“Debito pubblico italiano, nuovo record ad aprile, sfondati i 3.063 miliardi di euro” Italia da record: nel 2025 la spesa dei visitatori stranieri supererà i 60 mld di euro Duplantis salta 6.28: nuovo record del mondo nell’asta
I record sono fatti per essere battuti, ma ultimamente ciò avviene tanto spesso che non abbiamo nemmeno più il tempo (e la voglia) di realizzare quando siano tali. Ci sono quelli climatici (ogni nuovo giugno è il più caldo dal Big Bang, ogni acquazzone porta tanta pioggia quanta era solita caderne fino a ieri in un anno), quelli finanziari (ogni novità nell’ambiente digitale crea nuovi stuoli di paperoni, ogni rutto di Trump fa crollare o decollare la borsa, l’una e l’altra cosa aumentano esponenzialmente la forbice tra i più ricchi e gli altri otto miliardi), quelli della belligeranza (sono in atto in questo momento nel mondo cinquantasei conflitti “dichiarati”, più tutti quelli “sotterranei)”, quelli sportivi, quelli dei compensi per calciatori e attori e cantanti e “consulenti” delle amministrazioni regionali, quelli della crescita demografica, ecc… Restano al palo solo le vendite di auto elettriche e di libri, mentre calano gli incassi al botteghino (in testa è ancora Via col vento), ma è facile spiegarsi il perché. Insomma, la tendenza è ad andare sempre oltre, e sempre più velocemente. In positivo, a volte: più spesso in negativo.
I record più sensazionali riguardano infatti indubbiamente la stupidità, la creduloneria, l’ignoranza voluta e compiaciuta, il risentimento generalizzato (e più ancora quello specifico) e urlato. E non è nemmeno necessario accendere la televisione e assistere a un talk o a un telegiornale per rendersene conto.
Sono reduce da un’allucinante discussione, bruscamente troncata, nella quale persone della mia età, apparentemente normali e di media cultura, con le quali mi ero già più volte intrattenuto a scherzare e a fare gossip sotto i tigli del viale, sono arrivate ad affermare che Hitler aveva ragione a voler sterminare gli Ebrei, visto quanto sta accadendo in Palestina. È venuto a galla un livello di odio antiebraico, in gente che un ebreo non l’ha mai conosciuto, che mi ha lasciato sconvolto, perché ne ho realizzato l’effettiva diffusione: ma non mi ha affatto sorpreso. E ho capito anche quanto fosse inutile cercare di mantenere il discorso su un piano razionale, e provare a spiegare sia il mio rapporto con l’ebraismo in genere che quello con Israele.
Riprovo adesso, a freddo, a spiegarlo a me stesso, partendo da una dichiarazione di Edith Bruck, testimone della shoah ungherese. La Bruck ha scritto recentemente: “Netanyahu sta provocando uno tsunami di antisemitismo, perché tutti identificano gli ebrei con il governo israeliano”. Il che è assolutamente condivisibile, ma è vero solo in parte. Perché sappiamo tutti che l’antisemitismo non ha atteso Netanyahu per riesplodere: era già lì, covava sotto le ceneri dei forni di Auschwitz, ha allignato clandestino per qualche decennio, sbandierato solo dai neonazisti più feroci, perché l’ombra sia pur sempre più pallida dello sterminio consigliava agli altri prudenza e un po’ di ritegno: ma era ben vivo e condiviso e non attendeva altro che l’occasione per uscire allo scoperto. Aveva alle spalle secoli, millenni addirittura, di strumentale istigazione, fomentato di volta in volta, o di concerto, dai monoteismi rivali, dalle autocrazie traballanti, dagli interessi economici concorrenziali e persino dalle ideologie teoricamente più libertarie e rivoluzionarie. Oggi infatti è diffuso, neanche tanto paradossalmente, soprattutto nelle sinistre, e non solo in quelle che dopo aver fatto tutto il giro hanno finito per confondersi e sovrapporsi alle destre.
Ora, non è possibile che questa cosa la percepissi solo io, che ne scrivo da sempre (vedi Chi ha paura dell’ebreo cattivo, oppure Una scrittura antisemita rosa pallido), da ben prima dell’esplosione della vicenda di Gaza. E tutto sommato non è nemmeno necessario andare a scandagliare ragioni remote o pretesti recenti per spiegare il fenomeno: al di là di tutte le motivazioni contingenti c’è un’ignoranza gretta e risentita, la vigliaccheria di fondo di chi ha sempre avuto bisogno di capri espiatori su cui scaricare la responsabilità dei propri disagi, delle proprie insoddisfazioni, dei propri fallimenti.
Questa atmosfera la percepivano infatti nettamente anche gli ebrei, in tutto il mondo, al di là delle inutili giornate della memoria e dei sacrari dell’olocausto diffusi in mezza Europa, o della solidarietà ambigua e pelosa espressa di fronte ad ogni sua manifestazione da politici e intellettuali. “Ci odieranno sempre, ovunque e comunque – mi disse una volta un amico ebreo –; dobbiamo prenderne atto, e metterci semmai in condizione di non lasciar ripetere quello che è successo già troppe volte”. Ora ne hanno la riprova, e questo spiega anche il progressivo silenzio, la cautela nei giudizi degli oppositori storici di Netanyahu in Israele, dei Grossman, per capirci, di Gavron, di Zeruya Shalev, di Harari (un silenzio relativo, comunque: questi ed altri 300 scrittori, artisti e scienziati israeliani hanno sottoscritto ancora due mesi fa un appello per la cessazione della guerra). Hanno realizzato che delle loro lotte per la pace, per i diritti civili estesi a tutti, per il rispetto dei principi fondativi dello stato di Israele, non frega niente a nessuno: che in quanto ebrei e tanto più in quanto israeliani sono considerati a prescindere meritevoli di sterminio: e che nessuna garanzia internazionale varrà mai a proteggerli, come dimostrato da quanto accaduto nel corso del secondo conflitto mondiale, quando tutti sapevano, dagli angloamericani al Vaticano e alle popolazioni europee, quella tedesca in primis, e nessuno fiatava.
Sia chiaro, non sto affatto esagerando la dimensione del fenomeno: anche prima dell’attuale recrudescenza solo uno sprovveduto o un ipocrita potevano fingere di non accorgersi del sottile fastidio che di norma l’argomento induceva. Il fastidio era indotto certamente anche dallo “sfruttamento” a fini politici della Shoah da parte di Israele (che peraltro per un paio di decenni l’aveva volutamente “oscurata”), o dagli eccessi del bombardamento mediatico nelle occasioni anniversarie: ma germogliava su un terreno già abbondantemente concimato.
Dicevo che questo pericolo gli ebrei l’hanno sempre avvertito. Lo hanno anche visto tragicamente inverarsi, in ripetuti cruentissimi pogrom, e proprio su esso hanno fatto leva Netanyahu e le destre ultraortodosse israeliane per prendere il potere prima e per portare avanti poi una politica criminale di discriminazione interna e di colonizzazione dell’intera area palestinese. In realtà costoro non hanno inventato nulla, la colonizzazione e la discriminazione erano già presenti nei piani della destra israeliana prima di Netanyahu, seppure non in maniera così conclamata: ma c’erano anche forti resistenze, si erano create occasioni di marcia indietro, e comunque, al di là di tutto, questo riguarda le dinamiche di Israele come stato, non degli ebrei come popolo. Quanto sta accadendo è invece la voluta confusione delle due situazioni.
Cerco di essere ancora più chiaro. Personalmente penso che Netanyahu e gli ultraortodossi stiano portando il paese in un baratro, abbiano bruciato le già scarse simpatie di cui Israele godeva (non vanno confuse le simpatie con le convenienze strategiche ed economiche) e stiano sciaguratamente offrendo al mondo intero la pezza giustificativa per un futuro disinteresse riguardo la sua sorte. Si potrà così sempre dire che “se la sono voluta”. Ma se non giustifico in alcuna misura l’efferato massacro in corso, credo però che un atteggiamento tanto feroce non possa essere spiegato solo come una arrogante esibizione muscolare, dettata da una capovolta presunzione razzista o da una spietata volontà di potenza, O peggio ancora liquidato come la strategia diversiva di chi ha potere per non perderlo: a dettarlo c’è innanzitutto la paura, quella di cui parlavo sopra, che è ormai entrata nel dna ebraico, e che non è affatto immotivata.
A questo punto però vado anche oltre. Nel corso della discussione mi è stato neanche tanto velatamente rinfacciato di fare della mia conoscenza storica un pulpito dal quale pontificare. Un rapido ma sincero esame di coscienza mi assolve: mi sono limitato ad affermare che la confusione di cui sopra non è giustificata, e che quanto Netanyahu sta facendo non è affatto condiviso dagli ebrei sparsi in tutto il mondo. Non ho sciorinato riferimenti storici, non ho millantato alcun superiore sapere. Eppure “La storia la conosciamo anche noi”, mi è stato opposto, “e la storia dice che ovunque gli ebrei si sono comportati allo stesso modo, è la loro natura [sottinteso: malvagia]”. E già questo la dice lunga. Mi fa pensare che tra le presunte fonti storiche accampate ci siano anche i Protocolli dei savi di Sion: ma forse non è neppure il caso di concedere un credito eccessivo, gente simile non ne ha bisogno, il baco è già nella loro testa, il virus scorreva già nel loro sangue. La veemenza e l’astio con cui queste cose sono state dette mi hanno chiarito che non di solo antisemitismo si tratta: a quel punto il capro ero diventato io, reo di avere studiato (non hanno potuto insinuare “anziché lavorare”, perché sanno benissimo che sin da ragazzo ho lavorato, anche manualmente, più di ciascuno di loro): ho studiato, guarda caso proprio come sono tenuti a fare tutti gli ebrei, e questo mi accomuna all’oggetto del loro risentimento. Se Internet ha dato la parola agli imbecilli, Gaza sta aprendo praterie agli ignoranti, ai frustrati e ai rancorosi. Dato che sia i primi che i secondi sono legioni, c’è poco da stare allegri.
La cosa ancor più grave però è che nessun altro dei coinvolti nella discussione ha controbattuto quelle esternazioni demenziali: non dico che le condividessero, ma non hanno manifestato alcuna significativa reazione: forse erano più sbalorditi di me, forse non hanno ritenuto valesse la pena rispondere a tanta proterva stupidità. Spero solo sia così, perché se non lo fosse dovrei starmene tappato in casa a piangere per il resto dell’estate.
E invece, forse è giusto mettere al bando ogni ipocrita condiscendenza e ribaltare la prospettiva. So benissimo che abbassarsi a discutere a questi livelli non porta a niente, anzi, è controproducente. Ma ciò non significa che ci si debba sempre ridurre a tacere, o a fare professione di antifascismo davanti a fascisti di fatto o di pacifismo davanti ad aspiranti aguzzini. In fondo, è questo l’atteggiamento davvero discriminatorio: se uno è un idiota, se è un ignorante e un frustrato, ha tutto il diritto di sentirselo dire. Si incanaglirà ancor più, dubito che una qualche consapevolezza possa sfiorarlo: ma almeno io saprò di aver fatto il mio dovere, di aver opposto un minimo di resistenza all’imbarbarimento.
Forse però sto rischiando anch’io: forse dietro il mio disgusto si sta insinuando la paura, perché venendo via mi sorprendo a pensare: se fossi in Israele, con gente del genere come mi comporterei?
Un tempo applicavo il motto che Plinio (il vecchio) attribuisce ad Apelle, Nulla dies sine linea. Non mi illudevo di acquisire con l’esercizio quel talento scrittorio che la natura non mi aveva prodigato, volevo solo tenere viva una passione che mi era stata trasmessa, quella sì, da mia madre e dalla maestra delle elementari. Interpretavo dunque la “linea” come una riga o addirittura una pagina di scrittura e affidavo quest’ultima a un diario quotidiano. Anziché una scelta di metodo, come lo era ad esempio per Simenon, che scriveva tutti i santissimi giorni per cinque o sei ore, e si considerava un “artigiano della scrittura”, nel mio caso era un modo per non considerare persa l’intera giornata.
Era diventata un’abitudine, l’ultimo gesto prima di dormire, così come la sigaretta era il primo al risveglio. Mi forzavo a buttar giù qualcosa, fosse anche solo un pensiero, la cronaca telegrafica del giorno, una citazione o un’annotazione su un libro appena letto. Dovevo vincere la pigrizia mentale e spesso la fatica di una giornata intensa di lavori in campagna, ma alla fine anziché uno sforzo era diventato un bisogno.
Poi, quasi all’improvviso ho smesso: e me ne rammarico, perché con l’avanzare dell’età la colla che teneva assieme i ricordi è arrivata a scadenza, e il vuoto si fa profondo.
Non voglio ricominciare: i motivi che una volta mi spingevano sono venuti meno, e comunque avrei ben poco da annotare. O anzi, troppo. Tutto procede ad una velocità e in una confusione tali che ciò che oggi ti sconcerta o ti conforta sarà già irrilevante domani. D’altro canto, tenendomi più sul personale rischierei solo di aggiornare una cartella clinica.
A dispetto di ciò, continuo tuttavia ogni tanto ad affidare a fogli volanti o a taccuini sparsi umori e considerazioni, ripromettendomi magari di svilupparli in seguito: cosa che quasi mai avviene. Ho pensato dunque, per non darla vinta alla pigrizia e tenere in vita il sito, di postare alcuni di questi frammenti, lasciandoli come li ritrovo, allo stato di appunti. Per me una piccola flebo di volontà, per qualcuno potrebbero costituire uno stimolo a riflettere, magari ad intervenire. Come avrete già capito, in fondo sono un inguaribile ottimista.
Nuovi record e antiche paure
di Paolo Repetto, 2 agosto 2025
“Debito pubblico italiano, nuovo record ad aprile, sfondati i 3.063 miliardi di euro” Italia da record: nel 2025 la spesa dei visitatori stranieri supererà i 60 mld di euro Duplantis salta 6.28: nuovo record del mondo nell’asta
I record sono fatti per essere battuti, ma ultimamente ciò avviene tanto spesso che non abbiamo nemmeno più il tempo (e la voglia) di realizzare quando siano tali. Ci sono quelli climatici (ogni nuovo giugno è il più caldo dal Big Bang, ogni acquazzone porta tanta pioggia quanta era solita caderne fino a ieri in un anno), quelli finanziari (ogni novità nell’ambiente digitale crea nuovi stuoli di paperoni, ogni rutto di Trump fa crollare o decollare la borsa, l’una e l’altra cosa aumentano esponenzialmente la forbice tra i più ricchi e gli altri otto miliardi), quelli della belligeranza (sono in atto in questo momento nel mondo cinquantasei conflitti “dichiarati”, più tutti quelli “sotterranei)”, quelli sportivi, quelli dei compensi per calciatori e attori e cantanti e “consulenti” delle amministrazioni regionali, quelli della crescita demografica, ecc… Restano al palo solo le vendite di auto elettriche e di libri, mentre calano gli incassi al botteghino (in testa è ancora Via col vento), ma è facile spiegarsi il perché. Insomma, la tendenza è ad andare sempre oltre, e sempre più velocemente. In positivo, a volte: più spesso in negativo.
I record più sensazionali riguardano infatti indubbiamente la stupidità, la creduloneria, l’ignoranza voluta e compiaciuta, il risentimento generalizzato (e più ancora quello specifico) e urlato. E non è nemmeno necessario accendere la televisione e assistere a un talk o a un telegiornale per rendersene conto.
Sono reduce da un’allucinante discussione, bruscamente troncata, nella quale persone della mia età, apparentemente normali e di media cultura, con le quali mi ero già più volte intrattenuto a scherzare e a fare gossip sotto i tigli del viale, sono arrivate ad affermare che Hitler aveva ragione a voler sterminare gli Ebrei, visto quanto sta accadendo in Palestina. È venuto a galla un livello di odio antiebraico, in gente che un ebreo non l’ha mai conosciuto, che mi ha lasciato sconvolto, perché ne ho realizzato l’effettiva diffusione: ma non mi ha affatto sorpreso. E ho capito anche quanto fosse inutile cercare di mantenere il discorso su un piano razionale, e provare a spiegare sia il mio rapporto con l’ebraismo in genere che quello con Israele.
Riprovo adesso, a freddo, a spiegarlo a me stesso, partendo da una dichiarazione di Edith Bruck, testimone della shoah ungherese. La Bruck ha scritto recentemente: “Netanyahu sta provocando uno tsunami di antisemitismo, perché tutti identificano gli ebrei con il governo israeliano”. Il che è assolutamente condivisibile, ma è vero solo in parte. Perché sappiamo tutti che l’antisemitismo non ha atteso Netanyahu per riesplodere: era già lì, covava sotto le ceneri dei forni di Auschwitz, ha allignato clandestino per qualche decennio, sbandierato solo dai neonazisti più feroci, perché l’ombra sia pur sempre più pallida dello sterminio consigliava agli altri prudenza e un po’ di ritegno: ma era ben vivo e condiviso e non attendeva altro che l’occasione per uscire allo scoperto. Aveva alle spalle secoli, millenni addirittura, di strumentale istigazione, fomentato di volta in volta, o di concerto, dai monoteismi rivali, dalle autocrazie traballanti, dagli interessi economici concorrenziali e persino dalle ideologie teoricamente più libertarie e rivoluzionarie. Oggi infatti è diffuso, neanche tanto paradossalmente, soprattutto nelle sinistre, e non solo in quelle che dopo aver fatto tutto il giro hanno finito per confondersi e sovrapporsi alle destre.
Ora, non è possibile che questa cosa la percepissi solo io, che ne scrivo da sempre (vedi Chi ha paura dell’ebreo cattivo, oppure Una scrittura antisemita rosa pallido), da ben prima dell’esplosione della vicenda di Gaza. E tutto sommato non è nemmeno necessario andare a scandagliare ragioni remote o pretesti recenti per spiegare il fenomeno: al di là di tutte le motivazioni contingenti c’è un’ignoranza gretta e risentita, la vigliaccheria di fondo di chi ha sempre avuto bisogno di capri espiatori su cui scaricare la responsabilità dei propri disagi, delle proprie insoddisfazioni, dei propri fallimenti.
Questa atmosfera la percepivano infatti nettamente anche gli ebrei, in tutto il mondo, al di là delle inutili giornate della memoria e dei sacrari dell’olocausto diffusi in mezza Europa, o della solidarietà ambigua e pelosa espressa di fronte ad ogni sua manifestazione da politici e intellettuali. “Ci odieranno sempre, ovunque e comunque – mi disse una volta un amico ebreo –; dobbiamo prenderne atto, e metterci semmai in condizione di non lasciar ripetere quello che è successo già troppe volte”. Ora ne hanno la riprova, e questo spiega anche il progressivo silenzio, la cautela nei giudizi degli oppositori storici di Netanyahu in Israele, dei Grossman, per capirci, di Gavron, di Zeruya Shalev, di Harari (un silenzio relativo, comunque: questi ed altri 300 scrittori, artisti e scienziati israeliani hanno sottoscritto ancora due mesi fa un appello per la cessazione della guerra). Hanno realizzato che delle loro lotte per la pace, per i diritti civili estesi a tutti, per il rispetto dei principi fondativi dello stato di Israele, non frega niente a nessuno: che in quanto ebrei e tanto più in quanto israeliani sono considerati a prescindere meritevoli di sterminio: e che nessuna garanzia internazionale varrà mai a proteggerli, come dimostrato da quanto accaduto nel corso del secondo conflitto mondiale, quando tutti sapevano, dagli angloamericani al Vaticano e alle popolazioni europee, quella tedesca in primis, e nessuno fiatava.
Sia chiaro, non sto affatto esagerando la dimensione del fenomeno: anche prima dell’attuale recrudescenza solo uno sprovveduto o un ipocrita potevano fingere di non accorgersi del sottile fastidio che di norma l’argomento induceva. Il fastidio era indotto certamente anche dallo “sfruttamento” a fini politici della Shoah da parte di Israele (che peraltro per un paio di decenni l’aveva volutamente “oscurata”), o dagli eccessi del bombardamento mediatico nelle occasioni anniversarie: ma germogliava su un terreno già abbondantemente concimato.
Dicevo che questo pericolo gli ebrei l’hanno sempre avvertito. Lo hanno anche visto tragicamente inverarsi, in ripetuti cruentissimi pogrom, e proprio su esso hanno fatto leva Netanyahu e le destre ultraortodosse israeliane per prendere il potere prima e per portare avanti poi una politica criminale di discriminazione interna e di colonizzazione dell’intera area palestinese. In realtà costoro non hanno inventato nulla, la colonizzazione e la discriminazione erano già presenti nei piani della destra israeliana prima di Netanyahu, seppure non in maniera così conclamata: ma c’erano anche forti resistenze, si erano create occasioni di marcia indietro, e comunque, al di là di tutto, questo riguarda le dinamiche di Israele come stato, non degli ebrei come popolo. Quanto sta accadendo è invece la voluta confusione delle due situazioni.
Cerco di essere ancora più chiaro. Personalmente penso che Netanyahu e gli ultraortodossi stiano portando il paese in un baratro, abbiano bruciato le già scarse simpatie di cui Israele godeva (non vanno confuse le simpatie con le convenienze strategiche ed economiche) e stiano sciaguratamente offrendo al mondo intero la pezza giustificativa per un futuro disinteresse riguardo la sua sorte. Si potrà così sempre dire che “se la sono voluta”. Ma se non giustifico in alcuna misura l’efferato massacro in corso, credo però che un atteggiamento tanto feroce non possa essere spiegato solo come una arrogante esibizione muscolare, dettata da una capovolta presunzione razzista o da una spietata volontà di potenza, O peggio ancora liquidato come la strategia diversiva di chi ha potere per non perderlo: a dettarlo c’è innanzitutto la paura, quella di cui parlavo sopra, che è ormai entrata nel dna ebraico, e che non è affatto immotivata.
A questo punto però vado anche oltre. Nel corso della discussione mi è stato neanche tanto velatamente rinfacciato di fare della mia conoscenza storica un pulpito dal quale pontificare. Un rapido ma sincero esame di coscienza mi assolve: mi sono limitato ad affermare che la confusione di cui sopra non è giustificata, e che quanto Netanyahu sta facendo non è affatto condiviso dagli ebrei sparsi in tutto il mondo. Non ho sciorinato riferimenti storici, non ho millantato alcun superiore sapere. Eppure “La storia la conosciamo anche noi”, mi è stato opposto, “e la storia dice che ovunque gli ebrei si sono comportati allo stesso modo, è la loro natura [sottinteso: malvagia]”. E già questo la dice lunga. Mi fa pensare che tra le presunte fonti storiche accampate ci siano anche i Protocolli dei savi di Sion: ma forse non è neppure il caso di concedere un credito eccessivo, gente simile non ne ha bisogno, il baco è già nella loro testa, il virus scorreva già nel loro sangue. La veemenza e l’astio con cui queste cose sono state dette mi hanno chiarito che non di solo antisemitismo si tratta: a quel punto il capro ero diventato io, reo di avere studiato (non hanno potuto insinuare “anziché lavorare”, perché sanno benissimo che sin da ragazzo ho lavorato, anche manualmente, più di ciascuno di loro): ho studiato, guarda caso proprio come sono tenuti a fare tutti gli ebrei, e questo mi accomuna all’oggetto del loro risentimento. Se Internet ha dato la parola agli imbecilli, Gaza sta aprendo praterie agli ignoranti, ai frustrati e ai rancorosi. Dato che sia i primi che i secondi sono legioni, c’è poco da stare allegri.
La cosa ancor più grave però è che nessun altro dei coinvolti nella discussione ha controbattuto quelle esternazioni demenziali: non dico che le condividessero, ma non hanno manifestato alcuna significativa reazione: forse erano più sbalorditi di me, forse non hanno ritenuto valesse la pena rispondere a tanta proterva stupidità. Spero solo sia così, perché se non lo fosse dovrei starmene tappato in casa a piangere per il resto dell’estate.
E invece, forse è giusto mettere al bando ogni ipocrita condiscendenza e ribaltare la prospettiva. So benissimo che abbassarsi a discutere a questi livelli non porta a niente, anzi, è controproducente. Ma ciò non significa che ci si debba sempre ridurre a tacere, o a fare professione di antifascismo davanti a fascisti di fatto o di pacifismo davanti ad aspiranti aguzzini. In fondo, è questo l’atteggiamento davvero discriminatorio: se uno è un idiota, se è un ignorante e un frustrato, ha tutto il diritto di sentirselo dire. Si incanaglirà ancor più, dubito che una qualche consapevolezza possa sfiorarlo: ma almeno io saprò di aver fatto il mio dovere, di aver opposto un minimo di resistenza all’imbarbarimento.
Forse però sto rischiando anch’io: forse dietro il mio disgusto si sta insinuando la paura, perché venendo via mi sorprendo a pensare: se fossi in Israele, con gente del genere come mi comporterei?
Pubblichiamo il saggio più recente di Beppe Rinaldi, già comparso nei giorni scorsi sia sul blog personale, Finestre rotte, sia su Città futura on line. Lo pubblichiamo perché riteniamo meriti, come tutti gli altri scritti di Rinaldi che abbiamo ripresi e quelli che vi invitiamo a leggere direttamente sul suo sito, la maggiore visibilità possibile. È difficile di questi tempi trovare analisi altrettanto puntuali ed esaurienti dell’attualità politica e delle derive del pensiero contemporaneo, e siamo quindi ben felici di poterle ospitare.Paolo Repetto
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1. Il titolo di questo saggio[1] fa riferimento a un recente libretto di Aldo Schiavone nel quale egli descrive e denuncia un ormai consumato degrado della vita intellettuale e morale dell’Occidente e, dunque, anche e soprattutto del primo Occidente, cioè dell’Europa. La nozione di un Occidente senza pensiero costituisce una sintesi assai evocativa di una situazione di vuoto culturale che si sarebbe instaurata, sulle sponde atlantiche, pressappoco con l’affievolirsi delle cosiddette ideologie, proprio quelle ideologie peraltro già in crisi che avevano avuto il loro ultimo momento di gloria nell’ambito della Guerra fredda.
