la vita umana sia incoerente e frammentaria, è probabile che questo intellettuale platonico riuscisse a render visibile anche nell’esistenza quotidiana una coerenza, una integrità dai contorni straordinariamente netti e plastici. E forse questo spiega perché alla McCarthy e a Malraux sia venuto in mente di trasformarlo rispettivamente nel Fondatore Monteverdi dell’Oasi e nel «piccolo Scali» che, con una discrezione e un disagio pari all’eroismo, partecipa alla guerra aerea spagnola della Speranza: cioè in quelle figure per eccellenza ideali, e quindi capaci di rivelarci chi siamo davvero, che sono i personaggi dei romanzi.

In  Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Quodlibet 2014

Da: www.claudiogiunta.it/2017/09/la-verita-del-dialogo-un-ritratto-di-nicola-chiaromonte/

 

 

 

Fra cinici e gesuiti

 

La straordinaria figura di Nicola Chiaromonte, discepolo di Andrea Caffi, amico di Moravia, Camus e Malraux, con cui combattè in Spagna, critico radicale di ogni ideologismo, di ogni totalitarismo, di ogni società che vive in malafede, pronta a credere a ogni menzogna. Fu nemico spietato del mito dello Stato, nato con la modernità, che accomunò Mussolini, Stalin e Hitler. L’esperienza feconda di Tempo Presente, condivisa con Ignazio Silone. Grande libertario, incompreso dalla sinistra, stalinista e non, continuò a credere nella necessità di gruppi e comunità che si opponessero alla deriva, oppressiva e permissiva insieme, della società occidentale. Intervista a Gino Bianco.

Gino Bianco, studioso del movimento operaio e socialista, giornalista e saggista, è stato amico e collaboratore di Nicola Chiaromonte.

\r Nicola Chiaromonte, che fino alla morte è stato un intellettuale molto discusso, oggi viene riscoperto come possibile ispiratore di una sinistra post-comunista…

\r Per me, Chiaromonte è stato un maestro non solo per il pensiero, ma anche per la vita. Come il suo amico e maestro Andrea Caffi, fu innanzitutto un uomo con la passione della politica e del pensiero ed è per questo che anche i suoi scritti, parte dei quali è stata ripubblicata da Il Mulino, non hanno un carattere sistematico, né possono averlo, perché sono il riflesso dell’itinerario travagliato di un pensatore originale ed anticonformista, di un militante politico, di un cittadino del mondo. Di lui, Gustaw Herling ha scritto: “Dai saggi giovanili sul fascismo fino alle riflessioni sui temi dell’arte c’è in tutta l’opera di Chiaromonte la critica alla nostra età che pratica il divorzio fra etica e politica. Scriveva in modo da trasmettere non solo un pensiero chiaro e libero, ma una continua tensione morale, in modo che nella parola viveva tutto intero e la esprimeva come una verità lungamente soppesata e sofferta. Provava ribrezzo davanti ai grandi sistemi e alle interpretazioni generali, sfiducia di fronte ai cavilli dialettici che storpiano la vita e alle ombre ideologiche che coprono la realtà, disprezzava lo psicologismo. Lo interessava invece l’uomo concreto di fronte agli avvenimenti concreti. Era, nel modo tolstoiano, capace di giudizio etico e allo stesso tempo consapevole di qualcosa d’imperscrutabile che l’oltrepassa. La tradizione greca era da lui intesa come una medicina contro il morbo della banalità plateale”. Per tutta la vita, infatti, Chiaromonte si è occupato di politica, di filosofia, di teatro -fu per molto tempo critico teatrale, prima al Mondo di Pannunzio e poi a L’Espresso- e di letteratura, cercando sempre di andare alla radice delle idee e facendo giustizia delle tante sciocchezze correnti in una cultura formalista e provinciale quale era quella italiana in cui visse. Sempre animato dalla passione per la meditazione sull’azione politica e, in senso lato, sul significato della storia, come emerge dai saggi su Tolstoj, Stendhal, Martin du Gard, Pasternak e, naturalmente, su Malraux e Camus, di cui fu grande amico.

\r Chiaromonte, così come l’ho conosciuto io, fu una voce solitaria, sdegnosa contro ogni opportunismo politico, un pensatore scomodo, vittima della sinistra ipocrita. Personalmente, come ha ricordato recentemente Arbasino, era austero, ma tutt’altro che arcigno. Era invece amabile e spiritoso, estremamente piacevole nella conversazione, senza un’ombra di boria e d’ipocrisia, privo di quella gravità falsa e tronfia che è propria di quei retori e pavoni che la demagogia e il conformismo promuovono spesso al rango di maestri.

\r Nemico dei mediocri soddisfatti, odiava la retorica in tutte le sue forme, e i suoi scritti testimoniano la sua scrupolosa personalità d’intellettuale, la sua cultura europea, il suo rigore, la sua intransigenza nell’impegno politico, la sua ripulsa per ciò che chiamava “il gesuitismo moderno” e “le menzogne utili”.

\r Ciò che lo interessava di più era la comunicazione, il confronto delle idee, verso cui aveva un grandissimo rispetto, anche quando non le condivideva. Auspicava il ritorno a una cultura consapevole del suo compito formativo, dove l’individuo si ritrovasse a tu per tu con se stesso, con la società e con il mondo, per trovare ciò che è essenziale e ciò che non lo è, ciò che importa e ciò che non vale. Non a caso scriveva: “Il solo linguaggio fra uomini è quello che si può intessere sulla trama di credenze autenticamente condivise, in quanto costituiscono il presupposto per il fondamento di ogni discorso e non uno schema prestabilito o un insieme di dogmi”, mentre il suo giudizio sul mondo in cui viviamo e sul ruolo che l’intellettuale è chiamato ad assolvervi lo espresse con molta efficacia in uno dei suoi ultimi scritti, Il tempo della malafede, in cui sosteneva: “La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità, è un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza in opposizione ad altre e soprattutto in mancanza d’altre genuine”, ed in cui i politici contemporanei “agiscono come se ci credessero, e invece…”

\r In virtù di questo suo atteggiamento rigoroso ebbe, fra l’altro, una vita avventurosa…

\r Era nato in Lucania nel 1905, ma visse la sua gioventù a Roma, dove si laureò in giurisprudenza, anche se questi furono studi che non ebbero alcun effetto formativo su di lui. Chi invece lo influenzò molto fu Adriano Tilgher, di cui Nicola si considerò in un certo senso un discepolo, che fu un grande pensatore, anche se per un breve periodo simpatizzò per il fascismo. Tilgher fu una sorta di “irrazionalista” italiano e, pur influenzato dal pensiero di Gentile, tentò di elaborare una filosofia indipendente sia da questi -fu, tra l’altro, autore di un famoso pamphlet contro Gentile, Lo spaccio del bestione trionfante-, sia dal marxismo come dall’idealismo crociano. Grande polemista, spirito eclettico, è a Tilgher che probabilmente si deve gran parte del profondo interesse che Nicola ebbe sempre per il teatro, così come l’amore per Pirandello e un certo esistenzialismo ante litteram, quando ancora non si conoscevano i nomi di Heidegger o di Sartre.

\r Da giovanissimo Nicola, come fece anche Salvemini, simpatizzò per un brevissimo periodo col “diciannovismo”, cioè con quel movimento proto-fascista che nei primi anni Venti, in odio alla tradizione pseudo-democratica dell’Italia dei Giolitti, dei Facta, degli Orlando, pensava fosse meglio tenersi per qualche tempo Mussolini piuttosto che tornare alla “palude parlamentare”, come si diceva allora. Naturalmente, Chiaromonte, come del resto Salvemini, cambiò subito idea e col delitto Matteotti si schierò decisamente contro il fascismo, tant’è che a vent’anni scrisse il primo articolo sul Mondo di Giovanni Amendola. Nel ’34, seppe di essere ricercato dalla polizia come terrorista -aveva pensato di attentare a Mussolini, anche se il progetto non andò in porto- e scappò a Parigi. Fu a Parigi che conobbe Caffi, che gli fu presentato da Moravia, di cui Chiaromonte era molto amico, e che per Nicola divenne il vero maestro nelle idee e nella vita.

\r Sempre in quel periodo parigino aderì a Giustizia e Libertà e collaborò ai Quaderni e al settimanale che Giustizia e Libertà pubblicava, ma dopo qualche tempo fu, con Mario Levi, Caffi e Renzo Giua, animatore del gruppo dei “novatori” che si separò da Giustizia e Libertà perché in contrasto col modo con cui Carlo Rosselli conduceva il movimento. Il motivo principale della separazione fu la loro convinzione che Rosselli si muovesse in una prospettiva di restaurazione della vecchia democrazia parlamentare, che aborrivano, mentre erano convinti che, una volta sconfitto il fascismo, fossero da ricercare soluzioni diverse dal ripristino puro e semplice della vecchia democrazia “borghese”. Dopo questa separazione, aderì per un certo periodo al Partito Socialista in esilio, trovandosi nelle posizioni del gruppo “frondista” di Angelo Tasca. Andò poi volontario nella guerra civile spagnola, dove fu fra i quattro o cinque aviatori della piccola squadriglia comandata da André Malraux. La guerra di Spagna fu per lui una grande delusione e vi rimase meno di un anno perché vide l’intollerabile comportamento del Partito Comunista. Tornato in Francia, quando questa fu occupata dai tedeschi fuggì in Algeria, dove conobbe Camus, e da lì andò negli Stati Uniti, dove rimase fino alla fine della guerra. Fu frequentando l’ambiente degli esuli antifascisti e antinazisti e della sinistra di New York che conobbe Mary McCarthy, Hannah Arendt, Dwight McDonald e cominciò a collaborare con riviste come Politics e Partisan review. Finita la guerra tornò per qualche anno a Parigi, dove ritrovò Camus e Andrea Caffi, ed infine rientrò in Italia, dove è rimasto fino alla morte.

\r Quali furono i temi principali della sua attività e della sua ricerca?

\r Chiaromonte, come del resto Caffi, non fu un pensatore organico, cosa che, del resto, nemmeno gli interessava essere. Nei suoi scritti e nella sua vita, anzi, testimoniò sempre un ribrezzo profondo per i sistemi di pensiero organici, per le costruzioni ideologiche, metafisiche o epistemologiche ed era certamente anche per questo che rifiutava di sottomettersi al dominio degli imperativi della politica. Polemizzò sempre con le ideologie “scientifiche” e con quelle basate sull’esaltazione del progresso tecnologico, diceva che nel mondo moderno non c’è possibile salvezza se si accetta il progresso tecnico per principio, senza riserve, se si applica tutto ciò che esso può suggerire. All’opposto, gli interessava profondamente quello che c’è a fondamento delle idee e della conoscenza. Era vivissima in lui la convinzione che nel cuore di ogni uomo fosse celato il segreto della moralità e di quella “socialità” tanto amata anche dal suo maestro Caffi. Chiaromonte pensava comunque che la morale non fosse “insensibile”, non si collocasse cioè sul terreno dell’assoluto, ma fosse fatta di un’eleganza e di un “sapere” nelle relazioni personali, familiari, “etniche”, che rimandano all’insieme delle tradizioni e alle modifiche che le tradizioni subiscono nella storia, fino a sgretolarsi nella nostra epoca, che lui considerava di grande crisi.

\r Per Nicola la tradizione era importantissima per la costruzione dell’uomo, ed infatti, in un suo bellissimo saggio sui greci, diceva che senza tradizione l’uomo non esiste, perché, per dirla con le sue parole: “All’oppressione del despota o alla disumanità della casta ci si ribella, ma non ci si può più ribellare alla regola impersonale e razionale, cioè all’oppressione che scaturisce dal riconoscimento razionale del fatto di vivere in società”.

\r Anche grazie a questo continuo meditare sul rapporto con la tradizione non era un adoratore della ragione con la maiuscola, sapeva che la ragione era una piccola fiamma in una foresta buia, anche se apprezzava come un fatto sacro lo sforzo della ragione di dare un senso, di mettere ordine nel caos…

\r Una volta -eravamo in vacanza insieme a Bocca di Magra- mi disse, ripensando alla sua vita passata, che avrebbe voluto essere non un uomo di lettere, ma un matematico, perché era nella matematica che forse c’era la possibilità di dare forma e razionalità, “immagine”, al mondo attuale, mentre la letteratura aveva perso la capacità di farlo. Era certo uno sfogo perché lui, in realtà, aveva un dono affine a quello di certi romanzieri, che sanno darci la sensazione di una presenza diretta della trama della vita, cioè non semplicemente la sensazione del flusso caotico dell’esperienza, ma dell’emergere in essa della distinzione profonda fra ciò che conta e ciò che non conta.

\r A tutto questo non erano sicuramente estranee neppure le sue continue riflessioni su Sartre, Heidegger, Hegel e soprattutto Platone, come sul pensiero greco classico, di cui lo affascinava sia la concezione del destino, -e non a caso scriveva che “Una certa saggezza, e non più alcune specie di razionalità deduttiva, è la conquista più alta e più degna dell’uomo”- sia la possibilità di partire da esso per articolare un rapporto con la realtà diverso da quello impostato dalla razionalità scientifica. Chiaromonte, infatti, diceva che la realtà non è il dato empirico, ma è l’interdipendenza fra esso e l’apparizione di quello che sembra, di quello che ci appare, quindi delle nostre visioni, dei nostri “tentativi di realtà”, fra cui metteva anche le utopie. A questo proposito Nicola sosteneva che non c’è civilizzazione senza molteplicità di utopie. Ma attenzione: molteplicità e non unicità, poiché escludeva l’interpretazione volgare secondo cui le utopie debbono essere realizzate per essere significative, per cambiare la vita degli uomini. All’opposto, per lui le utopie erano uno specchio della vita intellettuale, che non è affatto opposta alla vita perché, diceva, si vive, anche al più basso livello, d’intelletto e di utopia. Nell’amore, per esempio, che cosa si fa se non creare un’utopia?

\r Un altro tema che Nicola affrontò continuamente fu quello del totalitarismo. Per lui i totalitarismi nazista, comunista, fascista, trovavano la loro origine storico-politica nella prima guerra mondiale, che considerava lo spartiacque della crisi della modernità e quindi della civiltà europea. Va tuttavia tenuto presente che, per quanto critico con le linee-guida della civiltà europea, non parlava di “tramonto dell’occidente” in senso spengleriano, cioè di ineluttabile fine di una civiltà, ma appunto di “crisi”, cioè di necessità di ripensare questa stessa civilizzazione e soprattutto il ruolo in essa assunto dallo stato-nazione, che sempre più era per lui anche “stato-fabbrica” e soprattutto “stato-mito”. Era convinto che il mito dello stato fosse l’elemento che accomunava la dittatura di Mussolini, la statocrazia di Stalin e il “terzo impero” di Hitler, e che, appunto per questo, rimanesse il pericolo maggiore che il Ventesimo secolo doveva affrontare. Per Chiaromonte questa mitizzazione dello stato affondava le sue radici nella modernità stessa, nella crisi da questa aperta, che per lui significava soprattutto crisi della coscienza religiosa. Proprio per questo far coincidere modernità e crisi della coscienza religiosa Nicola apprezzava moltissimo Proudhon. Oltre a concordare con molte delle sue idee sul federalismo e sulla socializzazione libertaria dell’economia, riteneva infatti che Proudhon fosse il pensatore che per primo aveva capito che la vera rivoluzione moderna non era stata tanto lo sviluppo industriale, ma il processo di secolarizzazione che, distruggendo la coscienza religiosa, metteva in discussione la base stessa della società e preparava la decomposizione della civiltà europea e la distruzione della società da parte dello stato-nazione.

\r La questione della religiosità fu un altro tema attorno a cui Nicola meditò sempre -aveva, fra l’altro, un fratello gesuita. Affermava che dire: “Dio esiste” è altrettanto stupido che dire: “Dio non esiste” ed era quasi ossessionato dal problema di un “piano teleologico” che determinasse gli esseri umani senza che essi potessero comprenderlo. La sua era, e lo si vede in moltissimi scritti, una specie di “religiosità laica” che per certi aspetti lo avvicinava a Simone Weil, che amava moltissimo, o a Bernanos. Comunque, rispetto alla religione e alla Chiesa mantenne sempre un atteggiamento critico, che però non sfociò mai in un laicismo aprioristico. Da una parte, infatti, difese il Papa quando questi fu accusato di essere responsabile dell’Olocausto e polemizzò con il laicismo radicale di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che lui riteneva totalmente estraneo alla realtà e alla cultura italiana, mentre, dall’altra, polemizzò duramente con gli aspetti deteriori della tradizione cattolica, in particolare contro l’Italia della Controriforma, che dopo i trionfi fascisti si avviava a continuare indenne la sua lunghissima storia. Il senso della sua polemica è per me rappresentato da un passo di uno scritto intitolato Il gesuita, in cui dice che a Roma si possono incontrare gesuiti e cinici, ma non c’è posto per gli eretici.

\r La sua polemica con lo “stato-mito” lo rendeva consapevolmente un libertario?

\r Si considerava un libertario, era consapevole che quel che pensava lo avvicinava ai movimenti e alle correnti libertarie, e credo sia stato uno dei libertari più acuti, più intelligenti, del nostro tempo.

\r Il pensiero libertario italiano del Novecento ha avuto certo grossi personaggi, come Malatesta o Berneri, ma Chiaromonte, che dopo la guerra di Spagna non aderì più ad alcun partito o movimento politico, era intellettualmente più attrezzato di loro, più capace di cogliere le grandi questioni poste da questo secolo.

\r \r Nicola si sentiva vicino alla tradizione socialista non marxista, soprattutto a Goodwin, Paine, Saint-Simon, Proudhon, Herzen, un altro autore che ammirava tantissimo. Va inoltre detto che, nonostante le accuse di cui fu oggetto da parte del Partito Comunista, Nicola era antistalinista, non anticomunista. Non amava Marx e il marxismo e pensava che il comunismo si sarebbe veramente potuto fare soltanto in comunità religiose, ma non era pregiudizialmente un anticomunista. Concordava con molte delle posizioni della sinistra socialista, con la critica di Rosa Luxemburg, e non era pregiudizialmente nemmeno un antisovietico. Non a caso faceva risalire la degenerazione della rivoluzione sovietica all’attacco che questa dovette subire da parte delle potenze occidentali nel ’18-’19. Era convinto che fosse stato questo attacco alla neonata repubblica dei soviet e l’isolamento che ad esso era seguito ad innescare il processo che portò prima all’autoritarismo leninista e poi allo stalinismo. Alcuni dei suoi migliori amici, poi, erano, o divennero, comunisti: con Mario Levi fu sempre in rapporti fraterni, nonostante quest’ultimo avesse aderito al Partito Comunista Francese e sia morto comunista francese, così come fu sempre amicissimo di Moravia. A questo proposito ricordo che, nei primi anni Sessanta, quando gli dissi che a Milano, dove allora lavoravo, viveva con me Valentin Gonzales, “il Campesino” (il contadino, ndr), volle a tutti i costi conoscerlo. Il “Campesino” durante la guerra di Spagna era stato un leggendario comandante comunista, poi scappò in Russia, dove venne fatto generale dell’Armata Rossa, ma dopo la seconda guerra mondiale cadde in disgrazia e venne mandato in un campo di lavoro, da cui riuscì a scappare tornando in Occidente. Nel periodo di cui stiamo parlando “il Campesino” aveva appena scritto La vie et la mort en Russie, pubblicato in Francia con una prefazione di Julian Gorkin, direttore di Tribuna obrera, organo di quel che rimaneva del Poum (il piccolo partito della sinistra comunista massacrato dai comunisti di osservanza sovietica durante al guerra di Spagna) e aveva rotto completamente col mondo comunista filosovietico.

\r L’incontro di Nicola col “Campesino” fu emozionante, fu un confronto sulla Spagna fra due reduci che ancora avevano quegli avvenimenti nel cuore, che ancora sentivano “la follia della Spagna”, come la chiamava Nicola. Ovviamente si finì per parlare del ruolo che in Spagna ebbero i comunisti, e soprattutto Togliatti. Da quanto emerse in quella conversazione commovente ho poi ricavato il saggio Togliatti in Spagna, che fu pubblicato su Tempo presente e che mi valse per molti anni l’odio degli stalinisti.

\r Critico radicale del bolscevismo era ugualmente nemico della “plutocrazia” americana, anche se non lo era per principio, come succedeva, e ancora succede, all’antiamericanismo di molti marxisti.

\r A lui dell’America non piaceva soprattutto la cultura di massa e il modo di fare politica che là si erano imposti, ma tutto ciò non lo portava a demonizzare gli Stati Uniti. Fu molto critico verso l’intervento statunitense in Vietnam -le pagine di Tempo presente, che fra gli altri ospitò un saggio di fuoco di Mary McCarthy, lo documentano- non per ragioni moralistiche, ma perché sentiva che era spropositato, che era un errore strategico, ed infatti finì come è finita.

\r Anche rispetto alla situazione italiana era tutto sommato un isolato, a parte una certa consonanza con i redattori e collaboratori di Tempo presente. Come ho detto, collaborava col Mondo di Pannunzio, che era un po’ il portavoce della sinistra laica, non comunista, ma era critico anche rispetto ad esso. Sentiva come un vestito stretto gli editoriali di Pannunzio, che considerava troppo tatticista per ragioni politiche, troppo legato e condizionato da La Malfa e da Ernesto Rossi, dai prodromi del centrosinistra e dalla logica dell’”arco costituzionale”, che considerava fumosa. Fu non a caso il primo a dirmi, molti anni prima del “revisionismo” di De Felice, che la Resistenza era stata esaltata in modo retorico. Sottolineava che prima del 1943 l’intelligence inglese in Italia non riusciva a trovare contatti e diceva che la Resistenza non ci sarebbe stata senza l’avanzata delle armate alleate.

\r Riguardo alla situazione italiana, a quella che lui chiamava la “democrazia cifrata”, c’è un suo saggio, intitolato Uno Stato fuorilegge, in cui la sua critica all’apparato di potere è feroce, perché vi è una “oppressione burocratica di tipo orientale sulla società civile italiana” e non risparmia nemmeno la magistratura, che definisce una “casta di mandarini con automatismo di stipendio”. Per dare un’idea di che tipo di intellettuale fosse può valere quanto mi disse Montanelli a proposito di Silone e Chiaromonte: “Persone molto più serie di me, ma in definitiva, considerando quello che sono gli italiani, ho avuto ragione io”.

\r Quale era il progetto che stava alla base di Tempo presente, la rivista fondata da Chiaromonte con Ignazio Silone?

\r Il progetto che la animava era essenzialmente culturale -c’era una grande attenzione ai temi della cultura in generale, fra gli altri ci scrivevano Quinzio, Flaiano, Arbasino, il giovane Mario Perniola- e nacque per dare voce a quella parte della cultura italiana che non si era sottomessa alle chiese cattolica e comunista, ed infatti dalla cultura ufficiale dell’epoca fu sempre considerata con sospetto, emarginata. Gustaw Herling, un altro importante collaboratore della rivista, ricorda: “Ci consideravano dei lebbrosi”.

\r In questa impronta culturale si rifletteva l’impostazione di Chiaromonte (i cui rapporti con Silone non furono privi di contrasti ed ambiguità, soprattutto perché Nicola pensava che Silone fosse troppo tatticista e un po’ arrivista), che non credeva più nella politica e pensava che, se una trasformazione era da aspettarsi, lo era solo in quanto si riusciva a fare emergere nella cultura e dalla cultura degli aspetti nuovi, non conformisti rispetto alla logica clericale, da una parte, e al marxismo dall’altra.

\r In questa volontà di dare voce alla cultura non conformista Tempo Presente trovò il suo filo rosso nella difesa e nella valorizzazione del dissenso nei paesi del totalitarismo comunista. Difese Pasternak, Solzenicyn, Sinjavskj, pubblicò le memorie di Nadezda Mandel’stam, diede conto della rivoluzione ungherese pubblicando saggi ed articoli sia di ungheresi esuli che di altri residenti a Budapest, altrettanto fece poi con la Primavera di Praga. C’era in Tempo presente una predisposizione al dissenso e all’opposizione alla politica sistematica che la affratellava a riviste come Survey e Encounter a Londra, Der Monat a Berlino, Preuve a Parigi, Politcs a New York, con cui si scambiavano articoli e collaborazioni. Tempo presente, fra l’altro, fu la prima rivista italiana a pubblicare saggi e articoli di Hannah Arendt, Mary McCarthy, Dwight McDonald, grazie all’amicizia che c’era fra questi e Nicola.

\r Con Tempo presente Chiaromonte ebbe modo di dare visibilità a tutti gli aspetti della sua ricerca, dalle riflessioni sui limiti del linguaggio e sulla filosofia alle riflessioni sull’arte. Era affascinato dall’intreccio fra politica ed arte e pensava che l’arte con la maiuscola non potesse che essere mezzo di cultura attiva, coscienza, ammaestramento a vedere, mentre diceva che, dopo il Rinascimento, l’arte era stata spesso concepita, anche dagli artisti, come una fabbrica di bambocci, neutra quanto ai significati e ai valori della vita.

\r Da questo intreccio nasceva il suo interesse per il teatro e per il cinema, anche se, dopo aver molto amato il cinema degli anni Trenta -cioè il cinema della fase romantica, eroica, registi come Pabst o Eisenstein- col passare degli anni se ne distaccò perché considerò che fosse divenuto un fenomeno sempre più industriale, un aspetto della cultura di massa e della meccanizzazione del mondo moderno.

\r Come critico teatrale era per certi versi un “critico militante” -di lui Carmelo Bene, ha detto che era “l’unico critico che capisse davvero il teatro e la situazione drammatica”- e si lamentava molto della mancanza, a parte Pirandello, di un autentico teatro italiano, la qual cosa per lui significava l’incapacità della società italiana d’interrogarsi, di guardarsi allo specchio, di mettersi in discussione. Era poi furioso con il teatro sovvenzionato, con i funzionari del Ministero del Turismo e dello Spettacolo che spesso gli telefonavano per lamentarsi di quello che aveva scritto o per raccomandare Tizio o Sempronio.

\r Dicevi prima della sua amicizia con Moravia, Camus, Malraux…

\r Con Moravia erano amici fin da giovanissimi -come ho detto fu Moravia a presentare Caffi a Chiaromonte- e rimasero sempre amici, anche se non mancarono fra loro polemiche e scontri. Chiaromonte stimava moltissimo Moravia, ne apprezzava la grande intelligenza e la qualità di scrittore -pensava, fra l’altro, che con La noia avesse forse scritto le migliori pagine della letteratura di questo secolo sull’atto sessuale-, e avrebbe voluto che Moravia esercitasse il ruolo che Camus aveva esercitato nella cultura francese, mentre dissentiva profondamente da lui per le ambiguità che a suo parere Moravia dimostrava sul problema della libertà nel mondo dell’Est, sull’Urss e la Cina, come anche nei confronti del Pci e dell’industria culturale.

\r Con Camus, invece, questi problemi non c’erano. Nicola ammirava Camus sin da quando si erano conosciuti ad Algeri e con lui sentì sempre una profonda consonanza. Pensava non solo che Camus fosse un grande scrittore e un grande artista, ma che fosse soprattutto un grande uomo di pensiero e un simbolo per il suo esistenzialismo, non dichiarato ma vissuto, per le sue posizioni ferme, per la sua integrità morale, per il suo essere coscienza critica nei confronti della deriva nichilista del mondo contemporaneo e del totalitarismo. Per questo Nicola vide subito la differenza fra Camus e Sartre, che pure apprezzava come filosofo, ma a cui non perdonava il tatticismo, l’inchinarsi alle logiche della politica.

