Signorine?

di Paolo Repetto, 5 giugno 2021

Al festival dell’Economia di Trento l’inviato di RAI3 intervista tale Linda Laura Sabbadini, dirigente generale dell’ISTAT, che arrota le erre e lascia cadere le parole come fossero gocce rinfrescanti di rugiada. L’alta funzionaria è entusiasta di un libro attorno al quale, dice, si è acceso il dibattito in mattinata: Quello che ci unisce, di Minouche Shafik. Ci ha trovato “molta emozione, molta competenza, molta esperienza. Si sente subito che è scritto da una donna”. Già, l’avesse scritto un uomo sarebbe stata una cosa fredda, insipida, tutta teorica e abborracciata. Poi scende anche nel dettaglio, e vien fuori la solita acqua calda sulla quale galleggiano i luoghi comuni e le grandi speranze nei giovani e nelle donne. Va bene che da un festival, sia esso dell’Economia o della Letteratura, di Filosofia o di Storia, non ci si deve attendere granché, ma uno che ascolta la radio in macchina alle quattro del pomeriggio non ha molta scelta. Io in realtà scelgo di spegnere, perché mi sto innervosendo. (Comunque, esiste anche il festival della Disperazione: chissà di cosa parlano, e se le donne sono protagoniste. E se non altro ho capito che non ci si deve fidare dei dati ISTAT).

In genere non mi irrito facilmente. Sono, o almeno ero, un tipo passabilmente calmo. Ho le mie idee, ma le difendo (e le coltivo) piuttosto con l’ironia che con la spada. A volte però sembra lo facciano apposta a farmi perdere le staffe. Una settimana fa, durante il “Processo alla tappa” che segue la diretta del Giro d’Italia e che un tempo era condotto da Sergio Zavoli, l’attuale conduttrice, Alessandra De Stefano, (una giornalista sportiva della quale non mi sono ben chiari i meriti e le competenze, ma che era già famosa un quarto di secolo fa perché cacciava il microfono in bocca a Tomba prima ancora che questi avesse superato il traguardo), ha cazziato pesantemente Gianni Bugno perché aveva osato dire che i ciclisti non sono “signorine”. “Che vuol dire signorine? Badi che le donne sono da sempre capaci di sforzi e di sacrifici ben maggiori di quelli sopportati dagli uomini!” Il povero Gianni, evidentemente poco aggiornato sui nuovi tabù linguistici e rimasto fermo a modi di dire rudimentali, e che già era all’angolo per una serie di domande una più stupida dell’altra, lanciate a raffica dalla tizia che poi non ascoltava le risposte e trafficava agitatissima sull’iPad, si è scusato per un quarto d’ora, mentre si capiva benissimo che l’avrebbe volentieri mandata a stendere. L’avesse fatto, sarebbe oggi nuovamente l’idolo mio e di gran parte dei tifosi (ma anche di molti non appassionati).

Torno indietro ancora di qualche giorno. Sto rovistando sul banco dei libri ad un euro (hanno riaperto i mercatini, è tornata la vita!) quando mi arriva tra le mani un saggio di Maria Rita Parsi. Non ho mai letto nulla di questa signora, l’ho vista di sfuggita in tivù, in uno degli innumerevoli salotti televisivi che frequenta, non mi ha colpito affatto e mi è riuscita anzi piuttosto antipatica. Quindi, di per sé non mi interessa minimamente: ma è il titolo del libro a intrigarmi: I maschi sono così. Mi dico che ci vuole una bella faccia ad azzardare un titolo del genere. L’avesse scritto un maschio Le donne sono così (va bene, l’hanno già fatto, e molto prima ancora di Mozart e di Così fan tutte: ma già Dante aveva capito benissimo che a condurre davvero il gioco era Francesca, e non certo quel piagnone di Paolo: e comunque, sto parlando del presente) sarebbe in atto una sollevazione, scenderebbero in campo le filosofe dei gender studies, nonché Alessandra De Stefano e Linda Laura Sabbadini e probabilmente anche Lilli Gruber.