2. Sulla cosiddetta fine delle ideologie sono state ormai scritte intere biblioteche[2]. Daniel Bell, già alla metà del secolo scorso, parlava di una «exhaustion of political ideas». Su questa “fine”, e su altre “fini”, la baldanzosa corrente filosofica postmodernista ha campato di rendita per alcuni decenni. Qualcuno ha anche provato a ipotizzare una fine della storia. Con la fine delle ideologie, comunque si valuti l’evento, ci si poteva attendere il luminoso inizio di una nuova prospettiva culturale, scevra di ideologismi, realistica, con i piedi ben piantati in terra, capace di guidarci con sicurezza nell’affrontare le difficili sfide che abbiamo di fronte. Invece, a quanto pare, l’ipotesi più probabile è che sia subentrato il vuoto. Un vuoto che non si può soltanto più considerare come un momentaneo smarrimento, una crisi di crescita. Si tratta piuttosto di un vuoto che si appresta a diventare un vuoto permanente, visto che il Muro è caduto nel 1989, quasi quarant’anni fa, 36 per la precisione.
3. Cosa vuol dire che siamo rimasti “senza pensiero”? È proprio vero? Perché non ce ne eravamo accorti prima? O non si tratta forse dell’ennesima moda denigrativa dell’Occidente, tanto popolare nella cultura woke e recentemente denunciata, ad esempio, da Federico Rampini[3]? Le assenze sono decisamente più difficili da rilevare delle presenze. I vuoti non parlano, non protestano, non hanno effetti causali diretti. Per cui occorre un certo tempo perché vengano identificati, perché venga loro attribuito uno status, per così dire, ontologico. Non è facile – soprattutto nel dominio culturale – rendersi conto del fatto che ci manca qualcosa. Che siamo sull’orlo di un buco nero. A parere di chi scrive l’avvertimento acuto della assenza di un pensiero dell’Occidente (e dell’Europa) si è avuto piuttosto tardi, in concomitanza con una serie di fenomeni che avrebbero dovuto avere una interpretazione univoca e una risposta altrettanto univoca da parte dell’Occidente. E invece non l’hanno avuta. Fenomeni come: 1) l’aggressione russa all’Ucraina; 2) la diffusione stessa della cultura woke entro e fuori degli USA; 3) la Brexit che in sostanza ha costituito una scissione dell’Unione Europea; 4) la prima vittoria di Donald Trump alle elezioni nel 2017, l’assalto al Campidoglio e la sua seconda elezione nel 2024; 5) l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele e la reazione sproporzionata dello “Stato degli ebrei” nei confronti del territorio di Gaza; 6) lo svuotamento dell’ONU e dei Tribunali internazionali (a seguito delle guerre di Ucraina e di Gaza); 7) in generale, poi, la estrema lentezza e riluttanza con cui si sta realizzando la unificazione europea. Se si vuol essere un poco più drastici, il blocco ormai pluridecennale del processo di unificazione europea. Se ne potrebbero citare altri.
Questi meri fatti hanno diviso profondamente il mondo della politica, gli intellettuali e l’opinione pubblica europea e hanno mostrato come, da tempo ormai, fosse diventato impossibile l’impiego di criteri comuni di interpretazione, di fronte a questioni che pure sono di enorme importanza, che pure toccano profondamente i valori e i principi fondamentali. Se di fronte a fatti di questa portata non hai una risposta tendenzialmente univoca, vuol dire che non sai tanto bene chi sei, che non hai propriamente un’identità. È lecito domandarsi se non ci sia un limite nella disomogeneità di pensiero che possa essere sopportato da una società, in termini di coesione e di funzionamento. Una società che peraltro è impegnata in un programma di unificazione politica.
4. Se si guarda alla fase storica precedente, quella della Guerra fredda, avevamo mezzo mondo mobilitato per la costruzione del socialismo, in qualcuna delle sue molteplici varianti (alcune delle quali davvero discutibili). Un altro mezzo mondo era alacremente impegnato nella costruzione delle società democratiche aperte e per resistere alla minaccia del socialismo o comunismo reale. Un “Terzo mondo” era poi impegnato nella costruzione di nuovi Stati nazione, per liberare i diversi Paesi dal colonialismo e dallo sfruttamento straniero. Non si può certo dire che mancassero ideologie, valori e finalità. Non mancava dunque il pensiero. Certo, c’erano dei conflitti e alcuni “pensieri” erano del tutto sbagliati, ma questo è il rischio che si corre sempre quando si è impegnati a fare la storia in qualche modo.
Con l’implosione dell’Unione Sovietica e con la fine della Guerra fredda, l’Occidente, che poteva considerarsi come il virtuale vincitore della lunga contesa, è invece entrato in una sorta di stato comatoso, in una sconcertante assenza di progettualità e di prospettive, in una stupida concentrazione sugli egoismi nazionali e sui particolarismi. Sono diventati così visibili, in un certo senso, i due Occidenti, uno dalla statualità muscolare e l’altro dalla statualità evanescente. L’Occidente europeo evanescente ha delegato all’altro, agli USA, una serie importante di responsabilità[4]collettive e questi – oggi possiamo affermarlo con totale certezza – si sono dimostrati assolutamente incapaci, assolutamente non all’altezza del compito. Con una “assenza di pensiero” forse ancora più plateale di quella diffusa in Europa. Basta nominare, uno in fila all’altro, i recenti Presidenti americani. Ve li trascrivo qui di seguito per comodità. Richard Nixon (1969-1974), Gerald Ford (1974-1977), Jimmy Carter (1977-1981), Ronald Reagan (1981-1989), George H. W. Bush (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), George W. Bush (2001-2009), Barack Obama (2009-2017), Donald Trump (2017-2021), Joe Biden (2021-2025) e Donald Trump (2025-). Messi così, uno in fila all’altro, che impressione vi fanno? Riuscite a identificare una qualche linea di pensiero?
5. Gli ultimi quarant’anni della nostra storia, nel primo e nel secondo Occidente, ci mettono drammaticamente di fronte a questo vuoto di prospettiva, vuoto di politica, vuoto di cultura, vuoto, appunto, di pensiero. Un vuoto che si sta facendo sempre più evidente nella misura in cui i problemi, abbandonati a se stessi, urgono per una soluzione e si incancreniscono sempre più. Nel proseguimento di questo saggio – che non va propriamente inteso come una recensione – prenderò in considerazione soprattutto la parte introduttiva e la parte conclusiva del libro di Schiavone, al solo scopo di meglio caratterizzare questo fenomeno, oggi per me divenuto evidentissimo, di un Occidente senza pensiero.
6. Così esordisce Schiavone nel suo libretto: «Nel quadro delle conoscenze e dei saperi che alimentano la vita pubblica delle nostre società […] si è aperto da qualche tempo, nell’indifferenza generale, un vuoto inquietante. Prodottosi quasi di colpo, ha per causa un fatto senza precedenti, con conseguenze che si stanno rivelando via via più disastrose: la scomparsa dalla scena d’Europa del grande pensiero sull’umano: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali»[5].
Va notata qui l’espressione “pensiero sull’umano”, una terminologia di cui sembra si sia persa decisamente l’abitudine. Vorrei ricordare che anche le atroci lacerazioni del Novecento vertevano comunque, bene o male, intorno a un qualche “pensiero sull’umano”. L’amaro tribunale della storia ha alfine decretato qualcosa di abbastanza preciso, intorno all’umano e al disumano. Qualcosa abbiamo dovuto forzatamente imparare. Oggi, per contro, l’umano e il disumano sono mescolati in una poltiglia inestricabile: Hamas, Trump, Putin, Netanyahu, cui possiamo aggiungere, fuori Occidente, gli ayatollah, i talebani e diverse varietà di islamisti. Ma anche Xi e Kim Jong-un. Eppure ci siamo così abituati che invocare l’umano oggi suscita senz’altro, presso il pubblico, ilarità e compassione.
Schiavone qui giustamente denuncia il progressivo venir meno della cultura umanistica nell’attuale contesto europeo, e più ampiamente nel contesto di quello che suole definirsi come Occidente. È implicito nel suo discorso che la cultura umanistica costituisca ancora una componente fondamentale nella definizione degli orientamenti di una società. Possiamo aggiungere che non assistiamo soltanto a un venir meno della prospettiva umanistica e alla proliferazione del cinico disincantato, stiamo assistendo a una promozione sfacciata dell’antiumanismo, in una varietà di forme che hanno sempre più successo o che comunque, invece di una condanna, suscitano solo benevola indifferenza[6]. Difendere l’umanismo oggi significa spesso fare la parte dell’anima bella che sogna i bei tempi andati. Significa essere malamente apostrofati dai truci realisti della politica che oggi abbondano più che mai. Questa tendenza antiumanistica si accompagna costantemente con lo screditamento della modernità, lo screditamento della tradizione stessa dell’Occidente e con l’implicito e conseguente screditamento della democrazia.
7. Schiavone chiama direttamente in causa le humanities: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali. Altre volte cita le discipline giuridiche, l’etica, l’economia. Chi scrive si è occupato di filosofia e scienze umane fin da quando era sui banchi di scuola. Ebbene, la filosofia occidentale, nella sua versione continentale, sta attraversando una crisi epocale dalla quale difficilmente riuscirà a riprendersi. Ho trattato ampiamente di questo argomento nel mio recente saggio Esiste la filosofia continentale?[7] L’aspetto interessante della questione è il fatto che, a partire dagli anni Settanta la filosofia continentale europea, soprattutto tedesca e francese (la french theory), ha completamente colonizzato le facoltà umanistiche americane, gettando le basi di quella cultura del piagnisteo politically correct, che si svilupperà poi nel movimento stay woke. In altri termini, stiamo importando in forma peggiorativa, come vuoto di pensiero, quello che abbiamo esportato oltre atlantico qualche decennio fa.
Per le scienze sociali è avvenuto un processo inverso. Le scienze sociali americane del primo Novecento, che avevano studiato per prime la nuova società di massa, sono state esportate in Europa, dove hanno avuto una diffusione straordinaria e hanno contribuito alla conoscenza e all’ammodernamento delle società europee, almeno quelle al di qua del Muro. Per decenni le scienze sociali nord americane furono le sole capaci di fare una dura concorrenza all’ortodossia marxista, che pretendeva il monopolio della conoscenza sociale. Esse diedero notevoli contributi ai processi di riforma delle società europee postbelliche. Negli anni Novanta tuttavia le scienze sociali americane caddero vittima dei social studies, del piagnisteo politically correct e lo stesso accadde, di converso in Europa. Con l’avvento del neo liberismo (la Tatcher sosteneva che “la società non esiste”) e con l’abbandono dei grandi progetti di riforma, le scienze sociali cominciarono a perdere qualsiasi ruolo e centralità. Contribuendo così a quel vuoto di pensiero di cui stiamo discutendo.
8. Una delle manifestazioni più tangibili di questo vuoto inquietante è – per Schiavone – la progressiva scomparsa dei Maestri. «Una volta c’erano tra noi i Maestri. Non in un’età ormai lontana, ma appena qualche decennio fa, ancora nel tardo Novecento. Guide da cui non si poteva prescindere e con cui ci siamo a lungo confrontati, fin quasi al passaggio del secolo. Spesso discussi e criticati, e non soltanto seguiti e imitati, ma comunque riconosciuti in grado di misurarsi con le grandi personalità del passato, e di aprire, attraverso quel dialogo, vie inesplorate per affrontare i problemi del presente nella continuità di una tradizione: quella stessa della modernità»[8].
La collocazione cronologica posta da Schiavone, “appena qualche decennio fa”, dell’avvento del vuoto di pensiero, è all’incirca quella che ho segnalato nella mia introduzione. Va poi ricordato che intellettuali e modernità hanno costituito, per secoli, un binomio inseparabile. Gli intellettuali, pur con molte contraddizioni, hanno costantemente svolto il ruolo di coscienza critica della modernità. Anche i conflitti del Novecento sono stati elaborati e consumati nell’ambito di un aspro dibattito intellettuale intorno alla modernità, o a quel che ne restava.
Ma è ora subentrata la postmodernità, la reazione contro la modernità che ha finito per scindere il ruolo stesso degli intellettuali nei confronti della società e della storia. Intellettuali e modernità sono due categorie che hanno subìto, negli scorsi decenni, un attacco violentissimo. Proprio ad opera della postmodernità che, in virtù di questo vandalismo di principio, ha mostrato alla fine la propria vacuità e inconsistenza. Senza l’apporto della modernità, senza il ruolo degli intellettuali, abbiamo perso progressivamente la capacità di pensare al nostro passato, al nostro presente, al nostro destino. Abbiamo rinunciato a domandarci chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Con chi ci accompagniamo.
9. Schiavone usa alcune pagine per elencare una nutrita schiera dei grandi Maestri cui faceva riferimento in apertura. «Era insomma la grande cultura formatasi nel cuore del ventesimo secolo che continuava a svolgere il proprio ruolo, e finiva con l’illuminare un’intera civiltà. […] Di comparabile a tanta ricchezza, oggi non rimane più nulla: ed è così che il buio è sceso senza preavviso sul cuore dell’Occidente. I primi risultati sono sotto gli occhi di tutti: un’America irriconoscibile, e un’Europa che tace o balbetta»[9].
Si noti che l’elenco dei Maestri citati, che qui non riporto e discuto per brevità, comprende posizioni culturali anche assai diverse e talvolta incompatibili. In omaggio dunque alla natura sempre conflittuale del pensiero. Per quel che riguarda invece il buio che ha colto il secondo Occidente, ci dovremmo soffermare a lungo sulla cultura woke, che è insieme causa e conseguenza della sparizione dei grandi Maestri e del rifiuto della modernità. Luca Ricolfi nel suo saggio sul Follemente corretto[10] ha esaurientemente descritto il fenomeno e ne ha tracciate alcune linee interpretative. Il politically correct e la cultura woke, con tutti i loro annessi e connessi, hanno gravemente minato la libertà di pensiero, uno dei principi cardine dell’Occidente.
10. Tuttavia Schiavone mette anche l’accento sul deterioramento qualitativo della produzione culturale. Ciò ovviamente mette in causa i meccanismi stessi della produzione e riproduzione dei saperi umanistici. Afferma Schiavone che: «[…] se si considerasse l’elenco dei docenti di una qualunque importante Facoltà umanistica in Francia, in Germania, in Italia qual era quaranta o cinquanta anni fa, e lo si mettesse a confronto con coloro che vi insegnano oggi, sarebbe arduo sottrarsi all’impressione di una distanza crescente e incolmabile, se appena si avesse una cognizione non superficiale delle materie prese in esame: filosofiche, storiche, giuridiche, sociologiche»[11].
Va osservato, da parte nostra, che l’appiattimento qualitativo riguarda non solo l’offerta culturale, ma anche il lato della domanda. Le capacità medie conseguite dagli studenti nelle nostre scuole sono in caduta libera. Lo stesso vale per le capacità medie dei cittadini di svolgere efficacemente i doveri loro prescritti dalla Costituzione. Anche su questo appiattimento ormai esiste una letteratura ampia e ben documentata.
11. Ciò vale perfino – ci permettiamo di aggiungere – nel campo dell’intelligenza. Secondo gli studiosi dell’effetto Flynn, nei Paesi occidentali anche l’intelligenza media avrebbe cessato di crescere. L’Effetto Flynn[12] era quel fenomeno, ben conosciuto dagli psicologi, per cui le prestazioni nei test di intelligenza tendevano a crescere col passare del tempo (3 punti ogni decennio). Questo fenomeno era stato rilevato sulla base dell’accumulo dei dati conseguenti alla pratica sistematica della somministrazione dei test di intelligenza diffusa in varie nazioni e istituzioni. Dall’inizio del nuovo secolo sono comparsi diversi studi che testimoniano di un arresto del fenomeno di crescita dei punteggi medi nei test di intelligenza. O, addirittura, sembrano avallare la presenza generalizzata di un effetto Flynn rovesciato. Col passare del tempo, le prestazioni individuali nei test di intelligenza non solo avrebbero cessato di crescere ma addirittura tenderebbero a diminuire. La cosa è tuttora controversa sul piano statistico, ma decisamente allarmante, se collegata ad altri sintomi di degrado del livello culturale medio delle nuove generazioni.
12. Eppure viviamo in un’epoca formidabile di progresso tecnico scientifico. Abbiamo fotografato i buchi neri, abbiamo scoperto il bosone di Higgs e intercettato le onde gravitazionali. L’intelligenza artificiale contribuisce a migliorare la nostra vita in un’enorme quantità di settori. Schiavone precisa che, a suo giudizio, il vuoto di pensiero incombente concerne proprio il contesto delle humanities, visto che, per quel che riguarda le scienze della natura, non pare proprio esserci alcuna crisi alle porte. Non abbiamo dunque a che fare con disturbi funzionali di base, visto che nel campo scientifico hard il prodotto è rimasto per ora del tutto competitivo. Abbiamo proprio a che fare col vuoto di pensiero sull’umano. Un autentico smarrimento. Come un gigante dotato di un’enorme muscolatura, ma col cervello di un moscerino.
Schiavone confronta l’epoca della prima Rivoluzione industriale, quando il passaggio d’epoca fu caratterizzato da un intenso lavorio culturale allo scopo di comprendere le trasformazioni che stavano avvenendo, con l’epoca nostra, un’epoca di grandi trasformazioni che avvengono in una totale mancanza di comprensione. «Ma questa volta dov’è il pensiero – filosofico, economico, sociale, politico, giuridico, etico: in una parola, l’indagine sulle società e sull’umano in trasformazione e sui loro nuovi caratteri – che dovrebbe fare da guida al passaggio d’epoca, orientandone direzione e conseguenze, come è accaduto con le grandi rivoluzioni della modernità?»[13]. Stiamo, in altri termini, vivendo una grande trasformazione con gli occhi completamente bendati.
13. Insiste Schiavone: «Quello che manca è in particolare una cultura – storica, filosofica, sociale – che si ponga il problema di una lettura d’insieme dei processi che si stanno sviluppando nel mondo, dei loro caratteri e delle loro tendenze, e che offra soluzioni innovative alla politica. Un pensiero che analizzi da vicino, con capacità teorica adeguata, il salto di qualità avvenuto nella struttura dell’economia capitalistica in seguito alla rivoluzione tecnologica, con il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali – il lavoro della classe operaia. Un passaggio, quest’ultimo, che ha posto fine a un intero tratto della modernità, ha provocato il crollo dei regimi comunisti, e ha portato alla nascita di uno specifico meccanismo unico di tecnica e di economia per la prima volta senza alternative nell’intero pianeta – sul quale tuttavia sappiamo pochissimo dal punto di vista della sua teoria e della sua critica»[14].
Qui torna uno dei problemi su cui Schiavone aveva già insistito, in passato, e cioè «il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali». Si tratta di un motivo ben presente nel suo Sinistra! Un manifesto del 2023[15]. La presenza del conflitto di classe aveva caratterizzato i due secoli precedenti della modernità e aveva monopolizzato i dibattiti intorno alla configurazione della società. Intorno alla società giusta. Ora quella centralità storica non c’è più e ciò imporrebbe lo sviluppo di un nuovo pensiero intorno al futuro stesso delle società occidentali. Un manifesto, appunto, per una nuova sinistra[16]. Ma la sinistra europea appare ammutolita e in difficoltà. Non parliamo poi dei Democratici americani. Sia le destre tradizionali, sia le sinistre, che bene o male avevano entrambe una qualche solida visione della società e della storia, sono oggi soppiantate dal non pensiero dei populismi organizzati, spesso inestricabilmente rossobruni, nazicomunisti nei loro fondamenti. A ogni consultazione elettorale questi registrano incrementi preoccupanti di consensi.
14. Così Schiavone sintetizza la situazione: «L’Occidente è rimasto in tal modo orfano della sua stessa intelligenza: che lo ha lasciato all’improvviso completamente solo, a metà strada di un cammino incompiuto. E ne è rimasta orfana in particolare la politica, sia progressista sia conservatrice. Una specie di nuovo “tradimento dei chierici”, consumato quando mettere in campo nuovo pensiero sarebbe stato indispensabile per concepire e realizzare scenari adeguati alle peculiarità della nuova realtà capitalistica e al suo rapporto con la tecnica e con la politica»[17]. In questi passi si evoca il tradimento dei chierici, uno smarrimento cioè della funzione intellettuale, un inchino del mondo della cultura a interessi totalmente estranei. Il riferimento ovviamente va a Julien Benda (1867-1956) e al suo noto Tradimento dei chierici (1927)[18]. E il tradimento dei chierici ha avuto effetti esiziali sulla politica: «E invece proprio nel momento cruciale del salto, il circuito delle conoscenze si è interrotto. E la politica è diventata cieca, senza concetti e categorie in grado di leggere oltre la superficie dei processi che ci coinvolgono, nei caratteri e nelle tendenze di lunga durata del mutamento»[19].
La debolezza della politica è senz’altro un effetto della debolezza del pensiero. Il problema è che, in un simile quadro, pare davvero impossibile che la politica riesca a porre un qualche rimedio alla stessa debolezza del pensiero. L’immagine che se ne trae è quella di un Occidente sempre più invischiato in un circolo vizioso autolesionistico. Invece di politica e cultura, come in Norberto Bobbio, avremo sempre più politica senza cultura.
15. Non seguiremo da vicino i vari capitoli nei quali Schiavone approfondisce la propria analisi. Dove si affrontano questioni come il degrado della politica, la globalizzazione, l’impatto delle nuove tecnologie, i problemi della democrazia, la situazione americana. Le conclusioni di Schiavone si aprono con un’affermazione davvero impegnativa: «Solo una rivoluzione intellettuale e morale dell’intera cultura europea di portata eguale alla trasformazione che stiamo vivendo potrà essere in grado di indirizzare per il meglio il cambiamento in cui siamo immersi. Perché lo ripetiamo: la tecnica dona potenza, non assicura salvezza. Stabilisce la direzione e l’irreversibilità del cammino, contribuendo a fissare la forma dell’umano attraverso l’aumento del suo controllo sulle proprie condizioni materiali di esistenza; non garantisce il buon esito dell’intero viaggio»[20].
La tecnica ci rende sempre più forti ma non può darci alcuna indicazione su come usare proficuamente questa stessa forza. Mentre i vari corifei della sinistra in senso lato invocano il disarmo, oppure gli ennesimi provvedimenti di tutela a favore di questi o quelli – quelli che non arrivano alla fine del mese – oppure ancora evocano il diritto alla rivolta e il ritorno alla lotta di classe, ebbene Schiavone va contro corrente e avverte che è necessaria principalmente una «rivoluzione intellettuale e morale», due rivoluzioni con cui nell’immediato «non si mangia». Due rivoluzioni senza cui non sapremmo neanche quale sia la meta verso cui andare. Non ci mancano i mezzi, ci mancano i fini. O forse ne abbiamo di troppi, e di confusi. Il che è come non averne neanche uno.
16. Sarebbe allora da fare una riflessione profonda intorno al significato di queste parole. Cosa significa «rivoluzione intellettuale e morale»? In estrema sintesi, così interpreto io, l’Occidente senza pensiero ha coltivato – ancora una volta – la fiducia nei meccanismi automatici. Come quando aveva creduto alle leggi marxiane della storia. Oggi si tratta della fiducia nelle leggi automatiche dei mercati, nella iniziativa individuale e nella concorrenza, nello slogan «Enrichissez vous!», nella fiducia del gocciolamento del benessere verso tutti gli strati della società. L’Occidente senza pensiero ha fatto di tutto per ridurre ai minimi termini lo Stato e le istituzioni, per dare mano libera alla vandalica deregulation. È stata questa una comune ubriacatura che ha coinvolto sia la destra sia la sinistra. Destre e sinistre che la capacità di pensare l’avevano forse persa da tempo. Così ci siamo ritrovati immersi nel populismo e stiamo così mettendo a repentaglio le stesse istituzioni democratiche. L’Occidente europeo ha pensato che bastasse «laissez faire, laissez passer». Che bastasse stare a guardare, e tutto si sarebbe aggiustato da sé.
17. Ora, a quanto pare, la storia ci sta presentando il conto, e non sappiamo cosa fare. Il fatto è che – di questo dobbiamo davvero convincerci – la società va pensata. La società è fatta proprio per essere pensata. Soprattutto le società altamente complesse come le nostre. Per le quali occorre un pensiero di pari complessità. Invece abbiamo creduto alle semplificazioni. Da noi, per stare a casa nostra, abbiamo creduto al pensiero semplice di Berlusconi, di Bossi, di Renzi, di Grillo, di Meloni, di Salvini. Mi spiace molto dirlo, ma anche quello di Schlein e di Landini, di fronte ai problemi che abbiamo davanti, è puro pensiero semplice[21].
In Europa, pensare di continuare a sopravvivere come uno Stato senza Stato (che non unifichi in sé le fondamentali prerogative di uno Stato) è puro pensiero semplice, come quello dei pacifinti che vogliono la pace e la sicurezza, non vogliono la NATO e non vogliono spendere una lira per comperare le cartucce. Pensiero semplice anche quello dei governi europei che vorrebbero, a fasi alterne, una politica estera di grande potenza, senza però cedere alcun potere a un Ministro degli esteri europeo di un Governo europeo. Purtroppo siamo guidati dal pensiero semplice e gli elettori, divenuti semplici anch’essi, non sembrano neanche più persuasi di dover andare ogni tanto a votare. Non vanno più a votare non perché siano delusi dalla politica ma perché sono divenuti incapaci di un qualsiasi pensiero effettivamente politico. Ricordo che gli esponenti del secondo partito di opposizione italiano andavano in parlamento agitando l’apriscatole. Non solo intellettuali senza pensiero dunque, ma anche elettori senza pensiero.