\r Con Malraux, invece, l’amicizia fu meno profonda che con Camus o Moravia, anche se si conobbero bene, visto che avevano combattuto insieme in Spagna.

\r L’amicizia con Malraux si raffreddò quando questi diventò ministro della cultura di De Gaulle. Chiaromonte pensava che Malraux si fosse come “acquattato” su De Gaulle e che per questo De Gaulle lo avesse premiato. In un certo senso riteneva che questo fosse un po’ il destino di Malraux. Di André Malraux, che riteneva un grande testimone del nostro tempo, lo affascinava il totale disincanto e il “demone dell’azione” che sembrava animarlo, il suo “agire senza credere”. Proprio in questa chiave analizzò in un saggio molto bello, Malraux e il demone dell’azione, tutta la sua attività culturale, letteraria, politica, e questo molto prima che il maggior biografo di Malraux, cioè il teorico della postmodernità François Lyotard, indicasse proprio in questo demone la “cifra” dell’”enigma Malraux”.

\r Nonostante il suo porsi contro le chiese cattolica e marxista e per un pensiero non conformista, Chiaromonte non fu tuttavia un entusiasta del ’68…

\r Chiaromonte non è stato un “filosessantottino”, ma non è stato neppure un nemico del ’68, almeno di quello che conobbe, visto che nel ’72 morì. Secondo lui non si poteva parlare di un “Sessantotto” perché le ragioni dei giovani che nell’Est, nei paesi comunisti, contestavano l’oppressione della dittatura erano diverse dalla contestazione di Berkeley e questa era a sua volta diversa da quella in Germania, in Francia o in Italia.

\r Appoggiava quasi incondizionatamente la rivolta dei giovani nell’est europeo e diceva che i giovani di Berkeley facevano bene a battersi contro la guerra nel Vietnam, così come riconosceva che in Italia i giovani avevano ragione nel pretendere un sistema universitario migliore, ma non approvava la “contestazione globale” perché sosteneva che se si contesta tutto si finisce col non contestare nulla.

\r Riteneva che nella rabbia dei giovani ci fosse soprattutto il disprezzo per una classe dirigente odiosa e per una politica che altro non era che “burocratismo di tipo zarista sulla società civile italiana”, ma secondo lui, ed è questo uno dei motivi della sua critica al ’68, l’ammutinamento degli studenti italiani aveva preso subito l’aspetto di una confusione tumultuosa sia nelle idee che negli atti, e questo era per lui inaccettabile, anche perché rifiutava l’idea che i giovani avessero ragione solo perché erano giovani.

\r Pensava che i nati dopo il 1940 si fossero trovati a vivere in una società che non poneva né meritava rispetto e contro questa mancanza di autorità da rispettare, contro questa assenza di guida morale, i giovani si ribellassero in una rivolta che esprimeva anche l’esigenza di avere un’autorità in cui riconoscersi, una disciplina a cui affidarsi, cosa che non c’era e che l’Occidente, non solo l’Italia, non era in condizioni di dare.

\r A quei tempi scriveva: “Il compito veramente storico dei nostri tempi, quello che merita e richiede l’entusiasmo di un giovane, è la ricostruzione della società devastata dalla forza e accasciata dalla soggezione alla forza. E’ un’opera questa che comincia necessariamente dall’esempio personale. Secondo Simone Weil tra le esigenze essenziali dell’anima vi sono la libertà insieme all’ordine, l’ubbidienza insieme alla responsabilità, l’uguaglianza insieme alla gerarchia, mentre la società contemporanea, oppressiva e permissiva, conformista e senza valori, è fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva. E’ contro questa mostruosità che i giovani si sono ribellati”.

\r Pensava anche che i miti esotici dei giovani di allora -Che Guevara, Ho Chi Minh, Mao Tze Tung- fossero per natura vacui o totalitari e portassero alla demagogia di massa e all’autoritarismo tecnocratico più o meno ammantato di ideologia. Non a caso presagiva la deriva terroristica che contribuì ad affossare i movimenti nati nel ’68. All’opposto del militantismo imperante in quel periodo,

Da . www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=183

Nicola Chiaromonte

La nuova sinistra

Tratto da «Tempo Presente», settembre-ottobre 1967

Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

In realtà, un’opinione di sinistra inorganica e fluttuante esisteva fin dall’immediato dopoguerra. Pochi di quelli che aderirono al partito comunista durante la guerra e dopo, e nessuno di quelli che gravitarono intorno al medesimo partito negli stessi anni, erano comunisti. Comunisti erano i dirigenti e i funzionari, mentre la massa operaia, tutto sommato, rimaneva nel solco della tradizione socialista; ma comunisti non erano certo i molti compagni di strada, simpatizzanti, anti-anticomunisti e intellettuali marxisteggianti che fecero, fino al 1956 circa, la fortuna e il prestigio dei partiti comunisti. Erano, quelli, i seguaci approssimativi e confusionari di un’estrema sinistra di fantasia che si mettevano dalla parte del comunismo sia perché ritenevano doveroso aggregarsi alla marcia della Storia, sia perché credevano di trovare lì quello che non si trovava da nessun’altra parte politica: l’Idea, più l’efficienza.

Esisteva, fin da allora, una sinistra indefinita e mollemente eretica; anzi, si può ben dire che la sinistra era quella: del nucleo duro del comunismo ufficiale si cercava d’ignorare l’esistenza, ed esso stesso si camuffava in varie fogge. Ma, da tre o quattro anni a questa parte, è venuta formandosi una corrente d’opinione politica la quale non solo è completamente fuori da ogni partito, ma sfugge anche a ogni definizione ideologica chiara. Negli Stati Uniti, ha preso il nome di «nuova sinistra».

S’è formata, questa «nuova sinistra», per dato e fatto della politica americana: a essere esatti, in seguito alla guerra del Vietnam. Negli Stati Uniti, il movimento degli studenti dell’Università di Berkeley (ormai disperso) prese forza dalla ripugnanza per quella guerra, oltre che dal desiderio di agire -e non soltanto parlare- in favore dell’eguaglianza civile della popolazione negra. Anche in Europa, la guerra del Vietnam ha fatto cristallizzare, specie fra i più giovani, una corrente (o meglio si direbbe: uno stato) d’opinione le cui componenti sono abbastanza ovvie: antiamericanismo considerato sinonimo di anticapitalismo (e di antimperialismo); anticapitalismo inteso come rifiuto di quella che si usa chiamare «civiltà dei consumi» ed è concepita come l’ultimo stadio della degradazione della società borghese occidentale, la quale società sarebbe destinata a esser spazzata via dalla rivolta delle genti di colore o comunque vittime dell’imperialismo, Cina e Cuba in testa, Paesi dell’America latina e dell’Africa al seguito, magari con l’aggiunta degli arabi, vittime del colonialismo israeliano.

Questa sequela di tesi, nella quale si possono facilmente distinguere le influenze di J. P. Sartre e di Frantz Fanon, ma che in sostanza rappresenta una specie di riduzione all’estremo di taluni concetti che chiameremo marxisti tanto per intenderci, non costituisce certo un corpo di dottrine. Non varrebbe la pena di discuterla se non fossero in massima parte dei giovani a propugnarla e se, d’altro canto, il campo della politica offrisse attualmente a questi giovani altre e migliori indicazioni per manifestare l’insofferenza per il presente, lo sdegno per l’ingiustizia e il disgusto per la falsità che sono le passioni diremmo doverose della gioventù.

La questione potrebbe finire qui: con la constatazione che i fatti giustificano il ribellismo, sia pure incoerente, di questi giovani e che, visto che nessuno sa offrir loro un ideale politico più valido, è naturale che essi si servano di quello che son riusciti a fabbricarsi con i relitti e residui delle idee che hanno ereditato dai loro padri e fratelli maggiori.Ma non può finir qui, la questione. Per confusionari che siano, questi giovani vanno presi sul serio, e l’unico modo di non prenderli in giro è quello di trattarli da pari a pari, discutere le loro idee senza indulgenza né disprezzo.

Ora, il fatto è che le idee della «nuova sinistra» non peccano tanto per incoerenza quanto perché rappresentano un tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui si dibatte da decenni la sinistra europea spingendo all’assurdo precisamente le tendenze che l’hanno portata nel vicolo cieco medesimo. Il che vale quanto dire che le idee della «nuova sinistra» non sono in realtà né un ripensamento delle idee socialiste o libertarie né un nudo, crudo e pragmatico piano d’azione, ma una mera operazione cerebrale: letteralmente, un sogno a soggetto politico, il quale può diventare tema di discorsi, e magari anche di libri, ma non per questo esce dall’irrealtà intrinseca che lo distingue. Giacché questi giovani e meno giovani aderenti della «nuova sinistra» non devono immaginare di essere i soli a riconoscere le ingiustizie, brutture, brutalità e insensatezze del mondo in cui viviamo. Che la guerra del Vietnam, per esempio, è orribile e assurda lo sanno anche i più alti dignitari del mondo cosiddetto «capitalista»: lo sa anche il Papa, oltre a saperlo la gente della sinistra vecchia e nuova. Il problema, per il Vietnam come per la questione dei negri e per le altre, è in qual modo efficace l’opinione contraria possa farsi valere. Ed è a questo punto che la «nuova sinistra» fugge per la tangente della rabbia, e proclama la guerra santa contro gli Stati Uniti o, per esser precisi, applaude alla guerriglia e alle sommosse razziali.

La nuova sinistra, cioè, non riconosce le cause, anzi la causa, da cui essa stessa ha origine. La quale non è la perversità dei governi o la pusillanimità dei socialdemocratici, ma l’impotenza apparentemente irrimediabile dell’opposizione, di ogni opposizione, nell’attuale condizione del corpo politico. È dall’esasperazione per l’apparente paralisi della politica interna (ossia della vita politica essa stessa) che nasce lo stato d’animo della «nuova sinistra». Ma quando poi si tratta di rispondere alle questioni di politica interna, tutto quel che essa sa produrre è o una surenchère massimalista sulla politica governativa o l’evasione nella politica estera.

Il fatto invece è che, in Europa come negli Stati Uniti, la questione cruciale oggi non è affatto quali scopi si debbano opporre alla politica governativa: in genere, basta mettere al negativo la politica del governo per avere un eccellente programma d’opposizione. Il problema è come fare perché il programma dell’opposizione diventi una politica: insomma, come fare perché, nelle attuali condizioni della società industriale, ci sia una vita politica e non soltanto delle decisioni che scendono dall’alto dopo esser state combinate negli altissimi consessi dei tecnici e dei burocrati, negli uffici di partito e nelle lobbies dei gruppi di potere.

Finché non si risolve questo problema, l’opposizione, ribellista o meno, rimarrà un fatto verbale e un sogno rabbioso. Verbo per verbo e sogno per sogno, tanto varrebbe allora ragionare sui dati elementari della situazione, mettendo fra parentesi ogni presupposto ideologico.

Ora, il dato più elementare della situazione è che l’attuale società industriale ammette in teoria prosperità quanta se ne vuole, e in più una grande e quasi illimitata libertà d’indifferenza (della quale anzi ha strettamente bisogno per funzionare); ma, quanto alla libertà politica in senso proprio, essa è tutta da restaurare: i meccanismi burocratici e tecnici l’hanno esautorata. Ora, la libertà politica non è un bisogno di massa, benché, senza libertà politica, tutto quel che le masse possono sperare è una porzione congrua di beni di consumo; di giustizia è inutile parlare; e, quanto alla pace, dipende dai calcoli geopolitici e strategici.

Dal che discende che la restaurazione della libertà politica (che poi è quanto dire di una vita politica reale e non cifrata) è oggi inevitabilmente compito di una minoranza di volontari, ed esige molta più risolutezza e tenacia che non ne occorra per propugnare la guerriglia in Paesi lontani.

Ma questo non è lavoro che si possa esigere dai giovani della «nuova sinistra». Dai padri e dai fratelli maggiori, essi hanno appreso a correr dritto alle conclusioni, non a esaminare le premesse; hanno appreso ad ammirare e seguire chi agisce in modo spettacolare, non chi ragiona; hanno imparato che il mondo è quello che è e bisogna prenderlo per quello che è, non sognarne un altro che non esiste. E allora, quando si trovano dinanzi a una realtà che non li soddisfa, non possono fare altro che decidere verbalmente in favore del più estremo e del più violento. Dunque si schierano con Mao Tse e con Guevara. A parole, s’intende. Infatti, oggi, un giovane europeo ribelle che cos’altro può fare se non dire di essere in favore della rivoluzione culturale in Cina e della guerriglia in America latina, nonché magari nelle città degli Stati Uniti, secondo predica Stokely Carmichael[1]? Non troverà neppure contraddittorio, un tal giovane, dopo aver detto cose simili, marciare per la pace e contro la bomba atomica. Quanto all’effetto di un tal dire, c’è la soddisfazione di sentirsi dalla parte non solo della giustizia, ma anche della potenza (nel caso della Cina) e della violenza avventurosa (in quello dei guerriglieri castristi).

In ultima analisi è il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di «nuova sinistra». E, con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciata nel 1914, si chiude.

Giacché è come rivolta contro la potenza e la violenza che la «sinistra» liberale, democratica e socialista nacque, in Europa. Anche se portò sempre in sé un certo culto romantico dell’azione violenta, il movimento libertario e socialista del secolo scorso rimase sempre, nel fondo, pacifico e pacifista. Il culto dell’azione e dell’eroe guerriero, liberali, democratici e socialisti lo lasciarono sempre ai reazionari, ai militaristi, ai nazionalisti. La cosa diventò più che chiara col fascismo e col nazismo. Ma la seconda guerra mondiale (senza parlare di ciò che l’aveva preceduta, in Russia e altrove) non scatenò soltanto la bestialità hitleriana, bensì dappertutto e in tutti (tranne un’infima minoranza) la convinzione «realista» che nulla, nella storia, si ottiene senza violenza e, per converso, con la violenza bene organizzata si ottiene tutto.

Questo è il punto a cui siamo. A questi princìpi sta tornando, sotto specie di perfetta tecnicità, la società organizzata. Ma c’è da notare che, nel frattempo, i mezzi di far violenza sono diventati, più che efficaci, assoluti, e sono proprietà esclusiva dei ricchi e dei forti. Sicché l’appello alla violenza per il supposto riscatto dei deboli oppressi non può avere da ultimo altro risultato che di rafforzare i potenti. È quindi condannato a fallire, non foss’altro che perché si riduce ad affrontare l’avversario sul terreno sul quale esso è più forte, tattica sbagliata anche in termini guerreschi.

 

 

Nicola Chiaromonte

Prigioni in Spagna

Pubblicato in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell’altra tradizione, 1, Una Città, 2002

I viaggi sono ridiventati molto lunghi. Ero in America da otto mesi e questa donna non era ancora arrivata. Eppure aveva lasciato la Francia con suo marito molto prima di me. Mi ricordo di lei con amicizia perché a Tours, poche ore prima dell’arrivo dei Tedeschi, fu lei a trovare un posto in un’auto per un amico ammalato, aprendosi un varco nella mischia delle macchine e delle persone a piedi che lasciavano la città, fermando le macchine al volo, gridando, imprecando, litigando con le persone con questa specie di energia assurda che solo le donne sono ancora capaci di conservare quando gli uomini vedono ragioni solo per la calma del fatalismo. L’ho incontrata qualche giorno fa in un “Caffè Viennese” della 72° Strada, da sola.

Ero contentissimo di rivederla. Ogni volta che si ritrova da questa parte una persona che viene da oltre oceano, si ha l’impressione che finalmente la vita riprenda come prima. Non è vero. Mi ha sorriso con la stessa intensità ed evidentemente con la stessa illusione.

«Sono così contento di rivederla. E suo marito?»

«In Germania. Gli Spagnoli ci hanno arrestato alla frontiera. Siamo rimasti sei mesi in prigione. Un giorno hanno portato Friedrich a Hendaye. L’ho saputo una settimana dopo». Insieme con l’imbarazzo, ho provato una sorta di gelosia. Avevo conosciuto solo la prigione di Marsiglia. Non si finisce mai di essere snob. Questa amica di un giorno di giugno del 1940 si è messa allora a raccontare. Raccontando, tirava fuori dalla borsa ogni sorta di carte, foto, piccoli oggetti: prove, souvenir, i bigliettini scambiati col marito in prigione, la foto di una compagna di cella, lo specchio e il pettine e il tubetto di rossetto che era riuscita a tenere durante la prigionia. Ero sorpreso dal tono del suo racconto: raccontava quasi alla terza persona come se si fosse trattato di un’altra persona conosciuta benissimo tempo fa ma che si comincia a dimenticare. Anche parlando di suo marito, era stranamente apatica. Avevo la sensazione di parlare a qualcuno ormai convinto che la fatalità esiste.

«Lei conosce queste storie di consolati, di visti, di permessi, di timbri, di biglietti di passaggio. A un certo punto, con mio marito, decidemmo che il fatto di avere il visto americano, il visto di transito spagnolo, e il visto portoghese fosse sufficiente. Passammo a piedi la frontiera franco-spagnola in direzione di Figueras. Trovammo Figueras, ma non il posto di dogana. Ci mettemmo a cercarlo affinché i nostri passaporti venissero debitamente timbrati. Fu allora che ci avvicinarono dei poliziotti in uniforme, molto cortesi, molto miti, che ci dissero: “Ma sì, naturalmente, è semplicissimo. Dateci i vostri documenti, vedremo”. Uno di loro restò con noi, un giovane uomo gentilissimo ma poco loquace, che insistette perché andassimo a cena in un certo ristorante. Lo seguimmo. Era buio. Figueras è una cittadina di 16 mila abitanti, che porta ancora le tracce della guerra: case demolite, facciate screpolate e crivellate di proiettili. Hanno lasciato tutto com’era. Tutto in una semi-oscurità. A Figueras c’è solo la prigione a essere illuminata, a giorno, dai fari. E’ molto strano: una specie di pubblicità. Questa luce la si vede dappertutto».

«Nel ristorante, c’era una cameriera bella come la “bellezza spagnola” dei film. Il nostro poliziotto le rivolgeva dei complimenti, le chiedeva quando si sarebbe decisa a sposarlo, e lei rispondeva con sorrisi e piccoli gesti divertiti. Sembrava che ci fosse una specie di “fiesta” quella sera a Figueras: una celebrazione militare e nazionalista, qualche cosa di importante, non so più a proposito di cosa – il 3 ottobre. Cosa poteva essere?»

«El Dia de la Rosa probabilmente, il “Columbus Day” visto dall’altra parte».

«Bene, così, per dire qualcosa, chiesi alla graziosa ragazza se avesse intenzione di andare. Rispose molto tranquillamente: “No, non usciamo per questo”. Non c’era gran che da mangiare, i clienti non erano numerosi. Chiedemmo alla nostra guida se credeva fosse tempo di andare a prendere i nostri documenti. Apparve seccato, ma disse che ci accompagnava a vedere. Per strada, cambiò idea. Disse che sarebbe andato da solo, e che potevamo aspettarlo in un caffè. Sempre gentilissimo, ma allo stesso tempo molto evasivo. Nel caffè, mentre beveva un anice, mio marito mi disse: “Ho come l’impressione che sarebbe meglio tagliare la corda e tentare di tornare in Francia”. Ma ci avevano preso tutti i documenti: dove trovare il coraggio di abbandonare il visto americano? L’osservazione di Friedrich mi fece preoccupare. Provavo il bisogno di mettermi a spiegare la nostra situazione alla padrona, una donna magra e triste, di età incerta. Ascoltò e rispose con due parole e un gesto: “Mio marito” e il gesto delle sbarre fatto incrociando le dita fra loro».

«Fu in quel momento che il giovane poliziotto tornò. Aveva, nei nostri confronti, l’aria personalmente soddisfatta di prima, ma un po’ più evasiva e distante: “Bisogna che veniate al posto di polizia. Chiedono delle spiegazioni”. Lo seguimmo, molto preoccupati. Se ne accorse e disse: “Oh, non sarà niente”. Al posto di polizia, ci fecero ogni sorta di domande, e infine ci dissero che erano costretti a chiedere istruzioni a Madrid prima di lasciarci liberi. Può immaginare come abbiamo cercato di protestare: dopo tutto, per la Spagna, i nostri documenti erano in regola, eccetera – rimostranze giuridiche, genere S.J.N. Siamo proprio contaminati da abitudini borghesi per non capire immediatamente che quando si viene afferrati da questo genere di meccanismi, non ce la si può cavare con scaltrezze da avvocato; ormai si entra nella zona dell’arbitrario, della fortuna, del miracolo – e nel caso di un’eventuale lotta, i mezzi da usare in ogni caso sono ben altri. La cosa migliore forse è accettare passivamente fino a che non si capiscono le regole del gioco e non si scorge il punto debole dell’ingranaggio».

«Così, facemmo il nostro ingresso nella prigione di Figueras. E’ – gliel’ho detto – un edificio immerso nella luce. Si entra attraverso tre mura di cinta concentriche – e ogni cinta è violentemente illuminata da fari potentissimi. E’ per impedire le evasioni». «Ai tempi dei “rossi”, durante la guerra, c’erano 80 prigionieri in questa prigione. Quando ci entrammo ce n’erano 750 – e non erano i soli; anche “El Castillo”, una vecchia costruzione del XVIII secolo, era stata trasformata in prigione. Ma là c’erano solo uomini. Inoltre, molte delle persone di Figueras venivano mandate nella grande prigione di Gerona. Così mi hanno detto. Figueras conta 16 mila abitanti. Credo non sia esagerato dire che, degli abitanti di Figueras, uno su dieci vive in prigione».

«Non ero mai stata in prigione. La cosa tremenda, il vero incubo, era la sporcizia. Avevo sentito parlare dei soldati nelle trincee durante l’altra guerra, e dei parassiti che facevano camminare le camicie da sole non appena i soldati se le toglievano di dosso. Naturalmente, credevo fosse una metafora. Ma la biancheria che lavavamo e mettevamo ad asciugare nel cortile della prigione di Figueras, la riprendevamo poi coperta di pidocchi perché le prigioniere restavano appoggiate ai muri la maggior parte del tempo e là le bestie viaggiavano. Nel cortile stavamo all’aria aperta. Ma cosa c’era nella sala comune in cui sono rimasta tre mesi, lei non può immaginarlo. La maggior parte delle mie compagne erano delle politiche. Ma per tutto il tempo c’era un andirivieni di mendicanti, zingare, prostitute miserabili. Molte di loro erano spossate, inebetite, affamate, si facevano arrestare apposta per avere qualcosa da mangiare – le dirò poi cosa. Si buttavano sul loro giaciglio e non si spostavano di là per nessuna ragione o necessità. Al mattino dovevamo pulire la sala e i gabinetti. Era talmente disgustoso. Ci provavo due o tre volte e poi offrivo dei soldi perché qualcuno lo facesse al posto mio: non ci resistevo».

«In queste condizioni, il meno che potesse capitare era la scabbia. Non c’era infermeria, né visita medica, né alcun tipo di farmacia. Ma per lottare contro i pidocchi una volta la guardia si decise a far tagliare i capelli a due prostitute talmente sporche che pure le zingare ne erano rimaste disgustate e avevano protestato. Contro la scabbia, davano una specie di liquido giallastro che bruciava la pelle e causava un’altra specie di eczema. Un giorno decisero di vaccinarci contro il tifo, e ci fecero l’iniezione: tutte in fila e lo stesso ago per tutte, senza alcool né niente. Era il genere di cose che spaventava di più, me e le altre donne straniere. Le spagnole non si preoccupavano di niente, convinte com’erano che si può morire per una cosa come per un’altra».

«In effetti, le persone morivano in quella sala: ogni mattina la guardia mi chiedeva uno specchietto che avevo conservato in una tasca e con questo strumento scrutava le bocche delle persone sdraiate. I corpi che non respiravano più venivano trasportati nei gabinetti. Li lasciavano là alcune ore e poi li portavano fuori. Quando la sala era piena, con più di 200 prigioniere, tutte le mattine trovavano uno o due cadaveri».

«Vedo che lei mi guarda. Gli orrori. Sa, quando entrai per la prima volta in quella sala, ebbi l’impressione di capire d’un tratto tutto, e altrettanto immediatamente accettai tutto. Non so come spiegarmi, ma decisi che la sola cosa da fare era restare estranea a tutto quello che poteva capitarmi e non comportarmi in modo egoista. Sono stata aiutata molto dalle mie compagne. Non tanto dalle straniere quanto dalle spagnole».

«Ad esempio c’era Maria Gracia, una maestra socialista di Gerona, condannata a trent’anni. Era in prigione dal 1939. Pure suo marito, maestro, era stato condannato all’ergastolo; era nella grande prigione di Gerona. Maria Gracia era timida e pudica come una suora. Viveva in una malinconia tranquilla e senza speranza, si interessava solo ai libri che poteva procurarsi. Quando vide arrivare in prigione tante straniere, belghe, ceche, tedesche, polacche (tutte arrestate perché mancava il timbro sui loro documenti) ebbe l’idea di imparare le lingue, e si mise a prender da ognuna dei nomi di oggetti, verbi, piccole frasi che ripeteva tre o quattro volte pregandole di correggere i suoi errori di pronuncia. Aveva un altro desiderio molto vivo – di avere alcune immagini da guardare. Voleva immagini serie, immagini di vere opere d’arte. E quando la lasciai quel che mi chiese fu di inviargliene dall’America. Come idee, era socialista. Sulla situazione presente, ecco quello che pensava: “I fascisti sono i padroni. L’Unione Sovietica ci ha traditi. Siamo socialisti, e sarebbe disonorevole aspettare la nostra salvezza dal capitalismo inglese. Per noi, non c’è speranza quindi. Ma un giorno il popolo si ribellerà di nuovo e vincerà”. Non sperava di vedere quel giorno. Ogni tanto i suoceri le portavano da Gerona i suoi due figli a farle visita. Dopo queste visite, Maria Gracia non era né più triste né più allegra. Viveva realmente e con calma nella disperazione».

«C’era anche Annucion, una donna di una quarantina d’anni condannata a sei anni. Perché sei anni – e non 15 o 30? Forse perché lei era solo una contadina, mentre Maria Gracia era un’intellettuale. Ma Concepcion e Sara, due cugine, una di 24 l’altra di 25 anni, non erano intellettuali, neanche loro. Erano delle modiste, molto incolte, che parlavano solo di ballo e di cinema, e tuttavia le avevano condannate tutte e due a 15 anni perché si sapeva che erano fidanzate a due ragazzi del partito che chiamano “trozysta”».