Signorine (2)

Finisce dunque che infilo il libro in borsa con gli altri, riproponendomi di verificare se il contenuto è stupido e presuntuoso quanto il titolo. In effetti risulta che è proprio così, forse anche peggio. D’altro canto, c’era da aspettarselo: appena a casa mi sono informato attraverso Wikipedia sulla nostra autrice, ed è venuto fuori che è una psicologa, psicoterapeuta, docente universitaria, militante storica nella rivendicazione di maggiore spazio per le donne e membro dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e del Comitato ONU sui diritti del fanciullo: che ha all’attivo un centinaio di volumi, pièces teatrali, libri di saggistica e di poesia, sceneggiature televisive: che conduce programmi radio, ha fondato e dirige quattro o cinque onlus, è consulente di non so quanti ministeri: un altro po’ di spazio e può fondare uno stato. Nemmeno Palenzona ha mai avuto tanti incarichi. Il solo elenco delle onorificenze occupa un’intera pagina. Davanti a un profilo del genere uno il libro nemmeno dovrebbe aprirlo (beninteso, e tanto più, anche se a scriverlo fosse stato un uomo). Ma io sono masochista e voglio vedere dove va a parare.

Dunque: un lungo elenco di casi da manuale, di donne che si sono imbattute in uomini (padri, mariti, amanti) di un egoismo e di uno squallore esemplare. Mai il sospetto che in certe situazioni non sempre ci si imbatte per caso o per sfortuna, che qualche volta le si va anche a cercare: e che forse, al di là degli animali di cui si parla, esistono esemplari maschili che “non sono così”. Non so quali ambienti frequenti la Parsi, al di là dei salotti televisivi (e allora si spiegherebbe tutto), ma non posso fare a meno di pensare che con gli uomini abbia avuto meno fortuna che con la carriera.

Ma è meglio lasciare direttamente a lei la parola. Direi che sono sufficienti un paio di paragrafi tratti dall’introduzione:

«Da sempre, e ancora oggi, i maschi pretendono “il possesso” dei corpi delle donne, ed esigono attorno a loro la presenza di madri, sorelle, mogli, amanti badanti perché li accolgano, li sostengano, li confortino sia fisicamente che spiritualmente. Hanno bisogno dei corpi delle donne come difesa dall’angoscia di morte che li attanaglia e che li spinge a lanciarsi in ogni sorta di irragionevole conflitto per conquistare ogni umano potere e, dunque, dominare – ma solo apparentemente – quella paura.» Non siamo messi granché bene. Infatti:

«I maschi non sono forti e sicuri di sé come vogliono far credere. Sono fragili, spaesati e a volte impauriti dal dover recitare il ruolo che le donne e la società si aspettano da loro. Però non sanno di esserlo, o non vogliono accettarlo, e camuffano con la fuga, l’inganno, il tradimento, l’arroganza, la prevaricazione, in certi casi con la violenza, quel senso di fragilità. Da qui si generano le incomprensioni, le distanze, gli equivoci tra i sessi.» Ti credo! Se le cose stanno davvero così, altro che equivoci e incomprensioni!

Tuttavia: «Oggi i maschi hanno però una possibilità: indagare, riconoscere ed accettare quella “fragilità”, scoprirne la “forza” per cambiare in profondità. E questo cambiamento è necessario per modificare alla radice ogni società umana. Perché nel cuore dei maschi questa fragilità nascosta e rinnegata troppe volte si trasforma in luciferina invidia, paura delle donne e della loro potenza, senso di inadeguatezza, arroganza, bisogno di dominare, sottomettere, ferire. Troppe volte diventa dispotismo, crudeltà, abbandono, perversione, violenza … si trasforma in oppressione, finisce per combattere le proprie debolezze negli altri […]
Questo cambiamento può fare sì che essi riconoscano l’invidia del grembo materno, primaria grotta d’amore uscendo dalla quale sono nati “maschi” e già fisicamente segnati dalla perdita di quell’Eden originario che è il corpo della donna-madre-dea.» Eccolo qui, il vero problema.