18. Già, ma allora, come possiamo fare per recuperare un pensiero alto, degno dell’Europa e dell’Occidente migliore? Davvero all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte? Schiavone si pone il problema, ma qui mi permetto di dubitare alquanto sulla fattibilità della sua proposta. Dice: «[…] almeno in Europa, per rimettere in moto la macchina del pensiero serve una scossa esterna al mondo delle idee, tanto forte da rendere possibile la ripresa del cammino interrotto. Un impulso che può venire soltanto dalla politica: da una politica che sappia spezzare con la forza di una decisione il vuoto di idee che la circonda. E questa non può consistere in altro se non in un passo avanti decisivo verso l’unificazione del continente»[22].
Qui Schiavone incorre purtroppo in una qualche circolarità di pensiero, visto che, nella introduzione ha sostenuto che proprio il vuoto di pensiero confina la politica alla mera amministrazione. Come farà una politica priva di pensiero a trovare da sé la forza di una decisione? Personalmente una risposta ce l’ho, ed è una risposta poco piacevole. Solo una colossale esternalità negativa, una grave catastrofe, potrà costringere i nostri maestri del pensiero semplice a prendere decisioni forti. A prendere finalmente le ovvie decisioni indispensabili. Non resta che sperare nella catastrofe.
19. Così l’Occidente si è cacciato in un circolo vizioso che lo condanna a rendimenti sempre più bassi. A continuare a rimandare e ad attendere, come se avessimo davanti un tempo infinito. Certo, è comodo fare l’ammuina. Schiavone avverte che: «Progresso tecnico e scadimento morale e sociale possono coesistere, entro certi limiti. Con la conseguente deriva verso un mondo in cui l’anomia sarà diventata la regola di un suprematismo capitalistico – tecnologico fuori controllo: segnato dal dominio di minoranze più o meno ristrette – arroccate nei privilegi derivanti dalla loro posizione rispetto al dispositivo tecnoeconomico globale – su moltitudini uniformate dalla comune sconfitta e dal patimento condiviso della sopraffazione»[23]. L’Amministrazione Trump è oggi un perfetto esempio di coesistenza di progresso tecnico e scadimento morale, intellettuale e sociale. Questo è forse il destino che ci aspetta.
Rincarando la dose, secondo Schiavone oggi ci troviamo in: «Una congiuntura in cui la capacità del pensiero sull’umano di padroneggiare e di orientare verso paradigmi di razionalità fondati sul bene comune quel potere di trasformazione del reale che stiamo acquisendo con tanta velocità appare drammaticamente ridotta, se non addirittura azzerata. Se non riusciremo a riequilibrare in corsa questo scompenso; se una parte di quella che chiamiamo la nostra civiltà continuerà a rimanere indietro rispetto all’altra, il prolungarsi del ritardo renderà realistiche ipotesi di futuro nelle quali l’aver cancellato la comune identità dell’umano diverrà il principale carattere di una costituzione materiale del pianeta fondata esclusivamente sulla discriminazione e sul dispotismo»[24].
Val la pena di aggiungere che non sarà certo demandando alla intelligenza artificiale la soluzione delle maggiori questioni – come qualcuno auspicherebbe – che risolveremo il nostro deficit di pensiero. Un imbecille con l’AI diventa un imbecille al quadrato. C’è già chi pensa di infilare l’intelligenza artificiale nelle scuole, così avremo finalmente il pensiero semplificato a disposizione di tutti, paziente, autorevole, efficiente e del tutto incontrollabile. Non sono tra gli scettici oppositori della AI, sono piuttosto tra gli scettici che dubitano della nostra capacità di controllare la AI, cui ci stiamo affidando con tanta disinvoltura e dabbenaggine. Anche qui è in gioco il vuoto del pensiero. Chi pensiero non ha, non può darselo artificialmente.
20. Schiavone manifesta tuttavia, nonostante tutto, un certo ottimismo: «[…] nonostante tutti gli ostacoli che si frappongono, credo che in questo frangente sia proprio dall’Europa che possa partire il primo e più forte segnale di risveglio; che sia da qui che si possa riannodare il filo spezzato del nostro pensiero»[25]. Schiavone entra qui nel merito di alcuni punti di forza restanti su cui l’Europa potrebbe basarsi per dare il via a una ripresa. In effetti, dopo il declino ormai palese e profondo della democrazia americana, del secondo Occidente, non resta che riporre qualche speranza nel primo Occidente. Effettivamente se il patrimonio di pensiero dell’Occidente non è rimasto da qualche parte in Europa, può allora esser tranquillamente dichiarato in via di estinzione. Basti pensare al trattamento inferto da Trump alle università americane per rendersi conto che da quelle parti non verrà più fuori alcunché, per un bel po’. Bisogna riconoscere che Alexandr Dugin, al di là del suo tono profetico ed esaltato, nei suoi scritti è andato vicino a una diagnosi ben precisa della capitolazione dell’Occidente di fronte all’Euroasiatismo. In un suo scritto[26] di qualche anno fa aveva individuato proprio in Trump il capofila inconsapevole della reazione dei popoli del Mondo contro l’Occidente, irrimediabilmente corrotto e pervertito.
Comprendiamo che Schiavone, nel suo ruolo di pubblico intellettuale, si sforzi di mostrare un volto tutto sommato ottimistico. Comprendiamo come si sia sentito in dovere di considerare la partita del pensiero dell’Occidente ancora come aperta. Di mostrare una strada praticabile per uscire dalla crisi. Di considerare come ancora non del tutto perduto il nostro patrimonio di pensiero, la nostra scala di valori e le nostre istituzioni. In questo senso, il suo saggio è un appello. Purtroppo la sua diagnosi è perfetta, ma una eventuale prognosi positiva è invece dipendente da una miriade di condizioni che, se considerate da vicino, non possono che risultare altamente improbabili.
21. Il lettore, compulsando attentamente il testo di Schiavone, potrà farsi un’idea di quanto realistiche siano le possibilità di successo di un programma di rinascita del pensiero europeo da lui intravisto e propugnato. Personalmente, siamo alquanto più pessimisti e il vuoto di pensiero dell’Occidente oggi ci sembra ormai decisamente irreparabile. Più che di un improbabile programma di rinascita, oggi ci pare quanto mai necessario un programma di resistenza. Un appello disperato che chiami alla resistenza le poche forze del pensiero d’Occidente sopravvissute, e non ancora del tutto stravolte. Una resistenza, appunto, intellettuale e morale. Una resistenza destinata tuttavia a diventare sempre più clandestina, sempre più confinata nei bantustan o nelle riserve indiane. Il trattamento inferto da Trump alle università americane è di una chiarezza esemplare. Una resistenza nella lucida consapevolezza che la guerra è stata ormai perduta, che i barbari sono alle porte e che domineranno per secoli. Si tratta allora di mettere da parte e conservare i codici, ricopiare e commentare i testi, trasmettere la tradizione, tenere acceso il lumicino in attesa di un’improbabile nuova alba. Proprio come i monaci irlandesi nei secoli bui della decadenza europea.
Opere citate
1960 Bell, Daniel, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo Edizioni, Milano, 1991.
1958 Benda, Julien, La trahison des clercs, Editions Grasset, Paris. [1927]
2021 Dugin, Alexandr, Contro il Grande reset. Manifesto del Grande risveglio, AGA Editrice.
2022 Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, Milano.
2024 Rampini, Federico, Grazie Occidente!, Mondadori, Milano.
2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.
2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino.
2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.
[1] Nella scrittura di questo saggio non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.
[2] La prima occorrenza della questione risale al 1960. Si veda Bell 1960.
[4] Tra queste responsabilità, attribuite di fatto dall’Europa agli USA, abbiamo la difesa (attraverso la NATO), il governo monetario e del commercio internazionale, la politica internazionale, il controllo degli Stati canaglia, il governo delle crisi internazionali derivanti da alcuni Paesi ex comunisti e dall’insorgente fondamentalismo islamico, compresa anche la lotta al terrorismo. Possiamo aggiungere la responsabilità della salvaguardia e della promozione delle organizzazioni internazionali. A uno sguardo retrospettivo, gli USA hanno fallito in tutti questi compiti. Marcatamente, in politica internazionale hanno fallito sulla questione israelo-palestinese, hanno fallito in Iraq e in Afghanistan. Solo per elencare le crisi più importanti. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, gli USA hanno dato un notevole contributo al loro indebolimento.
I links che ho proposto servono, se mai ce ne fosse bisogno, a rammentarci che la sinistra francese è davvero spuntata. Parlo di quella “sinistra” perfettamente rappresentata da Fred Vargas (pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau, milionaria francese scrittrice di gialli basati sulle avventure del Commissario Adamsberg). La Vargas è purtroppo anche l’autrice di: La Verité sur Cesare Battisti, dove difende quell’ignobile personaggio. E che poi, quando Battisti ce lo rimandano e lui si dichiara colpevole, afferma che può dire quello che vuole, ma lei non ci crede, per lei è intoccabile: “Battisti è innocente, non mi scuso”.
Bene (anzi, male, anzi, malissimo). Ora, ultimamente lei e altri – meno noti – autori hanno attaccato Sylvain Tesson, uno dei pochi che non prende posizione, non si discosta né si accosta, uno che apprezza Louis-Ferdinand Celine (eresia!) qualunque sia il suo credo politico, come pure Jean Raspail (al rogo! al rogo!), altro autore pochissimo amato dalla gauche francese perché ha scritto Il Campo dei Santi (libro nel quale si ipotizza un collasso della economia occidentale per un esagerato afflusso di immigrati da paesi poveri).
Ma Tesson cosa c’entra? È uno che scrive di viaggi (e magari anche le introduzioni a libri di viaggio altrui, come appunto quelli di Raspail). Di avventure tutt’altro che convenzionali: l’ultima sua lo ha portato a navigare lungo le scogliere del nord, alla ricerca del mito delle fate. Ma è anche uno che se ne fotte della politica. E questo riallaccia il filo: lo scorso anno Tesson viene nominato presidente di un premio letterario, ma i “giusti” insorgono e scatta la resistenza. Lo si deve rimuovere dalla sua posizione perché “sembra uno di destra” (Mi piace il termine che viene usato per sostenere queste accuse, “amichettismo”: non lo conoscevo, è tipico di questi tempi e di certi ambigui personaggi, gli intellettuali-radical-chic).
Io vi invito a leggere qualche libro di Tesson (li ho letti tutti) per capire quanto davvero gliene frega della destra o della sinistra. La polemica montata nei suoi confronti non lo sfiora nemmeno: ignora bellamente chi lo accusa, appunto se ne fotte, e non spreca una parola in propria difesa. Un bacio invece alla ministra francese della Cultura Rachida Dati: anche lei se ne fotte delle critiche, e accetta con un battito di ciglia le dimissioni della organizzatrice del premio, Sophie Nauleau, già indignata speciale ed ora fuori dalle palle perché i suoi amici di sinistra la accusano di aver accettato Tesson senza pensarci.
Il fatto è che per queste persone non esistono scrittori di sinistra e di destra; esistono scrittori di sinistra e altri non allineati, che quindi vanno etichettati come di destra. Per loro è inutile leggere i precedenti ottimi libri di Tesson; se non scrivi un libro gradito alla sinistra, vuol dire che sei di destra. Ai tempi di Stalin si ragionava così, oggi vale anche in Francia.
Tutto risolto, dunque? No, perché la gauche ha vinto e ha fatto espellere Tesson dalla scorsa edizione. Il nuovo direttore del Premio ha giustificato il fatto spiegando che non si può mettere un letterato a dirigere un premio letterario … (questa l’avete capita, voi? io no).
Comunque. Copio e incollo, da Liberation. Ecco il testo integrale in francese:
«Circa 1.200 personalità della cultura hanno finalmente aderito alla petizione contro Sylvain Tesson, recentemente nominato patrono della Primavera dei Poeti. Questo testo, che ActuaLitté aveva rivelato ben prima della sua pubblicazione su Libération, muove guerra a un rappresentante dell’“estrema destra letteraria”. Proprio come Houellebecq o Yann Moix. Quindi, con gli stessi sostenitori? La petizione denunciava l’emergere di un’“icona reazionaria” come rappresentante dell’evento guidato da Sophie Nauleau, la direttrice artistica. Nonostante i nostri molteplici solleciti, ella non ha risposto alle nostre richieste di replica.
Su Facebook, l’evento continua a pubblicizzare i suoi programmi come se nulla fosse accaduto, mentre al di fuori dell’evento la polemica si è gonfiata come raramente accadeva prima: erano anni che la poesia non agitava folle o accendeva passioni in questo modo. Beh, la poesia… È chiaro che in questo forum sono più in gioco posizioni politiche, presunte o confermate.»
E la petizione dice, testuale:
«Avvertiamo che la nomina di Sylvain Tesson a patrono della Primavera dei Poeti 2024, lungi dall’essere casuale, rafforza la banalizzazione e la normalizzazione dell’estrema destra in ambito politico, culturale e nella società nel suo complesso. Chiudendo un occhio su ciò che rappresenta questo scrittore, la direttrice Sophie Nauleau e il suo consiglio di amministrazione stanno dimostrando questa normalizzazione all’interno delle istituzioni culturali, che respingiamo fermamente.»
Lo scrittore solo contro tutti? Niente affatto: il mondo della cultura francese non è tutto così allineato, e i firmatari della petizione sono accusati di essere woke, termine usato per ridicolizzare l’esasperato attivismo sociale e l’ossessione per le tematiche “progressiste”. E hanno suscitato anche l’ironia di alcuni, come Denis Olivennes, benemerito presidente di Editis: “Credo che dovremmo bandire Chateaubriand, Balzac, Flaubert, Baudelaire, Valéry e tanti altri dai libri di testo scolastici, tutti scrittori, tutti reazionari, come Sylvain Tesson, bruciare i loro libri e poi, per controllare il futuro, istituire un Ministero della Verità”, ha twittato… Bravo Olivennes!
E la Ministra: beh, siccome bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla, ecco le sue dichiarazioni per l’edizione 2025: «Questa ventisettesima edizione ha scelto il tema: “Poesia. Vulcanica”. Avete scelto di basare questa edizione sul tema del vulcano. È un’immagine che mi ispira, che si può associare al mio temperamento. Ma è anche associata al vostro, ovviamente. Trovo molto vulcanico poter portare la cultura al maggior numero possibile di persone», ha dichiarato la ministra Dati, durante una conferenza stampa.
Ritiro allora il bacio affrettatamente apposto prima.
Nel mentre, In viaggio con le Fate, l’ultimo interessante libro di Tesson, che narra un suo viaggio sulle scogliere del Nord Europa, dalla Galizia alle Shetland, per conoscere meglio e cercare di capire i miti delle Fate, in uscita in Italia a inizio 2025, è stato stranamente cancellato dal principale sito web commerciale, e non appare più in vendita o in previsione di uscita tradotto in italiano. Inquisizione o Unione Sovietica? o siamo solo vittime della superficialità di alcuni editori?
Io il libro l’avevo prenotato, poi è sparito … Comunque aspetto, uscirà prima o poi; nel frattempo l’ho – faticosamente – letto in francese. Tesson non scrive in modo semplice, almeno non per la mia modesta conoscenza della lingua.
Per il momento, se volete, potete trovare una bella intervista all’autore a proposito di questo libro su:
Ora, immagino che per qualcuno passerò per uno di destra che fa politica sul sito dei Viandanti.
Non sono “di destra”, semplicemente non mi schiero in diatribe che hanno meno senso addirittura di quelle sul calcio, e me ne fotto più ancora di Tesson: ma mi disturba che mi tocchino in maniera così pretestuosa e becera un autore che amo. I fatti sono quelli che ho raccontato. Se poi l’argomento vi disturba fate jump, come dicono gli americani, saltatelo.
Negli interventi postati su questo sito compare sempre più spesso il richiamo alla “verità”. Non è un caso. È un’insistenza voluta. Questo non perché si stia abbracciando un qualche credo fondamentalista, o si vogliano rincorrere le “offerte culturali” del mese, che traboccano non di sconti ma di concetti dati per scontati, primo tra tutti, guarda caso, quello di post-verità. La nostra è semmai è una controfferta: vorremmo difendere l’idea che una convivenza civile non possa prescindere da una quota sia pur minima di verità condivisa, intesa quest’ultima non come scolpita su marmo in lettere maiuscole – “LA VERITÀ” sulle origini e sui destini del mondo – ma come lo sforzo di comprendere e descrivere nella maniera più oggettiva possibile l’andamento delle cose nel mondo. Se rifiutiamo che i nostri rapporti con ciò e con chi ci circonda debbano e possano essere improntati a questa idea, allora apriamo la porta appunto alla post-verità: cioè al nuovo fondamentalismo relativista.
Ci sembra dunque più che opportuno riproporre il saggio scritto da Beppe Rinaldi sette anni orsono sul fenomeno della post-verità e pubblicato sul sito “Finestre rotte”il 5 aprile 2018. In tempi di intelligenza artificiale e di rincitrullimento di quella naturale sette anni equivalgono a secoli, ma nel saggio c’era già tutto il necessario per capire quella che oggi appare una inarrestabile deriva. E soprattutto c’era – e c’è ancora, e vale anzi più che mai –, proprio per la profondità e la lucidità e l’accuratezza che sempre distinguono le riflessioni di Rinaldi, l’esempio concreto di come a tale deriva si possa malgrado tutto opporre una dignitosa resistenza. Senza sventolare o bruciare bandiere, senza scandire slogan insulsi, senza inscenare pietose pantomime per le strade o nelle aule parlamentari: semplicemente perseverando nella volontà di conoscere, e quindi di pensare con la propria testa, e insistendo a credere nella possibilità di condividere e di confrontare delle idee, anziché delle ideologie (o peggio, delle imposture o delle stronzate).
Leggetevi allora queste pagine con la calma e l’attenzione che meritano: magari non accederete all’empireo della Verità, ma ne uscirete senz’altro vaccinati contro la post-verità.
Paolo Repetto
***
1. Da qualche tempo[1] le fake-news sono all’ordine del giorno. La loro diffusione sta preoccupando alquanto il mondo della informazione e quello della politica, i governi e perfino le grandi multinazionali dei social media. C’è solo da essere soddisfatti poiché, finalmente, il grande pubblico sembra abbia compreso che le fake sono una cosa seria e che possono rappresentare un enorme pericolo. Si sta diffondendo, a quanto pare, la consapevolezza che, in una società minimamente civile, non possiamo fare a meno della verità. Una modica quantità di verità sembra sempre più costituire un bene primario cui non possiamo rinunciare. Non resta che sperare che non sia già stato ampiamente superato il punto di non ritorno. In realtà, il caso delle fake-news è solo uno degli aspetti – forse quello più appariscente ma non certo il più importante – di un fenomeno assai più generale e cioè della diffusione della menzogna, e di una serie di suoi nuovi derivati, nelle interazioni sociali, nello spazio pubblico della comunicazione e, soprattutto, nell’ambito della politica nazionale e internazionale. Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a essere segnalato intorno agli anni Novanta del secolo scorso e che è cresciuto progressivamente fino ai nostri giorni.
2.In campo culturale, e particolarmente in campo filosofico, l’allarme circa la diffusione di prodotti menzogneri è vecchio ormai di almeno due o tre decenni. Tra l’inizio degli anni Novanta e il nuovo secolo avevano cominciato a comparire varie reazioni critiche nei confronti della diffusione di certi prodotti subculturali, strettamente legati all’affermazione presso il grande pubblico del postmodernismo.[2] Nel 1997 Sokal e Bricmont pubblicarono un loro famoso saggio contro le imposture intellettuali[3](fashionable nonsense)in cui furono messe alla berlina le disinvolture argomentative di alcuni famosi intellettuali postmoderni per lo più francesi (Lacan, Kristeva, Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio) e in cui si faceva un resoconto dettagliato della cosiddetta burla di Sokal che aveva contribuito a smascherare un certo ambiente postmoderno nordamericano.
Sokal e Bricmont erano entrambi professori di fisica, rispettivamente a New York e a Lovanio. Ecco il resoconto della burla, attraverso la penna dei diretti protagonisti: «[…] uno di noi, Sokal, decise di tentare un esperimento non ortodosso […]: sottopose a una rivista culturale americana alla moda, Social Text, una parodia del genere di articoli che abbiamo visto proliferare negli ultimi anni, per vedere se l’avrebbero pubblicata. L’articolo, intitolato «Trasgredire le frontiere, verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica», è pieno di assurdità e di palesi non sequitur. Inoltre propone una forma estrema di relativismo cognitivo: dopo aver messo in ridicolo il “dogma” superato secondo cui “esista un mondo esterno, le cui proprietà sono indipendenti da ogni essere umano in quanto individuo, e in definitiva dall’umanità intera”, afferma categoricamente che “la ‘realtà’ fisica, non meno che la ‘realtà’ sociale, è in fin dei conti una costruzione sociale e linguistica”. Attraverso una serie di salti logici sbalorditivi, arriva alla conclusione che “il π di Euclide e la G di Newton, un tempo considerati costanti ed universali, vengono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità […]”. Il resto dell’ articolo è dello stesso tono. Ciò nonostante l’articolo fu pubblicato in un numero speciale di Social Text […]. La beffa fu immediatamente svelata dallo stesso Sokal, suscitando un diluvio di reazioni […]».[4] Tutto ciò avveniva nel 1996. Possiamo considerare da parte nostra che, in generale, stupidaggini alla moda ci siano sempre state ma è abbastanza significativo il fatto che il loro primo massiccio sdoganamento e il loro primo debutto nei circoli della cultura alta sia avvenuto proprio all’interno del mondo stesso degli intellettuali, il quale deve, evidentemente, aver subito qualche trasformazione profonda.
3. L’allarme circa la diffusione di contenuti menzogneri non ha riguardato solo il campo della produzione intellettuale. Nel 2005 il filosofo nordamericano Harry Frankfurt pubblicò un libretto intitolato Bullshit, ovverossia, tradotto in italiano, Stronzate.[5] Così esordiva l’Autore: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. […] non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro, o di quale funzione svolgano. […] In altre parole, non abbiamo una teoria».[6]Il contenuto del libretto era già comparso come articolo nel 1986, tuttavia il successo di pubblico si ebbe nel 2005, quando l’articolo fu pubblicato nella veste di libro, in un contesto dove ormai l’attenzione al problema era piuttosto alta. Con il suo intervento Frankfurt intendeva richiamare l’attenzione su un certo nuovo tipo di contenuti fasulli, poco seri, decisamente fastidiosi e invadenti, che avevano preso a diffondersi sempre più nell’ambito comunicativo e che minacciavano di sommergere qualsiasi altra espressione. Va detto che il libretto di Frankfurt era più che altro un pamphlet dal tono ironico e dissacrante e quindi non presentava, in effetti, alcuna teoria approfondita sul fenomeno in oggetto. Esso ebbe tuttavia il merito colpire nel segno.
Secondo Frankfurt, cercando di ricavare una definizione sintetica dalla sua trattazione,[7] il bullshit sarebbe all’incirca un prodotto linguistico grezzo e sommario che fornisce una rappresentazione non adeguata, insignificante o futile della realtà. Il carattere distintivo del bullshit sarebbe costituito proprio dalla sua totale mancanza di aderenza nei confronti della realtà. All’alba del nuovo secolo, Frankfurt suonava dunque un campanello di allarme, evidenziando un fenomeno di degrado del discorso pubblico che tutti avevano ormai sotto il naso. In effetti, già allora era ben presente la sensazione di essere sommersi da una marea di insulsaggini incontrollate e incontrollabili. Quella di Frankfurt poteva sembrare una boutade, invece gli sviluppi successivi avrebbero finito per superare ogni pessimistica immaginazione.
4. Più o meno nello stesso periodo, cominciava a emergere la sensazione che si stesse diffondendo, presso il vasto pubblico, un atteggiamento di sempre maggior tolleranza verso la menzogna. Il grido di allarme in proposito fu lanciato da Ralph Keyes, nel suo volume Post-Truth Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, uscito nel 2004. Lo studio di Keyes ha segnato, a quanto pare,la prima comparsa del termine post-truth nella titolazione di un libro. Keyes si occupava del fenomeno – com’era allora percepito – della sempre maggior diffusione della menzogna nella vita quotidiana e nella sfera pubblica. L’Autore contrapponeva la situazione tradizionale, nella quale verità e menzogna erano chiaramente contrapposte e in cui la menzogna era per lo più esecrata e andava incontro alla pubblica disapprovazione, a una nuova situazione in cui tra verità e menzogna erano collocate infinite sfumature, in cui la menzogna stava diventando un comportamento sempre più diffuso e sempre meno censurato dalla disapprovazione sociale. Si era dunque di fronte, secondo l’Autore, a un netto cambiamento di segno che coinvolgeva in profondità le relazioni interpersonali e la comunicazione sociale. L’epoca della postverità (post-truth era) sarebbe dunque – secondo l’Autore – una nuova epoca in cui le relazioni interpersonali sarebbero state sempre più caratterizzate dallo sdoganamento della menzogna, accompagnato strettamente dalla diffusione della disonestà. Anche Keyes non produceva alcuna elaborata teoria in merito, tuttavia nel suo libro, dallo stile peraltro piuttosto giornalistico, l’Autore snocciolava una casistica impressionante di fatti e fatterelli che testimoniavano di una sempre maggior indifferenza nei confronti della verità ormai diffusa in tutti i settori della società contemporanea.