«Poi c’erano quelle che non erano condannate a una pena determinata e che molto semplicemente venivano tenute in prigione. Ad esempio, due donne di più di quarant’anni, tutte e due rimandate in Spagna dal governo francese. Una di loro aveva perduto il marito in Francia e un bambino di 3 anni, e non faceva che piangere tutto il giorno. Era infermiera e fu lei un giorno ad aiutare una prigioniera polacca a partorire. Fu molto difficile a causa di un’emorragia. Non avevamo niente di pulito, dovemmo fare alla poveretta una sorta di letto coi giornali, per evitare che il materasso si inondasse di sangue. Gliel’ho detto, non c’era modo di avere un medico, per nessuna ragione. Non credo fosse una crudeltà calcolata. Più probabilmente, vigeva il principio che, primo, non avendo dietro di noi alcuna potenza che potesse proteggerci, per così dire non esistevamo. Secondo, con tanti prigionieri, era già abbastanza complicato tenere in ordine le carte amministrative per preoccuparsi di questioni sanitarie».

«Del resto, le condanne inflitte ai prigionieri maschi avevano un carattere ancora più capriccioso. Friedrich mi raccontò che con lui c’era un giovane di Gerona che, per cominciare, era stato condannato a morte. La sua famiglia era abbastanza influente, avevano ottenuto la revisione del processo. E alla revisione del processo i giudici avevano commutato la pena di morte in tre mesi di prigione. Nello stesso tempo, un amico di Maria Gracia, condannato a morte, era stato dimenticato per dodici mesi nella prigione di Figueras. Poi, un giorno, erano venuti a prenderlo per condurlo a Gerona, e là, nel cortile della prigione, l’avevano infine fucilato in presenza di tutti i detenuti: “per dare l’esempio”».

«Per quel che riguarda noi stranieri, poiché avevamo voluto fuggire da Hitler, dovevamo essere tutte persone “che avevano qualcosa da nascondere”. Se non ci davano le stesse pene dei “rossi spagnoli” è perché, non essendo spagnoli, non spettava formalmente allo stato spagnolo il dovere di “darci una lezione” o di eliminarci. Ma occorreva “accertare” i nostri casi uno per uno. Questo richiedeva molto tempo, molta noncuranza, molto capriccio. Dopo tutto, non eravamo neanche dei condannati a morte»

«C’era ad esempio il caso di Erna J., una ceca di 25 anni. Era la figlia di un sarto residente in Belgio da quindici anni. Il suo fidanzato era emigrato in Argentina prima della guerra. A un certo momento Erna aveva deciso di raggiungerlo ed era partita da Bruxelles senza visto, senza passaporto, con pochissimi soldi. Dalla Francia aveva attraversato a piedi la frontiera spagnola. L’avevano arrestata. Dopo alcune settimane l’avevano mandata a Madrid, alla “Seguridad” per “accertare il suo caso”. La Seguridad l’aveva rimandata a Figueras. Dopo sei mesi di detenzione a Figueras, l’avevano fatta uscire, l’avevano portata in montagna, e le avevano detto: “Lei è libera, ritorni in Francia”. Non la trovò la Francia, si perse fra le pietre dei Pirenei e fu ritrovata dopo due giorni da un doganiere spagnolo, svenuta e mezza morta. Il doganiere la riportò a Figueras. A Figueras la dichiararono in stato d’arresto e fu di nuovo rinchiusa».

«A quel tempo, con Friedrich c’era un francese fuggito dalla Francia grazie a un passaporto spagnolo comprato da un calzolaio spagnolo di Montauban. Avevano scoperto il broglio. Il fatto è che scoprirono che nel 1934 questo calzolaio era stato condannato dai tribunali spagnoli a tre mesi di prigione per avere ingiuriato una “guardia civile”. I tre mesi di prigione li fecero fare a Morand, poi lo liberarono».

«Fra gli uomini, nella situazione più penosa c’erano quelli che la polizia francese prendeva dai campi di concentramento francesi per consegnarli alla Spagna oppure che fuggivano da soli dai campi francesi sperando di potersela cavare, una volta nel loro paese. In particolare, quelli che venivano dal campo di Argelis morivano dopo alcuni giorni di inedia».

«Non so se questo le dà un’idea di come le cose funzionavano. Per quel che riguarda me e Friedrich, eravamo continuamente sballottati fra l’idea che “dopo tutto, non c’è ragione di disperare”, e l’altra: “Ci si può aspettare di tutto”. Chiedemmo di parlare al direttore. Trovò che avevamo troppa paura; di certo c’era che un giorno o l’altro Madrid avrebbe risposto. “Dopo tutto – fu la sua conclusione – qui non state molto peggio che fuori”. In generale, era inutile rivolgersi a lui. La sua posizione era quella del tiranno che ha risolto tutti i suoi problemi, i suoi sudditi sono nell’impossibilità di nuocergli e non gli restano da risolvere che i piccoli dettagli amministrativi. Sospettavo che complicasse apposta il caso delle persone che avevano soldi, per costringerle a spenderne il più possibile nel suo istituto di pena. La famiglia di Friedrich ci aveva inviato da New York 500 dollari, e noi decidemmo di rivolgerci a un avvocato. Il direttore sollevò tutte le difficoltà del mondo alla nostra decisione, dicendoci che l’avvocato era un imbroglione, che era inutile in ogni caso, ecc. Si arrese infine alle nostre insistenze, ma evidentemente contrariato. Bisogna dire che effettivamente l’avvocato non servì a niente».

«Quei soldi ci furono molto utili per comprare qualcosa da mangiare fuori. Con la sporcizia e il freddo, la fame era il terzo supplizio. Ci davano due minestre al giorno: un mezzo litro di acqua calda con dentro alcuni oggetti indefinibili e nauseabondi, compresi mozziconi di sigaretta e insetti. In più una fetta di pane di ceci molto sottile e molto pesante. Capii molte cose della condizione umana quando vidi la folla delle detenute cominciare ad agitarsi una mezz’ora prima della distribuzione di queste materie alimentari, poi accalcarsi, impazienti, inquiete, davanti alla porta, e infine precipitarsi attorno alle pentole lottando fra loro per avere una cucchiaiata di minestra in più. Un pasto comprato fuori costava 50 pesetas. Il dollaro veniva scambiato nella proporzione di 12 pesetas per un dollaro. Così un po’ di prosciutto, del formaggio e due banane costavano da 6 a 8 dollari. C’era solo qualche straniero fra i detenuti che potesse pagarsi un tale lusso, ma non tutti i giorni ovviamente. A proposito di fame, Friedrich era considerato dai suoi compagni un signorino schizzinoso perché non mangiava le bucce delle banane».

In Francia avevo letto un articolo della Revue des deux mondes in cui si spiegava che in Spagna i prigionieri politici erano oggetto di un lavoro di “rieducazione”. E’ vero. La mattina, verso mezzogiorno, al momento della passeggiata, i prigionieri erano costretti a cantare l’inno falangista, “Cara al sol”. Le guardie erano particolarmente esigenti con gli uomini, arrivavano a far loro ripetere l’inno fino a sette o dieci volte se sbagliavano una parola o non mostravano abbastanza brio. Alla domenica questo diventava un vero concerto: bisognava cantare non solo “Cara al Sol”, ma anche “El Requete” e l’inno nazionale “Triunfa España”. Alla fine, la guardia preposta ai canti gridava: “España!”. E bisognava rispondere in coro: “Una! Grande! Libre!”».

«Al sabato veniva il prete per ricevere le confessioni dei peccatori. Era un brav’uomo di una cinquantina d’anni che non insisteva molto sulle preghiere e accettava, con un’aria mezzo burbera mezzo spaventata, di fare delle commissioni all’esterno».

«La domenica, nel pomeriggio, c’era la visita delle dame cattoliche. Ci riunivano in una sala detta “della scuola”, tutta tappezzata delle parole storiche dell’eroe nazionalista, Antonio Prima de Rivera. Là dentro, le dame non si limitavano a tenerci discorsi sulla morale cattolica e nazionale. Spingevano il loro zelo fino ad organizzare rappresentazioni teatrali edificanti che avevano per tema la vita della Vergine, di Santa Teresa e di altri santi nazionali»

«Infine, c’era un avvocato che era stato in prigione sotto la Repubblica e veniva a tenere conferenze sugli “orrori” dei Rossi. I detenuti si vendicavano come potevano, cantando in sordina parecchie volte al giorno l’inno anarchico “Hijos del Pueblo”. Nonostante il pericolo, i “non-politici” si univano a questi cori, perché il bisogno di sfogarsi era veramente molto forte. Se non si alzava troppo il tono, le guardie facevano finta di non sentire. Ma se per caso qualcuno si lasciava trascinare dalla musica, il castigo andava da 15 giorni a un mese di cella, a pane e acqua».

«In genere, l’atteggiamento delle guardie era molto strano. La loro insensibilità alle sofferenze dei prigionieri sembrava totale. Mute e sorde, vi ascoltavano senza rispondere, guardandovi senza vedervi e non si poteva ottenere da loro il più piccolo favore se non coi soldi e neanche sempre. E poi, ogni tanto, senza che si chiedesse loro niente, ci portavano delle cose da mangiare: mele, fichi secchi, olive. Sempre senza parlare, sempre con un’aria di assoluta ripugnanza: talmente assoluta che assomigliava a rabbia o a paura – mal represse».

«C’era Torrejo, il vero bruto, colui che vi rivela immediatamente il carattere della prigione. Per lui il lavoro terribile era quello di fare l’appello dei prigionieri e contarli. La paura di sbagliarsi, o di essere ingannato, e di lasciar scappare uno dei dannati lo faceva andare fuori di sé. Tutte le mattine era la stessa scena grottesca, e questo finiva la maggior parte delle volte con qualche condanna alla segreta».

«Il più strano era Salvador, un ragazzo di 19 anni, originario di Pamplona. Era ufficiale in una delle sei o sette polizie speciali create da Franco. Dicevano che suo padre era stato ucciso dai fascisti nel 1936 e che aveva simpatie segrete per i “rossi”. In ogni caso, aveva fatto carriera sotto Franco e, per essere stato nominato ufficiale così giovane, doveva certo essersi guadagnato meriti speciali. Per me, resta una specie di simbolo oscuro della sorte della gioventù negli Stati totalitari. Gli piaceva sorvegliare il canto degli inni franchisti nel cortile. Assisteva alla cerimonia con una specie di smorfia sprezzante stereotipata sul viso. Provava piacere ad ordinare di ricominciare. Questo, sicuramente non perché fosse arrabbiato nel sentir deformare quelle armonie falangiste. Ma l’assurdità della cerimonia lo affascinava, e sembrava compiacersi a renderla esasperante senza remissione. Friedrich mi raccontò che un giorno, durante questo esercizio, uno dei prigionieri più giovani era stato preso da una crisi nervosa e si era buttato a terra, singhiozzando. Sempre col suo sorriso freddo, Salvador gli si era avvicinato e, toccandolo con la punta dello stivale, senza fermarsi, gli aveva sibilato fra i denti: “Un politico che piange: non ti vergogni?”. Come un ufficiale che redarguisce un suo soldato. Ognuno doveva fare la sua parte: ai condannati toccava soffrire con dignità per l’ideale; quanto a lui, era dall’altra parte e intendeva fermamente restarci. La sola cosa che gli importava era il suo grado, perché questo rappresentava il potere, e soprattutto l’immunità. Perché la prigione lo spaventava. Le maniere da ufficiale di cavalleria che ostentava, la sua freddezza e il suo sorrisino non smettevano di evocare l’immagine dell’apprendista-acrobata che cammina sulla corda rigida, in preda alla paura di cadere. Aveva un debole per le donne e si divertiva, ad esempio, a fare irruzione nella nostra sala quando ci stavamo lavando; sempre con la stessa aria sarcastica. Restava là immobile, come un cattivo ragazzo sfacciato piuttosto che come un carceriere convinto che tutto gli sia permesso. Un giorno, esasperata, gli ho gridato: “Lei non ha il diritto di fare questo”. Mormorò una parola – “Sciocchezze” – e se ne andò. Questo genere di divertimento gli costò un mese di prigione, perché una notte si lasciò sorprendere dal sorvegliante-capo nella sala delle prostitute. Nonostante quel che si diceva, il suo atteggiamento verso i “rossi” non tradiva alcuna simpatia. Ma neanche alcun odio ideologico. Piuttosto, il suo sembrava sempre una sorta di sogghigno assurdo rivolto, in generale, a tutti coloro che avevano creduto che “ci sono delle cose che non possono succedere”. Non c’erano limiti, tutto poteva succedere, il mondo poteva uscire dai gangheri del tutto normalmente, seguendo rigorosamente la catena delle cause e degli effetti. Ciò che urtava, con lui, era il fatto che ostentasse questa convinzione con una specie di snobismo e di soddisfazione. Gli altri carcerieri che ho visto in Spagna esprimevano la stessa idea con più semplicità e arrivavano anche, di tanto in tanto, ad avere ricordi di un passato umano».

«Dopo tre mesi a Figueras, ci trasferirono, Friedrich e me, a Madrid. Facemmo il viaggio insieme. Ancora una volta parlammo di fuga e, ancora una volta, l’idea di restare senza documenti ci fermò. C’era anche la speranza imbecille che, siccome “non avevamo fatto niente”, avrebbero finito col liberarci. Arrivati a Madrid, ci separarono. Friedrich fu condotto alla prigione di Commendadores, io a Claudio Cuello, una delle due prigioni femminili della capitale, un vecchio convento».

«Una sede posta sotto l’autorità esclusiva dei falangisti, con un regolamento più duro che a Figueras, e il mangiare molto peggiore. Una sola minestra orribile e una libbra di pane al giorno, distribuiti senza alcuna regolarità, la qual cosa è molto demoralizzante quando si vive rinchiusi e affamati. Ma avevamo diritto a tre docce al mese e i locali erano puliti. Al sabato e alla domenica avevamo diritto a leggere, ma solo i libri della biblioteca della prigione. I “politici” erano separati dagli altri. Di solito, c’erano 1500 politici. Al momento dei transiti, arrivavamo a essere fino a 4 o 5 mila. Bisogna contare che a Madrid c’è un’altra prigione di donne, quella di Ventas, con più di 3 mila prigioniere».

«Dopo la perquisizione d’uso mi portarono in un’enorme sala di mattoni bianchi, molto fredda e assolutamente spoglia. “Ci si procura da fuori quello di cui si ha bisogno”, mi disse la donna in uniforme falangista che mi portò là dentro. In effetti, non c’erano giacigli né sgabelli, là dentro, e non mi avevano dato né materasso né coperta. Fui accolta da una vecchia signora che mi introdusse nella “élite” della sala. Quasi tutte le prigioniere avevano ricevuto dalle loro famiglie un materasso e delle coperte. Ma questa sala era così fredda che si erano messe d’accordo per mettere due o tre materassi uno sull’altro e dormire in due o tre nello stesso spazio ristretto. Questo aveva il vantaggio di mettere strati di lana fra il cemento ghiacciato e il corpo e, nello stesso tempo, di sfruttare il calore naturale».

«La prima notte, dormii con la vecchia signora. Era una russa che abitava in Spagna da più di 15 anni. Durante la guerra, aveva fatto l’interprete per i piloti sovietici. Passava il tempo a insegnare il tedesco, il francese e il russo alle detenute».

«E’ a Claudio Cuello che capii la prigione. Mi avevano parlato degli strani sentimenti che provano coloro che hanno passato lunghi anni in prigione: la nostalgia della cella, la tenerezza morbosa con la quale parlano dei prigionieri, i sogni che fanno di una forza misteriosa che li riconduce irresistibilmente verso il luogo delle loro pene. Ero convinta che si trattasse di cattiva letteratura. Ebbene, ora so che non solo è vero, ma naturale. So che coloro che non hanno conosciuto la prigione non conoscono in ogni caso che la metà della verità sull’esistenza. Non solo: laggiù ho fatto l’esperienza di un’immensa collettività, la collettività dei prigionieri che abbraccia un paese per tutta la sua estensione. Fra prigioni e campi di concentramento si parlava di due o tre milioni di detenuti politici. Non posso dire se è esatto, ma posso dire che ho sentito vibrare tutti i giorni una vita che abbracciava tutte le regioni della Spagna, dalla Catalogna all’Andalusia, dalla Castiglia ai Paesi Baschi. Tutti i giorni si ricevevano notizie da tutta la Spagna, dalla Spagna delle prigioni, naturalmente, perché anche le notizie da fuori erano viste unicamente in relazione agli interessi e alle speranze della comunità dei prigionieri. Si potevano seguire centinaia e migliaia di condannati da luogo a luogo, riceverne notizie, inviarne. Era come una grande centrale telegrafica. Questo si faceva tramite i prigionieri in transito, la cui preoccupazione più urgente era sempre quella di informarsi e informare, ma anche con altri mezzi innumerevoli. Queste astuzie e sottigliezze, questa prontezza ad approfittare di possibilità microscopiche, le ingegnosità infinitesimali e semplici che finiscono col produrre l’effetto dell’”inspiegabile mistero”».

«Così, un giorno, ho ricevuto l’anello che Friedrich aveva fatto fare per me nella prigione di Commendadores con una moneta francese da dieci franchi. Una donna me lo portò, con un piccolo messaggio. Come era potuto avvenire il passaggio? Aveva ricevuto l’anello da una donna che veniva trasferita a Malaga e non ne sapeva di più».

«D’acciaio, d’alluminio, d’argento o di rame, questi anelli sono il segno di riconoscimento dei prigionieri in tutta la Spagna. Non occorrono strumenti per farli; basta avere un pezzetto di materia sufficientemente dura per battere il metallo».

«Sono dei simboli come questo che vi fanno sentire che soltanto l’ultimo superstite della specie umana proverà veramente l’orrore della solitudine, ma prima di lui…»

(traduzione dal francese di Vanda Fava)

Nicola Chiaromonte

Pierre J. Proudhon – un pensatore scomodo

Tratto da «Europa socialista», 1946

E’ un detto di Fouché: «Datemi un pezzo di carta con la firma d’un uomo, ed io lo farò giustiziare». Questo può essere un principio basilare della procedura cui s’informa la Polizia di Stato, ma nelle istanze intellettuali non è davvero un buon criterio.

Con delle citazioni artificialmente strappate dal loro nesso, il sig. Schapiro (*) si propone di dimostrare che Proudhon era: 1) «un precursore delle idee fasciste… che si fece il propagatore del concetto fascista di un superamento rivoluzionario della democrazia e del socialismo… il portavoce spirituale dei ceti medi francesi»; 2) un sostenitore della dittatura in generale e di Luigi Napoleone in particolare; 3) un antisemita; 4) un nemico dei negri americani; 5) un guerrafondaio; 6) un nemico dell’uomo comune; 7) un antifemminista.

Il primo di questi capi d’accusa viene provato dal sig. Schapiro nel modo seguente: Proudhon era un piccolo borghese ed un precursore del fascismo perché non credeva nella nozione marxista della «lotta di classe», né in quella di una rivoluzione violenta coronata dalla vittoria del proletariato; per contro egli pensava che, nei tempi moderni, una rivoluzione violenta non poteva significare altro che la dittatura e condurre al trionfo dei ceti medi. Tuttavia, aggiunge Schapiro, Marx ed i socialisti avevano torto, in quanto essi non compresero esattamente il carattere ed il ruolo storico delle classi medie, mentre l’intuizione «disarmonica» di Proudhon è stata avallata dagli eventi contemporanei.

Da tutto ciò risulta in modo evidente che il sig. Schapiro, pur non credendo nella fondatezza delle nozioni marxiste, se ne serve tuttavia per caratterizzare Proudhon e per dimostrare che questi in fin dei conti non aveva del tutto torto, ma era un cattivo soggetto. In questo sta tutta la stranezza del suo modo di ragionare. Perché da un punto di vista marxista si può giustamente affermare che Proudhon è stato un piccolo borghese, un traditore, un fascista, dato che non credette nella lotta di classe, nella dittatura del proletariato, e cosi via. Ma se l’autore è del parere che le concezioni marxiste sono ad ogni modo sbagliate (e soprattutto nei riguardi dei problemi fondamentali come il ruolo storico delle varie classi), allora si ha il diritto di pretendere da lui che giudichi Proudhon partendo da qualche altra base chiaramente definita, e tenendo conto di ciò che è realmente il pensiero di Proudhon.

La disinvoltura del Sig. Schapiro

Io ritengo che le idee di Proudhon (se siano giuste o sbagliate è un’altra questione) si trovano enunciate nella sua opera con perfetta chiarezza per chiunque voglia fare un piccolo sforzo per comprenderle. Se dovessi riassumerle in poche parole, io direi che la preoccupazione principale di Proudhon è stata quella di scoprire nella vita della società umana una verità che non fosse una verità «classista», affinchè il trionfo della giustizia sociale fosse un trionfo della ragione e non della violenza, una creazione della società stessa e non una imposizione dall’alto, qualunque fosse il nome di questo ente superiore -Iddio, coercizione statale o dittatura di classe. Questa verità egli chiamò Giustizia, intesa sia come «idea», sia come realtà concreta, inerente -in un senso positivo e negativo- ad ogni ordinamento sociale. Di questa idea che ispira tutta la sua opera, Proudhon fece un’esposizione poco sistematica, ma tanto più suggestiva, nelle duemila pagine del suo libro «De la Justice dans la Révolution et dans l’Eglise». Queste duemila pagine sono completamente trascurate dal signor Schapiro il quale, d’altra parte, fa un uso abbondante di estratti dalla corrispondenza di Proudhon, presentandoli come se si trattasse di formule teoriche anziché di opinioni personali occasionali e strettamente private.

Dallo studio di Schapiro si può inoltre apprendere che Proudhon è stato un anarchico, ma nulla è detto sulla sostanza e sul significato profondo della lotta instancabile che Proudhon condusse contro ciò che egli definì il «principio di governo». In tal modo riesce facile al sig. Schapiro di impiccare Proudhon in effigie come sostenitore della dittatura, in considerazione del suo atteggiamento nei confronti di Luigi Napoleone. Che una simile accusa abbia potuto essere pronunciata è talmente assurdo che non varrebbe la pena di confutarla, se non avessimo oggigiorno tanti esempi che ci dimostrano come il pregiudizio intellettuale e la tendenza a spacciare delle formule al posto di pensieri riescono a traviare l’intelletto di tante persone peraltro rispettabili. Per ben comprendere l’atteggiamento di Proudhon nei confronti di Luigi Napoleone, basta leggere ciò che egli scrisse a proposito dello stesso, tenendo presenti gli avvenimenti del tragico anno 1848. La rabbia, la disperazione, il disprezzo per i politicanti socialisti e democratici, che si trovano in quegli scritti, erano sentimenti ben comprensibili in un uomo, che fin dal 1840 aveva previsto la disfatta, la dittatura e la guerra come conseguenze della stupidità dei demagoghi i quali (ubbriacati dai ricordi del 1793 e da fantasie barricadiere) erano disposti a mandare gli operai al macello per il gusto di frasi vuote o di meschine combinazioni ministeriali. E fu proprio questo che essi fecero nel giugno 1848.

Senza parlare del fatto che il famoso pamphlet «La Révolution démontrée par le Coup d’Etat» era un pamphlet così poco bonapartista che al suo autore fu proibito di pubblicare in seguito qualsiasi scritto di carattere politico, basta accennare ad un altro fatto ben noto, e cioè che Proudhon è stato tre anni in carcere e sette anni in esilio per la sua strenua lotta contro il bonapartismo, per poter affermare che la sua presa di posizione contro Luigi Bonaparte era non soltanto perfettamente chiara, ma anche intelligente e onestissima. Egli vide con grande chiarezza (come lo stesso Schapiro riconosce) che la combinazione di un apparato statale paternalistico e di una massa popolare abbandonata in uno stato di depressione, di delusione e di caotico smarrimento avrebbe inevitabilmente generato la dittatura, l’Impero ed infine la guerra. Per Proudhon non si trattava affatto di un problema di antagonismo fra ceti medi e proletariato. Infatti, egli non si stancò mai di mettere in rilievo come l’inerzia (o «l’appoggio passivo») degli operai disgustati era stato il fattore essenziale nel determinare il successo del colpo di stato, mentre i ceti medi «liberali» erano profondamente allarmati all’idea di perdere i loro privilegi politici, che essi stessi, d’altronde, avevano contribuito ad annientare quando colpirono gli operai di Parigi. Quando Proudhon disse che Luigi Napoleone poteva essere «la Rivoluzione o niente», egli non intese con ciò esprimere fiducia in un uomo che egli aveva combattuto con tutte le sue forze e per il quale non aveva nessuna stima, ma piuttosto proclamare la sua convinzione che, con Napoleone o senza di lui, la Rivoluzione non poteva essere arginata, e che il ridicolo Cesare aveva soltanto la scelta tra l’andare volontariamente verso la Rivoluzione e l’esservi trascinato per necessità storica.

Insieme ai migliori uomini del suo tempo, Proudhon vedeva (con occhi aperti e senza sentimentalismi o illusioni circa gli inevitabili sviluppi della storia) il sollevamento sociale dei tempi moderni nella forma di un «progresso irresistibile». Questo sollevamento era per lui un fatto così fondamentale ed evidente, e coincideva a tal punto con la necessità della Verità stessa, che sarebbe stato per lui una cosa grottesca il pensare che un signor Charles Louis Napoléon Bonaparte potesse essere qualcos’altro che uno strumento di quel movimento.

L’ardore politico, l’intelletto ardito e l’amore per le visioni grandiose hanno spesso condotto Proudhon a formulare delle affermazioni che possono sembrare strane ed anche assurde. Ma, in fin dei conti, se Proudhon è famoso per qualche cosa, lo è appunto per il suo odio indomabile contro ogni forma di coercizione. Per ammettere che egli abbia pensato ad appoggiare la dittatura di Luigi Napoleone, bisognerebbe supporre che egli abbia nutrito qualche torbida ambizione personale. Ma nello stesso istante chiunque abbia qualche nozione della vita e delle opere di Proudhon sentirebbe risuonare la eco delle parole che egli gettò in faccia al signor Thiers, in pieno Parlamento: «Signor Thiers, io sono disposto a raccontare tutta la storia della mia vita, qui da questa tribuna. Io vi sfido a fare la stessa cosa».

Fin qui l’attacco del sig. Schapiro contro Proudhon sembra essere il risultato di malintesi e di antipatìa; piuttosto che di decisa ostilità. Ma quando egli se la prende con Proudhon accusandolo di essere guerrafondaio e antisemita, la sua ignoranza ed i suoi travisamenti sono veramente inescusabili.

II socratismo di Proudhon

La Guerre et la Paix di Proudhon è uno sforzo appassionato di indagare «sui legami misteriosi che uniscono forza e diritto». Con questo intento l’autore parte dal presupposto che la guerra è nella natura umana, che mediante la guerra l’umanità ha realmente cercato, in un modo fosco e terribile, di appagare il bisogno di giustizia, da cui essa è assillata.

Chi ha letto il libro sa che nella sua prima parte esso prende la forma di una apologia della guerra. Infatti, questa impostazione del problema è tipica per Proudhon e costituisce una delle caratteristiche più originali del suo metodo il quale è, in un certo senso, veramente socratico. Ma chi ha letto il libro sa anche che esso finisce col dimostrare che, mentre la guerra può essere compresa e giustificata soltanto come una violenta aspirazione verso la giustizia nella società, la giustizia stessa non può essere realizzata attraverso la guerra, ma soltanto attraverso l’instaurazione di giusti rapporti fra gli uomini e le nazioni, e che non vi può essere né giustizia né pace se non in una libera federazione di popoli.