Queste rivelazioni, questo brutale disvelamento, mi hanno sconvolto. Accidenti. Ho stolidamente vissuto i miei primi settant’anni senza sospettare neanche un po’ di essere così fragile, senza essere attanagliato dall’angoscia di morte e quindi, probabilmente, anche senza recitare il ruolo che le donne e la società e la Parsi in particolare si aspettavano da me. A quanto pare sono piuttosto lento nell’apprendere, e se non ho mancato di registrare e di stigmatizzare in ogni possibile occasione i comportamenti di cui l’autrice parla l’ho fatto trattandoli come manifestazioni, sia pure numerosissime, di una devianza, a volte congenita a volte indotta, non come il naturale sbocco della condizione maschile. Non ho saputo cioè riconoscere che quella fragilità era anche mia. Quindi, per mettermi in sicurezza ho chiesto immediatamente di poter fare una terza dose di vaccino, ma quanto al resto ho pensato che sia ormai un po’ troppo tardi per mettermi in pari.

Signorine (3)

Ho capito davvero poco del mondo. Fin dalla più tenera età ho realizzato che esistono due generi: non era difficile, le differenze erano evidenti, non ero tardo sino a quel punto. Poi ho però cominciato a pensare che si, quelle differenze erano certo importanti, perché andavano necessariamente a incidere sui comportamenti, sugli atteggiamenti e sulle aspettative nei confronti della vita, ma che la differenza fondamentale in seno all’umanità era un’altra, quella tra persone intelligenti e idioti. Che dunque la discriminante vera non fosse l’appartenenza di genere, ma il modo in cui questa appartenenza la si declina: un maschio idiota è prima di tutto un idiota, una femmina idiota è prima di tutto una idiota. È anche vero che l’appartenenza di genere comporta possibilità diverse di esercitare l’idiozia, quindi di far danno: ma il male non è nel genere, è nell’idiozia.

Avrei giurato che questo fosse l’unica certezza imprescindibile sulla quale fondare una convivenza la meno penitenziale possibile, non tra i generi, ma tra gli umani. A quanto pare le cose non stanno così. La tara originaria che noi maschi ci portiamo dentro non si cancella con un semplice battesimo. Sembra tutto molto più complicato, e adesso finalmente capisco anche l’esplosione del fenomeno dei transgender.

Troppo complicato per me. Dovrei ricominciare da capo, resettare tutto il sistema di convinzioni sul quale ho fondato l’intera mia esistenza. Cercherò allora per quel mi rimane da vivere di controllare la paura nei confronti delle donne, l’ambivalenza, il senso di inadeguatezza, l’arroganza, la crudeltà. Quanto all’“invidia del grembo materno”, se intesa nel senso più malizioso del concetto (alla Woody Allen, per capirci) ne sono immune da un pezzo, in quello psicanalitico lo sono da sempre. Non sarà poi così difficile. Sarà sufficiente rinunciare al “Processo alla tappa”, non frequentare i Festival dell’economia ed evitare come la peste Maria Rita Parsi, in video o sulla copertina di un libro. Dovrei farcela.

I quasi adatti

di Paolo Repetto, 30 settembre 2012

Da qualche tempo scrivo solo di “poco adatti”. Non è proprio una novità, lo faccio da sempre, perché ho scritto di me per tutta la vita (come del resto fanno tutti); oggi uso solo travestimenti più fantasiosi. Forse dovrei però chiarire un poco questa storia della “scarsa adattabilità”.