5. Il termine post-truth ha poi avuto sempre più diffusione, segno evidente della sua capacità di individuare e contraddistinguere un nuovo fenomeno. Prova ne è che l’Oxford English Dictionary ha deciso di eleggere post-truth come “parola dell’anno” del 2016. Consultando qualche autorevole dizionario possiamo vedere meglio il significato attuale del termine, per come si sta consolidando. Il Collins, alla voce post-truth, recita: «Di, o relativo a, una cultura in cui il ricorso alle emozioni tende a prevalere a discapito dei fatti e delle argomentazioni logiche». Secondo gli Oxford Dictionaries: «Denotante, o relativo a, circostanze in cui i fatti oggettivi, nella configurazione della pubblica opinione, sono meno influenti degli appelli alle emozioni e alle credenze personali». Il Cambridge Dictionary riporta: «Relativo a una situazione in cui le persone sono più propense ad accettare una argomentazione basata sulle proprie emozioni o credenze piuttosto che una basata sui fatti». Tutte le definizioni, come si può ben vedere, segnalano una sorta di antitesi tra un approccio emotivo del tutto soggettivistico e il riconoscimento oggettivo dei fatti. Pongono cioè una contrapposizione tra un atteggiamento di realismo e la mancanza di realismo o l’irrealismo.
Su Wikipedia[8] si può trovare un tentativo di sintesi che costituisce quasi una definizione organica: «Il termine post-verità, […] indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali».[9] La definizione pare del tutto pertinente, anche se, a nostro giudizio, avrebbe bisogno di un’estensione di campo, in aderenza a un fatto ora più che mai evidente: la postverità non concerne solo le discussioni, com’è suggerito, ma coinvolge ormai ogni tipo di comunicazione che sia scambiata nel mondo sociale, e quindi, indirettamente, le stesse relazioni sociali che ne derivano.
6. Il prefisso post davanti a truth ha, più o meno, il significato di un oltre.[10] Si noti che il termine post-truth è considerato nel mondo anglosassone come un aggettivo. La traduzione in italiano con “postverità” lo trasforma in un sostantivo, rendendolo così un concetto astratto. A nostro giudizio poteva andar meglio una traduzione con il costrutto oltre – vero, che può essere usato sia come aggettivo sia come sostantivo, e che porta con sé una vaga assonanza nicciana che non guasta. Pur non intendendo produrre alcuna innovazione terminologica, proverò in questo scritto a usare ogni tanto questo termine, cercando così di esplorare la possibilità di un suo uso efficace.
Sul piano del contenuto, il concetto sta a sottolineare una sorta di oltre passa mento della istanza della verità nella sfera delle comunicazioni e delle relazioni sociali, fino al punto dal determinarne la sua totale perdita di importanza. Nel mondo della postverità, o dell’oltre-vero, la verità sembra essere diventata, insomma, una cosa superflua, una cosa che non è alla nostra portata o una questione che non ci riguarda più. Il termine oltre-vero non si riferisce dunque a particolari contenuti falsi (per i quali esistono già altri termini, come i già citati fake-news o bullshit) ma a una particolare modalità di considerare le questioni di verità che pare si stia instaurando presso il vasto pubblico. Il che può configurarsi come un atteggiamento pratico, soprattutto da parte del grande pubblico oppure come una disposizione teorica, soprattutto da parte degli intellettuali, degli opinion leader e simili.
7. La sensazione dunque è che con l’oltre-vero non ci troviamo più di fronte alla nozione tradizionale della menzogna[11] bensì di fronte a qualcosa di costitutivamente diverso. Secondo Frankfurt – è questa una delle sue argomentazioni più costanti – le stronzate (bullshit)non sarebbero propriamente menzogne. La menzogna classica implica per lo più che chi la proferisce abbia la nozione di quale sia la verità e implica un’esplicita intenzione di occultare la verità. Afferma infatti a un certo punto Frankfurt: «È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Ebbene, produrre stronzate non richiede questa convinzione».[12] La stronzata, come definita da Frankfurt, è invece semplicemente indifferente alla verità e proprio in ciò sta la sua principale inadeguatezza nei confronti della realtà. In ciò sta anche la spiegazione della sua estrema diffusione, della relativa tolleranza con cui è accolta e, in fin dei conti, del suo grande successo. Frankfurt ci ha fornito qui la chiave per una conclusione di qualche rilievo: in una post-truth era che sia giunta a piena maturazione non ci sarebbero più menzogne, ci sarebbero solo stronzate. Nella postverità non c’è più tendenzialmente il caso classico di chi, conoscendo la verità, la neghi consapevolmente per scopi disonesti. Nella post truth era nessuno più pretende di conoscere la verità, semplicemente non c’è più alcun commitment per la verità. Forse proprio per questo i mentitori – anche quelli classici – sono sempre più frequentemente assimilati a simpatici intrattenitori, cioè a bullshit artist.[13]
8. L’atteggiamento di crescente irrilevanza verso la verità non poteva non influenzare il mondo dell’informazione. Parallelamente alle imposture intellettuali e al bullshit, sono salite all’attenzione del pubblico le fake-news, di cui abbiamo già accennato. La definizione di fake-news è decisamente più circoscritta e meno controversa. Recita Wikipedia:[14] «Il termine inglese fake-news (in italiano notizie false) indica notizie redatte con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, rese pubbliche con il deliberato intento di disinformare o diffondere bufale attraverso i mezzi di informazione. Tradizionalmente a veicolare le fake news sono i grandi media, ovvero le televisioni e le più importanti testate giornalistiche. Tuttavia con l’avvento di Internet, soprattutto per mezzo dei media sociali, aumentando in generale la diffusione delle notizie, è aumentata proporzionalmente per logica conseguenza anche la diffusione di notizie false».
Se le fake sembra abbiano avuto la loro lontana origine nel campo della più classica produzione di menzogne, è chiaro che il passaggio delle fake-news dagli ambiti più tradizionali dei grandi media a quelli della rete sta creando le condizioni per una sovrapposizione sempre più ampia tra le fake e il bullshit, fino a una sorta di vera e propria transizione dalla menzogna classica verso il bullshit. Anche i mezzi di informazione – indipendentemente da casi di ricorso a menzogne classiche – sembrano sempre meno sensibili alla verità e sempre più propensi a diffondere contenuti dal basso valore veritativo che siano però dotati di una forte attrattiva per il pubblico. Strettamente connesso alle fake-news è il mondo delle bufale, delle dicerie, dei rumor che spesso costituiscono il contenuto delle fake stesse. Anche in questo caso si tratta di fenomeni che pur essendo sempre esistiti, hanno assunto una loro visibilità ed efficacia in conseguenza dello sviluppo della rete. In Susstein 2009 si trova uno studio sui loro meccanismi di diffusione. Su argomenti analoghi e sulla psicosociologia delle credenze si può consultare Bronner 2003.
9. Infine, la diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità non poteva che coinvolgere in maniera rilevante anche e soprattutto il mondo della politica. Almeno dal 2010 è in uso, nei paesi anglosassoni, il termine post-truth politics. Anche in questo caso la traduzione comporta qualche difficoltà. Alla lettera potrebbe andare bene politica post veritiera, oppure, se vogliamo, possiamo usare la nostra locuzione politica oltre-vera. Sulla scorta di Ferraris 2017, che usa postverità come sostantivo e postruista come aggettivo, potrebbe andar bene politica postruista.
Citiamo da Wikipedia anglofona: «La post-truth politics (denominata anche post-factual politicse post-reality politics) è una cultura politica in cui il dibattito è largamente caratterizzato da appelli alle emozioni del tutto disconnessi dai dettagli effettivi delle varie politiche, e dalla continua ripetizione delle parole d’ordine, le cui confutazioni fattuali sono del tutto ignorate. La post-truth politics è differente dalla tradizionale contestazione e falsificazione della verità in quanto consiste nel trattare la verità come una cosa di secondaria importanza. Sebbene questo fenomeno sia stato descritto come un problema nuovo, c’è la possibilità che esso faccia parte da tempo della vita politica, ma che sia stato poco visibile prima dell’avvento di internet e dei suoi relativi cambiamenti sociali».
La politica postruista (o oltre-vera) è dunque una politica che, seguendo l’andazzo generale, è diventata indifferente alle questioni di verità, non tiene conto dei fatti, non tiene conto della realtà delle cose. Una politica, insomma, che fa a meno della verità. La politica postruista costituisce così la curvatura che la politica assume quando questa sia collocata entro il quadro della postverità, sia sul piano pratico sia su quello teorico. Poiché la politica postruista è una politica che si sviluppa sul terreno della postverità, essa tende a fare liberamente largo uso di imposture, fake e bullshit. Come casi esemplari di politica postruista sono state spesso citate la campagna per la brexit e quella per la prima elezione di Trump alla Casa Bianca nel 2016. La campagna condotta, con successo, da Trump nel 2024 non fa che confermare l’esemplarità del caso.
10. Come si vede dalla rassegna che abbiamo presentato, siamo in presenza, a quanto pare, di fenomeni nuovi, per molti versi inaspettati, che stanno assumendo un peso di rilievo nella vita delle nostre società. Si tratta di fenomeni di non facile definizione e che sembrano tuttavia avere per lo meno qualche somiglianza di famiglia.[15]Oltretutto, la terminologia relativa a questo campo è ancora in fase di formazione, vi si possono trovare usi e definizioni alquanto sovrapponibili ma anche alquanto diversificati. Quel che è certo comunque è che tutte queste novità linguistiche e concettuali segnalano, direttamente o indirettamente, la consistenza e la pervasività del fenomeno che stiamo cercando di circoscrivere e rappresentare.
Volendo utilizzare una metafora intuitiva, tanto per stipulare con il lettore una convenzione provvisoria, propongo di immaginare un gigantesco iceberg che galleggia in mare: le imposture intellettuali (fashionable nonsense), le fake-news e la politica postruista sarebbero l’equivalente della punta dell’iceberg. Sarebbero cioè la parte più visibile che corrisponde a ciò che il vasto pubblico ha cominciato appena a scorgere. Il bullshit, data la genericità della sua definizione, costituirebbe l’iceberg nella sua totalità, che notoriamente è molto più grande della parte emersa e, proprio per questo, molto più pericoloso. La postverità, o il mondo dell’oltre-vero, sarebbe il mare dove galleggia tranquillamente il bullshit, sia per la parte emersa che per quella sommersa. Secondo questa immagine, le imposture intellettuali, le fake-news e la politica postruista si potrebbero considerare come tipi specifici di bullshit, cioè per così dire specie di stronzate specializzate, avendo tutte in comune la caratteristica minimale di non prendere sul serio la verità e la realtà.[16] Va da sé che, in questo quadro, viene a essere sempre più trascurabile la menzogna classica, la quale – pur non essendo certamente sparita – sembra divenuta meno importante, perché nel mare dell’oltre-vero – come s’è detto – nessuno più pretende di sapere una qualche verità e di volerla intenzionalmente celare.
Dopo avere delineato sommariamente, in termini descrittivi, i fenomeni che ci interessano e le relative nomenclature, cercheremo, in quel che segue, di esplorare alcuni aspetti dell’inquietante paesaggio glaciale di fronte al quale ci troviamo e con il quale ci dovremo sempre più confrontare nel prossimo futuro.
11. Se la posterità (o l’oltre-vero) è il mare che tiene a galla il bullshite tutto il resto, è il caso allora di comprendere meglio di che cosa si tratti. La postverità, in estrema sintesi, può essere ricondotta al consolidamento e alla diffusione presso il vasto pubblico di una convinzione, di ordine pratico e teorico, secondo cui in molte situazioni la verità è trascurabile. Questa convinzione implica che ci possono essere tante verità, che possiamo fare a meno di una nozione condivisa di verità e che, quindi, non abbiamo più alcun interesse a fare sforzi e a impiegare risorse per accertare la verità e per dire la verità. In altre parole, ormai ci sono soltanto dei punti di vista, collocati tutti sullo stesso piano, che ciascuno accoglie o rifiuta in base a disposizioni e scelte del tutto personali, o anche in base al momento. Il tutto però – si badi bene – è supportato da un’ulteriore sottile connotazione di ordine morale, secondo la quale è inevitabile, o addirittura giusto, che sia così e secondo la quale, così facendo, possiamo cavarcela tranquillamente o, addirittura, vivere decisamente meglio di prima. Meglio di quando ci trovavamo sotto l’assillo della verità. Insomma, la condizione della postverità può essere vissuta come un fatto positivo o addirittura come una liberazione. Si badi bene che chi pratica e condivide l’oltre-vero non necessariamente deve esserne compiutamente consapevole. Basta fare quello che fanno tutti, quel che è considerato del tutto normale. Provando ad addentrarci ulteriormente nei meandri della postverità, per comodità di analisi, distingueremo ora un ambito pratico e un ambito teorico, anche se nella realtà i due aspetti sono strettamente intrecciati e correlati.
11.1. Per quel che concerne l’ambito pratico, sembra dunque assodato che in molte situazioni, la verità non sia più considerata come un imperativo capace di qualificare il nostro comportamento e di dirigere le nostre scelte. Si tratta di un mero fatto, sotto gli occhi di tutti. Affermava Keyes già nel 2004: «Anche se ci sono sempre stati dei mentitori, le menzogne di solito sono state dette con esitazione, un pizzico di ansietà, un po’ di colpa, una qualche vergogna, almeno qualche imbarazzo. Ora, intelligenti come siamo, abbiamo tirato fuori degli stratagemmi per manomettere la verità tanto che possiamo dissimulare senza sentirci in colpa. Questo lo chiamo post-vero. Noi viviamo in una era post-vera (post-truth era). La postverità esiste in una zona grigia dell’etica. Ci permette di dissimulare senza che ci dobbiamo considerare disonesti. Quando il nostro comportamento confligge con i nostri valori, la cosa più facile che possiamo fare è di rivedere i nostri valori. Pochi di noi sono disposti a pensare di se stessi di essere immorali e tanto meno attribuire ad altri qualcosa di simile, così ricorriamo ad approcci alternativi alla moralità. Si pensi a questi approcci come a una sorta di alt ethics [etica alternativa]. Questo termine si riferisce a sistemi etici nei quali dissimulare è considerato positivo, non necessariamente sbagliato, a volte non effettivamente “disonesto” nel senso negativo della parola. Anche se noi raccontiamo più menzogne che mai, nessuno vuole essere considerato un mentitore».[17]
Insomma, è come se noi, in pratica, tenessimo costantemente spalancata una zona grigia entro la quale la definizione di vero e falso è tenuta continuamente in sospensione, tanto che la questione della verità non ha più alcuna rilevanza agli effetti delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. Siamo sempre più ambigui e ci aspettiamo continuamente di trovarci di fronte all’ambiguità. L’indifferenza verso la verità, nel suo lato pratico, pare così avere perso il carattere minaccioso della figura del mentitore, di colui che conoscendo una verità la celava per ingannare. Pare anzi assumere una connotazione positiva, poiché pare capace di oliare adeguatamente la macchina delle relazioni sociali. Non badare troppo alla verità risparmia un sacco di fastidi e permette di essere sempre perfettamente adeguati.
11.2. Si noti che un atteggiamento oltre-vero nell’ambito pratico è possibile solo in un contesto nel quale sia indebolita la nozione stessa della autenticità individuale. Il problema di fronte a cui si trovano costantemente gli individui oltre-veri non è più quello di presentarsi agli altri nella propria autenticità quanto quello di apparire in modo adeguato alla situazione in cui si trovano. Nello sforzo di essere aderenti a ciascuna situazione, i singoli individui sono sempre più disincentivati allo sforzo di definire una propria autenticità personale stabile e permanente. Ciò ingenera identità fluttuanti che curano soltanto la rappresentazione contestuale da mettere in scena. Insomma, sempre meno autentici e sempre più teatranti. Solo in una simile prospettiva la menzogna può essere derubricata a peccato veniale o anche considerata come una sottile arte di buona condotta, come nel caso del già citato bullshit artist. Con la postverità cade l’interesse per una definizione stabile del self e quindi un interesse per l’autenticità della rappresentazione di sé presso gli altri. Poiché si deve mettere in scena una rappresentazione adeguata e poiché il contesto muta velocemente, allora il bullshit può rappresentare uno strumento di lavoro del tutto ammissibile, anzi una materia prima indispensabile – nello spirito rortyano di essere ironici, tolleranti e socievoli.[18]
11.3. La diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità oltre al suo lato pratico ha naturalmente anche il suo lato teorico. La perdita di importanza della verità in campo pratico è del tutto parallela con la convinzione che la verità non esista, e viceversa. Non ci stiamo occupando qui della questione filosofica della negazione della verità, vecchia quanto la filosofia occidentale.[19] Ci occupiamo piuttosto di un fatto conclamato ed esplicito, cioè della convinzione oggi diffusa ovunque – dagli intellettuali ai politici, fino alle casalinghe – secondo cui in fin dei conti non c’è alcuna questione di verità di cui valga la pena di occuparsi.
11.4. Questa idea strampalata,[20] per quanto se ne sa, ha presumibilmente avuto origine nell’ambito dei movimenti radicali degli anni Sessanta. Fu proprio in quell’ambito che cominciarono a diffondersi, a livello di massa, sull’onda della popolarità delle filosofie del sospetto,[21] due orientamenti strettamente imparentati con l’oltre-vero, e cioè il relativismo[22]e, soprattutto, il politically correct.[23] Si trattava, in origine, dell’applicazione di un egualitarismo radicale al linguaggio, alle relazioni sociali e ai fenomeni culturali. Siccome la verità era generalmente considerata come un’imposizione del potere (come ad es. in Michel Foucault) allora non restava che considerare come altamente sospetta e pericolosa qualunque pretesa veritativa e riconoscere radicalmente la pluralità dei punti di vista. Ciò trovava ampie applicazioni soprattutto nel campo del discorso, ma anche nei campi relativi ai rapporti tra i sessi o alle questioni etniche. Ben presto però tutte le nozioni cardine elaborate dalla modernità, come la razionalità, la logica, le grammatiche e le enciclopedie, la scienza, la tecnologia, gli apparati giuridici e istituzionali, furono sottoposte a una critica erosiva, spesso vandalica, che mirava a smascherare il potere ovunque nascosto, a imporre la neutralità terminologica e a riconoscere la molteplicità dei punti di vista.
11.5. Proprio a partire dal relativismo e dal politically correct, nel volgere di pochi anni, ha preso forma e si è diffusa presso il vasto pubblico, anche e soprattutto come una moda, la filosofia postmoderna che ha costituito una specie di pastiche sincretico – di carattere cinico, anarcoide e antimoderno – di tutte le filosofie che nell’ambito dei movimenti si erano connotate contro. Il postmoderno si è scagliato contro tutti i sistemi consolidati di verità e ha proclamato la fine delle grandi narrazioni. Al posto del pensiero forte (quello che pretenderebbe di veicolare una qualche verità) è stato esaltato il pensiero debole ed è stato dato l’addio alla verità.[24]
Sui rapporti tra il postmoderno e la postverità (o oltre-vero) è stato scritto alquanto e ci sarebbe molto da dire.[25] Abbiamo già citato le imposture intellettuali e la burla di Sokal che era diretta proprio contro la filosofia postmoderna. Per brevità, mi limiterò a un breve montaggio di alcuni passi di Maurizio Ferraris, che è intervenuto ancora recentemente sulla questione nel suo libretto intitolato Postverità e altri enigmi.[26] L’Autore sottolinea il peso che ha avuto il postmodernismo nello screditamento della verità anche e soprattutto a livello del grande pubblico. Si domanda Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto, dalla filosofia. […] La postverità è un frutto, magari degenere, del postmoderno».[27] E continua: «[…] quella che si chiama «postverità» non è che la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni»».[28] E ancora: «[…] la postverità è l’inflazione, la diffusione e la liberalizzazione del postmoderno fuori dalle aule universitarie e dalle biblioteche, e che ha come esito l’assolutismo della ragione del più forte».[29] Più precisamente: «L’ultima fase [del postmoderno ndr] […] corrisponde alla popolarizzazione delle idee postmoderne, che escono dalle accademie e, con l’aiuto decisivo dei media, si trasformano dapprima nel populismo (in cui esiste ancora un rapporto verticale tra governanti e governati garantito dalla televisione) e poi nella postverità (in cui il rapporto diviene orizzontale, visto che governanti e governati si servono dei medesimi social media)».[30] E ancora, tanto per finire: «[…] la continuità fra postmoderno, populismo e postverità è diretta».[31]
11.6. Se questa piccola ricostruzione ha qualche fondamento, allora l’antipatia per la verità, che sta con ogni evidenza alle origini della post-truth era, è dunque storicamente connessa, in forma ovviamente del tutto scorretta, all’antipatia per il potere, per tutte le limitazioni e per i vincoli di ogni sorta. Essa corrisponde a un momento intenso di autoesaltazione dei soggetti i quali pare abbiano preso a considerare se stessi come il centro del mondo. In filosofia – come bene ha spiegato Ferraris – questo atteggiamento è tipicamente costituito e supportato dalle filosofie trascendentali, attraverso l’idea cioè che il soggetto strutturi il mondo attraverso gli schemi della sua mente.[32] Più ampiamente, a livello culturale, questo atteggiamento è stato tipico di tutti i romanticismi. In proposito, così ha sintetizzato Isaiah Berlin: «I fondamenti essenziali del Romanticismo sono i seguenti: la volontà, il fatto che non esiste una struttura delle cose, che ci è possibile plasmare le cose a nostro piacimento – esse pervengono all’essere soltanto per effetto della nostra attività plasmatrice –, e di conseguenza l’opposizione a qualunque concezione che cerchi di rappresentare la realtà come dotata di una forma suscettibile di essere studiata, descritta, appresa, comunicata ad altri, e sotto ogni altro aspetto trattata in un modo scientifico».[33] Insomma, secondo Berlin, anche quando i romantici sembrano profondamente immersi in quel che fanno, essi sono pervicacemente fuori dal mondo, assolutamente indisponibili a venire a patti con la realtà. Si noti che il romanticismo è stato forse la prima forma culturale prodotta da intellettuali a essere ampiamente popolarizzata e ad avere guadagnato una specie di vita autonoma. Molto prima del postmoderno.
12. Perché proprio ora? Si tratta di fenomeni decisamente nuovi oppure si tratta solo di nuove modalità di presentazione di fenomeni vecchi come il mondo? Secondo diversi studiosi, la caduta dell’autorità veritativa cui stiamo assistendo sarebbe stata resa possibile, ingigantita e moltiplicata, da una nuova base materiale (per dirla con Marx) prima sconosciuta, costituita dalle nuove tecnologie dell’informazione. In altri termini, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione costituirebbe una condizione sufficiente, seppure non necessaria, dell’oltre-vero. In effetti, a guardare bene, le tappe temporali dell’allarme circa la diffusione della famiglia delle nuove menzogne sono all’incirca le stesse che hanno segnato la diffusione delle nuove tecnologie.
Le nuove tecnologie, seguendo Ferraris,[34] hanno agito, a quanto pare, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, la rivoluzione delle nuove tecnologie ha messo a disposizione di ogni singolo individuo la possibilità di memorizzare, elaborare e diffondere una quantità enorme d’informazione. Ancora nel caso dei primi media, l’informazione era distribuita a senso unico da centri e agenzie specializzate verso il pubblico. Oggi ogni singolo è diventato un’agenzia di produzione e diffusione. In secondo luogo, nello stesso tempo, è aumentato decisamente il ruolo della informazione nella costituzione intrinseca del mondo sociale.[35] In particolare si è reso sempre più tangibile il ruolo delle iscrizioni e dei documenti nella vita quotidiana e nella strutturazione stessa delle istituzioni. Ferraris, per concettualizzare queste trasformazioni, ha parlato di una rivoluzione documediale.
Secondo Ferraris: «[…] la rivoluzione documediale è l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui ogni ricettore di informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di informazioni e di idee».[36] La documedialità ormai diffusa sta così permettendo una strutturazione completamente nuova dello spazio comunicativo, rendendo così possibile – sebbene non sia una conseguenza necessaria – anche il mondo della postverità. Così ha sintetizzato Ferraris con una formula davvero icastica: «L’ideologia che anima la postverità è l’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso) ma da sole».[37]
Le nuove tecnologie sembra dunque abbiano così reso possibile – magari anche solo come effetto secondario – una indifferenza di massa nei confronti della verità e della realtà.
13. Il carattere peculiare della nuova situazione è chela verità, da fatto pubblico e sempre soggetto a qualche tipo di controllo autoritativo – qual era stata finora prevalentemente – tende sempre più a diventare un fatto privato che tuttavia è costantemente ed egotisticamente sbandierato in pubblico da chiunque. Ciascuno è diventato imprenditore della propria verità. Questa nuova situazione contrasta profondamente con un’imposizione che si è sempre accompagnata alla nozione tradizionale della verità e cioè con l’obbligo morale di dire la verità o, per lo meno, di tener conto della verità. I greci avevano elaborato in proposito il concetto della parresia,[38] su cui ha riflettuto l’ultimo Foucault. Socrate non può evitare di dire la verità ai suoi concittadini. Oggi Socrate avrebbe il suo blog e, a parte i suoi follower, sarebbe perfettamente ignorato da tutti. Al posto della parresia pubblica, divenuta impossibile, abbiamo oggi l’impulso a pubblicare i nostri preziosi punti di vista, anche se già svalutati in partenza dalla loro convivenza con i punti di vista di milioni di altri soggetti.