Schapiro ignora tutto ciò. E la descrizione del suo atteggiamento non sarebbe completa se tralasciassimo di ricordare che, proprio poche pagine prima di accusare Proudhon come guerrafondaio, egli gli rinfaccia di essere un traditore del proletariato ed un nemico del socialismo, perché egli non credeva nella rivoluzione violenta.

Ma nello stesso libro, scritto alla vigilia della Guerra Civile Americana, Proudhon dichiara francamente che questa «guerra di liberazione» non libererà i negri, che questi, nella migliore delle ipotesi, passeranno da una specie di servitù ad un’altra e che , tutto sommato, sarebbe meglio per essi rimanere sotto i loro padroni del Sud e lottare per la loro emancipazione attraverso la riforma e l’autoeducazione anziché essere liberati dagli eserciti del Nord. Ognuno è padrone di dissentire da questa opinione. Ma chi conosce Proudhon sa anche da quale premessa egli parte in questa sua affermazione. La premessa basilare per Proudhon è questa: che è cosa priva di senso dire che l’uomo possa essere liberato da un apparato qualunque, sia esso statale o no. L’uomo, secondo Proudhon, può liberarsi soltanto da sé e può essere aiutato soltanto dai suoi compagni nella vita in comune e negli sforzi comuni. Sempre a proposito della Guerra Civile Americana, si può forse dire che Proudhon si sia lasciato trascinare ad una generalizzazione affrettata, per quanto io pensi che oggigiorno c’è più di uno disposto a dargli ragione. Ma il sig. Schapiro è, per quanto io sappia, l’unica persona alla quale sia venuto in mente di accusare il grande erede dei filosofi del diciottesimo secolo di essere un «anti-negri».

Per quanto riguarda l’antisemitismo dì Proudhon, l’accusa del sig. Schapiro si basa sul fatto che Proudhon usa parecchie volte la parola «ebreo» in rapporto con banchieri, borsa, capitalismo finanziario ed istituzioni di questo genere. A parte il fatto che questi riferimenti non sono del tutto arbitrari e senza fondamento, allo stesso modo si potrebbe classificare Voltaire come antisemita perchè non gli piaceva la Bibbia e perché la parola «ebreo» era per lui praticamente sinonimo di superstizione.

D’altra parte, sarebbe inutile voler negare che Proudhon è stato un antifemminista. Alessandro Herzen, che nutriva grande rispetto ed amore per Proudhon, era scandalizzato dalla sua grettezza di vedute per quanto riguarda i diritti della donna e la famiglia come istituzione. Quando Proudhon parla delle donne e della disciplina paternallstica nella famiglia, egli ci rivela i caratteri peggiori della sua natura di «cafone». Non solo questo, ma facendo propria la nozione romana della famiglia fondata sulla patria potestà, Proudhon contraddice la sostanza stessa della sua filosofia sociale che è tutta un attacco a fondo contro le basi filosofiche e sociali della legge romana e napoleonica.

Un nemico dell’uomo qualunqueIn un punto sono disposto a dare ragione al sig. Schapiro, e lo faccio volentieri e con grande entusiasmo. E ciò quando Schapiro dice che Proudhon era «un nemico dell’uomo comune». Sì, vivaddio, egli lo era. Proudhon odiava l’uomo «comune», odiava l’uomo «medio», odiava l’uomo «di classe», odiava profondamente e spietatamente qualsiasi finzione mediante la quale la genuina e nuda realtà umana potesse essere comunque mascherata, distorta e falsata -e quindi oppressa e soppressa. Per dì più, Proudhon non era propriamente un innamorato dell’umanità. Era qualche cosa di meglio. Era un uomo, un uomo raziocinante e libero.

Tutto sommato, siccome il sig. Schapiro ha scelto il metodo di dipingere Proudhon mediante citazioni arbitrarie, egli potrebbe anche accusarlo di essere stato:

1) un nemico delle nazioni libere, perché ai suoi occhi i patrioti polacchi ed italiani erano dei confusionari sentimentali, i quali pensavano che la liberazione dalla dominazione straniera unitamente ad una forma di governo costituzionale, avrebbero automaticamente apportato una reale libertà ed autonomia delle nazioni, mentre egli pensava che la realtà si traduceva invece nella seguente operazione aritmetica: nazionalismo più uno Stato rafforzato eguale a dispotismo, guerra e tramonto di ogni speranza di una unità europea;

2) un nazionalista perché, in virtù della_convinzione anzidetta, egli criticava violentemente Napoleone III e la sua «guerra di liberazione» in Italia denunciandola come una guerra contrastante con gli «interessi nazionali» della Francia, in quanto la nazione francese non poteva avere alcun interesse alla formazione di una nuova potenza militare alle sue frontiere;

3) un fautore della legge e dell’ordine, perché egli ripetutamele sosteneva che «governo politico» significava in realtà anarchia sociale, mentre la libera associazione ed il principio federale erano la sola base possibile per un reale diritto ed un reale ordine nella società;

4) un filisteo, perché egli attaccava alcuni fra i più noti scrittori ed artisti del suo tempo -Victor Hugo, George Sand, Delacroix ed altri- come «immorali e falsi»;

5) un futurista perché, scrivendo di arte, egli non soltanto ammirava Courbet come un grande artista, ma attaccava anche il «culto assolutistico della Forma», prediceva che «veri artisti sarebbero stati perseguitati come nemici della Forma e della moralità pubblica», ed esprimeva una concezione di idealismi critici nella quale la verità circa il mondo umano e la negazione delle convenzioni morali, sociali ed artistiche erano sintetizzate in una maniera non molto dissimile da quella di Tolstoi e Van Gogh.

In realtà, tutto ciò prova soltanto la grande originalità di Proudhon come pensatore, la sua ansia di scoprire nuovi aspetti della realtà e nuovi metodi di dimostrazione delle verità in cui credeva, la sua abilità dialettica che prendeva sempre lo spunto dagli argomenti fondamentali dell’avversario -ciò che è uno degli aspetti del suo socratismo e lo conduce a delle affermazioni che sono straordinariamente vicine ad alcune tesi fondamentali della filosofia moderna.

In tutto ciò, è però implicita una questione più generale. Essa non riguarda specificamente né il sig. Schapiro né Proudhon, ma piuttosto due tipi di mentalità interamente diversi. Ciò che colpisce nel «caso Schapiro» è l’incapacità di questi ad intendere un tipo di mentalità complesso come quello rappresentato da Proudhon. Perché?

Io penso che sia impossibile comprendere l’atteggiamento del sig. Schapiro se non si premette che ciò che egli cerca effettivamente è una teoria unitaria, monolitica, una teoria che possa fornire tutte le risposte richieste, complete di istruzioni sul modo come saggiarle e confutarle.

Una simile teoria dovrebbe essere costruita su un piano di semi-verità dogmaticamente asserita. Si ha il sospetto che il sig. Schapiro voglia ridurre le idee di Proudhon ad una affermazione di questo genere: « II mondo è cattivo perché i crediti finanziari non sono concessi liberamente. Una banca di libero credito metterebbe tutto a posto». In questo caso egli avrebbe la scelta fra due alternative. Potrebbe dire: «In fondo la cosa non è del tutto assurda, poiché il credito libero sarebbe effettivamente una buona cosa», oppure potrebbe (alla stregua di Marx) indignarsi e trattare Proudhon come un facilone che pretende di risolvere la questione sociale con il colpo di bacchetta magica del libero credito. La cosa essenziale in ambedue i casi è però che non ci troviamo di fronte a delle affermazioni «contraddittorie» e «disarmoniche», ma solamente di fronte a posizioni semplicistiche.

Fortunatamente Proudhon è ben lungi dall’essere uno di quei pensatori comodi con i quali il signor Schapiro (e cento altri) amano aver commercio. Proudhon è uno di quei pensatori che, credendo nella verità, si sentono liberi di sfidare qualsiasi cosa, eccettuata la verità stessa. Per Proudhon le soluzioni pratiche non possono essere che parziali e l’essenza del problema sociale è che esso rimane aperto. Infatti, alla radice del pensiero di Proudhon si trova la convinzione incrollabile che la società umana costituisce un problema sempre presente e sempre risorgente, il quale potrà o non potrà avere una soluzione finale, ma esige ad ogni modo di essere tenuto aperto attraverso tutte le vicende della storia. Questa è, per Proudhon, la missione dell’uomo onesto e dell’intellettuale, missione che non può essere compiuta se non attraverso la libertà intellettuale ed il lavoro comune.

Ma difendere Proudhon contro certi malintesi può sembrare, in ultima analisi, cosa superflua. Poiché il semplice fatto che, dopo essere stato per tanto tempo sepolto sotto il terribile epitaffio «piccolo borghese», egli venga ancora vilipeso, costituisce una prova sufficiente della vitalità e veridicità di ciò che ci è rimasto di Pierre-Joseph Proudhon «uomo del popolo».

(*) J. Salwyn Schapiro: P. J. Proudhon, precursore del fascismo, nella «American Historical Review».

Nicola Chiaromonte

Parole confuse

Tratto da La Stampa, 30 dicembre 1969

Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

Perché stai così zitto?

Perché parlare dell’inutilità di parlare mi sembra piuttosto inutile. È di questo che si tratta. Tutti dobbiamo constatarlo nella vita di ogni giorno: la parola è diventata un’appendice del fatto. Soltanto fra i pochi che già s’intendono, essa serve a comunicare. Fra i più l’abitudine delle epoche civili e socievoli, di rispondere alla parola con la parola, al discorso coerente col discorso coerente, si è perduta. Alla parola oggi si risponde con l’atto, col gesto, con la lusinga, con la minaccia, o semplicemente col silenzio. Quando si parla, è solitamente solo per accompagnare o sottolineare il fatto, che è sempre un fatto compiuto o un’opinione prestabilita.

Eppure, ecco, noi stiamo parlando. E, attorno a noi, fra carta stampata, radio, televisione, cinematografo, le parole diluviano.

Naturalmente. Noi parliamo fra di noi, e attorno a noi la moneta cattiva scaccia la buona. La svalutazione della parola è un fenomeno galoppante. Ed è già un fatto di violenza, anzi il principio stesso della violenza. Sicché viene da ridere amaro, a leggere i molti predicozzi che si vanno impartendo per deprecare la violenza. La violenza è istallata nella forma stessa dei rapporti umani quali oggi si svolgono, meccanici, forzosi e inerti.

Allora i giovani violenti hanno ragione

No, non hanno ragione affatto. Son presi in una trappola. Giustificare la violenza con delle ragioni ideali non ha senso; rispetto a una qualsiasi ragione ideale, socialismo, anarchismo o comunismo, la violenza è stata sempre considerata un male: necessario, al momento giusto, ma male sempre, da ridurre al minimo e tenere sotto stretto controllo. Che poi il demone, una volta evocato, non abbia più obbedito all’apprendista stregone, è un’altra faccenda. Ma l’apologia della violenza, la convinzione che solo con la violenza si cambia il mondo, è stata, da un secolo a questa parte, il proprio dei politici realisti e dei teorici della forza, non di quelli che cercavano la giustizia.

D’altra parte è vero che non si può fare appello alla violenza senza darne una qualche giustificazione. Teorizzare la violenza pura è come teorizzare la pazzia furiosa. Ma, nel momento che la si giustifica con qualche ragionamento, allora è il ragionamento che conta, e vale quel che valgono le sue premesse e le sue conseguenze, né più né meno.

Con i giovani rivoltosi d’oggi, però, sembra inutile ragionare.

Doppiamente presi in trappola, i giovani violenti. Vogliono l’azione efficace e finiscono col dire, di fatto, che qualunque azione violenta è efficace. Efficace a che? A scardinare il «sistema». In realtà, la violenza non fa che rafforzare il cosiddetto sistema, in quanto, creando un disordine che non mena a nulla, costringe a rimettere bene o male le cose in ordine: non è un’operazione di polizia, è una necessità organica della vita collettiva. La quale, oggi, ha questa particolarità, che da una parte funziona secondo regole meccaniche, non in base a leggi sacre o credute tali; dall’altra, appunto per questo, può sopportare molto più disordine che non si creda, perché la meccanicità del suo funzionamento è sostanzialmente imperturbabile, neutra, e presto ristabilita. Lo esige l’inerzia irresistibile della collettività medesima, molto più che i padroni o i governanti.

La violenza, nella società industriale, o prende la forma di un colpo di Stato ben concepito e rapidamente eseguito, impresa per la quale i giovani rivoltosi non sembrano particolarmente indicati (e d’altra parte la rifiutano a favore della spontaneità rivoluzionaria), oppure diventa una sorta di happening, o, come ha ben detto Raymond Aron, di «psicodramma», anch’esso necessariamente di breve durata.

Allora, insomma, non c’è da preoccuparsi.

No, anzi, c’è da preoccuparsi moltissimo. Che la violenza fisica non porti a nulla, non cambia la natura della situazione in cui ci troviamo. Il fatto che i giovani ribelli non sanno riconoscere, e che li porta all’estetismo della violenza e insieme a un moralismo politico il quale consiste nel dividere una volta per tutte il mondo in buoni e cattivi, è questo: la strada a quella che dal 1848 al 1917 s’è chiamata «rivoluzione sociale », oggi è chiusa. Ed è chiusa perché la società stessa è in rivoluzione nelle credenze religiose e nelle idee.

Rivoluzione, o meglio: dissoluzione. Tutto è in questione e tutto è in confusione. La violenza sporadica non fa che aggiungere confusione a confusione: è uno dei fenomeni caratteristici dello stato di fatto; fa parte del quadro, e i giovani sovversivi non si accorgono fino a che punto la loro rivolta contribuisce a fomentare il disordine e i mali propri del disordine, quindi a ritardare l’avvento di quel «nuovo ordine di cose» che essi desiderano.

In queste condizioni, quello che sarebbe veramente nuovo e necessario sarebbe una restaurazione: un movimento per la restaurazione delle basi prime della società, anzi della convivenza umana. Ma un tal movimento non può cominciare altrove che nelle coscienze e nei rapporti fra persona e persona. Per questo, i giovani ribelli dovrebbero rinnegare molti idoli ai quali viceversa sacrificano: gl’idoli della novità, della sregolatezza supposta liberatrice, della violenza e dell’incoerenza, che sono gl’idoli stessi della società contro la quale essi credono di ribellarsi.

Insomma, il ritorno all’ovile.

No, perché non ci sono ovili cui ritornare. Ci sono delle trame antiche da riprendere, che sono quelle della semplicità del vivere e del pensare. Ed è un compito talmente contrario al nostro attuale modo d’essere che fa paura solo a pensarci.

Nicola Chiaromonte

A lume di ragione

Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Contro l’Università?

Fra i documenti che abbiamo letto per renderci conto delle idee che ribollono nella rivolta degli studenti, uno dei più radicali e sostanziati ci è parso quello di Guido Viale «Contro l’Università», stampato nel fascicolo 33 dei “Quaderni piacentini”, rivista che ha fornito al movimento studentesco (o alla parte estrema di esso) l’essenziale dei suoi motivi ideologici. Nell’articolo di Viale si trova espressa, in modo alquanto ponderoso e professorale, ma in ogni caso esauriente, la posizione detta di «contestazione globale». Oltre a essere un esempio considerevole dell’attuale polemica studentesca, esso è dunque un testo che vale la pena di discutere senza indulgenza né sufficienza.

L’articolo comincia con la seguente perentoria affermazione: «Il primo compito del movimento studentesco è operare delle distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica».

La frase, e le asserzioni che la seguono, non lasciano dubbi. Siamo nell’orizzonte di un linguaggio prestabilito, quello marxista (diciamo «linguaggio» e non «ideologia» per scrupolo d’esattezza, perche non è chiaro dove precisamente conduca il linguaggio adottato da Viale). Si tratta di un linguaggio chiuso il quale comunica solo con se stesso (ossia con chi lo condivida) e non è certo destinato a persuadere chi, per esempio, non veda l’utilità, a proposito di una questione che riguarda il buon corso degli studi, d’introdurre un concetto non solo controverso (è il meno che se ne possa dire) come quello marxista di classe, ma obnubilante, essendoché non sembra affatto evidente che la «popolazione scolastica» sia unita da un interesse anche minimamente simile a quello marxista del «rapporto di produzione». Per definizione, direbbe il senso comune, lo studente non produce, ma riceve semmai i mezzi per una produzione futura. Dato e non concesso che la cultura si possa assimilare sic et simpliciter a un mezzo di produzione

Ma vediamo che cosa intende Viale per «distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica». Egli intende quanto segue:

Se è vero che nel periodo della loro formazione tutti gli studenti sono assolutamente privi del potere e sottoposti alle manipolazioni delle autorità accademiche, è altrettanto vero che per alcuni inserirsi nella struttura di potere dell’università non è che un primo passo del loro inserimento nelle strutture di potere della società, mentre per la maggioranza degli studenti la subordinazione al potere accademico non è che l’anticipazione della loro condizione socialmente subordinata all’interno delle organizzazioni produttive in cui sono destinati a entrare.

Eccoci di fronte alla ben nota questione del «potere studentesco», debitamente confusa con quella del potere sociale in senso lato, sicché diventa praticamente impossibile sbrogliare l’imbroglio. Il quale imbroglio consiste in questo: l’autoritarismo, anzi l’arbitrarietà sciatta e indecorosa, che regna nella scuola italiana (e non solo nell’università) è un fatto ampiamente riconosciuto. Che il rapporto fra docenti e studenti vada riformato nel senso di abolire «baronie», despotismo, camorre varie, nessuna persona sensata lo negherà. Ma quando si parla di «potere», si crea un equivoco al quale nessuna persona sensata vorrà prestarsi. In primo luogo, l’università non appartiene né agli studenti né ai docenti, ma, semmai, alla nazione: lì non può essere questione di potere, ma che ciascuno faccia l’ufficio suo onestamente. II potere, propriamente parlando, appartiene al ministero dell’Istruzione, ed è a questa centralizzazione assurda che burocratizza e umilia sia l’insegnamento che l’apprendimento che sono dovuti i massimi mali. Per conto nostro, vedremmo con sollievo una riforma che abolisse puramente e semplicemente il ministero dell’Istruzione, e instaurasse una completa libertà d’insegnamento, abrogando quel principio della scuola di Stato che non solo ha fatto il suo tempo, ma di fatto è stato abolito dalla licenza assoluta data alla scuola «libera». Non si vede proprio, in particolare, perché il prestigio di un’università debba dipendere da altro che dalla qualità dell’insegnamento che essa fornisce, qualità che nessun ministro e nessun funzionario ha numeri per giudicare, ma che invece risulta immediatamente chiara agli interessati, che sono da una parte gli studenti e dall’altra la società nel suo insieme. Un sistema che sostituisse al ministero dell’Istruzione un organo di semplice coordinamento e ispezione risolverebbe di per sé la questione del «potere studentesco», ossia di un rapporto di comunanza e relativa eguaglianza. Giacché eguaglianza quanto al fondo, ossia al fatto che da una parte c’è chi, sapendo, comunica il proprio sapere e dall’altra chi, non sapendo, lo riceve, non è sennatamente concepibile, come non è sennatamente concepibile la commedia dei controcorsi e degli esami per acclamazione d’assemblea. Che poi la discussione libera faccia parte dell’insegnamento è certo, ma è anche certo che viene dopo.

Insomma, abolire l’autoritarismo accademico, sì, quanto si vuole. Ma sostituire ad esso un «potere studentesco» irresponsabile, arbitrario e carico di pretese ideologico-politiche significherebbe in sostanza immettere anche nella scuola il sistema delle influenze e pressioni di partito che domina così bellamente la nostra vita pubblica. Senza contare che i sostenitori estremi del potere studentesco non hanno affatto l’aria di voler dividere il loro «potere» con altri, bensì di esercitarlo in condizioni di maggioranza assicurata e secondo una ideologia prestabilita di «contestazione globale». Di un tale progetto, l’unica cosa da dire è che non ha senso.

Ma, continuando, quali sono le «distinzioni di classe» che Viale discerne fra gli studenti? Eccole:

Fin dall’inizio dell’occupazione abbiamo individuato grosso modo tre strati della popolazione universitaria: quelli che l’università la usano (come base di lancio verso il conseguimento di posizioni di potere nella struttura sociale); quelli che l’università la subiscono (come fase necessaria attraverso cui bisogna passare per andare a occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale); e quelli che dall’università vengono soltanto oppressi (in quanto essa funziona come strumento di legittimazione della loro posizione sociale subordinata).

Diciamo subito che queste asserzioni ci sembrano logicamente prive di base, oltre che di riferimento a una qualsiasi situazione specifica e concreta. Giacché, insomma, la linea di confine fra quelli che, per parlare il linguaggio di Viale, «usano» l’università e quelli che la «subiscono», ci si può domandare se esista davvero, e in che senso.

Si può certamente subire al fine di usare e, per conto nostro, da quello che ricordiamo dei nostri anni d’università, i due strati si confondono in uno, il quale poi costituisce semplicemente la maggioranza. Minoranza sono quelli che studiano perché vogliono studiare e riuscir bene nella vita; e minoranza ancora più esigua quelli che studiano per amore dello studio. I socialmente privilegiati poi (contrariamente a una strana analisi fatta dal Comitato d’agitazione dell’università di Torino e citata da Viale) di solito non credono né nella scienza né nella cultura, e hanno un bisogno molto relativo di studiare seriamente, dato che appunto sanno di avere comunque un posto che li attende.

Quanto agli «oppressi», non si capisce proprio che cosa voglia dire Viale quando accusa l’università di ribadire le catene della schiavitù sociale. Questa è un’asserzione dedotta nel vuoto dalla premessa che nella società «capitalista» (o «neocapitalista») ogni istituzione (e a maggior ragione quelle della sovrastruttura culturale) è uno strumento della classe dominante. Ma, a parlar concreto, in qual mai senso una laurea in legge o un diploma di farmacista è «uno strumento di legittimazione di posizione sociale subordinata»? Forse perché non sempre il suo detentore farà una gran carriera? Ma è davvero nel fatto di non far carriera che si rivela l’oppressione sociale? In qual senso che non sia bassamente «borghese» e «capitalista», la funzione degli studi si misura dalla garanzia di carriera che essi forniscono? Una cosa è imparare, si direbbe, e una cosa tutt’altra sapersi far strada nella vita. Doversi «far strada nella vita» non sembra, d’altro canto, una schiavitù peculiare della società borghese. Negli Stati detti socialisti, è pur vero che lo Stato provvede a dare impiego a ogni diplomato; ma è anche vero che, non potendo allogare tutti al vertice della piramide, ribadirà non pochi in «posizione sociale subordinata». E si vorrebbe aggiungere che è normale, se non giusto, che così sia, dato che non s’è mai visto né mai si vedrà un sistema sociale attivo e funzionante nel quale alcuni individui non si trovino, per continuare a parlare il linguaggio di Viale, «ad andare ad occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale».

Quale gerarchia non è fittizia? si potrebbe domandare a Viale. E quale stratificazione sociale non è mistificatoria? si potrebbe insistere. Di non fittizio, c’è solo il vero: in questo caso, il merito personale. Ma il merito personale, in una determinata situazione sociale, quale essa sia, diventa immediatamente relativo alla «funzione» in cui può essere esercitato; e le funzioni sociali non si creano su misura se non al vertice della gerarchia. Comunque, una società la cui gerarchia, giudicata in assoluto, non sia al tempo stesso fittizia e mistificatoria non s’è mai vista. Quel che s’è visto e si vede sono delle società in cui le carriere sono più o meno largamente aperte al talento. Concetto, questo, borghese e democratico (napoleonico, per precisare), com’è borghese e democratico l’ideale di una scuola aperta a tutti e di una cultura a disposizione di tutti. Ma inerente a tale ideale è l’accettazione del fatto che, se va perseguito per principio, esso d’altra parte non è realizzabile di colpo e in assoluto. Onde la società democratica e «borghese» accetta senz’altro il fatto della propria imperfezione e della relativa necessità di riformarsi continuamente. Mentre lo Stato socialista puro postulato evidentemente dal discorso di Viale si limita a dichiarare giuste e rispondenti alle esigenze della Storia e dell’Umanità le proprie «stratificazioni»; e, in quanto alle proprie «mistificazioni», non sa che dichiararsene immune per natura e dannare chi per avventura ne sospetti l’esistenza.

«Mistificazione», «mistificatorio», «de-mistificazione»: si fa un grande uso di queste parole, fra i giovani d’oggi. Sarebbe più semplice e meglio verificabile parlare di vero e di falso. Ma, appunto, quel che un tal gergo intende evitare è la verifica. Il vero e il falso sono fatti specifici e limitati per natura, e riguardano determinate situazioni di fatto espresse per mezzo di proposizioni egualmente determinate. La «mistificazione», invece, è un fatto globale, totalitario. Se, per esempio, uno stato di cose non è giusto in assoluto (cioè in astratto, giacché solo in astratto può uno stato di cose coincidere assolutamente con la giustizia), esso è assolutamente ingiusto, dunque totalmente «mistificatorio», con le relative «stratificazioni» e «subordinazioni». Quindi va «demistificato» senza pietà, contestato «globalmente» e immediatamente. Il che porta con eguale immediatezza alla azione violenta. Ma se d’azione violenta deve trattarsi, si esca allora dai recinti dell’università, e si parli di rivoluzione, di come farla, con quali mezzi, e a quali scopi. C’è qualcosa di peggio che infantile nell’idea di fare la rivoluzione rimanendo barricati nelle aule scolastiche: qualcosa che sminuisce e discredita tutto ciò che v’è di legittimo nella protesta degli studenti. Dopotutto, per fare la rivoluzione, dal 27 al 29 luglio del 1830 gli studenti parigini andarono sulle barricate, non in Sorbona; e la rivoluzione, gli studenti russi la prepararono per cinquant’anni, passando dalla scuola alla galera e dalla galera alla scuola, non rimanendo seduti sui banchi a discutere eventuali controcorsi. Parlare di «contestazione globale» sembra veramente una maniera di evitare sia ciò che v’è di serio nei problemi dell’università, sia ciò che v’è di ancora più serio, oggi, nella questione politica. La quale, se è «mistificata» alla radice, non è per il gran machiavellismo della classe dirigente, ma in primo luogo e anzitutto perché il pensiero autentico se ne è ritirato, e al suo posto regnano incontrastate le idee prefabbricate e le formule fisse.

Quanto al resto, ci son molte osservazioni giuste, nell’articolo di Viale. Ma sono quelle sulle quali ogni cittadino cosciente è in sostanza d’accordo, o sulle quali l’accordo sarebbe comunque facile da raggiungere. è l’ideologia che è non solo sbagliata, ma diremmo perversa, in quanto fondata su quello che non esiteremo a chiamare «il ricatto dell’assoluto». Ricatto che in buona logica si riduce all’assurda proposizione che quando non c’è tutto non c’è niente e se non si ha tutto non si ha nulla. Proposizione dalla quale il nostro articolista deduce rivendicazioni come quella di sottoporre la vita dell’università alla «critica politica», ossia di abolirvi i residui di libertà che pur vi lascia il «despotismo accademico», riducendola a una specie di tumulto totalitario.