Ci sono almeno due tipologie di poco adatti. La prima è quella più o meno ufficialmente riconosciuta e da sempre perseguitata (oggi anche e soprattutto da chi ritiene necessario cancellare i margini, e così facendo nega in sostanza quel diritto alla differenza che pretenderebbe di difendere). Gli appartenenti a questa categoria trovano la vita troppo larga, troppo piena, troppo confusa, e hanno bisogno di cintare un loro spazio, un loro margine appunto, nel quale rifugiarsi. Purtroppo questo spazio viene quasi sempre violato dalla prepotenza e dell’invadenza altrui, per cui i poveretti sono in fuga costante. Si sentono inadatti perché la vita soffia loro sul collo e non concede il tempo e l’occasione per amarla. Nei crudi termini della selezione naturale avrebbero poche chanches, ma dal momento che come diceva Wallace la selezione non è più tanto naturale, si stanno invece moltiplicando.

Io appartengo ad una seconda tipologia, così come tutti i personaggi di cui scrivo. I soggetti di questo tipo non si sentono o non risultano oggettivamente ai margini della vita. Tutt’altro. La amano ad un punto tale da volerne vivere altre, e non “dopo”, ma subito. Il tempo e gli spazi di una sola esistenza vanno loro stretti, ragion per cui ne costruiscono di parallele, spesso con qualche comprensibile difficoltà a raccapezzarcisi. C’è tanto da fare al mondo, tanto da vedere, da capire, da conoscere, magari da correggere, che non possono permettersi un attimo di sosta, né fisica né mentale. Sono alla costante ricerca di altro, non per insoddisfazione, ma per curiosità. Li definirei dei “quasi adatti”.

Il disagio in questo caso nasce dalla mancata sintonia della mente con il corpo, come se la prima non volesse farsi una ragione dei limiti fisici del secondo. Il che non significa avere una massa di materia grigia più grande della scatola cranica in cui è costretta (cosa che magari Wallace avrebbe sottoscritto), quanto piuttosto avere una centrifuga cerebrale in perenne attività, neuroni impazziti che non girano in tondo nella vaschetta come i pesci rossi ma sbattono e rimbalzano da una parte all’altra, in un caos perpetuo. Significa in sostanza essere affetti dalla “sindrome di Dio”, con l’aggravante di non concedersi riposo nemmeno il settimo giorno e l’attenuante di una coscienza comunque lucida della propria imperfetta umanità.

La sindrome di Dio non è riconosciuta dalla neuropsichiatria ufficiale. L’ho identificata io, sfruttando un assist offertomi da Woody Allen quando afferma che se proprio è necessario prendere a modello qualcuno, tanto vale scegliere direttamente Lui. Dio in verità con la mia sindrome c’entra poco: anche se il ragionamento non fa una grinza, va considerato che la traduzione dal piano teorico a quello pratico sarebbe comunque un po’ complicata, e che se dall’assunzione a modello si scivola nella identificazione c’è il rischio di finire nudi ad abbracciare cavalli a Torino, come Nietzsche. E non è questo l’unico problema. Allen ha un bel dire: lui è ebreo, e volente o nolente una presenza divina, sia pure beffarda e capricciosa, se la porta dentro. Ma quelli come me, perfettamente agnostici, a chi dovrebbero rivolgersi? Devono arrangiarsi con ciò che trovano. Il punto quindi non è Dio, ma semmai la necessità o meno di avere dei modelli (nelle patologie più spinte, di diventare dei modelli). È questa la sindrome specifica cui mi riferisco: una sindrome da dio minore, che rinuncia all’onnipotenza e all’onniscienza e si accontenta di una certa ubiquità esistenziale.

La sindrome di Dio non va peraltro confusa con la megalomania, e nulla ha a che fare con altre patologie che potrebbero sembrare apparentabili (ad esempio, con l’imitazione di Cristo). Non comporta alcuna presunzione di superiorità o aspirazione alle stigmate, è sostanzialmente innocua e ha il solo effetto di uno spaesamento spazio-temporale costante, di una distonia avvertita più dagli altri che da chi ne è soggetto. Presenta sintomi ben precisi, ha le sue brave cause scatenanti ma è legata soprattutto ad una disposizione che chiamerei genetica, prima ancora che etica.