Volendo usare una semplificazione, è come se l’indebolimento e la crisi delle grandi narrazioni collettive – fenomeno che è stato ampiamente sottolineato proprio dal postmodernismo – avesse lasciato il posto a una moltitudine di micro narrazioni private riguardanti i campi più disparati e che ciascuno ora è in grado, per quel che può, di costruire, di mantenere e diffondere a suo uso e consumo. Ognuno prende per veri i propri deliri e li mette in rete, alla ricerca di qualcun altro disposto a condividerli, con la probabilità, sorprendentemente alta, di trovare un gran numero di follower. Analizzare e smentire ciascuno di questi infiniti deliri sarebbe ormai un compito improbo per qualsiasi autorità che abbia in mentre di provvedere a qualche tipo di controllo e certificazione. Il volume enorme di pretese verità e narrazioni che si rendono ogni giorno disponibili non fa altro che produrre una sorte di meccanismo di inflazione. Troppe verità in giro non possono che andare soggette a una svalutazione. Così la zona grigia tra il vero e il falso si è dilatata mostruosamente, come aveva già suggerito Keyes.
14. Questa trasformazione non resta confinata ai singoli individui. La postverità tende sempre più a caratterizzare lo spazio comunicativo e il fatto più rilevante è che si appresta inavvertitamente a prendere il posto dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica in Occidente – secondo il classico studio di Habermas[39]– è nata con la libertà di pensiero e con la diffusione dei primi mezzi di comunicazione, come le gazzette e i servizi postali, e dei primi luoghi di incontro, come caffè e teatri.[40] I singoli soggetti s’informavano, s’incontravano, discutevano e alla fine opinavano, esprimevano cioè un’opinione più o meno meditata intorno a importanti questioni pubbliche. L’opinione pubblica (che pure non sempre aveva ragione) contribuiva comunque – nel sistema democratico – all’elaborazione di credenze condivise, all’identificazione del bene comune e alla formazione della volontà generale. Sappiamo bene che la nozione dell’opinione pubblica habermasiana è stata sottoposta a molte critiche. Spesso ne sono stati identificati i limiti. Lo stesso Habermas aveva parlato, quando ancora il fenomeno era poco avvertito, di una crisi della opinione pubblica. Molti studi relativi alle trasformazioni delle democrazie contemporanee si sono focalizzati sulle trasformazioni o sui limiti della opinione pubblica. Tuttavia resta pur sempre il fatto che una opinione pubblica matura costituisce uno dei pilastri essenziali delle democrazie.
Accade così che, al posto della vecchia opinione pubblica, plurale e variegata, fatta di molteplici incontri faccia a faccia che avvenivano ancora in spazi fisici e grazie a oggetti fisici, oggi si va sostituendo il mare della nostra metafora, ossia un unico spazio virtuale indifferenziato, di dimensioni globali, dove ogni individuo – divenuto centro di elaborazione e diffusione di informazione – rovescia i suoi contenuti e valuta i contenuti altrui con risposte che si mantengono – come si è detto – per lo più a livello espressivo ed emotivo, e che non hanno mai alcuna validazione, alcun confronto effettivo con la realtà. Uno spazio in continua ebollizione, dove tuttavia non si giunge mai ad alcuna conclusione, alcun accordo, dove anzi si scatenano sovrapposizioni continue, dove c’è continua concorrenza o dove ci si ignora bellamente. Si tratta di uno spazio in cui gli universali della comunicazione[41] sono costantemente violati o stravolti. Si tratta tuttavia di uno spazio che è in grado di condizionare in modo imprevedibile le risposte, le scelte e i comportamenti di un pubblico enorme. In questa alterazione radicale delle caratteristiche della tradizionale opinione pubblica sta proprio la radice dei fenomeni più eclatanti della postverità e cioè della invasione delle imposture intellettuali, delle fake-news e della politica postruista.
15. Il mondo della postverità – è il caso di ricordarlo esplicitamente –è decisamente antitetico ai fondamenti del processo politico democratico. La nozione roussoviana della democrazia implicava che i cittadini dovessero stabilire un’agenda comune, dovessero entrare in un confronto razionale tra loro e che, alla fine, dovessero giungere a deliberare intorno al bene comune. E che la deliberazione della maggioranza dovesse essere accettata dalle minoranze, poiché tutti sarebbero stati tenuti a sottomettersi alla regola della maggioranza. Per fare questo occorreva comunque che si condividessero gli universali della comunicazione, ad esempio l’esigenza di argomentare, di fornire delle prove, di non fraintendere, di non screditare l’interlocutore. Nella post-truth era non c’è più nulla di tutto questo. Nessuno è più tenuto ad argomentare, ad ascoltare, a confutare o a consentire, non ci sono più universali comuni che sottintendano alla comunicazione. Non si cerca più una verità comune perché si è già convinti che una verità comune non c’è, e che non è neppure così importante che ce ne sia una. I criteri di scelta di ciascuno sono imperscrutabili e comunque del tutto fluidi. Gelosamente privati. O al più condivisi momentaneamente in ambiti ristretti. I gruppi dei follower si fanno e si disfanno con grande rapidità, non discutono esaurientemente di nulla, non deliberano su nulla, al più usano una logica binaria del tipo like–dislike. L’unica cosa implicita che è sempre presente è la richiesta a tutto il mondo del riconoscimento del proprio punto di vista, del proprio ego. Questa nuova situazione non può che spingere i sistemi democratici verso il populismo.[42]
16. Abbiamo rilevato come le nuove tecnologie dell’informazione abbiano costituito per lo meno la condizione sufficiente – seppure non necessaria – per lo sviluppo del mondo dell’oltre–vero. Tuttavia è assai problematico individuare quale sia esattamente la connessione tra i due fenomeni e su questo punto anche tra gli studiosi sussistono molte divergenze. Per capire meglio la questione dobbiamo approfondire la questione del rapporto tra tecnologia e cultura.
16.1. Sugli effetti culturali delle tecnologie, il riferimento più tradizionale va a McLuhan e alla scuola di Toronto. Secondo questo orientamento, le tecnologie della comunicazione sono delle vere e proprie estensioni del self e gli esseri umani tendono a costruire il proprio self in funzione delle tecnologie comunicative di cui dispongono, nella loro società e nella loro epoca storica. Gli studiosi della scuola di Toronto hanno distinto all’incirca tre fasi fondamentali nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia. La prima fase sarebbe quella dell’oralità primaria. È questa la condizione delle società che non conoscono la scrittura e che devono organizzare tutto il loro patrimonio culturale intorno all’oralità. Esempio tipico di questa condizione è la cultura omerica, cui corrispondeva un ben preciso tipo di organizzazione del self. A questa prima fase segue la seconda, che corrisponde all’introduzione della scrittura e – dopo molti secoli – all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Secondo McLuhan la modernità sarebbe stata possibile solo grazie all’invenzione della stampa, a partire dalla quale si sono sviluppati la Riforma e il pensiero scientifico moderno. Questa seconda fase, assai lunga e variamente definita, sarebbe culminata con lo sviluppo dell’individualità moderna, cioè con il self del cosiddetto uomo gutemberghiano. Si tratta di un self articolato e complesso che è strutturato in forma argomentativa, dotato di un ordine rigoroso, esattamente come un libro stampato.
Solo nella seconda metà del Novecento alcune invenzioni (il telefono, la radio, la televisione) avrebbero spodestato il libro stampato e avrebbero reso possibile la formazione del self per altre vie, recuperando gli aspetti visivi e auditivi della comunicazione. Si sarebbe così giunti alla cosiddetta terza fase, che comporterebbe un indebolimento del carattere gutemberghiano del self e a una sorta di recupero di funzionalità tipiche dell’antica oralità prescritturale. Questa fase è stata definita come oralità secondaria o oralità di ritorno. McLuhan ha caratterizzato questa come la fase del villaggio globale, reso appunto possibile dai media, il cui prototipi erano la radio e la televisione. Nell’ambito della scuola di Toronto naturalmente gli ultimi sviluppi legati alla rete e ai social media sono stati considerati come una conferma della interpretazione di McLuhan.
16.2. Non mancano ai giorni nostri studi specifici sugli effetti a vasto raggio delle nuove tecnologie sul self e sulla cultura. In molti casi i risultati sono effettivamente allarmanti. Un caso è quello di Nicholas Carr che ha pubblicato nel 2010 uno studio dal titolo Internet ci rende stupidi?[43]L’Autore ha ripreso le tesi di McLuhan e le ha messe a confronto con i più recenti risultati delle neuroscienze. Ebbene, le tesi dello studioso canadese sono uscite decisamente corroborate e meglio chiarite nei dettagli applicativi. Nello studio di Carr si mostra, con dovizia di basi empiriche, come il nostro cervello sia eminentemente plastico e come le nuove tecnologie siano in grado di cambiare profondamente – in termini fisici – le nostre stesse connessioni e strutture cerebrali e il nostro apparato cognitivo. In particolare, poi, gli studi di Dehaene[44] sulla lettura – ripresi da Carr – hanno mostrato in maniera inequivocabile come gli alfabetizzati abbiano dovuto costruire, nel loro sviluppo, delle particolari strutture cerebrali per essere messi in grado di leggere correntemente. Ha affermato Carr: «La Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è la più potente arrivata dopo il libro».[45] L’autore ha lanciato di conseguenza un allarme rispetto alla dipendenza che s’instaura nei confronti delle nuove tecnologie e rispetto all’obsolescenza degli strumenti della cultura – come il libro – cui è stato legato lo sviluppo degli ultimi secoli. Tutto ciò costituirebbe una minaccia molto seria per il pensiero articolato e complesso.
16.3. Non tutti gli studiosi concordano con le teorie della scuola di Toronto. In effetti, se non ci si vuol impegnare con una teoria complessa come quella di McLuhan, per tutta la famiglia di fenomeni connessi all’oltre-vero è disponibile una spiegazione più elementare, la quale insiste sulla sproporzione che è venuta a determinarsi tra la potenza estrema dello strumento reso disponibile dal progresso tecnologico e i limiti (l’animalità, la stupidità o l’imbecillità) dell’utilizzatore medio. Un po’ come nel caso della bomba atomica.
Ferraris, ad esempio, non concorda con le tesi della scuola di Toronto. Secondo Ferraris non sussisterebbe il fenomeno del ritorno a una qualche sorta di oralità secondaria e la nostra civiltà continua a essere, a pieno titolo, una civiltà della scrittura. Pochi anni fa l’Autore aveva scritto un libro per mostrare che il telefonino – data la sua capacità di fondere insieme testo, suono e immagini – costituisce uno sviluppo della fase gutemberghiana, una sua compiuta realizzazione e non certo la sua crisi.[46] Ferraris quindi è stato indotto ad attribuire l’avvento della postverità soprattutto al cattivo influsso di una cattiva filosofia e cioè – come abbiamo già visto – alla filosofia postmoderna. L’avvento della post-truth era sarebbe stato determinato da una scelta colpevole, sia da parte di certi intellettuali sia da parte del grande pubblico che si è lasciato abbindolare. Il tutto non può che tradursi in una condanna morale. Un giudizio assai tranchant nei confronti della tendenza diffusa a sottovalutare le questioni di verità è stato in effetti dato da Ferraris, tra il serio e il faceto, in termini di accusa di imbecillità. Dice Ferraris: «Definisco […] categorialmente o transcategorialmente, l’imbecillità come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è una colpa».[47] Sembra tuttavia che l’indignazione morale non possa esser sufficiente a contrastare quello che pare stia diventando un vero e proprio fenomeno di massa. Anche se Ferraris pare sostenere che l’imbecillità umana sia una costante e che, talvolta, possa giocare anche un ruolo positivo nello sviluppo dello spirito umano.
Anche Umberto Eco aveva sostenuto qualcosa di simile. È il caso di ricordare la sua famosa affermazione: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».[48]Secondo Eco, dunque, la stessa potenza delle nuove tecnologie stava rendendo possibile la riproduzione e diffusione ovunque della spazzatura subculturale. Alle origini del fenomeno ci sarebbe sempre il contrasto tra la potenza dello strumento e la costitutiva stupidità umana che sarebbe da considerarsi, sul piano storico, più o meno come un elemento invariante.
16.4. Altri studiosi hanno segnalato, in forme diverse, sempre a partire dagli anni Novanta, la realtà di un progressivo degrado culturale a livello di massa, che costituirebbe una netta inversione di tendenza rispetto al periodo precedente. Il linguista Tullio De Mauro ha spesso richiamato l’attenzione sull’analfabetismo funzionale di una parte rilevantissima della popolazione italiana, a cui l’istruzione di massa, promossa in tutta la seconda metà del Novecento, pare non abbia posto gran che rimedio.[49] Le statistiche in questo senso sono, in effetti, sempre più preoccupanti e, in termini funzionali, non si nota alcun miglioramento.
Va segnalato anche – quasi profetico nel nostro contesto – il grido di allarme di Sartori nel suo famoso libretto Homo Videns che è del 1997.[50] Sartori fin da allora si era particolarmente interessato al destino dell’homo politicus, che egli vedeva lentamente trasformarsi in homo videns, una specie di bambino mai cresciuto che non è più in grado di ragionare. Seguendo in un certo qual modo McLuhan, Sartori ha messo l’accento sulla differenza fondamentale tra vedere e pensare e sul «[…] prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza capire».[51] Afferma Sartori: “[…] tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensibilis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e cancella i concetti: ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire. […] L’idea, scriveva Kant è «un concetto necessario della ragione al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto adeguato”».[52]
Va segnalato che il sottotitolo del libro di Sartori era Televisione e post-pensiero. Il post-pensiero cui accenna Sartori sembra del tutto analogo alla post-verità di cui abbiamo lungamente discusso. Così si esprime, infatti, Sartori, riferendosi al nuovo tipo umano derivante dalla prevalenza dell’immagine sul pensiero: «Il loro non è un genuino anti-pensiero, un attacco dimostrato o dimostrabile al pensare logico-razionale; è più semplicemente una perdita di pensiero, una banale caduta nella incapacità di articolare idee chiare e distinte».[53]Anche in questo caso possiamo parlare di una sopravvenuta irrilevanza del pensiero logico – razionale in una situazione in cui le immagini paiono esaurire il nostro rapporto con la realtà. Sartori si mostrava ben consapevole del fatto che la politica democratica era strettamente legata al pensiero argomentativo e che la progressiva prevalenza di media non-argomentativi avrebbero determinato un grave pericolo per la democrazia.
Anche il linguista Raffaele Simone in diversi suoi scritti ha ripreso, in un certo senso, alcuni aspetti delle tesi di McLuhan. Egli tuttavia – più che sviluppare un’articolata teoria dell’oralità secondaria – si è limitato a costatare, attraverso osservazioni empiriche del fenomeno linguistico, che i nuovi media e la rete inibiscono certi modelli culturali dove la testualità è ricca a favore di certi altri ove la testualità è più superficiale ed elementare. Il che rappresenta un ovvio indebolimento dell’uomo gutemberghiano. Si è limitato inoltre a far notare che sussiste il rischio di un grave impoverimento del pensiero. Non a caso il sottotitolo del suo libro del 2000 suona: «Forme di sapere che stiamo perdendo». Darò qualche spazio, nel prossimo paragrafo, alle tesi di Simone, non perché le ritenga del tutto risolutive, ma poiché mi paiono descrivere in maniera appropriata alcuni dati di fatto difficilmente confutabili e oltremodo preoccupanti cui ci troviamo di fronte.
17. Nel suo studio intitolato La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo[54]Simone ha condotto, dal punto di vista del linguista, un’interessante analisi sul fenomeno del cambiamento del self in relazione alle mutazioni dello spazio comunicativo. Poiché il self è in gran parte un costrutto linguistico, è del tutto lecito pensare che il tipo di linguaggio che usiamo e in cui siamo costantemente immersi contribuisca alla strutturazione dello stesso self.
17.1. Come premessa, è di grande interesse una sua nota metodologica relativa alla possibilità di individuare e circoscrivere dei fenomeni che sono per loro natura sfuggenti e che hanno attinenza con le lente trasformazioni culturali e sociali. L’Autore li ha chiamati fenomeni vaghi. Afferma Simone in proposito: «[…] il mondo del simbolico è ricco di quelli che […] ho suggerito di chiamare “fenomeni vaghi” […]. Si tratta di fenomeni di cui tutti avvertiamo la presenza, che ci colpiscono a volte con un’evidenza quasi insopportabile, contro i quali possiamo reagire perfino con fastidio, perché ci irritano o semplicemente ci disorientano – ma che non si lasciano ridurre a cifre, tabelle e trend, non affiorano sotto forma di dati palpabili e obiettivi. Spesso non si lasciano neanche indicare con un nome preciso – anzi, quando li trattiamo in questo modo, si limitano a sparire silenziosamente».[55] È evidente che molti dei fenomeni che abbiamo descritto a proposito della postverità sembrano possedere proprio le caratteristiche dei fenomeni vaghi.
17.2. Simone, nel suo studio, ha cercato dunque di individuare e circoscrivere un fenomeno vago come il cambiamento che sta avvenendo nella struttura del self delle giovani generazioni. Basandosi su osservazioni empiriche sul mondo giovanile e sul confronto tra le generazioni, ha introdotto un’interessante distinzione tra culture proposizionali e culture non proposizionali. Egli osserva che: «[…] negli ultimi decenni del secolo XX, le generazioni giovani hanno adottato usanze comunicative totalmente diverse da quelle dei loro genitori (e più ancora dei loro nonni)».[56] Per comprendere adeguatamente queste trasformazioni: «Distinguerò […] due modelli di uso del linguaggio: uno che chiamerò proposizionale, l’altro che chiamerò non-proposizionale.[…] La pratica proposizionale è tipica di chi ritiene che l’esperienza, se è rilevante, debba essere espressa in parole – anzi, più propriamente, in parole organizzate in proposizioni – e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto più sono interrelate tra di loro, formano cioè testi in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo di struttura».[57] Simone sta parlando qui di scrittura. È il caso di ricordare che per definizione: «Nella teoria della letteratura, un testo è qualsiasi oggetto che può essere «letto»».[58] Questo significa che il carattere testuale dell’uso proposizionale non può che derivare dalla familiarità con il testo scritto. L’uso proposizionale del linguaggio è dunque tipicamente gutemberghiano. Afferma Simone che: «[…] l’atteggiamento proposizionale rispetta massime tacite come «sii analitico, sii referenziale, sii strutturato, sii gerarchico». Questi requisiti sono strettamente collegati tra loro, anzi possono essere visti come facce della stessa realtà».[59] Queste massime sono chiamate dall’Autore Massime della Lucidità. Si evoca qui il criterio cartesiano del chiaro e distinto.
17.3. All’inverso, secondo Simone, le caratteristiche dell’atteggiamento non – proposizionale sarebbero le seguenti:«[…] a) è generico, perché non scompone il contenuto del pensiero in elementi distinti, ma si limita ad evocarlo globalmente, lasciandolo inanalizzato e indistinto; b) è vago dal punto di vista referenziale, in quanto non designa individui, ma solo categorie generali indifferenziate; c) per conseguenza non dà nomi alle cose, ma allude, usando “parole generali”, entro le quali si può includere quello che si vuole, così facendo conto su una conoscenza globale condivisa, nella quale i singoli oggetti non hanno nome, e quindi non è necessario nemmeno indicarli specificatamente; d) rifiuta la struttura, sia quella gerarchica dei componenti, sia quella sintattica e testuale, oppure usa strutture estremamente semplici; non usa gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore il compito di crearsene una».[60] La conseguenza è che: «Questo orientamento si ispira quindi a una sorta di generale Massima di Fusione. Per effetto di questa, tutto si presenta in una massa indistinta, tutto è in tutto, e analizzare, gerarchizzare e strutturare è inutile o illecito. L’analisi sciupa la percezione e la ricchezza dell’esperienza. […] È costante l’allusione ai rischi del classificare, del distinguere, del separare – proprio le operazioni che […] stanno alla base dell’atteggiamento proposizionale».[61] La Massima di Fusione insomma è quella che governa le conversazioni quotidiane in ambiti familiari, o al più quella che sta alla base di certe esperienze e filosofie di orientamento irrazionalistico, come ad esempio il romanticismo o la gnosi. Per certi aspetti può richiamare il globalismo della visione del mondo infantile.
Dunque le culture non proposizionali non è che mettano da parte il linguaggio scritto, non è che tornino alla oralità primaria. Semplicemente non usano le migliori potenzialità del testo scritto e si limitano a usare la scrittura in termini riduttivi accanto e insieme ad altri elementi mediali. Insomma, quello che Sartori chiamava pensiero è qui ridotto alle sue forme più elementari.
17.4. Questa differenza nell’uso linguistico, secondo Simone, struttura diversamente il self, genera diversi orientamenti culturali e ha un valore decisamente generale: «Non c’è dubbio che quella che chiamiamo globalmente civiltà occidentale (termine generico, che include non solo determinazioni politiche come il concetto di democrazia, di persona, di libertà personale, ma anche determinazioni discorsive come quelle di ragione, di discorso, di analisi, di scienza, di spirito critico, e così via) sia di tipo proposizionale».[62] Come si può ben comprendere, quelle citate da Simone sono le caratteristiche della civiltà occidentale che sono culminate nella classica visione della modernità. È abbastanza ovvio concludere che l’indifferenza alla verità, di cui ci siamo a lungo occupati in questo stesso articolo, possa trovarsi agevolmente dalla parte della cultura della Grande Fusione piuttosto che dalla parte della cultura della Lucidità. Si noti che le caratteristiche della cultura proposizionale, che sono anche quelle della modernità, sono quelle stesse caratteristiche delle grandi narrazioni (tra cui la scienza) di cui il postmoderno ha dichiarato l’oltrepassamento. Quasi tutte le definizioni della postverità insistono – come s’è ben visto – sulla dominante emotiva che tende a sostituire l’attenzione per la verità e per la realtà. Anche nel caso del populismo – espressione politica per eccellenza dell’oltre-vero – sembra essere presente una dominante decisamente emotiva, oltre a una chiara tendenza a non fare i conti con la realtà. Anche il bullshit artist è un intrattenitore di successo proprio grazie ai meccanismi non proposizionali della Grande Fusione.
Trattandosi di fenomeni vaghi, nell’ accezione di Simone, occorre ovviamente guardarsi dall’istituzione di relazioni causali univoche e dirette tra le nuove tecnologie e le diverse manifestazioni della postverità. Le nuove tecnologie con ogni probabilità rappresentano soltanto la condizione sufficiente che ha reso possibile la diffusione della cultura della Grande Fusione e della postverità. Le nuove tecnologie, di per sé, possono ugualmente alimentare entrambi gli usi del linguaggio, entrambe le culture, sia quella della Lucidità sia quella della Grande Fusione. Perché allora a livello di massa pare stia di gran lunga prevalendo la Fusione sulla Lucidità?
Le ragioni generali di questo trend non sono difficili da spiegare. La testualità articolata e complessa (e tutte le sue implicazioni, tra cui il pensiero argomentativo e la razionalità) non è spontanea, deve essere conseguita attraverso una disciplina. È un greve fardello che si sovrappone – per dirla con Recalcati – all’anarchia del desiderio. Abbiamo visto che secondo Dehaene per accedere alla lettura occorre costruire e mantenere dei veri e propri circuiti cerebrali che hanno anche dei risvolti fisici. In termini foucaultiani, la testualità poi è sempre stata considerata come espressione del potere. Rappresenta una sottomissione. La Grande Fusione da questo punto di vista rappresenta invece la liberazione dal fardello del testo. Lo svincolamento dal potere nascosto associato alla scrittura e alle grandi narrazioni. I postmoderni, in molte delle loro manifestazioni, hanno solo e sempre predicato la Grande Fusione contro la Lucidità.
Le nuove tecnologie non sono dunque soltanto veicolo di modernità, permettono anche di sfuggire facilmente al fardello della modernità e permettono indubbiamente di liberare il desiderio. Insomma, invece di alfabetizzarsi e disciplinare il self, invece di strutturare il self come un testo organico e rigoroso, invece di diventare compiutamente uomini del libro,si può passare il tempo a contemplare suoni e immagini. Si può diventare molto social. Si può aspirare a diventare bullshitter professionali. Mentre l’interazione con il libro lascia le sue tracce e ci cambia profondamente, l’interazione con le nuove tecnologie più che altro non fa che rispecchiare quel che già siamo. Secondo la legge di Dember, ciascuno di noi tende a scegliere gli stimoli che hanno il nostro stesso livello di complessità interna.[63] Parafrasando Ferraris, se siamo imbecilli, useremo le tecnologie da imbecilli. Ha senz’altro ragione Ferraris quando ci ricorda che il telefonino è una macchina per scrivere[64] e quindi rappresenta uno sviluppo nobile della scrittura e della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, di fatto, è prevalentemente utilizzato per produrre e scambiare il bullshit che ci invade da ogni parte. La tecnologia è accondiscendente ai nostri peggiori difetti, ci permette anche questo suo uso degradato, ma se così facciamo, in effetti, è solo colpa nostra.
17.5. Cerchiamo, avviandoci a concludere, di riprendere le fila del nostro discorso. Abbiamo preso il via da una serie disparata di fenomeni connessi alla svalutazione della verità che si sono progressivamente imposti alla nostra attenzione, che all’incirca sono emersi tutti nello stesso periodo e che possiedono indubbiamente una certa somiglianza di famiglia. Di qui la nostra metafora dell’iceberg. Secondariamente abbiamo osservato come tutti questi fenomeni siano connessi alle nuove tecnologie, se non altro in termini di condizioni sufficienti. Senza le nuove tecnologie questi fenomeni non sarebbero diventati così tangibili e preoccupanti. In terzo luogo ci siamo domandati se i nostri fenomeni, nella loro relazione con le nuove tecnologie, non costituissero altrettante facce diverse di uno stesso fenomeno unitario ben definibile e spiegabile. Siamo andati in altre parole in cerca di una teoria.