Nel «despotismo accademico», d’altra parte, il Viale (in uno con i suoi colleghi) fa rientrare anche il fatto che si esiga «un criterio di qualificazione professionale nella preparazione del curriculum». Secondo lui (e i suoi colleghi) ciascuno studente dovrebbe esser libero di programmarsi detto curriculum «a proprio piacimento». Onde «la preparazione universitaria diventa l’autoprogrammazione del proprio curriculum di studi che ciascuno studente fa in modo non individuale, ma sottoponendolo almeno parzialmente alla discussione dell’assemblea». Tra corsi, controcorsi, discussioni di ogni curriculum individuale e esami plebiscitari, davvero è un’università «di pieno impiego» che questi giovani sembrano avere in mente. Tutto ciò partendo dalla «critica del concetto di cultura come dato oggettuale reperibile in qualsiasi sede».

Al qual punto, c’è veramente da domandarsi di che cosa si stia parlando. Perché, certo, la cultura non è patrimonio dell’università, né tanto meno dei singoli docenti. E certo la cultura non è un «dato oggettuale» da andar «reperendo». Ma se si tratta di questo, si ammetta una volta per tutte che all’università si va per acquistare alcune nozioni e compiere alcuni esercizi, e che la cultura -la vera- è quella che ognuno si fa da sé e nella libera compagnia degli individui che si sceglie per amici e maestri, e la si smetta di chiedere alla scuola al tempo stesso una formazione professionale efficace e una cultura disinteressata. Le due cose non vanno insieme. E il gran problema della scuola d’oggi sta proprio lì, non nel fatto che gli ingegneri formati dal Politecnico di Torino vadano poi per lo più a lavorare alla Fiat, fatto di scarsissima importanza culturale, ma insomma, praticamente parlando, positivo, dato che, a Torino, a Mosca o all’Avana, quel che la maggior parte degli ingegneri cerca è un impiego. E se proprio dovessimo dir la nostra su questa situazione di base della scuola nella società odierna, la quale non può esistere se non fornisce a tutti un certo grado piuttosto alto d’istruzione, noi diremmo che in essa la cultura «disinteressata», la conoscenza per amore della conoscenza sono diventate praticamente impossibili tranne in privato. Il problema, quindi, sembra duplice: da una parte organizzare una «scuola per tutti» che funzioni, ma essendo chiaramente inteso che una tal scuola non può fornire che nozioni da usare in officine, laboratori o altre scuole (per fabbricare nuovi specialisti e formatori di specialisti, includendo in questa categoria anche i cultori delle cosiddette «scienze umane»); dall’altra, creare una scuola senza obblighi né sanzioni né diplomi, il cui unico scopo sia la cultura disinteressata e l’acquisizione di conoscenze pure, cioè «inutili»

Oggi come oggi, crediamo che nessuno Stato, capitalista, neocapitalista, demosocialista, comunista o altro, darebbe il suo accordo a un tal principio. Né alcun Comitato di agitazione studentesca. Perché quel che tutti vogliono è precisamente la cultura che «serve»: la cultura serva. La quale è, più o meno bene organizzata, già a loro disposizione, e se non vi provvede l’università vi provvede l’industria culturale.

Fatto che, d’altra parte, non dà allo studente Viale il diritto di uscirsene a dichiarare che «come nella società medievale chi decideva se una teoria era vera o falsa era il papa, così in quella industriale chi decide della validità delle teorie scientifiche è il Pentagono». Questo è un genere di volgarità molto stantio, se ne renda conto Guido Viale.

Nicola Chiaromonte

Carissimo Andrea…

Provenienza: Archivio privato Adriana Bianco

Pubblicata in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell’altra tradizione, 1, Una Città, 2002

New York, 10 aprile 1946

Carissimo Andrea,

mi perdoni se non ho risposto prima alla sua lettera, così incantevole (penso alla messa in guardia contro le “sirene”… suvvia, davvero pensa che il bravo Husserl abbia una voce così pura e melodiosa?). Albert Camus è qui -gli faccio un po’ da guida per New York- talvolta questo mi prende una mezza giornata, e ho anche dovuto scrivere un articolo che mi ha affaticato oltre misura.

Aldo si scusa di non scriverle più spesso. E’ molto preso dalla faccenda di […] che fatica molto ad avviare.

Domenica scorsa, Camus è venuto a pranzo a casa mia. C’era Tucci (purtroppo si era invitato anche Santillana, ha prodotto l’impressione spiacevole, che lei ben conosce, di chi parla tanto per parlare). Si parlava del “che fare?” Mi ha colpito udire Camus insistere sulla necessità di creare “una società nella società”. Uomini legati da una solidarietà materiale spontanea – conducono vita semplice e modesta (ma senza regole ascetiche o sospetti di “falansterismo”) e si limitano, per lo meno all’inizio, a manifestare integralmente la loro opinione sui problemi della polis senza concedere nulla all’opportunismo politico, allo spirito di parte, o alla prudenza pratica in conformità ad un limitato numero di principi chiaramente definiti, i quali, tanto per iniziare, avrebbero probabilmente una forma “negativa”. Mi ha detto che i suoi amici, Brice Parain e Pascal Pia, sono d’accordo con lui.

Non voglio aggiungere altro per paura di cadere nell’ottimismo (stimolato dalla grandissima simpatia personale che ho per Albert Camus). Le sottopongo questo episodio come un “segno”. Aggiungerò che Camus ha anche osservato che l’Assurdo e la Disperazione sono fatti “privati”, e come tali vanno considerati.

Le racconto tutto ciò perché, venendo da un uomo che mi sembra essere uno dei pochi (fra quelli che si rivolgono al “pubblico”) a prendere veramente sul serio i problemi di oggi, mi pare rilevante.

Riguardo ai miei rapporti con la filosofia, carissimo Andrea, il mio unico rimpianto è di essere così ignorante in storia, come in medicina e matematica. In altre parole, mi creda, il mio desiderio più profondo sarebbe riuscire a spiegarmi nella forma del linguaggio corrente e nutrito di esempi terra-terra. Se non ci riesco, è perché sono confuso ed ignorante. Il mio soggiorno in America mi avrà aiutato un po’ ad evitare il linguaggio astratto, ma non è così facile porre rimedio ad una pessima educazione.

La filosofia, desidero soprattutto servirmene per sistemare non tanto le mie conoscenze (che sono quanto di più frammentario e periclitante ci possa essere) quanto la mia esperienza personale, nella quale faccio fatica a mettere ordine, e che fatico a comprendere tout-court. Ciò detto, le analisi di Husserl sono alquanto affascinanti – anche quando cadono nel banale. Riguardo a “politics”, sono completamente d’accordo con lei. Ho messo a parte Dwight delle sue preoccupazioni. Anche lui si è detto d’accordo; ma lui, io lo conosco, le interpreta nel senso che potrebbe essere un po’ più “politica”, e non nel senso di spingere la critica molto lontano. Dwight è gentile e ingovernabile, gliel’ho già detto (nel senso del “timone” e non del “governo”), il che andava bene, perché risolutamente non conformista, durante la guerra; diventa inutile oggi. Devo insistere che la posizione anti-stalinista e anti-guerra di molti americani ha sempre avuto un che di astratto – un partito preso per fedeltà alla logica di una dottrina e alquanto privo di esperienza vissuta. Il “trotzkismo”, qui, è stato una setta, come tante altre che da sempre si costituiscono e si dissolvono in questa caotica società. Dwight non ne può più della setta – andava bene, ma oggi il puro e coraggioso “non conformismo” non ha molto senso, senza una chiara decisione intellettuale, c’è il rischio di non avere altro risultato che aggravare la confusione generale, se ne renderà conto di persona, del resto – perché la prima parte di “The root is man” sta per uscire. Il fatto, caro amico, è che se c’è qualcuno che avrebbe bisogno davvero di un’iniezione di “metafisica” questi sono proprio gli americani. Perché non hanno l’abitudine di provar stupore. Un abbraccio, Nicola   (traduzione dal francese di Marco Bellini)

 

Nicola Chiaromonte

Violenza e non violenza

Tratto da «Tempo presente», agosto 1968

Anche in Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, a cura di Cesare Panizza, Una città, 2009

Non è arbitrario far risalire l’impulso decisivo che condusse Tolstoi a fare del principio di «non resistenza al male» il fulcro del messaggio cristiano al I° marzo 1881, giorno in cui un gruppo di giovani terroristi fra i quali due donne, Sofia Perovskaia e Vera Figner, eseguirono la sentenza di morte pronunciata dal Comitato esecutivo della Narodnaia Volia contro lo zar Alessandro II.

Ciò che colpì Tolstoi nell’atto di quei giovani fu l’astrattezza del motivo: «Un assassinio di teorici, perpetrato senza odio, senza necessità reale, solo perché giusto in teoria…». Come si sa, Tolstoi rimase molti giorni sconvolto da quell’evento: pensava alle sue conseguenze politiche, ma soprattutto alla sorte che attendeva i giustizieri, e in particolare Sofia Perovskaia. Scrisse un appello al nuovo zar, Alessandro III, in cui lo supplicava: «Date al mondo il più grande esempio di sottomissione alla dottrina di Cristo: rendete bene per male…». La supplica fu fatta consegnare al procuratore del Santo Sinodo, Pobiedonesev, perché la rimettesse d’urgenza allo zar. Il procuratore la trattenne finché le sentenze di morte contro cinque degli imputati, compresa la Perovskaia, non furono eseguite, e poi la fece restituire allo scrittore senza neppure averla mostrata allo zar.

Tra l’astratta giustizia dei rivoluzionari e la bieca cecità del potere, che fare?

«Voi avete udito che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico: Non resistete al male; anzi, se alcuno ti percuote la guancia destra, volgigli anche l’altra. E se alcuno vuol contender teco, e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello… Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi fanno torto e vi perseguitano. Giacché siete figli del Padre vostro che è nei cieli, ed egli fa levare il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti»: queste le parole del Sermone della Montagna sulle quali Tolstoi non cessò d’insistere dal 1881 fino alla morte, rifiutandosi di recedere anche minimamente, anzi ragionandole con sempre maggiore fermezza.

Nel 1908, l’interpretazione tolstoiana delle parole di Cristo raggiunse, attraverso una lettera di Tolstoi al direttore della rivista indiana Free Hindustan, l’avvocato Mohandas Karamciand Gandhi, allora impegnato nella difesa dei diritti degli immigrati indiani nel Transvaal. L’anno dopo, Gandhi scrisse a Tolstoi per dirgli quale profonda impressione gli avesse fatto il suo scritto e come l’avesse trovato d’accordo sul principio della «non violenza». L’incontro fra il messaggio di Tolstoi e la vocazione di Gandhi ebbe conseguenze non piccole. A parte l’azione propriamente politica che ne derivò, Gandhi ripensò a fondo, in termini propri alla tradizione indiana, il principio tolstoiano. Come si sa, nella sua predicazione, la «non violenza» divenne il satyagraha o «forza della verità».

Si potrebbe dunque dire che, per forti, anzi travolgenti che siano state nel corso del ventesimo secolo le tendenze contrarie, e anzi la vera e propria ripugnanza mostrata anche (se non soprattutto) dalla classe intellettuale per il principio della «non violenza», questo ha tuttavia avuto un’influenza tale che merita ampiamente di esser chiamata «storica», secondo il linguaggio culturale tuttora prevalente. Ciò senza parlare dei grandi predecessori, da Lao Tse al Budda alle molte sette cristiane, fino agli americani William Lloyd Garrison e David Henri Thoreau e oltre.

Insomma, l’idea che c’è qualcosa di assurdo nel voler combattere la violenza con la violenza, cioè la sopraffazione con la sopraffazione, per ottenere la libertà e la giustizia, è perlomeno altrettanto antica quanto il fatto stesso della violenza organizzata. Però, la verità è che il principio che Tolstoi credette di derivare dal Vangelo e chiamò «non resistenza al male», facendone un principio risolutivo di azione morale e sociale, è stato generalmente deriso come inefficace se non stolto (in quanto non farebbe che lasciar libero il campo alla malvagità dei malvagi) e sostanzialmente negativo (perché non potrebbe costituire né uno scopo né un ideale) sin da quando lo scrittore lo proclamò. Il fatto che Gandhi lo riprendesse con successo e lo portasse al trionfo, ottenendo alla fine lo scopo che si era prefisso, ossia la liberazione dell’India, non sembra convincente, dato che il trionfo dell’azione di Gandhi per la libertà del suo Paese significa non già il trionfo della non violenza, ma piuttosto la costituzione di uno Stato indipendente analogo agli Stati della società occidentale, dei quali Tolstoi aveva detto, senza che nessuno potesse smentirlo in sede di ragione, che erano «fondati sull’assassinio», ossia sulla repressione violenta dei propri sudditi all’interno, e sulla distruzione violenta dei rivali all’esterno. Senza parlare degli orrendi massacri cui procedettero senza tardare, appena proclamata l’indipendenza, i musulmani contro gli indù e gli indù contro i musulmani, in uno scoppio di fanatismo collettivo di cui Gandhi stesso cadde vittima; com’era, per chi consideri la follia intrinseca della cosiddetta Storia, degno destino di quel giusto.

L’ idea della «non violenza» conserva tuttavia qualche prestigio fra i gruppi di dissidenti che hanno cercato e cercano di applicarla, in forma di metodo d’azione non violenta alla lotta per il miglioramento della condizione dell’uomo nella società contemporanea, la quale è erosa non soltanto dal razzismo e da simili forme di oppressione brutale, ma da quel male anche più nefasto che è l’indifferenza al proprio destino e quindi, a maggior ragione, a quello delle minoranze (o maggioranze) reiette che vivono nel suo seno.

Questi movimenti, anche se son stati guardati con simpatia (come quello guidato da Martin Luther King), son rimasti tuttavia marginali: alla fine, sotto la pressione se non della violenza, dell’inerzia sociale, tendono a esaurirsi e, anche se non si esauriscono, vengono oscurati e almeno apparentemente sommersi da movimenti violenti i quali mirano a ottenere risultati tangibili nel minor tempo possibile; e in apparenza anche li ottengono, se non altro con la minaccia di esplosioni sempre più furiose e devastatrici che fanno pesare sulla società. Oggi come oggi, nel campo dei «rivoluzionari» (che è quello al quale si rivolgeva in special modo Tolstoi), la violenza è più che mai in onore, più che mai idealizzata. «Senza violenza, non si ottiene nulla» ha proclamato il capo degli studenti parigini in rivolta, Daniel Cohn-Bendit. Screditate le ideologie macchinose che tenevano il campo fino a pochi anni fa, l’idea della guerriglia, di origine cinese e vietnamita, e ulteriormente teorizzata da Ernesto Che Guevara e dal suo seguace Régis Debray, è quella che sembra affascinare i giovani ribelli europei. E, così com’è concepita attualmente, l’idea della guerriglia quale punto di partenza di ogni azione rivoluzionaria si riduce veramente all’esaltazione della violenza come un bene assoluto, e perdipiù assolutamente efficace, nella lotta contro il male capitalista. O meglio, la questione del male e del bene neppure si pone: si tratta di agire nel modo più risoluto e immediato possibile contro l’ingiustizia. Non per nulla, Ernesto Che Guevara, eroe e martire di quest’idea, ha potuto lasciar scritto: «In qualunque luogo ci sorprenda la morte, sia benvenuta, a condizione che questo nostro grido di guerra sia giunto a un orecchio ricettivo e che un’altra mano si levi per impugnare le nostre armi e gli uomini si apprestino a intonare i canti di lutto con il crepitare delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria».

In parole come queste si esprime un romanticismo della violenza che, quale che sia il rispetto che si deve avere per un uomo che ha testimoniato della sua convinzione sacrificando la vita, non può non suonare antiquato e sinistro al tempo stesso. Certo, esso non sarebbe stato condiviso dagli uccisori di Alessandro II, i quali concepivano la «lotta sanguinosa» come una «triste necessità» e per i quali -come si legge nelle memorie di Vera Figner- l’uccisione di un uomo, per tiranno che fosse, rimaneva tutta la vita un peso soffocante sulla coscienza.

Ma è qui il paradosso: la questione della violenza è in apparenza priva di contenuto, giacché la maggioranza delle persone diranno senz’altro che la violenza è certo deprecabile, ma talvolta necessaria, e crederanno con questo di aver parlato secondo il senso comune più irrefutabile. Ma, appunto, quest’atteggiamento dei più dimostra il contrario di quel che sembra dimostrare: dimostra, cioè, che la violenza, quali che ne siano le circostanze, non comporta, anzi non tollera, giustificazioni. Essa può scaturire da una situazione violenta, o di violenza accumulata e repressa, ma rimane sempre un fatto, non diventa mai un mezzo, per quanto ne dicano i suoi apologeti. Giacché nel momento in cui si parla di mezzo, bisogna anche discutere il fine, e che allora il mezzo appaia in qualche modo commisurato al fine. Ora, il solo fine chiaro della violenza è l’eliminazione fisica del nemico. Ma come si misurerà il male causato da ogni parte per ottenere un fine che da ultimo si rivela puramente fisico? Dov’è, qui, il contrappasso morale senza di cui un’azione umana rimane al di fuori di ogni possibilità di giudizio, quasi un fatto di natura o un «atto di Dio»?

Tale, seriamente parlando, sembra rimanere la violenza, sia considerata in sé e per sé, sia nella forma attuale di azione efficacemente organizzata a fine di distruzione sanguinosa. Ed è per questo -perché intendeva essere azione giusta e non semplicemente scoppio furioso- che a Tolstoi l’uccisione di Alessandro II apparve come «un assassinio di teorici»: una specie di contraddizione in termini, ma più enigmatica che assurda. Non si poteva condannarla o approvarla, solo rimanerne sbigottiti e cercar di capire.

Ci sono nell’uomo fatti più enigmatici della violenza, la quale anzi è uno dei moti più elementari e relativamente più comprensibili: enigmatiche sono le vie dell’amore e quelle dell’odio, la brama di possesso e di dominio, l’ambizione, il tradimento, il gusto del male. Queste sono passioni, e ognuno ammette che la ragione non vi ha parte. Mentre la violenza giustiziera ha questo di particolare, che si vuole razionale sia nei mezzi che nei fini. Nelle forme di violenza che si sentono teorizzare e esaltare oggi, che si tratti del «potere nero», della guerriglia in America Latina o persino del «potere studentesco», c’è poi un’assurdità supplementare: qui, infatti, la violenza viene considerata come l’inizio e l’origine di un atto di giustizia, l’incarnazione attiva di una volontà di riscatto che si rifiuta addirittura di dar conto delle sue operazioni perché si considera semplicemente ideologia in atto, libera finalmente da ogni scolastica e da ogni burocrazia organizzativa.

A questo punto, la violenza assume in pieno il carattere inconcepibile di «assassinio teorico» che sbigottiva Tolstoi, e sfugge a ogni argomento. Eppure, essa non può mai affermarsi fine a se stessa. Anzi, più terribili sono le forme che essa prende, più idealistica (nel senso di omaggio ipocrita al mondo delle idee) è la giustificazione che se ne deve dare.

Qual è, d’altra parte, il punto di vista dal quale la violenza può esser condannata senza che la condanna cada nel vuoto e nel risibile, dato che si tratta di un fatto che sfugge per natura a ogni presa della ragione?

Se continuiamo a seguire le tracce di Tolstoi, vediamo subito che tutta la sua argomentazione contro la violenza e in favore della «non resistenza» si basa sul postulato evangelico che impone di amare non solo il prossimo, ma anche i propri nemici. La parola di Cristo è l’autorità su cui si fonda esplicitamente la predicazione tolstoiana. La quale non si limita -notarlo è importante- a raccomandare l’insegnamento di Cristo come esemplare, ma ne deriva la «non resistenza» come norma d’azione pratica più efficace della violenza (anche se per vie diverse e a più lunga scadenza) ai fini di stabilire una società più giusta. In altri termini, Tolstoi faceva della «non resistenza» un imperativo di carattere universale applicabile non solo da pochi credenti, ma da qualunque individuo volesse comportarsi da vero cristiano, che per lui era sinonimo di vero uomo. Dopo di lui, Gandhi farà dello stesso imperativo un principio praticabile da grandi masse di popolo, e al quale perciò alla lunga nessun potere avrebbe potuto resistere, proprio come, secondo Marx e secondo Lenin, nessun potere avrebbe potuto resistere all’urto finale delle masse organizzate.

È su questo punto cruciale che verte la questione della violenza, oggi. Giacché, evidentemente, l’obiezione secondo la quale opporre il metodo dell’assassinio a un mondo fondato sull’assassinio è una contraddizione in termini, per quanto logicamente giusta, non tocca la questione principale, la quale è quella dell’efficacia, della praticabilità, del valore universale del principio della «non violenza»

Il principio su cui Tolstoi fondava il suo messaggio di «non resistenza al male» si trova espresso con grande semplicità fra gli altri testi in quello che toccò così profondamente l’animo di Gandhi: la «Lettera a un indiano». Si legge in questa, insieme ad argomenti di tolstoiana semplicità e forza, un passo in cui la difficoltà -per non dire la debolezza- principale del ragionamento di Tolstoi si manifesta, per così dire, allo stato puro: «La verità, naturale all’umanità, secondo la quale la vita umana dovrebbe esser guidata dalla sorgente spirituale che è il fondamento dell’umana esistenza e si manifestò nell’amore, per poter permeare la coscienza dell’uomo si è trovata a dover lottare con l’incompletezza della sua espressione e le distorsioni volute o involontarie di essa, come pure con la violenza istituzionale che costringe, mediante punizioni e persecuzioni, ad accettare le spiegazioni della legge religiosa sancite dall’autorità, e la quale contrasta con la verità rivelata. Tale distorsione e tale offuscamento della nuova, ma ancora imperfettamente rivelata, verità, si è verificata dovunque: nel confucianesimo, nel taoismo, nel buddismo, nel cristianesimo, nell’islamismo, come pure nel bramanesimo di cui voi siete seguace».

Si sono sottolineate, in questa citazione, le parole «naturale all’umanità», che non sono sottolineate nel testo, lasciando invece non sottolineata la frase che segue, sottolineata dallo scrittore, al fine di far risaltare la petizione di principio evidente che il passo contiene: è insomma l’umanità stessa che, secondo Tolstoi, ha, per umana perfidia da una parte e debolezza dall’altra, lasciato distorcere e offuscare la verità più naturale di tutte, fondamento di ogni altra, che sarebbe la legge dell’amore.

Dato che Tolstoi annette grande importanza al fatto che la legge dell’amore si ritrova in tutte le tradizioni religiose, ma unita sempre al fatto, pure da lui notato, che fin dal principio della storia conosciuta gli uomini hanno vissuto divisi in tribù e nazioni, discordi e rivali tra loro, e in seno alle quali la forza di coercizione di una minoranza s’imponeva alla gran maggioranza degli individui, egli stesso autorizza a concludere che non v’è ragione di sperare o anche pensare che la «non resistenza al male», corollario di quella legge dell’amore per tanto tempo così efficacemente (e bisognerebbe aggiungere: naturalmente) pervertita, non subirebbe la stessa sorte.

E allora? Da dove verrà la fiducia in un metodo d’azione così paradossale come quello proposto da Tolstoi? Forse dalla fiducia nel progresso morale dell’umanità più che dal messaggio cristiano esso stesso; nella sostanza del quale, tuttavia, Tolstoi certamente credeva, il sentimento d’amore per il prossimo essendo considerato da lui fin dai primi scritti come segno e sinonimo di gioia traboccante. Giacché, mentre l’orgoglio dell’uomo moderno per il progresso materiale non trovava in lui altra risposta che il più sprezzante sarcasmo, gli rimaneva certo tenacemente ancorata nell’animo la fiducia nella possibilità di un progresso morale se non unanime, però almeno generale, dell’umanità. E questa gli veniva, sì, dal sentimento cristiano della vita, ma forse ancor più dalla philosophie des lumieres di cui era profondamente impregnata la sua mente. In questo senso, la «non resistenza» si potrebbe considerare la risposta razionale al fatto irrazionale della violenza organizzata, e a quello ancora più irrazionale e contraddittorio della violenza sistematica concepita come mezzo di stabilire sulla terra il regno di una giustizia concreta.

Tuttavia, se il progresso materiale, fondato sulla scienza e sulla tecnica, appare poca cosa quando lo si confronta al vero problema, che è quello di un mutamento stabile per il meglio della disposizione di intere masse d’individui, i suoi effetti, per quanto grossolani li si giudichi, hanno almeno il vantaggio di essere tangibili. Mentre il progresso morale armonico dell’umanità tutta intera appare, più che improbabile, inconcepibile. Tranne, beninteso, che non lo si voglia postulare come conseguenza automatica del progresso materiale, cosa che Tolstoi non era certo disposto ad ammettere.

Qual è dunque il vero movente della predicazione tolstoiana contro la violenza, e quale il fondamento vero del principio di «non resistenza»?

Per chi legga oggi i suoi scritti morali senza prevenzioni, la risposta non è dubbia: la contestazione veramente globale che Tolstoi opponeva alla societa contemporanea, la quale era secondo lui «fondata sull’assassinio» non solo perché fondata sulla divisione delle genti in tribù nazionali armate le une contro le altre, e ognuna contro i propri soggetti, ma soprattutto perché la violenza ne costituiva l’anima e il principio ispiratore; ed era una violenza che cominciava con l’esercitarsi sull’animo del fanciullo nella cosiddetta «educazione» e continuava con i costumi e i vizi della classe privilegiata, alimentati grazie alla violenza fatta agli «inferiori», per finire in quella delle istituzioni politiche e della scienza stessa, tutta tesa a far violenza sia alla natura che all’uomo stesso, in nome di una supposta razionalità. Al che bisognava aggiungere, secondo Tolstoi, la profonda vanità della cultura ufficiale e dell’arte stessa.

Dal punto di vista di tale contestazione davvero globale, l’idea che, usata contro una società radicata in modo così essenziale nella violenza, la violenza stessa, purché impiegata efficacemente da un determinato gruppo di persone, potesse riuscire ad altro che a perpetuare una tale pessima condizione di cose, non poteva che apparire assurda.

Insomma, quella contro cui Tolstoi si ribellava in nome di una religione che chiamò in un primo tempo cristianesimo, ma per la quale si può dire (sulla base di ciò che si legge nei diari degli ultimi anni della sua vita) che alla fine non trovava più nome, era la falsa religione della scienza.