Il fattore predisponente è un amore vero per la storia, quello che non si accontenta della spettacolarità dei Grandi Eventi, interpretati dai Grandi Attori, ma nemmeno dell’immagine di un tritasassi inarrestabile che riduce alla fine tutto in polvere. Un tipo di amore che nella storia cerca un senso, e non un verso: e trova che il senso alla storia lo ha dato il lavoro quasi sempre oscuro di quanti hanno saputo tener viva in sé e proporre agli altri l’umanissima (questa si) aspirazione alla dignità e alla coerenza. Questo lavoro, se ci riflettiamo, lo hanno fatto tutto e sempre i “quasi adatti”, quelli che in luogo di adeguarsi alla determinazione “ambientale”, ai vincoli imposti da una situazione sociale, da una condizione personale o da una contingenza storica hanno scelto di vivere “come se”, e così facendo alla vita hanno aggiunto un valore. Per farlo hanno dovuto costantemente violare il confine tra il reale e l’ideale, tra un’esistenza che impone tempi, spazi e rapporti e un’altra, o più altre, che consentono invece di sceglierli, cercando di trasferire nella prima la pienezza di senso possibile nella seconda. Sto parlando evidentemente di sognatori, che però, a dispetto dell’apparenza, sono coscienti di sognare, lo fanno per una scelta consapevole e sono seri con i loro sogni. E sono confortati ad esserlo dalla certezza che altri prima lo hanno fatto, dalla possibilità di raccogliere il testimone di una staffetta che va avanti da quando l’uomo ha sviluppato una coscienza morale.

Per questo continuo a scrivere di “quasi adatti”. Ho la presunzione di mantenere in vita in qualche misura il loro sogno, magari di farne partecipi anche altri, e soprattutto la cosa mi consente di attraversare a mio piacere gli specchi nei quali vorrei riflettermi. Le vite che ho raccontato in questi ultimi anni sono estremamente diverse tra loro, ma avrei voluto viverle tutte.

 

P.S. Dimenticavo: alla fine, in questo quadro, che ruolo hanno gli adatti? Beh, è evidente: sono loro ad assicurare la continuità biologica. Se tutti fossero poco o quasi adatti forse ci saremmo già estinti. Ma non è pacifico che gli adatti garantiscano ancora la sopravvivenza della specie, dal momento che in realtà non partecipano più della sua evoluzione. Ormai infatti l’adattamento non è più riferibile alle trasformazioni dell’ambiente naturale: è adeguamento ad un sistema economico autoreferenziale, ad una cultura ridotta a spettacolo, ad una rete di rapporti solo virtuali, ad una esistenza alleggerita di ogni responsabilità, quindi privata di ogni necessità e possibilità di scelta. Gli adatti non hanno sogni, si accontentano di consumarne gli insipidi surrogati offerti dal mercato. Si riproducono sempre più simili, e la rifinitura “educativa” li rende identici. Ad evitare gli errori di ricopiatura del DNA sono oggi persino clonabili o programmabili geneticamente. Stiamo tornando, e non solo in metafora, alla riproduzione asessuata, quella da cui siamo partiti con le amebe. Gli adatti non sono più selezionati dall’ambiente: sono prodotti in serie e coltivati in batteria per popolare l’enorme plastico che ha sostituito la natura.

I più ottimisti pensano che alla fine provvederà comunque la natura stessa a rimettere a posto le cose: i non adatti ritengono che lo stia già facendo, spingendoci come lemming impazziti a gettarci tutti quanti a mare. Se così fosse, ed è molto probabile che lo sia, occorrerebbe ripensare tutta la teoria dell’evoluzione: ma a quel punto non rimarrebbe nessuno per farlo.

Peccato: sarebbe stata un’altra bella storia da raccontare.

I quasi adatti (1)