Abbiamo qui incontrato una gamma di spiegazioni non del tutto univoche. La teoria più semplice consiste nell’invocare una sproporzione tra la potenza degli strumenti oggi resi disponibili e l’insipienza umana. Nel caso della postverità ci troveremmo così semplicemente di fronte all’espressione dell’imbecillità umana elevata alla nona potenza. Il pericolo in questo caso è che la maggioranza così caratterizzata finisca per prendere il potere (se non lo ha già fatto). La teoria più complessa postula invece che le nuove tecnologie stiano per così dire agendo dall’interno, stiano producendo cioè una serie di trasformazioni profonde a livello culturale e soprattutto a livello del self. In tal caso, sarebbero queste trasformazioni profonde a rendere possibili i fenomeni ben visibili di cui ci siamo occupati, dalla politica postruista alle fake news, fino ai populismi. Di queste trasformazioni profonde avremmo poca consapevolezza poiché – con il linguaggio di Simone – esse costituirebbero dei fenomeni vaghi, molto evidenti nelle loro manifestazioni particolari ma costitutivamente alquanto sfuggenti. Il pericolo qui è quello di una minaccia che si accumula dentro di noi, di una lenta trasformazione dei nostri simili, fino a renderli irriconoscibili, più o meno come nel film L’invasione degli ultracorpi.
Possiamo in estrema sintesi scegliere tra due macro alternative: a) quel che succede oggi alla verità è soprattutto frutto della costitutiva imbecillità umana oggi esaltata dalla potenza delle nuove tecnologie, oppure b) quel che sta succedendo oggi alla verità è frutto di una mutazione antropologica, effetto delle nuove tecnologie stesse, che ci sta cambiando profondamente in peggio, a nostra insaputa, anzi, con il nostro concorso. Dalla padella nella brace. Può darsi che l’avvento della documedialità – siamo appena all’inizio -possa costituire la base materiale per una nuova maturazione individuale, la possibilità davvero per tutti di un salto nella terra della testualità più ricca, e quindi la possibilità effettiva di realizzazione di una vera modernità, per la quale però – come s’è visto – occorrerebbe rimettere al centro la verità. Le potenzialità forse ci sarebbero. Oppure può darsi – come sembra piuttosto stia accadendo, quale che ne sia la spiegazione – che il mare dell’oltre-vero finisca per seppellire definitivamente la verità e la modernità, annegandoci nel bullshit e consegnandoci a un nuovo medioevo populista.
Bibliografia
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2009Vattimo, Gianni Addio alla verità, Meltemi, Roma.
Note
[1] Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nell’aprile del 2018. Poiché l’argomento non ha cessato di essere di estrema attualità, ho avuto l’occasione di apportarvi diversi aggiornamenti. La versione che qui presento è un ulteriore aggiornamento realizzato nel giugno 2025, in seguito all’interesse a ripubblicarlo manifestato dagli amici del blog Viandanti delle nebbie. Preciso di non avere usato, nella redazione del testo, alcuno strumento di intelligenza artificiale.
[2] Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo cominciarono a comparire diversi contributi critici contro il relativismo e contro il postmodernismo che era stato la prospettiva filosofica imperante nei due decenni precedenti. Si vedano, ad esempio, Jervis 2005, Boghossian 2006 e Marconi 2007.
[3] Cfr. Sokal & Bricmont 1997. Nella versione francese compare la dizione impostures intellectuelles, mentre nella versione in inglese nel titolo compare la dizione fashionable nonsense, traducibile con stupidaggini alla moda o sciocchezze di moda.
[5] Il termine bullshit – altresì rendibile con svariati sinonimi, come balle, fesserie, cazzate, puttanate – viene comunemente tradotto in italiano con stronzate. Il libretto è stato pubblicato in italiano col titolo di Stronzate. Un saggio filosofico. Cfr. Frankfurt 2005.
[8]Si noti che la stessa Wikipedia, per certi aspetti, potrebbe essere un prodotto della postverità. La qualità delle definizioni di Wikipedia è assai variegata e un attento controllo è sempre necessario.
[9] Si veda Wikipedia in italiano, alla voce rispettiva. Wikipedia in inglese fornisce la stessa definizione.
[10] Così spiegano gli Oxford Dictionaries: «The compound word post-truth exemplifies an expansion in the meaning of the prefix post- that has become increasingly prominent in recent years. Rather than simply referring to the time after a specified situation or event – as in post-war or post-match – the prefixin post-truth has a meaning more like ‘belonging to a time in which the specified concept has become unimportant or irrelevant’». Cfr. https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016.
[11] Sulla nozione logica e filosofica di menzogna, vedi D’Agostini 2012.
[13] Cfr. Frankfurt 2005: 51. Bullshit artist potrebbe essere reso con il nostro termine contaballe.Una sorta di contaballe specialista e professionale.
[14] La citazione contiene un mio piccolo aggiustamento, visto il carattere cooperativo di Wikipedia.
[15] La nozione di somiglianza di famiglia risale al filosofo Ludwig Wittgenstein.
[16] So bene che non tutti gli studiosi concorderebbero con queste mie semplificazioni. Solo per brevità seguo la definizione di Frankfurt, per il quale bullshit è una categoria generale. Secondo Ferraris, ad esempio, il bullshit costituirebbe una categoria più specifica, assieme a numerose altre. Si veda Ferraris 2017, prima dissertazione.
[17] Cfr. Keyes 2005: Post-Truthfulness. La traduzione è nostra.
[18] L’allusione ovviamente va al filosofo nord americano Richard Rorty, neopragmatista e postmoderno.
[20] Per una confutazione della tesi VNE secondo cuila verità non esiste si veda D’Agostini 2002.
[21] Paul Ricoeur ha definito come filosofie del sospetto le filosofie di Marx, Nietzsche e Freud. Si tratta di filosofie che condividono l’ipotesi che oltre alle apparenze esista un’altra verità più autentica. Questo modo di pensare ormai popolarizzato ha favorito, nell’era della rete, la proliferazione delle cosiddette verità alternative che spesso non sono altro che bullshit.
[22] So bene che esistono diversi tipi di relativismo. Qui non posso che semplificare per brevità.
[23] È curioso che il politically correct abbia conosciuto una ampia diffusione all’inizio degli anni Novanta.
Anni fa l’amministrazione comunale di Gavi decise di collocare nella piazza centrale della cittadina una scultura di Arnaldo Pomodoro. Erano i tempi dei vitelli grassi, per cui lo stanziamento coprì, oltre al costo della statua (un monolite cilindrico in bronzo, alto tre metri) anche una cerimonia di presentazione intitolata “Perché una statua in piazza”, cui parteciparono Umberto Eco e altre personalità della cultura, alessandrina e non. In realtà più che di presentazione l’incontro risultò essere giustificatorio, perché si tenne qualche settimana dopo l’inaugurazione ufficiale, a seguito delle perplessità manifestate nel frattempo dai cittadini.
Il problema nasceva, oltre che dall’enigmaticità dell’opera, che aveva le fattezze di un grande fallo rugoso, dalla scelta del luogo di collocazione: era infatti piazzata al centro del quadrivio nel quale convergono le arterie principali d’ingresso e di uscita da Gavi, e creava negli automobilisti un effetto di sorpresa e di curiosità che li distraeva dalla guida; tanto che nel giro di tre mesi si contarono nella piazza una ventina di incidenti causati dalle mancate precedenze. Al termine dei tre mesi, e a dispetto dalla dotta ed entusiasta perorazione di Eco, la statua venne rimossa. Non so che fine abbia fatto, non so se per l’arte sia stata una sconfitta, ma so per certo che a Gavi nessuno oggi la rimpiange (e sul web non è assolutamente ricordata).
Credo allo stesso modo che nessuno in Alessandria lamentasse sino ad oggi l’assenza di una statua dedicata al pontefice Pio V Ghisleri. Già esistono in città e nei suoi dintorni chiese a lui dedicate, addirittura un complesso monumentale a Bosco Marengo, per cui il nome dell’illustre conterraneo non rischia di cadere nell’oblio: e sono d’accordo sul fatto che questo non debba accadere. Ma per motivi un po’ diversi da quelli che hanno evidentemente animato gli ideatori di questo ritardato omaggio.
Devo sgombrare però preventivamente il campo da equivoci. Non sono contrario per principio alla statuaria commemorativa, ai monumenti insomma, e ho anzi zero stima per quelli che li abbattono o li imbrattano, anche se in qualche caso (che non è certo quello della cancel culture, ma ad esempio quello della caduta di una dittatura) posso comprendere perché arrivino a farlo. Le statue, ma anche i busti, i bassorilievi o le lapidi non mi fanno né caldo né freddo, a meno che siano orribilmente brutte o eccezionalmente belle. So che in genere sono dedicate a personaggi che meriterebbero ben altro, ma penso che la loro presenza, se accompagnata da una solida conoscenza storica e da una corretta informazione, possa comunque giovare alla manutenzione della memoria. Questo almeno valeva sino a qualche tempo fa, e di quanto poi giusto dispensiere di glorie o d’infamia sia il tempo lo testimoniano i nomignoli irridenti coi quali sono state ribattezzate in genere le sculture celebrative di illustri nullità o di insigni farabutti.
Oggi direi che la statuaria di questo tipo ha ben poco senso, anche se non celebra più despoti spietati o militari con licenza di massacro, ma uomini di spettacolo o “eroi” dello sport (e ultimamente anche i “migliori amici dell’uomo”): nel frattempo è infatti mutata radicalmente la finalità. Ciò che una volta negli intenti doveva proporre o celebrare modelli esemplari a fini patriottici o di memoria culturale, è scaduto oggi a suppellettile dell’arredo urbano, con finalità meramente turistiche (o in qualche caso, come quello di cui sto parlando, per “marcare” politicamente il territorio). Per questo la decisione di inaugurare a giorni in una piazzetta della città l’ennesima statua di papa Ghisleri non mi entusiasma. E i motivi della mia freddezza sono più d’uno.
Il primo è di ordine pratico: se proprio si aspira alla manutenzione della memoria, con la somma stanziata (150 mila euro: non da privati, ma almeno in parte da un ente pubblico) si sarebbero ad esempio potuti disboscare e risanare un po’ di tetti della Cittadella, o sistemare alcuni locali della caserma Valfrè, per tenere in piedi il complesso e ricavarne spazi utili per mostre, convegni, iniziative le più svariate, o per futuri probabili lazzaretti o centri vaccinali, prendendo due piccioni con una fava.
Il secondo riguarda il contraddittorio e oggi più che mai ambiguo rapporto tra verità, storia e memoria. So che è diventato quasi un chiodo fisso nei miei interventi, una monomania, ma in questo caso la distanza tra la prima e la terza riesce così evidente, e così disinvoltamente e artatamente giocata, da non consentirmi di passarci sopra.
L’altro motivo è infine di opportunità. Non che faccia grande differenza dedicare una statua a Francesco o a Giovanni XXIII o a Paolo VI, ma con tutti quelli che c’erano proprio un personaggio controverso come Pio V dovevano andare a scegliere? Capisco che fosse alessandrino, e che di glorie da celebrare da queste parti ne siano circolate poche, ma almeno fosse “vera gloria”, almeno offrisse una sola ragione in positivo per essere ricordato.
Proviamo invece a vedere cosa ha saputo combinare quest’uomo nel breve tempo del suo pontificato (è rimasto sul soglio per soli sei, anni). Gli va riconosciuto senz’altro di non essere rimasto con le mani in mano e di avere dato un impulso decisivo alla Controriforma. Cosa che sotto il profilo morale è molto dubbio si possa considerare un merito, ma sotto quello professionale, dell’efficienza organizzativa, lo è senz’altro.
Purtroppo quell’efficienza è costata cara a un sacco di gente. Si è esercitata infatti sia contro gli oppositori interni, eretici o dissidenti di varia natura, sia contro quelli esterni, in primis ebrei e mussulmani, e ha escogitato nuove modalità di controllo e di censura e di indottrinamento.
La carriera di Pio V si svolge infatti tutta all’insegna dell’Inquisizione.
Nel 1542, a meno di quarant’anni, è nominato commissario della Santa Inquisizione a Pavia, ma fa sentire la sua mano anche nei dintorni, ad esempio a Parma. Visti gli ottimi risultati ottenuti, nel 1550 è inquisitore a Como e a Bergamo, e l’anno successivo diventa commissario generale dell’Inquisizione romana. Nel 1556 ricopre l’incarico di inquisitore generale a Milano e in Lombardia e due anni dopo tocca il vertice, diventando Grande Inquisitore presso la sede romana. Ricoprirà quella carica per otto anni, fino alla elezione a pontefice.
Anche in questo ruolo il buon Ghisleri non perde il suo tempo. Durante il suo pontificato vengono processati e mandati a morte gli umanisti Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario, oltre al letterato Niccolò Franco. E questi sono naturalmente solo i più famosi. Già in precedenza si era però distinto come difensore della fede in qualità di capo del Sant’Uffizio, facendo massacrare nel giugno 1561 centinaia di valdesi a Guardia Piemontese, in Calabria, dopo aver mandato al rogo la loro guida spirituale, Gian Luigi Pascale. Qualche altro migliaio li fa cacciare in prigione e li costringe, non certo con le prediche, ad abiurare. Chi rifiuta viene scannato o bruciato vivo. Il numero totale delle vittime è incerto, ma è stimato dagli storici da un minimo di 600 a un massimo di 6.000. Queste cose quando le hanno fatte, e tuttora le fanno, altri, sono definite genocidio. Nel caso di Pio V a quanto pare sono considerate prove di santità, e sono oggetto di reverente memoria.
Non da parte degli ebrei, comunque: non è particolarmente tenero neppure con loro. Intanto li fa rinchiudere a Roma nel ghetto istituito per l’ occasione, sul modello veneziano, dopo averli obbligati a vendere tutte le loro proprietà: poi li costringe a subire una pressante campagna di indottrinamento. Infine ne sancisce l’espulsione dallo Stato Pontificio, ad esclusione di coloro che accettano di risiedere nei ghetti cittadini.
Le pulizie le fa però anche in casa. Mette in riga i vari ordini religiosi, sopprimendone alcuni (tra cui quello degli Umiliati, presente sino quel momento anche in Alessandria), cancellando varie congregazioni eremitiche e costringendo gli adepti a rientrare nei ranghi associandosi agli ordini riconosciuti (preferibilmente a quello domenicano, dal quale lui stesso proviene).
Infine istituisce l’Indice dei Libri Proibiti, ovvero l’elenco dei testi sottoposti alla censura ecclesiastica, dal quale mancano magari inizialmente le opere dell’Aretino, ma non quelle di Copernico e di Keplero, e di lì a poco quelle di Galilei.
Mi fermo qui, ma direi che i meriti per vedersi dedicata una statua se li è guadagnati abbondantemente, e anche se in vita aveva già provveduto a non lesinare la propria immagine a pittori e scultori, un ritratto in più non guasta. Anche nel caso alessandrino penso che l’errore stia soprattutto nella scelta della collocazione. Anziché piazzare la statua di fronte al carcere si sarebbe potuto, con uno spostamento di pochi metri, collocarla dentro le sue mura. Sarebbe stata una sede più consona al personaggio, che magari anche lì avrebbe potuto operare miracoli.
Invece abbiamo assistito (si, perché c’ero anch’io, volevo vedere a che livello si poteva scendere, e sono stato ampiamente accontentato) ad una farsesca cerimonia di disvelamento dell’opera, con tanto di onorevoli e presidenti di banche e alti prelati che si sono succeduti a cantare per un’ora le lodi del celebrando, edificatore di ospedali (altro che la sanità attuale!) e di scuole (altro che la pubblica istruzione!) e di alleanze continentali anti-barbariche (altro che l’Unione Europea!), senza fare il minimo accenno al suo tutt’altro che trascurabile curriculum di “disinfestatore” e di costruttore di ghetti. Una perfetta “lectio magistralis” di ipocrisia e di post-verità, un po’ guastata ad essere sinceri dalla “rivelazione” della pochezza dell’opera: l’ultimo simulacro di Pio V ha la postura e l’espressione di un cercatore di funghi che abbia appena adocchiato un porcino.
Peccato. Fosse ancora vivo Umberto Eco si sarebbe data l’occasione di mettere in piedi un bell’evento, non al teatro comunale perché ancora non si sono trovati i soldi per risanarlo, e nemmeno alla Cittadella o alla Valfré, ma insomma, uno spazio si poteva trovarlo. Eco con l’Inquisizione ci sarebbe andato a nozze. E magari avrebbe giocato sul fatto che una statua prospiciente da un lato l’ospedale e dall’altro il carcere una qualche inquietudine può suscitarla, e suffragato questa inquietudine con gli incidenti nei quali i passanti impegnati a toccarsi o a fare altri gesti scaramantici senz’altro incorreranno. Forse tra due o tre mesi, alla chetichella, il Grande Inquisitore sarebbe stato indotto a migrare.
Non voglio però chiudere così questo intervento, senza qualche estemporanea (e desolante) notazione. Si dà il caso che qualche giorno avanti l’inaugurazione della statua sia capitato proprio nel complesso monumentale di Bosco Marengo, e abbia visitato la chiesa voluta dal santo e a lui intitolata. Ho potuto visitare la cripta, dove per secoli un gran numero di domenicani sono stati sepolti, si dice in posizione seduta, così che potessero idealmente continuare a svolgere il loro lavoro: ma ho anche visto l’enorme monumento funebre, quasi un mausoleo, che Pio V si era fatto erigere nel transetto (e nel quale non riposa la sua salma, che sta invece a Roma, in Santa Maria Maggiore, in un altro monumento altrettanto offensivamente sfarzoso). Già quello è testimonianza sufficiente di una vanità e di una megalomania spropositate, e consente di prendere immediatamente le misure al personaggio, senza neppure disturbarsi a ricostruirne la storia.
Infine. Durante la cerimonia alessandrina di “svelamento” guardavo la piccola folla dei celebranti, tutti bardati negli smilzi completi blu elettrico, stile Di Maio o agente Tecnocasa, con la giacchetta che non arriva al sedere e il pantalone stretto alla caviglia, abbinati a calzature improbabili e ad ancora più improbabili fenotipie, che anziché trasmettere una immagine di solennità sacrale davano l’idea di buzzurri col vestito della festa; ho pensato che erano un campione perfettamente rappresentativo di chi ci amministra, di chi rastrella i nostri soldi, di chi dovrebbe garantirci l’informazione, di chi vigila sulla nostra sicurezza e sulla nostra salute, e ho avuto più che mai netta la percezione dello sfascio, ma quel che è peggio soprattutto quella della mia assoluta impotenza. Mi sono infatti chiesto se valesse la pena provare a guastare un po’ la festa, intervenendo ad aggiungere la parte di storia che avevano dimenticato, o che nemmeno conoscono, perché dubito che per questa occasione qualcuno si sia dato pena di andarsela a vedere: ma ho dovuto rispondermi che no, che sarebbe stato del tutto inutile, che avrei anzi contribuito allo squallido spettacolo messo in piedi, aggiungendogli un po’ di sale, senza intaccare minimamente le coscienze.
La memoria crea talvolta connessioni inattese e singolari. Anzi, per la precisione non le crea, ma le scopre, perché erano già lì ad aspettarci nella realtà, in quella storica o in quella naturale. Accende solo la luce. Accade che ci occupiamo di una vicenda, di un ambiente, di un personaggio, e poco a poco esce dall’ombra tutto ciò che sta attorno, si allarga il nostro campo visivo, si schiudono nuove curiosità.
A me è capitato proprio recentemente, mentre scrivevo il pezzo su Andrea Caffi. Fantasticavo come al solito su come sarebbe stato conoscerlo, quando all’improvviso ho realizzato che se Caffi non avrei potuto incontrarlo comunque, non fosse altro per ragioni anagrafiche, ho conosciuto però qualcuno che probabilmente l’aveva incrociato, dal momento che entrambi avevano vissuto come fuorusciti a Parigi negli anni Trenta e avevano frequentato più o meno gli stessi circoli antifascisti. Non ho testimonianze certe di una loro frequentazione diretta, ma le probabilità che ci sia stata mi paiono altissime.
Ora, il motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe non è il compiacimento per la possibilità di essere collegato a Caffi da una catena molto corta di relazioni: è invece la curiosità destata dagli sviluppi e dagli esiti diversi di due storie che almeno nella condizione iniziale presentano molte somiglianze. A dimostrazione del fatto che l’ambiente agisce sino a un certo punto, ma è poi l’indole a fare la differenza.
È andata così. Nell’autunno-inverno tra il ‘68 e il ‘69 mi fermai a Genova, dove, oltre a seguire (molto saltuariamente) i corsi universitari e vivere gli ultimi fuochi della contestazione studentesca, avevo trovato un’occupazione part time presso un mobiliere (non in ufficio, camallavo frigoriferi e lavatrici). Alloggiavo in una camera in subaffitto in Castelletto, uno dei quartieri più eleganti della città, scovata da un compagno che aveva un’altra camera nello stesso alloggio. Il costo era irrisorio. Scoprimmo più tardi che potevamo permettercela perché il tizio che ci ospitava non pagava a sua volta l’affitto alla proprietaria.
Il tizio era un signore anziano, alto e corpulento, segnato in viso da diverse cicatrici, simpatico ma decisamente fuori dagli schemi. Si chiamava Stefano Oberti (“dottor” Oberti puntualizzava lui), e vantava un passato interessante. Era infatti stato esule in Francia per più di un decennio, dalla fine degli anni Venti, per sfuggire alla persecuzione dei fascisti. Tra le amicizie che raccontava di avere lì contratto spiccavano quelle col nipote di Nitti e con Rosselli (il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, lo aveva già conosciuto prima), ma in pratica non era possibile citare qualcuno di quel giro col quale non vantasse confidenza. Sospettavamo che buona parte del suo racconto fossero millanterie, ma al tempo stesso eravamo divertiti dalle stravaganze e dall’assurdità del personaggio. Girava per casa quasi sempre inguainato in un capo unico maglia-mutandoni di lana, di quelli che Terence Hill indossa in Trinità, abbottonato davanti e con lo sportelletto sul fondoschiena, che gli dava una silhouette da orso Yogi. Ad un certo punto ho persino cominciato a invidiargli quella tenuta, perché il riscaldamento era sempre spento.
Oberti seguiva e ci segnalava tutti gli eventi culturali e politici della città, compresi quelli cui non era invitato, ma nei quali riusciva ad infiltrarsi invariabilmente tra gli organizzatori o tra gli ospiti d’onore. Una sera ci chiese di accompagnarlo ad una conferenza alla Terrazza Martini, il luogo più elegante di Genova, in cima ad un grattacielo dal quale si vedeva tutta il golfo. Lo stipammo sulla 500 del mio socio, con l’auto che dalla parte in cui era seduto lui raschiava quasi l’asfalto, e dovemmo anche arrischiare l’ascensore per salire i Trenta piani che portavano alla terrazza. Arrivammo naturalmente a conferenza già iniziata, ma non fu un problema, perché guidati dall’addome perentorio di Oberti ci dirigemmo immediatamente al buffet, imbandito su un lato del salone. Ci fu un mormorio di disapprovazione, che distrasse e irritò anche il conferenziere, ma a quanto pare l’argomento proposto non era granché, perché di lì a breve gli astanti cominciarono ad alzarsi, uno o due alla volta, e a raggiungerci ai tavoli. Avevano visto come noi, e soprattutto Oberti, stavamo spazzolando salatini e beveraggi. Credo sia stata la conferenza più breve di tutta la stagione.
Qualche serata la trascorremmo anche a discorrere di politica col nostro locatore, ma non riuscivamo a cavarne molto, perché lui era impallato con la massoneria e con una statua che avrebbe dovuto essere eretta a Mazzini nel cimitero di Staglieno (dove già peraltro le spoglie del patriota erano raccolte in un mausoleo scavato nella roccia). Ci dettagliava anche sulle annose schermaglie di potere che caratterizzano da sempre gli ambienti massonici, e tanto più quelli di provincia, sui voltafaccia e i tradimenti e su quanto fossero infidi i suoi rivali. Ma l’impegno maggiore era rivolto in quel periodo a raccogliere fondi per il monumento, e a lamentarsi della tirchieria dei genovesi, che a quanto pare non si rivelavano particolarmente entusiasti dell’iniziativa. (All’epoca noi non avevamo dubbi che non se ne sarebbe fatto nulla, ma come vedremo ho dovuto poi ricredermi).
Della sua vita di fuoruscito, oltre ad elencare le conoscenze, non raccontò praticamente nulla: sembrava gli fosse rimasta solo una fortissima ammirazione per le donne francesi (confermata nell’autobiografico Esilio a Parigi, dove almeno tre capitoli sono dedicati alle sue presunte conquiste e alla frequentazione di un postribolo d’alto bordo) e aveva maturato una vera passione per Marie Laforet. Una sera dovemmo scarrozzarlo fino al cinema di una delegazione periferica dove proiettavano Delitto in pieno sole: per tutta la durata del film la Laforet recita in bikini, e in qualche scena anche senza. Ne uscì entusiasta.
Una cosa comunque devo riconoscergliela. Quando gli proposi di assistere assieme a me al Cinema Centrale, la sala più “di sinistra” della Genova dell’epoca, alla proiezione di Ottobre di Eisenstein, mi rispose, anticipando di molto Fantozzi, che non solo era una boiata pazzesca, ma travisava anche rozzamente la verità storica. Non ci misi molto ad arrivare alle stesse conclusioni, ma gli avessi dato ascolto mi sarei risparmiato almeno il penoso dibattito che seguì la proiezione.