Nella «Lettera a un indiano» si leggono su questo parole di una virulenza particolare: «Con la parola scientifico -scrive Tolstoi- s’intende la stessa cosa che era implicita un tempo nella parola religione, e cioè tutto quello che si chiamava religione si supponeva fosse sempre indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiamava appunto religione. Esattamente nello stesso modo, tutto ciò che oggi si chiama scienza è presunto essere indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiama scienza. Sicché, in questo caso, l’antiquata giustificazione religiosa della violenza, che consisteva nell’unicità e divinità dei personaggi che si trovavano al potere, è stata sostituita dalla giustificazione che consiste nel dire che, siccome la coercizione c’è sempre stata, questa è la prova che tale violenza deve continuare indefinitamente. L’idea che l’umanità non debba vivere secondo ragione e coscienza, ma obbedendo a ciò che è avvenuto da molto tempo a questa parte, si manifesta in quella che la scienza denomina legge della Storia… La seconda giustificazione scientifica della violenza è che, siccome fra le piante e gli animali esiste una continua lotta per l’esistenza che culmina sempre nella vittoria del più adatto, la stessa lotta dovrebbe esistere fra gli uomini… La terza giustificazione scientifica della violenza, la più autorevole e, sfortunatamente, anche la più diffusa è, in realtà, la vecchia giustificazione religiosa leggermente modificata. L’argomento è il seguente: nella vita sociale, l’uso della violenza contro alcuni per il bene della maggioranza è inevitabile; quindi, per quanto desiderabile sia l’amore del prossimo, la coercizione è inevitabile. La differenza fra la giustificazione della violenza da parte della pseudo-scienza e quella della pseudo-religione consiste nelle diverse risposte che esse danno alla domanda: perché certe persone, e non altre, hanno il diritto di decidere contro chi la violenza possa e debba esser usata? La scienza non dice che tali decisioni sono giuste perché pronunciate da persone investite di un potere che viene da Dio, ma che esse rappresentano la volontà del popolo…». E, in un’irruenta perorazione finale, lo scrittore conclude: «L’indiano, come l’inglese, il francese, il tedesco, il russo, non ha bisogno di Costituzioni, di rivoluzioni, conferenze, congressi, di nuovi ingegnosi congegni per la navigazione sottomarina o aerea, di esplosivi potenti, o degli aggeggi d’ogni sorta per il piacere delle classi ricche e governanti; e neppure di nuove scuole e università che propinino istruzione in scienze innumerevoli, né dell’aumento del numero dei giornali e del libri, dei grammofoni e dei cinematografi, e neppure delle sciocchezze infantili e in gran parte corrotte che vanno sotto il nome di arti. Una sola cosa è necessaria: la conoscenza di quella semplice e chiara verità… secondo la quale la legge della vita umana è la legge dell’amore, e che essa dà sia al singolo individuo sia all’umanità tutta intera la più grande felicità possibile».

La contestazione non potrebbe essere più globale, né l’affermazione più netta. Ma, mentre la contestazione appare oggi in una luce singolarmente vivida, e quasi profetica, l’affermazione rimane soggetta a un grande se, il se supremo, se così si può dire. Tolstoi lo esprime in un’iterazione molto significativa: «Se la gente si liberasse dalla credenza di ogni specie di Ormuzd, Brama e Sabbaoth, con le loro incarnazioni in Krisna e Cristi… nonché dall’idea di un Dio che interferisce nella vita dell’universo; se la gente si liberasse anche dalla fede cieca in ogni sorta di dottrine scientifiche su infinitesimi atomi e molecole, e ogni sorta di mondi infinitamente grandi e infinitamente remoti, i loro movimenti, la loro origine, e le forze relative; se si liberasse dalla fede implicita in leggi scientifiche teoriche cui si suppone che l’uomo sia soggetto: le leggi storiche ed economiche, quella della lotta per vita, eccetera; se soltanto la gente riuscisse a liberarsi da questo terribile accumularsi d’inutile esercizio delle capacità inferiori della nostra mente e della nostra memoria che si chiama “scienza”, da tutte le innumerevoli branche d’ogni sorta di storie, antropologie, prediche morali, batteriologie, giurisprudenze, cosmologie, strategie, il cui nome è legione; se solo la gente si liberasse da questa intossicante e rovinosa zavorra… la semplice, esplicita legge d’amore accessibile a tutti e così naturale all’umanità… diventerebbe naturalmente chiara e impellente».

In altri termini, se l’umanità non fosse quella che è, e non fosse arrivata al punto in cui è arrivata, allora il messaggio tolstoiano sarebbe accolto unanimemente da tutti… Stando le cose come stanno, si potrebbe concludere che è la violenza, e non la legge d’amore, che è «naturale» all’umanità o, per essere più precisi, inerente alla situazione stessa dell’uomo nel mondo, oltre che alla sua «natura»; e che quindi un mutamento radicale -una metanoia- come quello postulato da Tolstoi è impensabile più ancora che impossibile.

Arrivati a una tale conclusione, però, il discorso non può essere chiuso. Se la violenza, infatti, è naturale all’uomo, non meno naturale in lui -o, meglio, in un certo numero di loro- è il disgusto per la violenza bruta, la sopraffazione, la coercizione. Ammesso pure che nessuno dei due impulsi possa esser elevato a legge universale, e con essi nemmeno la cristiana e tolstoiana «legge d’amore», bisogna pur rispondere alla domanda che cosa possano pensare e fare coloro che rifiutano per istinto la violenza come mezzo per rendere più giusta la società in cui vivono.

La conclusione relativamente scettica che si può trarre dal discorso di Tolstoi sulla «non resistenza» è che l’appello all’umanità in genere perché riconosca una volta per sempre la «legge d’amore» e adotti la «non violenza» come mezzo per realizzarla non è sufficientemente giustificato. Dal che consegue che -vigoroso come rimane per la radicalità stessa della tesi- il discorso di Tolstoi diventa però debole nella misura in cui implica l’idea che la «non violenza» sia un mezzo pratico per far fronte alla violenza di cui è capace uno Stato moderno tecnicamente efficiente. La sua autorità rimane, cioè, puramente morale.

Se torniamo al testo su cui Tolstoi fondava esplicitamente la sua tesi, e cioè il Vangelo di Matteo (5, 58-45), notiamo subito che le parole qui attribuite a Cristo non potrebbero essere più chiare su un punto, e cioè che in esse si rifiutano insieme il principio sancito dalla legge ebraica (Levitico, 24, 17-21) «occhio per occhio, dente per dente» e quello greco, non sancito da alcuna legge, ma accettato come naturale anche da Socrate e da Platone, secondo il quale «è giusto fare il massimo bene agli amici e il massimo male ai nemici». «Vi fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici… poiché siete figli del Padre vostro che è nei cieli» risponde Cristo.

Che questa sia, in un certo senso almeno, l’essenza del messaggio cristiano non sembra si possa negare. Si noterà solo che nelle parole di Cristo si avverte anche l’eco di quell’universalismo «umanista» -o «cosmopolita»- già da tempo diffusi nella cultura ellenistica. È comunque certo che nel passo di Matteo si trova anche l’essenza di quella che Nietzsche chiamò con sovrano disprezzo «religione dei deboli».

Sorge a questo punto una delle domande cruciali che si sollevano di solito nel discutere di violenza e di non violenza: «Fino a che punto il debole è debole?».

Da una parte, quando a Tolstoi si obiettava che, non resistendo al male, non si otterrebbe altro che di lasciarlo trionfare, e quindi di lasciarsene distruggere, la risposta era che ciò sarebbe stato pur sempre male minore di una resistenza violenta dei deboli oppressi, la quale, mentre avrebbe causato male e distruzione aggiunti a quelli causati dai malvagi, non avrebbe neppure salvato i deboli dalla disfatta finale, dato che il potere organizzato è sempre più forte di quello che possono improvvisare gli oppressi inermi.

D’altra parte, però, oggi sappiamo bene che, quando si riesca con tecniche opportune a formarli in «masse», i «deboli» possono acquistare una forza insospettata e, scatenata da loro, la violenza può avere effetti alquanto devastatori. I deboli non sono deboli che quando sono oppressi e disarmati. E, d’altro lato, la forza dei moderni mastodonti meccanici non è neppur essa tanto forte quanto sembra. Nel fatto stesso dell’oppressione -di esser costretti a opprimere e reprimere- è implicito il timore di una forza latente incalcolabile, e di una violenza che, una volta scatenata, non ci saranno dighe capaci di arginarla.

Questo per sottolineare che l’argomento secondo cui la predicazione della «non resistenza al male» si fonda sulla debolezza dei deboli e sul fatto che essi sono disarmati è molto superficiale. Nella realtà delle situazioni sociali, debolezza e forza sono comunque dei fatti molto relativi; ed è stolto, in tale materia, fidarsi delle apparenze. Deboli erano i milioni di ebrei massacrati da Hitler; ma deboli anzitutto in quanto furono, per dir così, sorpresi nel torpore di un’esistenza pacifica: la rivolta del ghetto di Varsavia mostra che avrebbero anche potuto essere forti, perlomeno fino al punto da causare seri fastidi ai loro organizzatissimi carnefici. Forti, d’altra parte, contro il più forte Stato del mondo, si son dimostrati i guerriglieri vietnamiti. E oggi, la questione se la forza meccanizzata sia forte quanto sembra è diventata una questione molto seria. Uno dei fatti che sono apparsi chiari dalla gara per la strapotenza atomica è, ad esempio, che le forze contrapposte dei mezzi di distruzione moderni possono paralizzarsi (o atterrirsi come giustamente si dice) a vicenda.

Non si tratta dunque di forti e di deboli, ma di ben altro: di un principio da accettare o da rifiutare. Nel testo di Matteo, la «non resistenza al male» è espressa in forma di precetto universale fondato su una legge ugualmente universale: la legge secondo la quale gli uomini sono tutti figli di uno stesso Dio che fa «levare il suo sole sui buoni e sui malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gl’ingiusti».

Ma appunto per questo è d’altra parte chiaro in primo luogo che, parlando come parlava, Cristo non concepiva la non violenza come un metodo d’azione pratica da opporre alla pratica della violenza. Egli parlava evidentemente agli individui uno per uno, e concepiva le sue massime come norme di condotta individuale, da adottare senza considerazione alcuna d’efficacia. Si può dire, come è stato detto in sede di considerazioni storiche, che le sue parole avevano un senso molto preciso, rivolte com’erano a un popolo che aveva vivo il ricordo di rivolte sanguinose ed eroiche e della loro inutilità ai fini dell’abbattimento del potere di Roma.

Ma, in sostanza, ridotto in prosa esplicativa, il significato da attribuire alle parole di Cristo sembra essere questo: c’è l’oppressore armato e c’è l’oppresso disarmato; ci sono il potente, il ricco, il forte, e c’è l’indifeso, il povero, il debole. L’oppressore opprimerà finché ne avrà la forza. Che cosa potrà fare l’oppresso per rimaner fedele a se stesso e al Dio padre di tutti gli uomini nel quale crede? Non resistere al male perché è male in primo luogo, ma anche, al tempo stesso, perché non ne ha la forza. E non resistere non vorrà dire riconoscere il male e l’ingiustizia, ma anzi separarsi visibilmente dall’uno e dall’altra, mostrare negli atti che si è diversi dal malvagio. Il gesto di porger l’altra guancia a chi vi colpisce sarà appunto testimonianza visibile ed esempio di tale separazione e distanza. Ed esso non vorrà dire lasciare il campo libero al male, anzi fermarlo lì, non perpetuarlo opponendogli altro male, altro odio, altra violenza. D’altra parte, con questo il cristiano non pretenderà neppure di compiere un atto efficace, o di mettere in opera un metodo capace di vincere il male. Egli obbedirà alla legge del Dio in cui crede, e basta.

Qui sta forse la differenza fra il senso originario della parola di Cristo e la sua interpretazione da parte di Tolstoi, la quale assumeva la forma di un imperativo categorico non solo, ma anche di un principio efficace che si poteva validamente opporre al principio di violenza giustiziera predicato dai rivoluzionari. Donde i molti equivoci cui ogni movimento d’azione non violenta, da quello di Gandhi a quello di Martin Luther King, ha dato adito, primo fra tutti il tralignamento nella violenza cui è fatalmente soggetto. Ma più grave ancora dei dubbi e delle obiezioni teoriche è il residuo di impersuasione che permane anche dopo che siano state debellate le obiezioni teoriche.

La ragione prima di tale impersuasione è molto semplice: sta nell’impossibilita di fare appello a un gran numero di individui (anzi, in teoria, al genere umano in quanto tale) perché agisca in un dato modo senza in primo luogo fomentare la speranza di effetti immediati o comunque rapidi e, in secondo luogo -derivazione diretta di ciò- andare incontro a conseguenze imprevedibili: prima fra tutte, in questo caso, lo scoppio «naturale» della violenza nei momenti in cui «forti» e «deboli» si trovino faccia a faccia non individualmente, ma in massa. A questo punto, il diritto del debole a difendersi dalla violenza con la violenza rientra fatalmente in campo, come potè facilmente argomentare Martin Buber in risposta all’articolo nel quale, nel novembre 1938, Gandhi aveva consigliato agli ebrei tedeschi di adottare verso i nazisti il metodo della non violenza, anziché impegnarsi nella lotta per conquistarsi una patria in Palestina. Il che, d’altra parte, non significa che gli argomenti di Buber fossero logicamente più forti di quelli di Gandhi: quella che era forte era l’obiezione di fatto, accompagnata dal sentimento della giustizia offesa.

Ma, per tornare al Vangelo, quel che Cristo raccomanda nel Sermone della Montagna non è un metodo efficace, e neppure un comportamento di uomo «semplice» (il quale obbedisca, cioè, a un impulso irriflesso), bensì una condotta di uomo molto consapevole, dotato di una coscienza viva non solo del male che nasce dall’odio e dalla brutalità, ma anche della natura del vincolo sociale e delle condizioni in cui esso può essere mantenuto e ingentilito: un uomo, in altri termini, altamente «civile», o semplicemente «socievole», che è anche più chiaro. L’idea che Cristo si rivolgesse a folle ignare e rozze è certo fittizia: in primo luogo, egli parlava a pochi («Chi ha orecchi per intendere, intenda») e, in secondo luogo, questi pochi appartenevano a una società talmente provata dall’ingiustizia da una parte, e talmente ricca di fermenti spirituali dall’altra, che l’anelito verso una visione redentrice poteva assumervi forme addirittura febbrili.

Ma non è questo il punto cruciale del discorso. La questione che qui si vorrebbe chiarire per quanto possibile è un’altra, e cioè che senso si possa dare al principio cristiano di non resistenza al male in termini di vita morale e di effetto sulle coscienze.

C’è evidentemente, per primo, il rifiuto di agire come il malvagio e l’oppressore, la volontà di separarsi nettamente da lui: tanto nettamente da non tollerare neppure l’ombra del rancore o il pensiero nascosto della vendetta.

Ma in secondo luogo -sempre che non la si tratti come un’idea generale, bensì come un invito rivolto alla coscienza dell’individuo- c’è nella «non resistenza» il desiderio di preservare quel che è possibile preservare sia della vita fisica che della vita morale: una certa «integrità» non solo della persona singola, ma anche della società aggredita dal male; e il male non è soltanto la violenza vera e propria -quella armata- ma anche la prevaricazione smodata della ricchezza, l’arroganza dell’abilità tecnica (con il suo corollario: l’imposizione forzosa del cosiddetto «progresso»), nonché la presunzione della scienza, con il corollario della «culturalizzazione» coatta.

Si noti che queste conseguenze del principio evangelico riguardano tutte la difesa e la preservazione di una certa libertà «naturale», anzi puramente e semplicemente la libertà dell’animo umano: la dipendenza degli uomini dal Padre comune li affranca da ogni altra dipendenza e li incita a rifiutare ogni servitù temporale. Si noti però anche la parte che, nelle parole di Cristo, rimane paradossalmente «inattiva»: è quella contenuta nell’esortazione ad amare i propri nemici, la quale poi è parte integrante dell’universalismo del messaggio cristiano, del fatto, cioè, che esso si rivolge indistintamente a tutti gli uomini.

Non odiare -essere incapaci di odio- è un fatto morale semplice. Antigone sapeva che cosa fosse, quando si diceva «nata per amare, non per odiare». Ma «amare i propri nemici» che senso può avere, nella realtà dell’esperienza? Non si può amare che ciò che è amabile, e il carnefice, l’aguzzino, il prepotente non sono amabili. L’amante non corrisposto può dimostrare la forza del suo amore sacrificandosi per l’amata, distruggersi nel tentativo disperato di strapparle l’amore che essa non prova. Ma l’oppresso, che cosa può fare per vincere la brutalità dell’oppressore e renderlo più umano? Solo non resistergli, appunto, tentare di disarmarlo facendo cadere nel vuoto l’impeto della sua furia, della sua rapacità o della sua barbara sicurezza di essere nel giusto e di star esercitando un giusto potere. Ma questo non è un atto d’amore, né c’è necessità alcuna che lo sia. È un esempio di umanità che toccò raramente gli antichi persecutori e non sembra abbia mai toccato i persecutori moderni, ben altrimenti addestrati alla cecità morale.

L’atto di non resistere al male è, a considerarlo nella sua singolarità, un atto negativo che afferma, senza speranza alcuna di riuscire efficace, la presenza, nell’uomo, di una realtà che trascende ogni evento materiale, compresa la distruzione fisica. Tale atto potrà avere l’effetto inatteso di riuscire a stabilire col «nemico» un rapporto umanamente tollerabile, ma non è a tal fine, comunque, che sarà stato compiuto, bensì, come ogni atto umano autentico, per inevitabile necessità interiore. Il suo valore morale non dipenderà certo dal fatto di far parte di un «metodo d’azione» supposto efficace.

Ma, alla fine, che cos’è dunque realmente quest’atto negativo di non resistenza? È un atto col quale si riconosce il fatto della forza maggiore senza per questo umiliarsi a giustificarla o a guadagnarsi il favore del più forte, ma tuttalpiù per ottenere, in cambio del riconoscimento della strapotenza di quello, la nuda sopravvivenza.

Ora, questa era l’intenzione che ritroviamo all’origine del gesto greco del «supplice»: ikétes. Il supplice non si umiliava: era già umiliato dalla sventura, colpito dagli Dei, sacro. Il suo atto era un primo molto umano tentativo di risollevarsi, un chinarsi per poter alzare di nuovo il capo, e si esprimeva nel gesto di abbracciare le ginocchia del vincitore o del potente. Il gesto era considerato già di per se stesso audace, tanto che Ecuba, in Euripide, si domanda se non sia già troppo osare avanzarsi fino a stringere le ginocchia di Agamennone: il gesto comportava infatti un contatto fisico e, con questo, l’evidenza della comune umanità, rendendo empio di fronte a Zeus chi si fosse rifiutato di far grazia.

Se non la si idealizza facendone un principio universale astratto e un metodo d’azione, la «non resistenza al male» finisce dunque col somigliare alla «non resistenza al Destino» che, per il greco, era non già un principio etico, ma un semplice riconoscimento della realtà di fatto. Giacché, a ben riflettere, Destino e Male, che si tratti di azioni umane o di catastrofi naturali, sono la stessa cosa.

he nell’uomo e nella sua «storia» sia all’opera la stessa necessità che agisce nella natura, e che dunque il male che viene all’uomo dalle azioni dell’uomo stesso sia altrettanto misterioso e inevitabile quanto quello causato dallo scatenarsi delle forze della natura (le quali noi chiamiamo «cieche» unicamente perché non hanno aspetto umano), questa è la verità contro cui recalcitra l’uomo moderno, ostinato com’è nella convinzione insolente che l’uomo è, in ultima analisi, l’autore e l’origine prima delle sue azioni, e quindi anche del suo destino. Ma se si torna a riflettere sul modo di vedere degli antichi greci, secondo cui il fondo delle cose è uno ed eternamente oscuro, e non è neppure possibile dire di che natura sia la necessità che governa ogni moto, allora quello che noi chiamiamo «male» e che consideriamo errore o colpa fatale, sì, ma in teoria pur sempre eliminabile per via d’astuzia, d’abilità tecnica o di opportuna violenza, ci apparirà della stessa natura del Destino; e l’ordine umano, allora, non ci parrà ultimamente meno arcano di quello dell’Universo; e quindi, da ultimo, neppure più docile di esso alla nostra volontà demiurgica. La lezione appresa per questa via sarà una lezione di misura, non di inerzia.

Ma l’uomo contemporaneo rimane, almeno nelle sue dichiarazioni e azioni pubbliche, convinto che la forza dei meccanismi, delle armi e del potere organizzato lo rende ormai capace di opporsi efficacemente sia al Male che al Destino, riducendone progressivamente gli effetti fino ad annullarli del tutto, o almeno a ridurli e contenerli a tal punto da poter dire di averli praticamente eliminati.

L’idea di mobilitare la Forza per abolire il Male sulla terra (e specialmente nella società) è la grande idea moderna. Essa continua a far strage da quasi due secoli, e da cinquant’anni a questa parte a un ritmo pazzamente accelerato. Giacché, facendosi signore della Forza, l’uomo si fa anche signore e arbitro del Male, avanzando di fatto la pretesa di onnipotenza, o almeno di rappresentare lui l’unica potenza efficace, in quanto dotata d’intelligenza. Così egli rischia di far tornare ogni cosa al caos primigenio attraverso lo scatenamento della violenza, dell’ingiustizia e del Male allo scopo finale di far regnare il Bene assoluto.

È di fronte a questa arroganza assoluta che il principio di non violenza, proprio mentre si mostra inefficace come metodo d’azione, viene ad assumere il significato semplicissimo di affermazione di un modo di concepire la vita e di viverla tutt’altro da quello contemporaneo: un modo che non si esprime né in messaggi evangelici né in catechismi né in manifesti politici, ma consiste per cominciare nella fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo il suo proprio ritmo e la legge inscrutabile che opera in ogni cosa è vera e vale, mentre i mutamenti sono tanto più illusori quanto più repentini, violenti e totalitari. Ciò non significa rifiutarsi di partecipare alle vicende della vita associata, ma solo dare alla politica la sua parte e negarle ciò che non le spetta.

Questo si può esprimere anche nelle parole di Lao Tse: «Chi agisce con violenza può ottenere il suo scopo, ma solo ciò che rimane fermo al suo posto dura».

Nicola Chiaromonte

Stato e minoranze rivoluzionarie

Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Ci è giunto, con questo titolo, un comunicato che porta l’indicazione «Faro – Agenzia stampa», con sede a Vigevano, e della quale è direttore responsabile Gian Franco Invernizzi. Non conoscevamo l’agenzia Faro, né conosciamo il suo direttore, ignoranza di cui ci scusiamo. L’articolo che porta il suddetto titolo, ed è da lui siglato, ci è parso comunque interessante, in quanto, nella non poca confusione di motivi che accompagna la sommossa degli studenti, c’è qualcuno che ha voluto mettere i punti su qualche i e cercare di distinguere ciò che va distinto, anche se poi le distinzioni si prestano secondo noi a critiche sostanziali. Lo pubblichiamo perciò qui di seguito per intero, facendolo seguire da alcune osservazioni.

Le recenti manifestazioni studentesche che si sono sviluppate in Europa e in America sui temi della “contestazione globale” ad opera di minoranze insofferenti alla organizzazione della società quale si è venuta configurando in Occidente, rappresentano un fenomeno politico di tipo nuovo nel sistema occidentale. Nonostante le apparenze, è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la “rivoluzione culturale” in Cina. Anche nei Paesi occidentali il moto autonomo e spontaneo dei gruppi studenteschi si è manifestato contro la burocrazia politica. Ma, mentre la “rivoluzione culturale” cinese non contesta il sistema vigente, limitandosi a prenderne di mira alcuni aspetti, alcune frange riformiste e autoritarie, in Occidente il movimento studentesco mette in discussione l’organizzazione della società, il “sistema”. Il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune “tare” autoritarie, in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione. L’uno infine è un fatto di massa, l’altro un fatto di élite, di avanguardia. È altrettanto sbagliato vedere analogie fra le manifestazioni studentesche in Occidente e quelle dei Paesi dell’Est europeo, Polonia e Cecoslovacchia in particolare. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi occidentali contesta un tipo di sistema che ha raggiunto una avanzata fase “consumista” nel quadro della società industrializzata. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo, contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà, tout court. Il movimento politico studentesco in Occidente si presenta in realtà più “avanzato” nei suoi contenuti di tutta una fase storica rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo. In questa differenza di “qualità” e di “quantità” nei fenomeni politici giovanili delle aree comuniste, moscovita e cinese e dell’area occidentale, c’è spazio per un discorso franco e obbiettivo. La violenza delle manifestazioni di alcuni gruppi politici in Occidente sembra direttamente proporzionale al grado di “integrazione” delle varie classi sociali nel sistema. Più il sistema “integra”, più sembra radicalizzarsi nei Paesi industrializzati dell’Occidente l’azione di alcune minoranze, fino all’uso della violenza, da parte di alcuni gruppi più ristretti, come strumento di protesta e di lotta politica. Non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale. Si perviene quindi, ed è bene parlarne, ad uno dei temi più delicati e cruciali, quello cioè del rapporto fra lo Stato e l’azione di alcuni gruppi quando questa sfocia nella violenza. Nelle moderne società industrializzate, l’apparato produttivo raggiunge un alto grado di efficienza e sempre più complessa diviene l’organizzazione civile. L’azione irresponsabile di gruppi violenti, che potrebbe arrecare all’una e all’altro danni gravi, non può essere tollerata. Vi è pertanto un problema di prevenzione, di “democratizzazione” e un problema di repressione. Vi è la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei ed efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione. Occorre prevenire e reprimere le azioni di violenza, lasciando la più ampia libertà di espressione a tutti. Purtroppo, a considerare da come ci si è mossi nei Paesi europei occidentali nei confronti delle manifestazioni studentesche, v’è da temere che da parte delle vecchie classi politiche che si trovano a gestire (male) il “sistema”, si assumano atteggiamenti radicalmente sbagliati. Reprimendo cioè libere e lecite manifestazioni di cittadini e mostrandosi deboli, incerti, persino paurosi e codardi nei confronti delle azioni di violenza di alcuni gruppi politici minoritari. In America ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza.

È bene che, per cominciare, il direttore dell’agenzia Faro abbia tenuto a dire chiaramente che «è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la “rivoluzione culturale” in Cina». Quando però egli aggiunge che «il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune “tare” autoritarie», mentre «in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione», è difficile non rilevare che, per quanto se ne sa, e quali che siano peraltro stati i suoi effetti e meriti eventuali, la «rivoluzione culturale» cinese ha avuto in ogni caso il carattere di un movimento scatenato dall’alto, sostenuto dal meccanismo statale non poco autoritario che regge attualmente la Cina e in particolare dal formidabile centro di potere costituito dal dittatore Mao Tse Tung e dai suoi fedeli.

Tale movimento è d’altra parte tornato nell’alveo prestabilito non appena detto centro di potere -e più particolarmente il potere militare- ha ritenuto che le cose fossero andate abbastanza avanti, gli scopi prefissi più o meno raggiunti, e i pericoli del preordinato straripamento più grandi ormai dei possibili vantaggi che esso poteva offrire, al fine di sgominare la resistenza di certi quadri del partito e del regime al potere del dittatore Mao Tse Tung. Chiudere le scuole, scatenare quaranta milioni di ragazzi sulle strade e nelle città della Cina, mettendo a loro disposizione le ferrovie e gli altri mezzi pubblici di trasporto e procurando che venissero nutriti e alloggiati a spese dello Stato, sono misure forse politicamente geniali, ma che non sembrano caratteristiche di un movimento spontaneo destinato a «purificare» un regime delle sue «tare autoritarie». Si direbbe piuttosto che un tal movimento è tipico di un moderno e assai astutamente concepito regime di massa. E regime di massa è sinonimo, ci sembra, di regime non solo autoritario, ma totalitario. Ciò non soltanto, nella fattispecie, per la mostruosa fanatizzazione condotta in base al famoso libretto dei pensieri di Mao, ma semplicemente perché manovrare le masse (e in particolare le masse giovanili) per mezzo di meccanismi ideologico-burocratici, anche e soprattutto quando le si scatenano contro obbiettivi prestabiliti, è il segno non equivoco dei regimi totalitari moderni, passati, presenti e (probabilmente) futuri.