Alla fine di marzo purtroppo dovetti lasciare la camera, la campagna aveva bisogno di me. Tornai a Genova solo per dare una manciata di esami a giugno, e non rividi mai più Oberti. Il mio coinquilino mi raccontò poi di altre scorribande in cui era stato coinvolto, ma anche lui l’autunno successivo dovette cambiare sistemazione.
L’impressione che entrambi avevamo maturato era quella di un personaggio simpaticissimo, ma decisamente mitomane e inaffidabile. Infatti mi sorprese, ma non mi meravigliò più di tanto, trovare alla fine degli anni Ottanta il suo nome in capo ad una lista elettorale della Lega Nord. Mi confermò l’immagine di un uomo pronto a cavalcare qualsiasi cavallo, pur di stare in sella, e l’idea che il fuoriuscitismo non raccogliesse soltanto idealisti come Gobetti, Caffi, Chiaromonte, Rosselli e Berneri, ma anche diversi opportunisti e qualche sballato, per tacere del gran numero di infiltrati dalla polizia politica del regime.
Per questo, nel raccontare Caffi mi è tornato immediatamente in mente Oberti. E per questo ho voluto indagare un po’ più a fondo il personaggio, ricavandone una storia sorprendente.
Ciò che ho sin qui raccontato attiene alla mia personalissima memoria. È tutto ciò che posso dire dell’uomo Oberti come io l’ho conosciuto quasi sessant’anni fa, o almeno tutto ciò che mi era parso significativo.
Quanto segue appartiene invece alla Storia, non solo alla sua, ma a quella di un particolare fenomeno in un particolare momento. L’ho desunto confrontando diverse fonti, tutte quelle cui mi è stato possibile attingere, e penso che quanto ne viene fuori si avvicini accettabilmente alla verità dei fatti.
Infine, l’ultima parte di questo scritto ospita delle riflessioni di carattere generale, che niente hanno a che vedere con una valutazione o un giudizio storico. Dalle letture e dalle ricerche che ho fatto sono nate delle impressioni, che non riguardano solo il personaggio Oberti, e che propongo in funzione interlocutoria, sperando che il discorso non si chiuda qui.
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Stefano Oberti nasce a Genova nel 1903. Il padre, Zaccaria, è un massone, repubblicano convinto e anticlericale, imprenditore di un certo successo ma sin da giovanissimo portato a cacciarsi nei guai per le sue idee politiche libertarie (anche lui sarà costretto, dopo l’avvento del fascismo, ad emigrare in Francia, dove rimarrà poi sino alla morte).
Stefano si distingue invece in gioventù soprattutto per le passioni sportive, il canottaggio e il calcio: quest’ultimo lo fa entrare in contatto con Sandro Pertini, presidente della compagine universitaria genovese. Non tarda però a seguire le orme del padre e ad essere iscritto nella lista nera dalle autorità del nuovo regime. Come studente di legge fonda infatti l’Unione goliardica italiana per la libertà, che osteggia la riforma Gentile, e ad un convegno internazionale delle federazioni universitarie tenutosi a Varsavia, nel 1924, attacca decisamente gli altri esponenti della delegazione italiana, già allineati col fascismo. La sua attività politica si intensifica dopo il delitto Matteotti, sino a che, una notte del gennaio 1925, viene aggredito da un gruppo di squadristi che lo bastonano fino a sfigurargli il volto. Nell’immediato non vuole demordere, ma quando alla fine dell’estate successiva gli è ritirato il passaporto capisce che è venuto il momento di cambiare aria ed emigra clandestinamente in Francia.
«A Parigi arrivai a fine settembre 1925. Ben consigliato sul da farsi, presi alloggio in un albergo del Quartiere Latino […]. Presentai domanda alle Autorità francesi per ottenere asilo politico e m’iscrissi all’ “Alliance Française” per perfezionare il mio francese. La Sûreté Nationale fece le sue indagini e tutto risultò a mio favore. […] Poi andai ad abitare […] sulla riva destra della Senna, oltre Passy, presso una signora francese che ospitava un altro studente straniero. Questa signora aveva due figlie […]. Esse mi furono di grande utilità, insegnandomi come dovevo comportarmi con le famiglie parigine, molto restie a legarsi con gli stranieri. […] A noi italiani, tutto sommato, il trapianto in Francia è stato facilitato dalla presenza di una forte comunità di connazionali e dalla benevolenza del Governo francese. Io avevo amici fedeli […]. Un anno dopo fui raggiunto in esilio da mio padre. […] Facevamo colazione assieme e con noi c’erano italiani come il figlio del presidente Nitti, […], francesi e spie italiane di cui ingoiavo la presenza assieme alla pastasciutta e ai sughi all’italiana che cucinavano per noi.»
Fa a tempo ad incontrare Gobetti poco prima della morte di quest’ultimo e stringe amicizia con l’avvocato siciliano Teocrito Di Giorgio, personaggio che ricomparirà nella sua vita a più riprese: con la gran parte degli altri esuli, invece, e con le diverse formazioni in cui sono raggruppati, entra quasi subito in conflitto. In un libello sollecitamente pubblicato (Episodi della lotta antifascista) ci va giù particolarmente duro: “Qualche mezza dozzina di persone che pretendono di costituire e monopolizzare il fuoruscitismo ufficiale a Parigi sono un’accozzaglia acefala di esseri privi di senso storico, di coraggio personale molto discutibile, di scarsa volontà e iniziativa e quasi totalmente sprovvisti di quello spirito di indipendenza e di sacrificio richiesto dalla grandiosità della lotta”. Al tempo stesso li accusa di offrire dell’Italia all’estero “l’immagine di un Paese immerso nel terrore da un manipolo di bravi […] ciò che significava divenire ancora una volta lo zimbello dell’Europa”.
I suoi atteggiamenti a volte assurdamente intransigenti, spesso sconcertanti, e comunque sempre confusi e dettati da smania di protagonismo, creano non poco imbarazzo nell’ambiente dei fuorusciti; in qualche occasione però tornano utili e sono sfruttati strumentalmente dalle diverse fazioni dell’antifascismo parigino in funzione delle rivalità che più o meno scopertamente allignano (ad esempio, quella tra i togliattiani e tutte le altre). Di fatto comunque Oberti finisce sempre più isolato, se si escludono tre o quattro “seguaci” che gli si associano per calcolo o per spirito gregario, e di conseguenza diventa sempre più insofferente della sua vita di esule e rancoroso nei confronti dei compagni.
Anche sopravvivere materialmente, in questo isolamento, non è facile, a dispetto delle conoscenze di cui può avvalersi tramite il padre. Per un certo periodo sbarca il lunario grazie al denaro che quest’ultimo gli invia dall’Italia. Quando poi questo viene meno comincia a passare per una serie di occupazioni le più diverse, comunque sempre molto precarie: operaio alla Renault, agente di commercio, corrispondente estero, persino comparsa alla Comédie Française . Non è particolarmente portato per il lavoro, mentre è invece attivissimo nella polemica e nelle iniziative di organizzazione: dà vita a gruppi scissionisti all’interno della Concentrazione antifascista, cerca contatti a destra e a sinistra, pubblica opuscoli come Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne. Fino ai primi anni Trenta continua comunque a ruotare nell’ambito dell’organizzazione, e per qualche tempo è in rapporto anche col gruppo di Giustizia e Libertà.
La situazione internazionale sta però evolvendo. Il governo francese comincia a cercare approcci con il fascismo, che nel frattempo ha ammorbidito i toni e le rivendicazioni. Cresce, di qua e di là delle Alpi, il timore per una possibile salita al potere di Hitler, e vengono opportunamente rispolverate le affinità culturali e i possibili interessi comuni. Anche all’interno del mondo dei fuoriusciti le idee non sono chiare: la maggioranza chiaramente è contraria, ma c’è anche chi vede di buon occhio un riavvicinamento pacifico tra i due paesi.
Di questa posizione si fa immediatamente alfiere Oberti, che su iniziativa personale, senza consultare nessuno, si reca ad esporre direttamente al console italiano di Parigi la concordanza d’intenti del suo sparuto gruppo di seguaci con i due governi in riconciliazione, esprimendosi a nome di tutto l’antifascismo. La notizia si diffonde con la pubblicazione di un’intervista rilasciata al quotidiano La République, e la cosa scatena le ire dei dirigenti in esilio, che si affrettano a sconfessare Oberti e lo espellono dal raggruppamento. Ciò non gli impedirà comunque, nel giugno 1933, in occasione dei funerali di Claudio Treves, di sfilare nella processione silenziosa che segue il feretro, al fianco di Emilio Lussu, di Carlo Rosselli, di Raffaele Rossetti e di Camillo Berneri, e accanto a personalità di spicco della sinistra francese.
Nel frattempo però Oberti ha già intrapreso una nuova strada. È stato chiamato da Alberto Giannini, altro bizzarro e sfuggente personaggio e fuoruscito “pentito”, a collaborare alla rivista satirica Il Merlo. Giannini aveva dovuto rifugiarsi in Francia per aver pesantemente satireggiato col suo giornale Il becco giallo il regime fascista, e ha continuato per un certo periodo a farlo riprendendo la pubblicazione oltralpe e introducendola clandestinamente in Italia: ma ad un certo punto i finanziamenti elargiti dai fuorusciti hanno cominciato ad assottigliarsi ed è venuto meno anche il rapporto di fiducia che lo legava a Carlo Rosselli. Fonda allora una nuova testata, finanziata stavolta dal regime stesso, e finisce sul libro paga dell’OVRA, il servizio segreto mussoliniano. Come racconta Gaetano Salvemini parlando del gruppo dei fuoriusciti a Parigi: “Alberto Giannini era il più faceto della compagnia, finché non passò, nel 1934, dalla sera alla mattina, armi e bagagli, nel campo dei fascisti, il più svergognato caso di voltafaccia che io abbia mai visto”.
Non risulta che anche Oberti sia diventato a pieno titolo un informatore, ma senz’altro non gli par vero scrivere articoli denigratori contro esponenti del gruppo che lo ha cacciato, e più in particolare contro quelli del partito socialista in esilio.
Intanto sta già muovendosi per regolarizzare la propria situazione di emigrato presso il Consolato italiano. Tenuto ormai forzatamente fuori dalla politica, da Parigi si trasferisce a Nancy, e si butta assieme al padre in un tentativo di rientrare nell’imprenditoria, che si rivela fallimentare.
A questo punto non gli rimane che rientrare in Italia, approfittando di una serie di condoni e della prescrizione dei reati per i quali era stato condannato in contumacia (la renitenza alla leva e l’espatrio clandestino). Decide per questa soluzione alla fine del 1938, e se la cava a buon mercato, con soli due mesi di effettiva reclusione. Nel maggio del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, è nuovamente un uomo libero.
Nei primi anni del conflitto Oberti risiede a Milano, dove, a quanto lui stesso afferma, svolge un’attività di intermediazione industriale (della quale peraltro non si ha alcun riscontro). L’occasione di tornare alla ribalta gliela offrono paradossalmente la caduta di Mussolini e la successiva nascita della repubblica sociale italiana nel settembre del 1943. Agli inizi dell’anno successivo rivolge al ministro della Cultura Popolare del regime collaborazionista una serie di richieste dal tono perentorio, com’è nel suo stile, proponendosi come custode dell’autentica tradizione mazziniana contro l’opera di oscuramento e di travisamento compiuta dalla monarchia sabauda. È assecondato in questo tentativo delirante da vecchi compari anch’essi ex transfughi, come l’avvocato Di Giorgio, e addirittura da ex acerrimi nemici, come Gian Gaetano Cabella, fascista della prima ora, direttore de Il popolo di Alessandria (una delle più feroci gazzette dei fasci repubblichini), specializzato in falsi (nel 1948 sarà arrestato per aver pubblicato un falso testamento di Mussolini: ma pubblicherà anche un romanzo, Dieci anni a Parigi, ispirato probabilmente proprio alle vicende di Oberti).
Per quanto confuse e velleitarie le sue richieste (il trasferimento di tutto l’archivio mazziniano da Genova in Alessandria, per sottrarlo al pericolo di bombardamenti, e l’apertura di un Istituto di Studi Mazziniani in quest’ultima città, con lui e i suoi sodali naturalmente a dirigerlo) sono in linea con il tentativo del nuovo regime di prendere le distanze dalla monarchia e di dare una legittimità e una continuità storica alla repubblica pescando nel Risorgimento, e trovano udienza. Insomma, si ripete la storia, anche se cambiano gli interlocutori, che ora sono le autorità repubblichine: Oberti è percepito chiaramente anche da queste ultime come uno spostato (nelle informative dell’OVRA sul suo periodo parigino era definito il “ragazzo semipazzo”), tanto più che ormai va a briglia sciolta e affastella un mare di proposte farneticanti per pubblicazioni (una storia d’Italia illustrata per ragazzi), per cerimonie ufficiali celebrative e rievocative (l’inaugurazione di una lapide alla cittadella di Alessandria, dove era stato imprigionato Andrea Vochieri, con tanto di divi del cinema fascista che officiano in costume), per lavori teatrali, sempre su tematiche patriottiche (una storia d’Italia raccontata per quadri scenici). Eppure alle sue stravaganti iniziative si interessano, e le appoggiano e le finanziano, persino un paio di ministri di Salò, oltre alle autorità locali (anch’esse evidentemente in gran confusione). Questo mentre nei dintorni di Genova e di Alessandria il grande rastrellamento nazifascista di primavera porta alla strage della Benedicta e all’arresto e alla deportazione di centinaia di giovani.
Tanto fervore si spegne però nell’estate del ‘44, dopo che un bombardamento su Alessandria ha coinvolto anche la sede del neonato istituto mazziniano. Oberti si eclissa. Di cosa combini da quel momento non ho trovato notizia negli archivi, ma è certo che non collabora con le bande partigiane genovesi, come invece lui stesso sostiene. Riesce poi evidentemente ad attraversare indenne il periodo post-liberazione, così che nel giro di qualche anno torna sulla scena.
Sul dopoguerra e su come la sfanga nei quaranta e passa anni successivi, a parte la breve parentesi di “convivenza” di cui ho raccontato, so soltanto quel che ho potuto trovare spulciando qualche periodico e qualche quotidiano. Frammenti che sono comunque indicativi e mi confermano quel che già all’epoca avevo intuito del personaggio.
Naturalmente Oberti è sempre in rotta con qualcuno. Dal periodico Il pensiero mazziniano (Anno VI, N. 6, 10 Giugno 1951) veniamo a sapere che “A proposito del comunicato inserito nel numero scorso in cronaca da Genova, ove è citato il dott. Stefano Oberti, questi ci scrive per contestare che l’espulsione sua dalla Sezione di Genova dell’A.M.I. (Associazione Mazziniana Italiana) sia stata allargata all’indegnità morale, oltre a quella politica)”. Sarei curioso di sapere a cosa alludeva l’indegnità morale, ma avendo potuto apprezzare da vicino la sua disinvoltura economica l’allargamento dell’accusa non mi stupisce affatto.
Quindici anni dopo la stessa fonte ci fa capire però che il nostro è stato riaccolto, tanto che «Il 7 settembre, a Parigi, l’amico Stefano Oberti di Genova ha deposto sulla tomba di Piero Gobetti un fascio di garofani rossi di Liguria: sui nastri tricolori era la scritta: “A Piero Gobetti e ai duemila combattenti antifascisti morti in esilio”. Si sono voluti ricordare, nel ventennale della Repubblica, quanti all’estero, a fianco dei repubblicani spagnoli e dei resistenti francesi, si sacrificarono per la libertà» (Il pensiero mazziniano, Anno XXI, N. 8-9, 25 settembre 1966. L’iniziativa è commentata anche su La Stampa dell’8 settembre 1966, pag. 7: Commemorati gli esuli italiani morti in Francia durante il fascismo.)
Sempre La Stampa, nella sua edizione serale (Stampa Sera, 20 luglio 1970, pag. 2: Roma deve darci le spoglie di Mameli), qualche anno dopo ci informa che Oberti ha chiesto il trasferimento della salma di Mameli da Roma al Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’umanità costruito a Staglieno. E lo ha fatto in qualità di presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli.
Nella stessa veste l’ho trovato menzionato in GRECIA (mensile di informazione della resistenza greca, Anno II, N. 10-11, ottobre 1970, Nel Pantheon degli esuli) in occasione dell’autoimmolazione dello studente Costas Georgakis. «Il nome di Costantino Georgakis è stato inciso nel Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità al Cimitero di Staglieno. La decisione stata comunicata dal presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli, dott. Stefano Oberti, alla fidanzata di Kostas, con una lettera inviata alla Casa dello Studente. Nella lettera tra l’altro, si legge: “Oggi, dopo avér attraversato quasi mezzo secolo di cedimenti e conosciuto tanti traditori, testimonio che Costas Georgakis fu un eroe, perché volle sacrificare soltanto se stesso, sottraendo ogni altra persona a lui cara agli aguzzini di oggi, di domani e di sempre. Lenito il Suo dolore, Ella ritroverà la pace dei giusti; quella che Costas Georgakis ha certamente ritrovata, morendo in esilio senza compromessi con coloro che umiliano oggi la patria di Eschilo, di Socrate e di Platone, ponendola al servizio dell’imperialismo straniero. Se può esserLe di un piccolo conforto, sappia prima di ogni altro, che, per decisione del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio combattendo per la libertà dei popoli, il nome di Costas Georgakis sarà inciso nel Panthéon di tutti gli ‘esuli invitti dell’Umanità, nel cimitero monumentale di Staglieno in Genova, accanto a quello del drammaturgo greco Eschilo, del poeta inglese George Byron e del patriota interalleato italiano Santorre Annibale di Santarosa, morti per la libertà della Grecia”».
È sempre lui. L’enfasi retorica, gli accostamenti peregrini e l’autocelebrazione recriminatoria sono tipicamente suoi. E a quanto pare è anche riuscito a realizzare, nel 1970, il Panthéon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità. Segno che qualcuno ha continuato a dargli fiducia. Tanto da riproporlo, dopo quasi altri vent’anni, come capolista in una competizione elettorale.
Contavo di trovare qualche ulteriore notizia nello scritto autobiografico Esilio a Parigi, redatto quando Oberti aveva ormai superato l’ottantina, ma tutto ciò che ne ho ricavato è l’accenno del prefatore a un eccezionale impegno del nostro per la causa del divorzio. Per il resto è una somma piuttosto confusa di ricordi, tra i quali primeggiano quelli dei sughi e delle pastasciutte, o di avventure galanti piuttosto improbabili. Unica notazione interessante: ha lavorato alle officine Renault quasi contemporaneamente a Simone Weil, ma ne ha tratto un’impressione ben più positiva. In compenso, ci ha resistito ancor meno. C’era da aspettarselo.
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Non mi sono soffermato così a lungo su questa vicenda per il suo intreccio con la mia aneddotica personale, o per quella malintesa voglia di un protagonismo tutto di riflesso che sembra essere diventata l’unica modalità di autorealizzazione (l’io c’ero, o l’io l’ho conosciuto, i selfie al funerale del papa o sui luoghi di un incidente o di un delitto, ecc.). L’ho raccontata, come dicevo sopra, perché mi sembra aprire ad alcune considerazioni di carattere più generale.
Il tema immediato cui mi rimanda è quello della memoria, e più specificamente quello della “memoria condivisa”. La memoria non coincide con la Storia (intesa etimologicamente, come narrazione dei fatti), anche se ne è uno strumento indispensabile. È una lettura della Storia alla luce di esperienze personali o collettive, vissute o tramandate, comunque sempre parziali, vuoi nei contenuti, vuoi nel punto di vista. Anche la Storia non ci racconta la verità, sappiamo che generalmente la scrivono i vincitori, ma il suo carattere di “disciplina” impone confronti e riscontri che dovrebbero, col tempo, farci approssimare almeno a grandi linee a quanto è veramente accaduto. Insomma, la Storia ci dovrebbe informare di quanto è successo, la memoria ci dice come è stato vissuto quel che è successo.
Ciò rende decisamente improbabile pensare di arrivare un giorno ad una “memoria condivisa”, mentre avrebbe un senso puntare a scrivere una “Storia” il più possibile condivisa. Quanto alla prima, è più probabile che si arrivi ad una sua perdita, che già incombe con la scomparsa degli ultimi protagonisti o degli ultimi depositari dei loro racconti. Per cui, anziché condivisa credo diverrà una memoria confusa, una nebbia entro la quale tutti i gatti saranno grigi e all’interno della quale ciascuno potrà pescare ciò che più gli conviene, e farsene bandiera (come accade oggi, ma come è accaduto anche per tutta la seconda metà del Novecento).
Il problema dunque sta a monte, proprio nel fatto che si insiste sulla memoria, che per forza di cose è partigiana, e non ci si sforza di ricostruire un po’ più fedelmente la storia. Il che vale allo stesso modo per tutte le parti in causa, ivi compresa la sinistra, così che gli argomenti che potrebbero risultare più scabrosi, che andrebbero ad intaccare alcuni miti sui quali si sono costruite le narrazioni e le rivendicazioni politiche dei diversi schieramenti, vengono accuratamente evitati.
Quanto detto sopra è perfettamente applicabile alla storia del fuoriuscitismo italiano. Dopo il libro di Aldo Garosci (Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953) scritto settant’anni fa da uno storico più che serio e onesto, ma coinvolto direttamente nella vicenda e uscitone da pochissimi anni, sembra che a nessuno importi di riprenderla, nemmeno infedelmente. Il libro non è mai più stato ristampato, è rarissimo ed è un miracolo se te lo lasciano consultare nelle biblioteche, sempre che lo si trovi. Non a caso, l’argomento trova poco o zero spazio nei programmi di divulgazione storica che vanno per la maggiore in tivù, i vari Barbero e Cazzullo, ma anche Mieli, Augias and co. Non mi è mai capitato, ad esempio, di sentir rievocare il maggio barcellonese del ‘36 e l’uccisione di Berneri. C’è un tabù che ostacola la ricostruzione “critica” dell’opposizione al fascismo: del tipo, gioca coi fanti, ma lascia stare i santi.
Il risultato di non fare mai seriamente i conti col proprio passato, con la propria storia, è quello di lasciare aperta la strada alla rilettura, naturalmente altrettanto poco obiettiva, che ne daranno gli avversari. La motivazione sottintesa (anche quando in realtà ne esistono altre meno nobili) è che non si vogliono concedere armi alla polemica revisionista: ma il non dire tutta la verità, il coprire le macchie confidando che il tempo le cancelli, non è solo fuorviante, è altresì il miglior regalo che si possa fare a quest’ultima. Perché allunga l’ombra del dubbio anche su ciò che è ormai assodato e incontestabile. È accaduto con i vari punti oscuri della Resistenza stessa, con lo stalinismo togliattiano, persino con il Sessantotto. E tanto più questo vale per ciò di cui mi sto oggi occupando. Sono trascorsi novant’anni, ma sembra non ci sia stato verso di imparare la lezione.
Lo dimostra anche un altro fatto. Alla vicenda dei fuorusciti in Francia la nostra letteratura non ha prestato la minima attenzione. Ci sono alcuni libri di memorie, anche notevoli, alcuni diari, qualche saggio, ma non c’è un’opera letteraria che abbia offerto, ai giovani e ai meno giovani, l’opportunità di incuriosirsi per questa pagina di storia. A vent’anni avevo già letto le descrizioni degli espatriati (volontari) americani, da Hemingway a Miller, o di quelli (forzati) russi come Herzen, o alcune cose di Benjamin, ma non avrei potuto trovare alcun italiano che raccontasse queste cose. E temo che chi ne avrebbe avuto magari le capacità si sia astenuto per timore (fondato, stante l’egemonia che per tutta la seconda metà del secolo la sinistra, ortodossa e non, ha esercitato sulla cultura storica) di apparire sacrilego e di essere immediatamente colpito dall’ostracismo.
Prima di proseguire penso dunque mi convenga ricordare sinteticamente in quale reale scenario si sono svolte le vicende che ho scelto di raccontare (quella di Caffi e quella di Oberti, ma già ne avevo parlato nella storia di Berneri): non credo sia molto conosciuto.
Dopo l’avvento del fascismo (ma anche prima del ‘22) ha inizio la diaspora degli attivisti e degli intellettuali di sinistra presi di mira dal regime, spesso aggrediti anche fisicamente e comunque impediti a svolgere qualsiasi attività, non solo quella politica. La migrazione verso la Francia procede a ondate, aumenta dopo il delitto Matteotti e conosce un ulteriore incremento dopo che nel 1926 vengono emanate le leggi speciali. A metà degli anni Trenta gli aderenti ai movimenti politici antifascisti ospitati in terra francese possono essere valutati in oltre diecimila, e ad essi va aggiunto un numero almeno doppio di simpatizzanti, reclutati direttamente in loco tra i migranti economici. I più attivi e i più organizzati in questo senso sono i comunisti, che lavorano soprattutto attraverso l’UPI (Unione Popolare Italiana) e dispongono anche di un organo di stampa.
Socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberali, mazziniani, massoni, ecc… confluiscono invece nella Concentrazione d’azione antifascista, all’interno della quale però ciascun gruppo mantiene la propria autonomia e ampia libertà di azione. Come a dire che poi ciascuno fa un po’ come gli pare.
Gli esuli purtroppo si portano appresso le rivalità che già avevano caratterizzato la sinistra in patria nell’immediato dopoguerra. Lo schieramento antifascista rimane quindi costantemente diviso, sia per divergenze di ordine ideologico, sia per il contrasto di tipo generazionale. Tanto che la maggioranza degli oppositori preferirà il silenzio alla militanza attiva. E le contrapposizioni sono anche accese, risentendo delle continue oscillazioni provocate a metà degli anni Trenta dal mutare delle direttive politiche di Stalin: così che quando si passa dal tacciare di social-fascismo le componenti che non orbitano attorno al bolscevismo ad incoraggiare la costituzione dei “fronti popolari”, e i comunisti entrano a far parte della Concentrazione antifascista, la convivenza si rivela da subito problematica. Ancor più lo sarà verso la fine del decennio, dopo la negativa esperienza spagnola e di fronte ai voltafaccia dell’URSS nei confronti della Germania nazista.