Ribellarsi contro un «sistema» -quello occidentale- definito «autoritario» e «alienante» basandosi su tali esempi e su tali definizioni sembra parecchio contraddittorio. A meno, naturalmente, che la «rivoluzione» auspicata non sia di specie massiccia e totalitaria: un’ideocrazia sostenuta da una burocrazia, diretta (come sembra suggerire la nota di Gian Franco Invernizzi) a sgominare ogni bieco «riformismo ».

Ma in qual modo d’altra parte conciliare un simile ideale (se di esso si tratta), o quanto meno un simile giudizio e la logica in esso implicita, con l’affermazione che, contrariamente a quello cinese, il movimento studentesco occidentale è un «fatto di élite, di avanguardia»? Sarà esso per caso qualcosa di analogo all’«avanguardia del proletariato» secondo Lenin (diciamo «secondo Lenin» e non «secondo Marx» perché la concezione che aveva Marx dell’avanguardia rivoluzionaria era alquanto più complessa di quella nettamente minoritaria e autoritaria, propria di Lenin)? Ma, in tal caso, sarebbe pur sempre a un regime di massa che si aspirerebbe, a quella dittatura del proletariato della quale già prima del 1914 Charles Peguy diceva che gli sarebbe piaciuto sapere chi -quale individuo particolare- l’avrebbe impersonata e esercitata.

Una dittatura, quale che sia il motto sulla sua bandiera, ha, fra le altre conseguenze, quella di «alienare» duramente non solo tutti coloro che non l’applaudono e non se ne lasciano irreggimentare, ma anche (e forse soprattutto) quelli che la applaudono e la seguono entusiasti: basta il fatto di vestire un’uniforme, di agitare un libretto, di sfilare in parata, di alzare il braccio nell’una o l’altra forma di saluto al «capo geniale» per essere alienati e asserviti in quanto individui autonomi e possibilmente pensanti. Sarebbe interessante conoscere l’opinione del direttore responsabile dell’agenzia Faro su questo punto, con aggiunta la dimostrazione della superiorità dell’alienazione proletaria, socialista, comunista, o comunque denominata, su quella attribuita al neocapitalismo «consumista».

D’altra parte, con generoso impulso, il direttore responsabile dell’agenzia Faro prende partito in favore dell’attuale rivolta della gioventù e degli intellettuali in Cecoslovacchia e in Polonia (e insomma anche in Russia) contro i rispettivi regimi totalitari, affermando che «l’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà tout court». Il quale fatto sembra peraltro, all’autore di questa nota, indicare che il movimento occidentale è «più avanzato, nei suoi contenuti, di tutta una fase rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo».

Strana argomentazione. La «formale creazione di istituti» di cui si tratta in Cecoslovacchia e in Polonia è, in sostanza, esigenza di democrazia effettiva nella gestione degli affari pubblici e di «libertà tout court» quanto al diritto di comunicare con i propri simili sia per mezzo della parola parlata che della stampa e degli altri mezzi d’espressione. In che senso in Occidente tali diritti e istituti «cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza»? In che senso, poi, tale usura e inadeguatezza sarebbero prove del carattere più avanzato dei movimenti studenteschi occidentali? Sarebbe per caso ormai, in Occidente, la «libertà tout court» «un cadavere putrefatto», secondo la celebre asserzione fatta nel 1922 da un notevole manovratore di masse di nazionalità italiana, del quale certo il direttore responsabile dell’agenzia Faro non ha bisogno che gli si ricordi il nome? E sarebbe d’altra parte per caso l’«alienazione» di cui tanto si parla altro che asservimento e mancanza di libertà? Non potrebbe per avventura darsi che ogni rivendicazione politica, quale che ne sia l’impulso ispiratore, fosse sempre una rivendicazione di «libertà tout court», di libertà senza aggettivi, e che un tal fatto andasse riconosciuto una volta per tutte da tutti coloro che si dicono «rivoluzionari», e i quali invece oggi indulgono in una distinzione fra «vera libertà» e «falsa libertà», «libertà concreta» e «libertà astratta» che non può non confondere le idee e far dimenticare il senso della cosa di cui si tratta? La quale è proprio la libertà tout court, anzi la libertà formale, la libertà come forma del vivere civile, eguale per tutti e a disposizione effettiva di tutti: la libertà che Rosa Luxembourg rivendicava fieramente di fronte a Lenin nell’ora del trionfo della dittatura del proletariato, e cioè di quella «libertà concreta» rappresentata, secondo il medesimo Lenin, dal «fucile sulla spalla dell’operaio».

Ma, se non sembra avere idee molto chiare quanto alla libertà e alla democrazia, il direttore responsabile dell’agenzia Faro, bisogna riconoscerlo, si rende conto della china pericolosa su cui si può scivolare seguendo il richiamo del mito rivoluzionario. Questa china è secondo lui, quella della violenza, la quale apparirebbe tanto più attraente, come strumento di lotta politica, quanto più forte diventa «il grado d’integrazione del sistema». E di fronte a questa attrattiva sempre più grande della violenza, «non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale».

La conclusione di Gian Franco Invernizzi è che esiste, nelle nostre società, «un problema di prevenzione, di democratizzazione e un problema di repressione», quindi «la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei e efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione». Ad esempio di buona soluzione di un tal problema, il direttore dell’agenzia Faro non esita a proporre quello dell’America, «dove ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza».

Conclusione altrettanto sensata quanto inattesa. E tuttavia poco convincente. Non solo perché ci sarebbe pur qualcosa da dire sui metodi usati dalla polizia americana quando si trova dinanzi a scoppi di violenza di massa, ma soprattutto per l’ovvio non sequitur del ragionamento. Il quale non sequitur si riduce a questo: se il «richiamo riformista» è inutile, e quel che le minoranze rivoluzionarie studentesche vogliono è il mutamento totale del «sistema», la violenza è il mezzo non solo logico ma inevitabile a cui esse devono ricorrere, correndo al tempo stesso il rischio -è evidente- della violenza contraria dell’apparato repressivo statale. Non si può volere tutto, e volerlo nel futuro immediato, senza perciò stesso volere la violenza: la violenza è già nell’idea, e dall’idea al fatto il passo è più che breve.

Ma se poi «rifiuto del sistema» e «contestazione globale» sono dei modi di dire massimalisti (come in fin dei conti sembra il caso nella sommossa degli studenti), e si tratta invece in sostanza di «richiamo riformista», e di «lasciare a tutti la più ampia libertà d’espressione», allora non siamo forse nell’«ambito del sistema» (il quale, in Italia come in altri luoghi d’Occidente, è a dir poco alquanto ambiguo sia quanto a energia riformista che quanto a libertà di espressione), ma siamo certo fuori dal rivoluzionarismo senza oggetto di cui tanto abuso s’è fatto, e per tanti anni, assai prima che dai giovani, dai loro pessimi maestri e falsi pastori intellettuali.

Chiaromonte, l’America e “l’etica del limite” nell’età dell’estremismo

Sono onorato di essere qui oggi a condividere alcune riflessioni su Nicola Chiaromonte, eroica figura antifascista della “Generazione della Resistenza”, la vita e l’opera del quale, saranno presto, così spero, celebrate e studiate con maggiore ampiezza sia in Italia, suo paese natale, che in altri paesi. Nello specifico, vorrei parlarvi dell’impatto che Chiaromonte ebbe su un gruppo influente di americani mentre si trovava in esilio a New York negli anni ’40. Il suo umanesimo, che lasciò una traccia così profonda, fu il frutto di una dura esperienza di vita durante l’era di Hitler e Mussolini e delle ideologie che giustificarono il genocidio durante la seconda guerra mondiale; rappresentò la speranza che potesse esistere un’alternativa, che la giustizia, il dialogo e l’idea di comunità fossero ancora praticabili pur nell’ombra dell’Olocausto e di Hiroshima. Io sono convinto che le idee di Chiaromonte, fondate sul principio etico classico del “limite”, siano più attuali che mai oggi, a trent’anni dalla sua morte, non solo per gli americani, ma per molti altri che fanno parte della comunità globale, specie in quest’epoca caratterizzata dall’estremismo e dagli abusi di potere.

  1. Ho scoperto Nicola Chiaromonte una decina di anni fa, mentre facevo ricerche per la mia dissertazione di dottorato: uno studio sulla figura del dissidente newyorkese Dwight Macdonald, giornalista e critico. Macdonald era un membro del gruppo della “Partisan Review” che nel 1930 si occupava di marxismo -prima che le purghe di Stalin lo inducessero a rifiutarne le pretese utopistiche. Macdonald mi interessava in quanto il più vivace, iconoclasta -e quindi meno datato- degli intellettuali newyorkesi di quel periodo. Chiaromonte una volta lo descrisse affettuosamente come un’”intelligenza libera”, “un americano vecchio stile, un individualista esuberante e ricco di immaginazione”, come da miglior tradizione del paese che, per carattere e convinzioni, risultava incapace di ortodossia ideologica (questo andava con l’idea di Chiaromonte che “nessuna ideologia preconfezionata poteva avere presa sulla realtà americana”). Altri furono meno indulgenti sulle eccessive esuberanze di Macdonald. Un esasperato Leon Trotsky, alla fine degli anni ’30, mentre rifiutava con rabbia le domande sugli esordi sanguinosi della Rivoluzione bolscevica, commentava il suo atteggiamento con queste parole rimaste famose: “ognuno ha diritto alla propria stupidità ma il compagno Macdonald abusa di questo privilegio”. All’interno dell’atmosfera di conformismo patriottico e di autocensura che caratterizzò l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, Macdonald fu uno dei pochi che rifiutò di mettere a tacere le sue facoltà critiche. Nel 1944 aveva lasciato la “Partisan Rewiew” per mettere in piedi un proprio giornale di opinione, chiamato semplicemente “Politics”, che doveva servire come forum di discussione sulle politiche degli stati alleati, per dar voce ai rifugiati europei e ai veterani della Resistenza e per incoraggiare il dialogo fra le alternative democratiche alle potenze militarizzate che, come giustamente aveva predetto, si sarebbero trovate l’una di fronte all’altra dopo la fine della guerra.

Fu durante questo periodo di sperimentazione che Macdonald incontrò e divenne amico di Nicola Chiaromonte, nuovo ingresso nella crescente comunità di esuli a New York. L’influenza fu immediata e così totale da far dire in seguito a Macdonald che la rivista “Politics” era “una coproduzione italo-americana”. Anche la scrittrice Mary McCarthy entrò a far parte di questo gruppo di amici. Per lei “parlare con Chiaromonte fu un’esperienza nuova e così stimolante che non si esaurì mai”. McCarthy ricordava con particolare tenerezza le discussioni dell’estate ’45 su Shakespeare, Tolstoj e la misteriosa scrittrice contemporanea Simone Weil, durante una vacanza a Cape Cod la cui tranquillità fu distrutta dalla notizia della bomba atomica. Chiaromonte ammirava l’apertura e l’entusiasmo dei suoi amici americani che, a loro volta, erano affascinati dalla calma saggezza, dalla profondità e dalla “serietà” di “questo bell’uomo, scuro di pelle, che sembrava un monaco”.

Come altri esuli del gruppo Macdonald-McCarthy, legati alla rivista “Politics” (importante era la presenza di Hannah Arendt), Chiaromonte aveva portato con sé il peso di anni di lotta al fascismo e alle sue orribili conseguenze. La maggior parte di voi conosce la sua storia. Nato nel 1905 nel sud, nella cittadina di Rampolla, Chiaromonte non perse mai l’amore per la forza, la dignità e l’innato anarchismo dell’ambiente contadino che l’aveva circondato nei suoi primi anni. Durante gli studi a Roma, presso i gesuiti, preferì l’umanesimo classico alle astrazioni teologiche in voga allora, sia cattoliche sia marxiste. Seguì l’esilio da Mussolini a Parigi, sotto la tutela di Andrea Caffi e del gruppo “Giustizia e Libertà”, e la pericolosa partecipazione alla guerra di Spagna con André Malraux. Il saggio di Chiaromonte che rendeva omaggio all’idealismo dei repubblicani a fianco dei quali aveva combattuto apparve nel 1939 negli Stati Uniti sulla rivista “Atlantic Monthly”.

“Stando insieme a queste persone talvolta uno ha l’impressione di essere in mezzo a tanti Patrick Henrys (eroe della rivoluzione americana del 1776, Ndr) -scriveva Chiaromonte- ‘Libertà o morte’ sembra essere il motto generale. Essi hanno in comune l’urgenza di liberare il mondo intero dalla minaccia fascista e questo spesso si esprime col darsi delle arie e assumere degli atteggiamenti. Ma c’è anche la fede, una fede fanatica fondata su un concetto semplicissimo: un paese libero e una società fatta di persone oneste, che non debbano patire la fame né vestire di stracci. Esiste qualcosa di più semplice di tutto questo?”.

Poi venne quella che Chiaromonte definì “l’ora zero dell’umanità”, ovvero le prime sconvolgenti vittorie della guerra-lampo nazista. Con la caduta di Parigi nella tragica primavera del 1940 Chiaromonte fu costretto a scappare di nuovo, perdendo la sua prima moglie durante il difficile viaggio verso sud, ma traendo un po’ di conforto dalla generosità e dalla resistenza degli amici rifugiati in quelle comunità improvvisate.

“A Toulouse c’erano degli amici, c’erano compaesani che parlavano il proprio dialetto, c’erano gli amici degli amici; un uomo poteva trovare un letto e qualcosa da mangiare. Arrivavano da ogni luogo: dalle loro case, da reggimenti stranieri, da gruppi di lavoro forzato, da campi di concentramento, dalla Lorena, dall’Alsazia e anche dai sobborghi di Parigi, dal Belgio e finanche dall’Inghilterra, via Dunkerque… Ci stringevamo tutti intorno ad un tavolo in uno scantinato distrutto e non c’era mai posto a sufficienza né al tavolo né a sedere. Dal più abissale sconforto risorgevano gli spaghetti e si organizzava la mensa. Sulla più elementare delle basi comuni -ovvero la necessità di mangiare- nasceva una piccola comunità o piuttosto si formava una famiglia alquanto composita”.

La sua destinazione successiva fu il Nordafrica, dove nel 1941 incontrò Albert Camus, con cui avrebbe condiviso molte affinità artistiche e politiche. Chiaromonte ricordò l’intensità dell’incontro con Camus e con la sua “famiglia” di compatrioti algerini: “Hitler aveva appena occupato la Grecia e la svastica sventolava sull’Acropoli -scriveva-. Soffrivo di una nausea continua per questi avvenimenti. Ma solo e sradicato com’ero, in quel momento ero l’ospite di questi giovani. Per conoscere veramente il valore dell’ospitalità uno deve essersi trovato solo e senza casa”.

  1. Chiaromonte portò tutte queste esperienze con sé quando finalmente arrivò alla salvezza in America, dando inizio ben presto al sodalizio con l’instancabile Dwight Macdonald. Ebbe una grandissima influenza sulla rivista “Politics” di Macdonald proprio nel modo di affrontare la violenza delle ultime fasi della guerra e, più tardi, cercando di articolare una “terza via” di opposizione post-marxista nella prima fase della Guerra fredda. Condannò l’ideologia della “responsabilità dei popoli”, la nozione disumana della colpa collettiva, del “noi contro loro”, che faceva sì che i civili diventassero obiettivi legittimi di armamenti da giudizio universale (che già allora includevano le opzioni nucleari). Introdusse i lettori della rivista al pensiero di Simone Weil, la cui riscoperta della concezione greca del “limite” sembrava arrivare al momento giusto per essere applicata al rinnovato estremismo ideologico. La Weil, come anche Chiaromonte, rifiutava ogni schematismo -specialmente il determinismo marxista e la fede dell’Occidente nel “progresso” materiale- che trasformava gli individui in unità disponibili per un grande calcolo storico, a giustificazione dell’uso cieco del potere. Chiaromonte capì molto bene come la Weil avesse colto l’aspetto malato della modernità, l’”hubris” di quella che lei chiamava la nostra “era tecnologica che si autocelebra”. “I concetti del limite, della misura, dell’equilibrio che dovrebbero determinare la condotta della nostra vita -scriveva con parole che sono valide oggi come allora- nell’Occidente sono relegati ad una funzione servile nel vocabolario della tecnica”.

Chiaromonte, inoltre, presentò le idee di Albert Camus a Macdonald e ai lettori americani della rivista. Quando Camus arrivò a New York per una lunga visita nella primavera del 1946, Chiaromonte lo accolse al suo arrivo al molo. Si trovarono d’accordo sull’impegno a non diventare “né vittime né carnefici” in tempi di violenta polarizzazione e Chiaromonte registrò con approvazione il monito di Camus alla Columbia University: “il veleno di cui era impregnato Hitler (rimane) presente in ciascuno di noi”.

Le parole di Camus continuano a risuonare ancor oggi: “Viviamo nel terrore perché la persuasione non è più possibile, perché non riusciamo più a tirar fuori quella parte di noi che recuperiamo contemplando la bellezza della natura e dei volti umani, perché viviamo in un mondo di astrazioni, scrivanie e macchine, di idee assolute e di rozzo messianesimo. Soffochiamo in mezzo a questa gente che pensa di avere assolutamente ragione sia rispetto alle loro macchine che alle loro idee. E per tutti coloro che riescono a vivere solo in un’atmosfera di dialogo e socialità fra gli uomini, questo silenzio è la fine del mondo”.

Chiaromonte lavorò con Camus alla fine degli anni ’40 per costruire una cultura cosmopolita del “dialogo e della socialità” che operasse “al di fuori” delle istituzioni ufficiali, governo e partito, fuori dalla politica convenzionale, attraversando le frontiere indurite delle nazioni e delle ideologie nei primi giorni della Guerra fredda. Queste idee descritte da Gino Bianco come “il pensare al di fuori della politica” dovevano molto al mentore di Chiaromonte, Andrea Caffi, che aveva parlato di creare “una società nella società”. E’ un approccio ricorrente nella nostra storia: per esempio in Polonia, dove Chiaromonte veniva letto ed ammirato durante le repressioni degli anni ’70 e ’80, e il dissidente Gÿorgy Konrad lanciò un appello molto simile alla solidarietà internazionale spontanea, dichiarando che “coloro che pensano violano le frontiere”.

Con l’aiuto di Macdonald, Mary McCarthy e altri intellettuali newyorkesi alla ricerca di una “terza via”, fuori dalla minaccia di una terza guerra mondiale, Chiaromonte co-produsse “Europe-America Groups”, un progetto che prevedeva l’invio di aiuti materiali e incoraggiava la creazione di reti di comunicazione e solidarietà oltre l’Atlantico (cosa che allora, senza gli aerei, i satelliti e internet costituiva un problema per la grande distanza).

Chiaromonte ritornò in Europa nel 1947, insieme alla moglie americana Miriam, e lavorò come punto di collegamento di questo progetto che ancora oggi, nonostante sia stato definitivamente chiuso, è un modello per i movimenti transnazionali impegnati per la pace e la democrazia. Al momento della partenza da New York, Macdonald (che aveva dato ad uno dei suoi figli il nome di Chiaromonte) riassunse così l’impatto che l’italiano aveva avuto su di lui: “Ho imparato molto da te, Nick, e tu hai cambiato interamente le mie idee (tu e la bomba atomica)”.

  1. Nei successivi venticinque anni Chiaromonte, Macdonald e Mary McCarthy mantennero i legami d’amicizia, scambiandosi visite e corrispondendo su tutto, dalle cose personali alle controversie politico-letterarie del momento. Ho avuto il piacere voyeuristico di leggere gran parte di questa documentazione dattiloscritta, che viene conservata nei “Macdonald Papers” all’università di Yale e all’archivio McCarthy presso il Vassar College, e il calore e l’intimità del loro rapporto brilla oltre il tempo e la distanza. Chiaromonte apprezzava molte cose dell’America, ma confessava di sentirsi meglio a casa dopo tanti anni all’estero. “L’Europa si trova in uno stato disastroso -scriveva a Macdonald nel 1947- ed intellettualmente non è molto interessante, pur tuttavia l’Europa è una società, strade alberate, cose strane e belle, mentre per me New York vuol dire qualche amico qua e là, molto cemento ed un’incredibile… mancanza di qualità in tutto”.

Per un breve periodo Chiaromonte visse in Francia, lavorando presso la sede dell’Unesco di Parigi, ma trovò piuttosto demoralizzante quella routine “vuota ed assurda” della vita burocratica. “Così mi trovo qui -scriveva in un’altra lettera a Macdonald lamentandosi- a fare poco o niente ma… legato agli orari d’ufficio, ai discorsi idioti da camicia inamidata, con la sensazione di perdere giorno dopo giorno il controllo sulla mia vita e sul mio cervello…”.

Finalmente, nel 1953, i Chiaromonte arrivarono a Roma, dove Nicola trovò lavoro come critico per il settimanale “Il Mondo” diventando, a metà degli anni ’50, coeditore con Ignazio Silone del giornale “Tempo presente”.

Nicola, Dwight e Mary mantennero ostinatamente la propria autonomia critica anche nei giorni più “frigidi” della Guerra fredda. Condannarono i crimini dello Stato sovietico, ma contemporaneamente misero in evidenza i limiti dei sistemi occidentali. Ben presto, per esempio, si resero conto dell’assoluta follia della guerra americana in Vietnam. “C’è qualcosa di particolarmente nauseante nella brutalità americana -scriveva Chiaromonte a Macdonald nel 1965- non solo perché si accompagna ad un discorso ipocrita sulla democrazia, sulla libertà e sulla pace ma anche perché è così scoperta, cruda, così fine a se stessa, un gioco, una questione tecnica”.

A proposito degli architetti della guerra osservava: “Potere, potere, potere. Non gli viene neppure il sospetto che il potere possa essere speso molto più velocemente e male dei soldi?”.

Richiamando la Simone Weil dei due decenni precedenti, Chiaromonte metteva in guardia sulla possibilità che l’impresa avesse un esito disastroso per gli Stati Uniti poiché andava incontro a quel tipo di “punizione meritata” causata “dalla corruzione, dalla brutalità e dalla volgarità che si manifestano nello stesso momento in cui il potere viene usato come fine a se stesso”. Nello stesso tempo, tuttavia, lamentava che gli europei, così come altri paesi, guardassero allo stile tecnocratico americano con invidia e paura al contempo. In discussione c’era la definizione della vera identità americana e il suo ruolo nel mondo. In una lettera del 1965, Chiaromonte concludeva: “C’è una questione che ha a che fare con la guerra del Vietnam ed è stabilire che tipo di America si vuole. Se si vuole un’America superpotente, super ricca, supermeccanizzata, completamente tecnologicizzata e programmata elettronicamente e che corrisponde a quello che alcuni vorrebbero, … allora (il Presidente) Johnson ha ragione… ma se uno pensa che il potere dell’America debba avere un significato e uno scopo completamente diversi e che l’imperialismo sia del tutto estraneo alla sua natura, perché si fonda su un processo di ‘espansione naturale’ e non di forza militare, allora si deve essere fermamente decisi e contrari a qualsiasi discorso di ‘prestigio nazionale’ o di ‘salvare la faccia’ o di propria convenienza”.

Nel 1966 Chiaromonte fece una serie di conferenze all’Università di Princeton conservate nel volume The Paradox of History (trad. it. Credere e non credere) in cui riassumeva la sua critica all’assolutismo ideologico e all’abuso di potere che ne derivava. Chiaromonte ancora una volta rifiutava le scuole di pensiero -marxista, liberale o conservatrice- che sacrificavano il popolo per realizzare i grandiosi schemi del “Progresso”, salvo poi inondarli con la sanguinosa “rappresentazione spettacolare” della guerra. In scrittori come Stendhal e Tolstoj, come pure nella poesia epica greca, Chiaromonte trovava una conferma di come l’impulso a imporre razionalità, leggi consolidate, storie di eroi o un senso di “unità finale” sulla “molteplicità inesauribile” dell’esperienza umana si rivelasse una delusione irrispettosa, condannata al fallimento e a periodiche catastrofi, come dimostrato dagli sconvolgimenti del XX secolo. Il potere e la forza devono essere usati con limitazione, riconoscendo i limiti della conoscenza umana. In realtà, dal suo punto di vista, queste limitazioni costituiscono la base della nostra autonomia.

Chiaromonte scriveva: “Se riuscissimo a conoscere tutte le conseguenze delle nostre azioni, la storia non sarebbe nient’altro che un intreccio armonico ed idilliaco di volontà libere o lo svolgersi infallibile di un disegno razionale. Così non faremmo altro che agire sempre razionalmente ovvero non agiremmo proprio dal momento che non faremmo altro che seguire uno schema sterile e prestabilito. In questo modo però non saremmo liberi. Ma noi siamo liberi, e questo significa letteralmente che non sappiamo quello che stiamo facendo”.

E’ importante notare che Chiaromonte riscontrava questa “hubris”, questa pericolosa “volontà di potere”, non solo all’interno di ideologie politiche rigide, ma anche nella fede dell’Occidente in un inevitabile progresso materiale, con relativo consumismo e feticismo tecnologico, e nel “culto dell’auto, della televisione e della prosperità derivata dalle macchine”. Questo modo di vivere si fonda su una visione molto impoverita dell’individuo come “animale completamente dedito alla soddisfazione dei propri appetiti e ad una illimitata autoesaltazione”. In un mondo di tal fatta, la cultura diventa “parte di una ricerca mortifera e automatica della novità”, con le persone che si muovono superficialmente “da una vanagloria all’altra, da sazietà a sazietà, di noia in noia”. Chiaromonte illustra l’alienazione con un esempio della vita di tutti i giorni: “L’immagine che più colpisce in questa inflazione egomaniacale dell’individuo prodotta dall’estensione indiscriminata del potere fisico nella società moderna è il volto di un uomo al volante. Tutto teso nello sforzo di sostenere il peso ed il prestigio del potere a sua disposizione, procede con arroganza a tutta velocità, prepotente e sprezzante di qualsiasi cosa lenta o ferma: ha tutto l’aspetto di un essere… soprannaturale”.

(Ci si può solo immaginare cosa direbbe oggi Chiaromonte delle nostre autostrade americane e dell’”inflazione egomaniacale” di automobilisti che sfrecciano aggressivi in Suv dopate “dominati” da cellulari e da stereo a tutto volume). Per contrastare questo clima di paura e di egoismo, Chiaromonte proponeva una cultura dell’umiltà, della proporzione, della limitazione, del “limite”, basata sul dialogo e sul rispetto reciproco. Altrimenti “diventiamo stranieri nella nostra società, niente più che unità numeriche all’interno di un calcolo trascendentale”.

  1. Nei suoi ultimi anni Chiaromonte si trovò in disaccordo, talvolta anche aspro, con i suoi amici americani, Macdonald e McCarthy, ma l’amore e l’amicizia fra loro non venne mai meno. Per esempio, criticò severamente Dwight Macdonald per quello che giudicò un appoggio insensato ai manifestanti della Nuova Sinistra alla Columbia University nel 1968. Mentre capiva la protesta contro un “Establishment” corrotto ed autocratico, Chiaromonte trovò le ribellioni studentesche di quell’anno “sterili” ed inconcludenti, troppo spesso caratterizzate da slogan insignificanti e gratificazioni immediate e che riproducevano il nichilismo delle istituzioni contro cui erano dirette. Ancora una volta si trattava di una questione di proporzioni, misura, limite. Chiaromonte paragonava il fermento nell’Europa dell’Est, che ammirava, ai sussulti messianici dell’Occidente. “La libertà che stanno chiedendo gli studenti polacchi è una sfida chiara e precisa ad un regime chiaramente oppressivo, mentre lo ‘scontro generale’ di cui parlano gli studenti italiani e tedeschi è una formula tanto generica quanto violenta”. Il “rifiuto totale” teorizzato da molti manifestanti costituiva per Chiaromonte una strada senza sbocco, “una ribellione contro tutto e contro nulla”.

Scrivendo a Mary McCarthy in questo periodo, Macdonald si preoccupava del crescente pessimismo del suo amico italiano; gli rimase comunque sempre fedele cadendo in una grande crisi personale quando, nel 1972, giunse notizia della sua morte improvvisa.

McCarthy giudicò significativo che da molti paesi, come da tutta la stampa italiana, giungessero tributi alla figura di Chiaromonte e che tutti sembrassero sinceri e spontanei, “solo qualcuno aveva un tono ufficiale e convenzionale”. Più tardi avrebbe concluso che le idee di Chiaromonte “non rientravano in alcuna categoria: non erano di destra né di sinistra. Non significava per questo che fosse di centro: era semplicemente se stesso”. E’ forse per una tragica ironia che proprio questo suo “essere se stesso”, questo rifiuto di seguire la massa, questa difficoltà ad “incanalare” il suo pensiero spiegano perché oggi ci sia una conoscenza così limitata della figura di Chiaromonte.

  1. Nicola Chiaromonte era un moralista e i suoi umanissimi istinti, il suo rifiuto delle ideologie assolute a favore di un’etica del “limite”, la sua voce dall’”ora zero” del trionfo fascista e della guerra mondiale ci possono parlare ancora oggi, in questo nuovo secolo di tecnologie pericolose, fedi messianiche (sacre e secolari) e di altri possibili “ground zero” ancora più devastanti di quello sperimentato dal mio Paese lo scorso settembre. Le sue idee sono particolarmente importanti per gli americani. Infatti, quali cittadini della superpotenza mondiale, dobbiamo agire con misura, proporzione e intelligenza anche di fronte al terrore. Dobbiamo evitare di rimanere intossicati dal nostro potere e di reagire incuranti delle nostre azioni. Dobbiamo rifiutarci, come disse Camus decenni fa, di essere o “vittime” o ” carnefici” e così diventare simili ai mostri contro cui combattiamo.

Chiaromonte, nonostante i tanti difetti, mantenne la sua fiducia nella “promessa” dell’America, suo rifugio in tempo di guerra, e le sue critiche, talvolta severe, vollero essere un contributo costruttivo alla lotta del paese per la propria identità, un tentativo di aiutare la sua gente a vivere per i propri ideali migliori, vera alternativa alla neo-imperialista pax americana. Come scrisse in una recensione di scritti di Macdonald per “L’Espresso”, nel 1970. “In termini politici si tratta di porre le basi di una nuova democrazia. Cosa che non sarà possibile se non si riuscirà a dare al gigantismo americano… una dimensione umanamente accessibile e controllabile”.

Il messaggio di Chiaromonte è senza tempo e noi lo ignoriamo a nostro rischio e pericolo.

Testo di Sumner Gregory tradotto da Enrica Casanova – 2006

Da:  http://www.unacitta.it/newsite/altritesti

[1] Stokely Carmichael (1941-1998), originario di Trinidad, ma emigrato negli Stati Uniti giovanissimo, uno dei leader del Student Nonviolent Coordinating Comittee (Sncc), organizzazione impegnata nella promozione dei diritti civili degli afroamericani, inizialmente su posizioni integrazioniste, spostatosi via via su posizioni più radicali, espulso nel 1967 dallo stesso Sncc, assunse una notevole celebrità divenendo il portavoce del Black Panter Parthy, che, influenzato dal marxismo, oppose al principio della non violenza, proprio dell’azione di Martin Luther King, quello della autodifesa come strumento di lotta, teorizzando per i neri non già l’integrazione nella società bianca, ma il suo rifiuto e la conquista violenta del potere. (Nota del curatore)

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Gorkij, o dell’utopia

di Paolo Repetto, 2014

Adesso però tiriamo un po’ le fila. Nella biografia di Gorkij ci sono momenti e personaggi che da soli giustificherebbero tutto il tempo e le pagine che gli ho dedicato. Penso allo Zingarello che interpone il suo braccio tra il corpo di Maksim e la verga del nonno; alle serate con Buona Cosa, sull’aia, a ragionare delle stelle, del mondo e degli uomini; alla notte trascorsa per scommessa al cimitero, a dieci anni, sdraiato su una tomba a forma di bara (con la nonna che quando viene a saperlo si congratula); alla disperata determinazione con la quale fronteggia, sul cadavere di Izuv, i contadini, col volto annerito dal fumo, i capelli strinati e un’ascia in mano, come Aiace Telamonio in mezzo ai troiani; all’incanto delle serate nel laboratorio delle icone, con i pittori che poco alla volta lasciano i loro posti, i loro tavoli, per assieparsi attorno a Maksim che legge. Sono situazioni così epiche, e così vere al tempo stesso, che pensi che chi ha vissuto momenti tanto emozionanti debba per forza poi avere un alto concetto della vita e pretenderlo dagli altri.

Ma credo sia anche evidente che Gorkij non mi ha intrigato solo per i risvolti avventurosi della sua biografia o per l’ingiusto oblio cui è stato condannato. C’è dell’altro. Mi ha costretto a pormi nuovamente delle domande alle quali credevo di avere già risposto.

Per spiegarmi devo ripartire da quelli che appaiono gli aspetti più oscuri e ambigui della sua storia, le contraddizioni, reali o apparenti che siano, che la macchiano: la mancata denuncia dello sterminio dei contadini, il giudizio sui gulag, una concezione “strumentale” della letteratura che finisce per asservirla al potere. Gorkij in sostanza è accusato di non essersi opposto allo stalinismo sia per paura che per opportunismo (godeva di un appannaggio favoloso). Di essere un cinico, che ha sacrificato le idealità alla propria comodità e sicurezza.

Io mi sono fatta un’idea un po’ diversa. Non nego che una componente di vanità nel suo atteggiamento ci fosse: in fondo era venerato, per calcolo o per convinzione, come il più grande scrittore proletario. Ma quanto alla paura, ci andrei piano: al rientro in Russia era al corrente della situazione, e se avesse avuto paura sarebbe rimasto tranquillamente a Sorrento. Certo, godeva della protezione di Bucharin, ma sapeva benissimo che il padrone era Stalin. Una volta poi in Russia, dove a partire dal 1933 in pratica visse una prigione dorata, assumere una posizione di aperto dissenso avrebbe significato sparire subito, cosa che non avrebbe giovato né a lui né agli amici per i quali sino all’ultimo continuò a battersi. Che il fatto di chinare la testa non sia valso a nulla non può essere portato come elemento ulteriore a suo carico. Un allineamento non totale in patria, quando si è ostaggio di un regime, vale quanto e forse più di una aperta opposizione dall’esterno. In fondo, malgrado tutte le pressioni ricevute Gorkij non volle scrivere mai una biografia apologetica di Stalin, mentre ne aveva scritta una di Lenin, nella quale tra l’altro gli riconosceva di aver visto giusto nel 1917: e questo rifiuto, già di per sé, era un modo per operare dei distinguo.

Se vogliamo provare a capire dobbiamo quindi scendere più in profondità. Gorkij non agisce come agisce per paura, per tornaconto individuale o per cinismo, ma perché non potrebbe per la sua natura e per la sua storia fare diversamente. Non è entusiasta dello stalinismo, anzi, lo detesta, ma lo considera il male minore, e in qualche caso addirittura uno strumento positivo. Non gli piacciono i lavori forzati, ma nemmeno nutre grande simpatia per coloro che li stanno scontando. Ignora, o finge di ignorare, che sei o sette milioni di kulaki vengono sterminati, ma lui i kulaki non li ha mai amati, anzi, li ha sempre considerati il vero ostacolo alla realizzazione di una società più giusta (“Un contadiname ignorante e smidollato, intriso di un individualismo feroce, da proprietari, che immancabilmente dichiarerà una guerra spietata alla classe operaia”). Vede negata la democrazia, ma non è mai stato del tutto convinto che una democrazia totale in Russia possa essere praticata: almeno nella Russia che ha conosciuto. Questo, ripeto ancora, non lo assolve: ma almeno consente di capire che il suo comportamento non è così incoerente come lo si vorrebbe dipingere.

Proviamo a metterci dal suo punto di vista. Gorkij ha esplorato in profondità e sperimentato sulla propria pelle, e non in senso figurato, la Russia ignorante, crudele e retriva, non solo quella rurale ma anche quella urbana, artigianale e piccolo borghese. Ritiene si debba fare qualcosa, che questo qualcosa possa passare solo attraverso l’educazione e la cultura e che farlo abbia un senso e una qualche probabilità di riuscita perché esistono spiriti liberi, indipendenti, dignitosi, che se avessero a disposizione gli strumenti potrebbero dare una svolta alla propria esistenza e fornire indicazioni ed esempi per quella degli altri.

Ci sono però dei problemi. Il primo è che a suo giudizio gli spiriti liberi crescono solo là dove non è radicato l’anelito alla proprietà materiale di base, quella della terra. Quindi sono incompatibili col mondo contadino. Nell’ambiente mercantile e in quello artigianale il senso del possesso non è altrettanto radicato: si possiedono solo gli strumenti (e tutto, dal capitale alle attrezzature, è strumento), si interviene sulla materia, su essa si esercitano delle capacità, dell’inventiva, ad essa si aggiunge valore: ma la materia va e viene nelle loro mani, e l’uso della strumentazione non produce un legame inalienabile. Si può produrre o commerciare ovunque. Lo stesso sarà domani per gli operai. L’investimento di rischio che opera un mercante, quello di abilità e di lavoro di un artigiano e di un operaio hanno un ritorno in termini monetari. Quello del contadino sulla terra fa invece cumulo nella terra stessa. Mettere a dimora una pianta, un vigneto, dissodare un terreno, significa legarsi per la vita a quell’impianto, a quel terreno. Per questo il contadino non si schioda dalla fissa della terra propria, del possesso permanente: perché il suo investimento è sul lunghissimo periodo. Il contadino, pensa Gorkij, è refrattario ad ogni discorso di comunità o collettività, a dispetto di quanto sostenevano gli slavofili e i populisti, che vedevano nell’obscina, la comunità del villaggio, la testimonianza di una atavica disposizione socialista. Anche senza trarne le stesse conclusioni, sulle premesse, sulla refrattarietà del mondo contadino ad ogni idea di comunitarismo non posso che essere d’accordo: e lo dico con cognizione di causa, perché sono nato e sono rimasto contadino.

L’altro problema è che questi spiriti liberi sono una sparuta minoranza, che la maggioranza composta da ignoranti e “asiatici” costantemente schiaccia e respinge. Nella polemica con Lenin Gorkij invoca il rispetto delle regole democratiche: in realtà crede nelle regole, ma non crede nella democrazia diretta e “maggioritaria”. Pensa piuttosto ad un modello alla Rousseau, di “democrazia controllata”. In questo è in linea con Lenin: solo che Lenin ha in mente un controllo operato dal partito, mentre Gorkij pensa ad una guida “tecnica” di scienziati, intellettuali, al limite di “aristocrazie operaie”. Lenin vuole quindi il potere subito per cambiare poi la società, mentre Gorkij vuole educare la società per procedere poi a cambiare le forme del potere. Per il primo la rivoluzione si fa con chiunque ci stia, anche con motivazioni e finalità diverse; per il secondo è troppo pericoloso mettere in moto una massa priva di cultura e affamata di possesso. Di fatto, nessuno dei due crede nella democrazia, o almeno nella possibilità di arrivare democraticamente al potere. Entrambi ritengono che in certe fasi ed entro certi limiti sia necessaria la costrizione. Lenin lo dice chiaramente, Gorkij lo pensa. E quando arriva Stalin li mette tutti d’accordo.

Per quanto mi riguarda, ho una concezione senz’altro elitaria della democrazia: la ritengo auspicabile dovunque, ma possibile solo là dove sia diffusa una consapevolezza piena dell’equilibrio necessario tra diritti e doveri. La democrazia deve essere partecipazione, critica e libera, ma comunque fattiva e informata. Non esiste un diritto alla democrazia, se non quello che ci si conquista aderendo interiormente al dovere civico e adempiendo esteriormente ad esso. Alla democrazia bisogna quindi educare, non ha senso costringere. Ma educare persone che non vogliono essere educate è già una costrizione: e non mi si venga a dire che queste persone non lo vogliono solo per ignoranza, perché non conoscono: sarà in parte così, ma molti, i più, non lo vogliono e basta. E comunque, Lichtemberg diceva giustamente che il paradosso dell’educazione è di essere l’unica cosa che non può essere insegnata. Quindi ci troviamo di fronte ad un cane che si morde la coda.

Per uscire dall’impasse dobbiamo prendere atto che ogni utopia, comunque la si voglia mettere, nasce da una realtà nella quale non esiste affatto una coscienza diffusa non dico delle soluzioni, ma neppure del problema. Il che è lapalissiano, perché se questa coscienza fosse diffusa le cose già funzionerebbero, e non ci sarebbe alcun bisogno di utopia. L’aporia dell’utopismo sta nel voler cambiare gli uomini, i quali in realtà non vogliono assolutamente essere cambiati. Ma allora, come la mettiamo? Bisogna rinunciare all’utopia? Si accetta il mondo com’è?

La soluzione che io cerco di praticare è quella del “vivere come se”: comportarsi in maniera tale da realizzare almeno in piccolissima scala qualche tratto del proprio sogno, senza imporlo agli altri, solo proponendolo attraverso l’esemplarità. Ma mi rendo benissimo conto del limite di una simile proposta. Può avere senso, se ne ha, in una situazione come quella in cui ho avuto la ventura e la fortuna di vivere io, di una convivenza bene o male civilmente impostata: credo che non ne avrebbe avuto alcuno in quella in cui si trovava a vivere Gorkij. La responsabilità nei confronti degli altri va assunta e interpretata anche alla luce delle contingenze storiche e sociali.

Una soluzione intermedia parrebbe esserci, ed essere la più ragionevole. C’è differenza in effetti, al di là dei paradossi logici e terminologici, nel voler realizzare una società migliore attraverso l’educazione o attraverso la coercizione: tra riformismo e rivoluzione, per dirlo alla maniera socialista, tra Gorkij e Lenin, per tenerci alla nostra specifica vicenda (e per gli ultimi suoi sviluppi tra Gorkij e Stalin – ma su Stalin andrei cauto, mi sembra rientrare in una casistica già patologica). E tuttavia, come abbiamo visto, anche le strade diverse conducono spesso allo stesso approdo; e non è solo questione di rapporti di forza. In una lettera scritta nel 1929, a Sorrento, quindi ben lontano dalle grinfie di Stalin, e indirizzata ad una corrispondente che gli rimproverava il silenzio, se non la connivenza, su quanto di terribile avveniva nell’Urss, Gorkij afferma: “[…] odio nel modo più schietto e incrollabile una verità che per il novantanove per cento è abiezione e menzogna – e si riferisce alle notizie circolanti sui gulag e sulla repressione – perché ciò che conta è la crescita rapida e di massa dell’uomo nuovo, il quale non ha bisogno della verità meschina e maledetta in mezzo alla quale vive, ma ha bisogno dell’affermazione della verità che lui stesso crea”. Sta dicendo in sostanza, ed è ciò che tutto il movimento comunista ha sostenuto per decenni, che per poter guardare con speranza al futuro bisogna a volte avere il coraggio di chiudere gli occhi sul presente: ma anche, è sottinteso, l’onestà di ricordare il passato.

Gorkij ha vissuto un’infanzia terrificante. Non vuole che accada mai più, a nessun altro bambino. Cresce, studia, sopporta, con una sola idea in testa: questo non va, e io devo fare qualcosa per cambiarlo. Sente questo dovere perché ama gli uomini, non perché si è infatuato di un’idea. Ci prova, in effetti, e constata che anche con tutta la buona volontà non è facile: lo constata prima, quando fa propaganda tra i contadini e in risposta vede ammazzato un amico e rischia lui stesso la medesima fine. Ne ha la riconferma quando, dopo aver mantenuto un atteggiamento critico nei confronti della rivoluzione, ma solo perché gli sembravano prematuri i tempi e rischioso il tentativo, deve schierarsi a sua difesa contro le forze controrivoluzionarie che la stanno minacciando. Deve scegliere, e lo fa ricordando tutto ciò che si era proposto di cambiare, e che i controrivoluzionari rappresentano. Decide che una volta avviata, seppure per vie diverse da quelle che lui auspicava, la rivoluzione deve essere portata fino in fondo. Anche se si dovrà farlo con le cattive. Non si nasconde quanto pericoloso sia usare le cattive, e come questo contrasti con l’idea stessa di rivoluzione da lui elaborata. Ma si può lasciare che tutto torni com’era?

Quando si parla della deriva dei sogni rivoluzionari, del loro stravolgimento in distopie, si rimpiangono società semplici e solidali disintegrate, equilibri millenari sconvolti, arcadie povere ma belle tragicamente perdute. Ma è davvero chiaro di cosa stiamo parlando? Quali fossero realmente i modelli sociali, i rapporti tra gli uomini, o tra loro e la natura? Si depreca, e giustamente, la negazione della parità dei diritti agli omosessuali a Cuba. Ferma restando la gravità di questa sperequazione, ricordiamo qual era nell’isola lo stato dei diritti di tutti, e non solo degli omosessuali, alla fine degli anni cinquanta, quando scoppiò la rivoluzione? E non raccontiamoci che le cose sarebbero cambiate comunque. Abbiamo presente come stiano oggi a poche centinaia di chilometri, ad Haiti, dove purtroppo di rivoluzioni non ce ne sono mai state? Abbiamo un’idea di quanti contadini morissero ogni anno di fame in Cina prima del ’49, per poter fare un raffronto con i disastri umanitari causati dalla politica dei cento fiori prima e dalla rivoluzione culturale poi? Ci rendiamo conto di come vivessero le donne del popolo in Russia prima del 1917, e di come vivano ancora oggi in mezzo mondo? Possiamo davvero permetterci di rimpiangere culture distrutte, società disintegrate, senza ricordare di che mondo si trattava?

L’importanza degli scritti di Gorkij sta proprio in questo: ci mostra una società invivibile, una palude di “noia”, di vita senza un senso, di sofferenza senza un riscatto, nella quale persino i sentimenti più nobili, quando si manifestano, affondano nel generale squallore. Il quadro è impietosamente riassunto da Grigorij Orlov, nella sua disperata accusa: “Curare cento colerosi, quando fuori sono milioni che vivono come bestie!” Questo taglia la testa ad ogni possibilità di compromesso. Non è sufficiente la compassione, non è nemmeno sufficiente che la compassione si traduca in opere di misericordia, di conforto: occorre che maturi in solidarietà vera. E nella solidarietà concreta, radicale, non c’è spazio per la nostalgia nei confronti di una società del genere. Non si può rimpiangere lo sfruttamento bestiale dei ricchi sui poveri, degli uomini sulle donne. Forse i morti per fame sono meno pesanti delle vittime dei gulag?

Non sto cercando di giustificare in qualche modo lo stalinismo o il regime di Pol Pot. È evidente che si tratta di vicende criminali, di veri e propri genocidi che hanno coinvolto decine di milioni di esseri umani, e foss’anche si trattasse di qualche migliaia, o centinaia, o decine di vittime, bene, nessuna idea che si rispetti può metterle in conto come effetti collaterali tollerabili. Vorrei solo ci evitassimo le ipocrisie che fanno alibi all’indifferenza, e ci chiedessimo se, quando, sino a che punto e in quale misura è lecito forzare gli uomini a comportarsi diversamente da quanto vorrebbero, in nome di idealità umanitarie. E che lo facessimo, per quanto possibile, a mente sgombra, mantenendo il giusto equilibrio tra la delusione per gli esiti disastrosi che la storia ci racconta, la necessità e la fondatezza delle motivazioni che hanno invocato il cambiamento e la coscienza delle ricadute che a lungo termine anche gli esperimenti falliti determinano. Questo non riscatta le sofferenze delle vittime sacrificate in quegli esperimenti, ma almeno ci impone di non dimenticare le altre vittime, quelle macinate da una tragedia quotidiana che nemmeno ha l’onore di rimanere nella memoria.

Il problema che mi pongo è: di fronte all’evidenza del dolore e dell’ingiustizia (e un bambino affamato o maltrattato, una donna picchiata e segregata, una persona qualsiasi, senza sottolineature di genere, di età, di condizione fisica o sociale, prevaricata e umiliata, sono evidenze) ho o non ho il dovere di intervenire? E se sento questo dovere, fino a che punto può spingersi il mio intervento? Poi provo a moltiplicare questo caso per migliaia, per milioni, e mi trovo nei panni di Gorkij.

Le obiezioni che possono essere avanzate a questo punto sono diverse. La più semplicistica è quella che comunque la sofferenza è congenita alla condizione dell’uomo, che il sogno di liberarlo dalla sofferenza è già di per sé contradditorio e pericolosamente velleitario. Di buone intenzioni è lastricata la via di ogni gulag. Non c’è dubbio. Ma anche i bordi e il fondo delle paludi sono lastricati di scetticismo. E allora, che si fa? Se vedo un bambino in procinto di annegare lo lascio andare, perché comunque un giorno morirà lo stesso? Il sogno non è privo di senso, quando mira a cancellare se non altro le sofferenze più immediate, più intollerabili. È normale che gli uomini non accettino di soffrire e di veder soffrire.

La seconda obiezione è che i contadini descritti da Gorkij magari si annoiavano, nel senso che vivevano malissimo, ma almeno erano in vita. Dopo il passaggio di Stalin hanno smesso anche di annoiarsi. È sacrosanto. Ed è per questo che ho premesso di prescindere dagli esiti storici. Questi sogni si sono mutati quasi sempre in incubi, e ciò dipende molto dal fatto che le idee vengono in genere gestite, quando gli idealisti cadono, dai funzionari. E i funzionari ragionano in termini di “costi sostenibili”, riferendosi in questo caso a quelli umani, determinando il tasso di sostenibilità sulla base delle proprie convenienze, emergenze o paranoie politiche. Ed è altrettanto vero che l’aporia è comunque a monte, perché anche gli idealisti, se sono davvero tali e non solo degli sprovveduti, sanno benissimo che senza coercizione non si ottiene nulla (e che si ottiene poco anche con la coercizione). Si torna quindi daccapo: se per convincere qualcuno a prendere una medicina che potrebbe salvargli o migliorargli la vita devo dargli una mazzata in testa, col cinquanta per cento di probabilità di stenderlo, a cosa devo guardare? Ai cinquanta che posso salvare, o ai cinquanta che potrei liquidare?

La terza obiezione è: chi può arrogarsi il diritto di stabilire cosa è bene per gli altri, cosa debbono volere? Chiaramente, nessuno. Ma esistono delle condizioni minime per la coesistenza che risultano evidenti. Non è necessario ricorrere alle esemplificazioni paradossali, agli eventuali problemi di convivenza con antropofagi. Possiamo benissimo rimanere nella quotidianità per trovarne di altrettanto seri. Lo abbiamo già visto: di fronte a mogli massacrate, a figli seviziati, a gente che muore di fame nell’indifferenza di chi spreca, fino a che punto devo aspettare di vedere se funziona l’educazione? Devo continuare a provarci, e limitarmi nell’attesa a dare conforto morale alle vittime, o di fronte ad un primo insuccesso devo ricorrere al convincimento pesante?

Infine, ultima obiezione: non si può affrontare un argomento del genere in maniera così semplicistica. Per secoli, anzi, millenni, da Platone in giù, il problema è stato sviscerato da ogni lato: senza peraltro venirne a una. Appunto. La questione è così complessa, le variabili che entrano in gioco sono tante e tali che non esiste una risposta buona per qualsiasi situazione. A meno di interpretare alla lettera l’imperativo categorico kantiano, di applicare una regola universale che valga in quanto regola, e non per la sua maggiore o minore efficacia o bontà. È un principio bellissimo, dovrebbe essere il fondamento di ogni etica, privata o pubblica: ma dubito ci sia qualcuno in grado di metterlo in pratica. La realtà è che funziona se fai tutti i giorni il giro della piazza di Könisberg, non se vagabondi per le pianure che si stendono tra il Don e gli Urali, vedi la miseria materiale e morale che le appesta, senti il suo odore che impregna l’aria.

Voglio dire che quelli che pongo non sono problemi accademici, e neppure esercitazioni retoriche. Mi confronto con questi interrogativi da una vita e, come dicevo, ero convinto di aver trovato delle risposte argomentate e convincenti. Ma non è così, e basta una vicenda come quella di Gorkij a rimettere tutto in discussione. Va di moda, di questi tempi, sparare sugli utopisti, alla luce dei disastri che avrebbero combinati. Popper da un lato e il pensiero debole dall’altro hanno stilato in nome di un presunto realismo nuove liste di proscrizione, mettendo in guardia contro chi ama troppo l’Uomo e poco gli uomini. Ma quelli come Gorkij, dove li mettiamo? Amava talmente gli uomini, anche loro malgrado (quella che chiamava la difficile arte di Dickens), credeva talmente in loro, da farne il soggetto di una vera e propria “religione”. Non sopportava di vederne la mortificazione, l’umiliazione, il degrado assunti a condizione di vita. Ha creduto nella possibilità di cambiare quella situazione, e nell’urgenza di farlo. Ad ogni costo.

Cinico? Utopista? André Gorz ha scritto giustamente che “utopista oggi non è chi ritiene che la situazione debba essere cambiata, ma chi crede che possa continuare a reggere così com’è”. Non ci vuole molto a verificarlo. Sta incombendo sulle nostre teste una catastrofe ecologica e demografica rispetto alla quale non possiamo continuare a chiudere gli occhi. O interveniamo noi umani, e subito, o ci penserà la natura stessa, che ragiona per astuzie che non sono quelle di Hegel ma nemmeno quelle nostre. Qualsiasi intervento si programmi non sarà indolore, non può esserlo; ma ancor meno lo sarebbe quello della natura, che giustamente di noi se ne infischia. Dobbiamo assumerci delle responsabilità, e dovremmo possibilmente farlo tutti assieme, concordemente. Sarà possibile? I popoli emergenti, che hanno cominciato da pochissimi anni ad accedere a livelli di vita accettabili, e quelli che ancora oggi ne sono esclusi, vorranno accettare limitazioni? E noi, siamo pronti e disponibili a fare qualche passo indietro, senza che qualcuno ce lo imponga?

Come si vede, non ho proposte o soluzioni da avanzare: solo la domanda, la stessa che è stata formulata in ogni epoca, nelle forme e nelle occasioni più diverse, e alla quale la storia ha sempre dato risposte parziali, spesso purtroppo tragiche. Rimarrà tale, immagino, e non solo per quella manciata di anni che mi rimangono da vivere.

Ma questo non significa che non sia doveroso, e profondamente umano, porsela.

 

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