Quale sia l’atmosfera nell’ambiente dei fuorusciti italiani in Francia tra la metà degli anni Venti e la Seconda guerra mondiale lo si evince bene, forse ancor meglio che dal saggio già citato di Garosci, dalle Memorie di un fuoruscito (Feltrinelli, 1960) di Gaetano Salvemini. Rispetto ai compagni d’esilio Salvemini era senza dubbio un privilegiato, visto che i suoi lavori storico-giuridici gli avevano già procurata un notorietà internazionale che gli permetteva di trascorrere molto tempo all’estero, ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra, con incarichi di insegnamento nelle più prestigiose università o per giri di conferenze; mentre il suo passato di intransigente antifascista della prima ora gli garantiva credibilità e autorevolezza presso tutti i diversi gruppi. Questa condizione gli consentiva d’altro canto un punto di vista più equilibrato rispetto a quello di coloro che al di là dell’antifascismo propugnavano poi specifiche soluzioni politiche o ideologiche (primi tra tutti naturalmente i comunisti, che infatti lo avversarono costantemente).
La sua posizione è perfettamente espressa nel documento di presentazione di Giustizia e Libertà che redasse nel 1932 (ma l’organizzazione era già nata nel 1929). «Giustizie e Libertà è un’organizzazione di lotta rivoluzionaria antifascista in Italia, e raggruppa a questo scopo in Italia gli uomini di tutti i partiti di sinistra, e gli uomini fuori partito, purché di idee democratiche e repubblicane, che sono disposti a mettere a rischio la vita per la lotta rivoluzionaria contro la dittatura fascista […] Questi uomini, che in tutti i partiti e fuori di tutti i partiti formano una esigua minoranza – una vera e propria “compagnia della morte” che si batte nelle trincee più avanzate e più pericolose, non debbono rimanere in gruppi indipendenti. Debbono coordinare i loro sforzi contro il nemico comune. Debbono tenersi affiatati gli uni agli altri. Non hanno tempo e non vogliono discutere quel che sarà l’Italia dopo che la dittatura fascista sarà abbattuta.»
Quanto poco questo intento fosse comune lo si vide proprio in occasione dei diversi atteggiamenti assunti rispetto ai fronti popolari che si avvicendarono nell’Europa occidentale negli anni Trenta. L’interesse di partito veniva sempre anteposto a quello della causa comune.
Ma c’è dell’altro, ed è questo che tengo a mettere in luce. Sempre Salvemini, nelle sue memorie scrive: “La mia persuasione era – ed è tuttora – che su tre cospiratori uno è una spia; il secondo è uno scioccone, che per vanità di parere bene informato, racconta alla spia quanto sa sul terzo; e il terzo e il secondo vanno in galera, grazie al primo. D’altra parte il terzo, se non fa niente per paura dello scioccone e della spia, non andrà in galera, ma non farà niente, cioè lascerà padrone delle acque il nemico”. Ragion per cui: “bisogna correre il rischio di andare in galera, e alla fine andarci. Cioè bisogna obbedire alla legge del proprio temperamento, quanto al resto, sarà quel sarà”.
Cosa ci sta dunque dicendo Salvemini? Innanzitutto che prima di accapigliarsi su quel che sarà il futuro sarebbe bene affrontare il più possibile uniti, e provare a sconfiggere, l’avversario presente. Cosa che a leggere un resoconto sull’atteggiamento dei fuorusciti antifascisti nei due anni precedenti lo scoppio del conflitto c’è da mettersi le mani nei capelli (cfr. Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia). Divisi sino all’ultimo momento e ostinatamente decisi a farsi la guerra, come i capponi di Renzo.
Poi, che anche prescindendo dalle divisioni e dalle contrapposizioni politiche occorre tenere conto di quelle che sono le differenze umane. Che cioè non sono tutti eroi e sinceri paladini della libertà coloro che bazzicano l’opposizione, e che la bontà di una causa e l’eccezionalità della condizione di espatriati politici non è da sola una garanzia di genuinità. Dice cioè ciò che sappiamo tutti (o che dovremmo sapere): le situazioni vanno affrontate con realismo, se vogliamo darci almeno una possibilità di uscirne vincitori. E realismo non significava, nella particolare situazione in cui Salvemini si trovava ad operare, cinismo o spregiudicatezza, ma massima prudenza, discrezione, parsimonia nell’accordare fiducia. Invece “In Parigi nessuno credé necessario preoccuparsi […]. L’ambiente formicolava di spie, ma anche di persone che non capivano la necessità di tenersi in guardia dalle spie”. Persone che alla fine hanno obbedito “alla legge del proprio temperamento”, hanno cioè scelto di correre coerentemente il rischio, ma troppo spesso questa scelta l’hanno pagata cara
Realismo perciò significa anche, se applicato alla rilettura storica di quella vicenda, mettere in evidenza questa debolezza, l’autolesionismo derivante dai facili e malriposti entusiasmi che hanno da sempre caratterizzato la storia della sinistra. Se si rimuovono queste cose per non scalfire l’immagine di eroi e martiri ormai incorniciati in santini (oggi magari in poster), se si imbelletta la realtà per farla coincidere con le proprie ideologie e strategie, si ottiene l’effetto opposto: i valori etici della resistenza ad ogni forma di totalitarismo vengono affidati al mito, così come i suoi protagonisti, e questo significa imbalsamarli in una dimensione che non ha più alcuna valenza di esemplarità, perché troppo lontana dalla realtà.
Prendiamo il caso di Camillo Berneri, che è quello che conosco meglio. Se qualcosa ho amato nella sua personalità, insieme alla schiettezza e al coraggio, è la capacità di prendere atto dei tanti errori commessi per eccessiva fiducia nella lealtà altrui, senza comunque arretrare di un passo nell’impegno. Al tempo stesso però non posso negare che, al netto della fulgida testimonianza di eroismo, la lezione più importante da trarsi dalla sua vicenda sia quella dell’inutilità, oltre che dell’inopportunità, delle azioni “dimostrative” mirate (come recitava ancora il terrorismo degli anni di piombo) a “colpire il cuore dello Stato”. Si può tenere il suo ritratto nello studio, come faccio io, si può opporre la sua lucidità e coerenza, nonché tutta la complessità del pensiero anarchico, all’imbecillità, all’ignoranza e alla riduzione in slogan omeopatici che ne fanno i sedicenti anarco-rivoluzionari odierni, ma si deve avere ben chiaro che su un piano prosaicamente pratico tutto quell’eroismo non ha sortito granché.
Lo stesso realismo andrebbe poi impiegato nella narrazione dell’acquiescenza di quasi tutto il popolo italiano al regime, quella che era già denunciata, prima ancora che la guerra avesse termine, da un altro giovanissimo fuoruscito (questo in Svizzera): «Va anzitutto definito quello che si intende precisamente col termine «fascista» per colpirlo e eliminarlo inesorabilmente come realtà – insieme al vocabolo “antifascista” (troppo generico ormai e ambiguo) – dalla vita italiana. Non è mai esistita una dottrina fascista; sono invece esistiti (e esistono tuttora, ben lungi dal tramontare) una mentalità e un costume fascisti: irridenti – sul piano politico – alle nozioni di libertà, di democrazia, di dignità civile (cose degne dello “stupido diciannovesimo secolo” per gli “uomini nuovi”), e – sul piano morale – alle forme del vivere onesto, prudente, vigilato (“vecchio gioco” per chi voleva forzare gli altri a “vivere pericolosamente”). […] Da allora l’abdicazione è venuta crescendo, la responsabilità allargandosi per cerchi concentrici a masse sempre più vaste fino ad abbracciare la quasi totalità del popolo italiano. La complicità – tolta qualche voce clamorosa – è stata fatta di silenzio e d’assenso». (Ariberto. Mignoli, Epurazione, su Giovane Italia, 10 aprile 1945, n. 5).
Vent’anni prima queste cose le aveva già scritte anche Andrea Caffi, che sull’anelito degli italiani alla libertà (e alla verità) nutriva giustamente i suoi dubbi. E infatti: ancora oggi noi sappiamo tutto su I volenterosi carnefici di Hitler, e quanto alla complicità collettiva del popolo tedesco ci chiediamo se sia vero che “La Germania si che ha fatto i conti col nazismo”, ma su un sincero esame di coscienza nostro ci andiamo cauti. Tanto cauti che a furia di autocompiacerci per l’immagine artificiosa di una gente italica disposta comunque al buono e al bello stiamo già arrivando alla riabilitazione del regime.
C’entra tutto questo con le vicende parallele eppure divergenti (per cui non si incontrerebbero neppure all’infinito) di Caffi e di Oberti? C’entra eccome, perché l’accostamento riguarda solo la condivisione della condizione di fuorusciti, mentre il modo in cui questa condizione è stata vissuta dai due e quello in cui è stata recepita da coloro che l’hanno condivisa con loro mettono a fuoco piuttosto il contrasto.
Senz’altro entrambi viaggiavano in asincrono rispetto ai loro compagni di sventura: ma mentre a questa differenza di ritmo il primo cercava di ovviare con una presenza ferma e tuttavia discreta, non invasiva, anzi piuttosto elitaria, che lo faceva apprezzare da tutti coloro che lo conoscevano, l’altro la differenza la rimarcava costantemente, autoproclamandosi unico genuino custode dei valori dell’antifascismo ed entrando immediatamente in conflitto con tutti. La differenza non concerneva però solo i modi della partecipazione, il primo sempre sottotraccia, nell’ombra, il secondo amante delle celebrazioni, dei rituali, del centro della scena; riguardava anche, e soprattutto, i valori per i quali si battevano. Caffi europeista, cosmopolita, anarchico, Oberti nazionalista sfegatato, cultore del mito della patria e della nazione, legato alle consorterie massoniche, ecc.
Ora, capisco che il parallelo tra i due possa sembrare già in partenza assurdo: in effetti, pur con tutta la divertita simpatia che all’epoca della coabitazione Oberti mi ispirava, mi rendo conto che sto mettendo a confronto due livelli di umanità incomparabili. Caffi era un puro, con tutto ciò che di affascinante, ma anche in qualche misura di escludente, questa disposizione comporta. E infatti si è tenuto, ed è poi stato volutamente confinato, a margine, perché la sua intransigente purezza fissava dei parametri troppo alti. Oberti era un mitomane squinternato, e d’altro canto lui stesso confidava che “i ferri del chirurgo penetratimi mediante incisioni all’interno delle fosse nasali mi hanno scosso la cassa cranica”. Non so quanto i suoi squilibri fossero stati determinati o acuiti dalla bastonatura, sono propenso a pensare che non fosse del tutto in quadra nemmeno prima. Anche se, a scanso di equivoci, rimango convinto che pure in mezzo a tutte le sue palesi contraddizioni Oberti fosse sempre sinceramente convinto della legittimità e bontà del proprio operato (il che poi in molti casi è ancora più grave, ed è un problema comune a tanti apparentemente più coerenti di lui). Ma, ripeto, non è tanto il personaggio in sé ad intrigarmi quanto piuttosto il fatto che per settant’anni qualcuno abbia potuto continuare a prenderlo sul serio.
Li ho accomunati solo perché mi sembrano incarnare significativamente gli estremi dell’ampio spettro di modalità nelle quali la condizione dell’esule, e nella fattispecie dell’esule antifascista, poteva essere declinata. E perché giustificano le domande che Garosci si poneva a caldo nella presentazione del suo tempestivo studio: “Chi sono stati i fuorusciti? Come hanno influito sul destino dell’Italia? Si può porre un problema generale dei fuorusciti, oppure si danno problemi e soluzioni diverse per diversi periodi e personalità?” Domande cui la ricerca storica, della quale Garosci auspicava che la sua Storia fosse solo un punto di partenza, non ha in realtà ancora dato risposte soddisfacenti.
Quanto poi al motivo per cui due vicende e due personaggi ciascuno a suo modo così singolari sono finiti nell’oblio, potrebbe sembrare legato al fatto che in definitiva entrambi, sul piano pratico, hanno combinato poco o nulla. Ma questo, se vogliamo essere sinceri, vale in fondo anche per tutti gli altri loro compagni d’esilio. Io credo invece che il motivo stia per l’uno nel non aver lasciato eredi “istituzionali”, partiti, movimenti, congreghe, che avessero interesse a coltivarne la memoria, magari anche strumentalizzandola; per l’altro in una rimozione mirata a spazzare la polvere sotto il tappeto. Rispetto al quadro che della resistenza degli esiliati si voleva dare, uno ne era fuori, l’altro è stato coperto dal bordo esterno della cornice. A volte la “menzogna utile”. contro la quale si battevano tra i fuorusciti soprattutto Caffi e Chiaromonte, non ha nemmeno bisogno delle “post-verità”, può servirsi altrettanto proficuamente dei silenzi. Nel caso dei miei due protagonisti, poi, l’esclusione dalla memoria e l’assenza di una lettura distintiva non solo dà luogo ad una palese ingiustizia, ma tace una realtà, e quindi non insegna nulla.
Qui volevo arrivare. Ho forzato questo confronto, senza la pretesa di dare il minimo contributo alla ricostruzione della verità storica, semplicemente per offrire un esempio di come la melassa acritica e celebrativa finisca per appiattire o addirittura azzerare i valori, e di quanto sarebbe invece necessario operare delle distinzioni proprio per ristabilire e riaffermare la pregnanza di questi ultimi.
Al di là dei risultati concreti, infatti, rimane comunque l’importanza della testimonianza etica, in positivo o in negativo, che può essere lasciata in eredità, e che tanto più in questi tempi di carestia morale andrebbe recuperata. Proprio per questo il loglio andrebbe separato dal grano, con una ricostruzione documentata di chi ha fatto davvero cosa, e di come, e del perché. Quanto ai nostri, senza scendere ulteriormente nel dettaglio, è evidente che se Caffi apparteneva al novero ristretto di coloro che vivono sentendosi sempre in debito, Oberti è il prototipo, al di là della sua ‘stranezza’, di chi si sente sempre in credito. E tutta la vicenda racconta di come anche nei gruppi più selezionati, addirittura nei gruppi in cui la selezione la fa la sventura, questi ultimi esistono, e non sono pochi, e nella gran parte dei casi sopravvivono e hanno modo di raccontarla alla loro maniera.
Mentre i primi, come testimonia Primo Levi ne I sommersi e i salvati, le rare volte in cui scampano provano quasi rimorso per non avere seguito la sorte di chi è rimasto sul terreno.
vignetta di Mauro Biani, 2024
Riferimenti bibliografici
Per le notizie relative alla vita e alle attività di Oberti sia in Francia che Italia sono debitore soprattutto degli studi (e delle indicazioni) di: Donato D’Urso, Quando la pietà era morta. Aspetti della guerra civile 1943-1945, Bastogi libri, 2015 Donato D’Urso, Stefano Oberti, in Tuttostoria.net, 29/03/2015
Altre informazioni le ho attinte in: Emanuela Miniati, La migration antifasciste de la Ligurie à la France dans l’entre-deux-guerres: familles et subjectivité à travers les sources privées (Tesi di dottorato in Storia contemporanea discussa presso Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015) Emanuela Miniati, Antifascisti liguri in Francia. Caratteristiche e percorsi del fuoriuscissimo regionale, in Percorsi Storici, 1 (2013)
Trattazioni più generali sulla migrazione antifascista in Francia sono in: M. Franzinelli, Itentacoli dell’OVRA, Torino. 1999 Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953 Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia, in Persée pubbl. dell’École Française de Rome 1986 n. 94 (fa parte del numero tematico: Les Italiens en France de 1914 à 1940) Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoruscito, Feltrinelli, 1960 Fedele Santi, Storia della Concentrazione antifascista, 1927-1934, Feltrinelli, 1976 Fedele Santi, I Repubblicani in esilio nella lotta contro il fascismo (1926-1940), Le Monnier, 1983 Simonetta Tombaccini, Storia dei fuorusciti italiani in Francia, Mursia, 2022
Degli scritti di Oberti ho potuto consultare solo Esilio a Parigi. 1922-1943 Il ventennio fascista raccontato da un fuoruscito, Lanterna, 1984
Non Ho rintracciato Mazzini perseguitato dai Savoia (Alessandria, 1944), né Episodi della lotta antifascista, mentre presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza, Archivi di Giustizia e Libertà è consultabile Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne (Parigi, 1927?)
E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire
Nella lontana estate del 1980, il 2 agosto, partii in auto con due cari amici di buon mattino da Acqui Terme, destinazione Brindisi, per imbarcarci sul traghetto che collegava la cittadina pugliese a Igoumenitsa e poi Corfù. Passammo inconsapevoli sulla tangenziale di Bologna più o meno alla stessa ora in cui scoppiò la bomba alla Stazione. Non ascoltavamo quasi mai la radio, preferivamo le musicassette registrate da noi, a quei tempi si usavano ancora le MC.
All’imbarco a Brindisi la gente ci parlò di quanto era successo. Lo sgomento fu tanto, anche se non avevamo capito la dimensione della strage, e le informazioni a caldo erano poco dettagliate.
Noi si partiva per una vacanza di un mese intero, con quattro lire in tasca e mille idee in testa, per cui non ci rendemmo veramente conto della gravità dell’accaduto fino al nostro ritorno in Italia.
Il mio amico Dracmo (lo chiamavamo così perché era il più dotato, dal punto di vista economico, oltre che proprietario della comoda Alfasud blu che ci scorrazzava a destra e a manca) aveva registrato molte MC e garantiva musica per tutto il mese. Sentimmo per la prima volta il lato A de L’era del Cinghiale Bianco, di Franco Battiato (da ora in avanti FB). Che belle canzoni!
(FB avrebbe definito questo album musica classica per poveri, e per me resta il punto più alto della sua carriera). Il problema era che Dracmo si era dimenticato di registrare, dall’ellepì originale, anche il lato B, il più bello, con in primis Il Re del Mondo, capolavoro assoluto, Stranizza d’Amuri, in dialetto siciliano, e la formidabile Pasqua Etiope, cantata come un requiem e imperlata dal migliore assolo di oboe abbia mai sentito (mi è ignoto il musicista; Fabio Zuffanti, autorevole autore di libri su FB, mi scrisse che era un Maestro di Conservatorio milanese, ma il nome non è certo; ci sono un oboe e un’arpa, entrambi non sono accreditati e resta la mia curiosità).
Noi continuammo a sentire solo la prima facciata, oltre alle MC di altri autori che, fortunatamente, Dracmo aveva registrato su entrambi i lati. Alla fine FB ci venne perfino un po’ a nausea, sempre i soliti quattro brani. Belli, però, molto belli, di quelli che ti ronzano in testa a lungo, ancora oggi quando li risento. La prima cosa che feci, al mio ritorno a casa, fu di recarmi nel solito negozio di vinili e comprarmi in LP L’era del Cinghiale Bianco, per scoprire il Lato B, ancora più bello forse per averlo tanto desiderato. Avrei strangolato Dracmo, a quel tempo, senza provare rimorso.
Esaurito il “nanetto” personale, mi accingo a scrivere di un musicista che non fu solo musicista, ma tante altre cose, e a scrivere dell’uomo, oltre che della sua musica.
FB nel 1979 lasciò (interruppe, o modificò, questo lo vedremo dopo) la musica di sperimentazione e l’elettronica, perché decise di voler piacere a tutto il pubblico, non solo a una parte di esso. Nacquero successi memorabili, canzoni pop anche, prima con Patriots poi soprattutto con La Voce del Padrone, che vendette oltre un milione di copie in Italia, il primo album di un autore italiano a raggiungere quel traguardo, al primo posto in classifica nell’estate del 1982.
Ma in quegli anni seguivo di più la musica straniera col prog, il pop, il rock, l’elettronica, la sperimentazione, il jazz, e le canzoni di Battiato mi suonavano un po’ troppo … canzonette.
Avevo recuperato i suoi primi album sperimentali ed elettronici come Sulle Corde di Aries, Fetus, Pollution, che mi erano graditi ma li ascoltavo con un certo colpevole ritardo, perché nei primi anni ‘80 c’erano molte cose interessanti ed evolute fuori dall’Italia. Eppure, FB nel 1978 si aggiudicò il Premio Stockhausen di musica contemporanea del Festival pianistico di Brescia e Bergamo, a dimostrazione del talento dimostrato nella sperimentazione.
Lo vidi poi dal vivo con un gruppo di eccellenti musicisti negli anni Novanta, e fu un bellissimo concerto, e altre volte ancora, anni dopo, sempre accompagnato da gruppi musicali.
Non posso dire la stessa cosa invece di una serata in un teatro ad Alessandria, credo nel 2004. Cantava accompagnato da un quartetto d’archi; era seduto su una cassapanca sulla quale era steso un tappeto (persiano, suppongo). Sembrava di leggere una Selezione del Reader’s Digest: una marea di brani tutti intorno ai 2 minuti, accennati e via; dopo mezz’ora così, arrivati al Re del Mondo, (durata originale 5’33”), qui condensato in un paio di minuti, me ne sono andato incazzato in mezzo a una platea estasiata che intonava in coro i motivi delle sue canzoni, neanche fossero “sorcini” a un concerto di Renato Zero. Nessuno è perfetto.
Quello che non immaginavo e che ho scoperto dopo è che la sua musica, ad anni di distanza, mi avrebbe affascinato, compresa quella all’apparenza facile e commerciale. Lo compresi soprattutto dopo la sua morte, che avvenne nella primavera del 2021, nella sua Villa Grazia (o anche casa Battiato), a Milo (CT), alle pendici del Mongibello, l’Etna insomma. Molti anni addietro Vincenzo Mollica, noto critico musicale, gli aveva chiesto cosa avrebbe voluto lasciare di sé ai posteri, e lui rispose “un suono”. Io aggiungo anche il suo tono di voce, unico, inimitabile.
FB era nato nella primavera del 1945 a Giarre e Riposto (CT), dall’antico nome di Ionia, poco distante da Milo. Nato Francesco, tramutò il suo nome in Franco nel 1967, su suggerimento dell’amico e mentore Giorgio Gaber. La storia dice che Gaber e Caterina Caselli dovevano presentare lui e Francesco Guccini al pubblico italiano nel programma televisivo Diamoci del Tu, e per non fare confusione nei nomi, accorciarono quello del giovane siciliano.
La sua morte, incidentalmente, ha risvegliato in me la curiosità su molti suoi lavori che non avevo mai ascoltato prima, e così ho cominciato a raccogliere i CD che mi mancavano, oltre a rispolverare i vecchi vinili già in mio possesso. All’inizio con un po’ di scetticismo, io, testardo musicofilo xenofilo, poi però sempre più convinto. Non sto certo qui a scrivere cosa mi piace di più e cosa di meno, quelli sono gusti, ma, ripeto, provo a raccontarvi l’uomo.
Aveva un grande rispetto per gli altri; era inclusivo, accettava tutto e tutti; e se si lamentava di qualcosa o di qualcuno, era solo per una questione di gusto personale. Non litigava con nessuno, e nessuno litigava con lui. Ogni scambio di pareri, soprattutto in ambito lavorativo, procedeva sempre nel dialogo, e generalmente finiva a tavola. Al tempo stesso raccontano, intorno a lui, che se dicevi qualcosa che lui culturalmente non condivideva, te lo smontava ed era difficile contraddirlo, perché in genere aveva ragione. E sul palco esigeva il massimo della professionalità.
Non aveva enorme interesse per il denaro, ma se ne aveva bisogno si dava da fare; quando vide, prima de L’era del Cinghiale Bianco, che di Fetus e Pollution non si campava, decise (dichiarandolo apertamente) che era giunto il momento di fare canzoni che accontentassero il pubblico, e al tempo stesso rendessero qualcosa (oltre un milione di copie vendute di La Voce del Padrone).
Inoltre, più volte dichiarò di non allontanarsi troppo dal suo periodo elettronico-sperimentale, ma a fare la differenza dai primi album fu l’utilizzo di una costante sezione ritmica che rese più fruibile al pubblico il tessuto sonoro. Da ascoltatore quale sono, non posso che plaudire questo concetto.
Lavorava, senza problemi, ma all’ora del pranzo o della cena non voleva sentire ragioni: a tavola, da solo o in trenta, purché si mangiasse bene; era uno dei suoi piccoli piaceri nella vita. In una bella intervista, Gavin Harrison, (attuale co-batterista nei King Crimson) dice che si ritrovò in uno studio di Parigi per registrare L’imboscata, e chiese a FB come doveva affrontare un determinato brano. Lui gli rispose: suona con tono violento, e lui così fece. Quando finì il brano cercò FB per chiedergli cosa ne pensava di quella interpretazione, ma lui non c’era, era andato a pranzo. Allora Harrison chiese al tecnico del suono: ma per quanto tempo ha ascoltato la mia interpretazione? mah, rispose l’altro, forse dieci secondi. Harrison si rese conto che FB ormai lo conosceva da anni e si fidava, così lo raggiunse a pranzo e si fecero quattro risate.
Non rifiutava mai un saluto, una stretta di mano, una risposta gentile; ha concesso moltissime interviste, fortunatamente, che ci consentono oggi di conoscere meglio il personaggio.
Assorbiva l’influenza araba nella sua cultura di matrice sicula; studiò approfonditamente l’arabo, cantando anche brani in quella lingua; fece un concerto a Baghdad, poi a Tunisi e in Libano; si fece influenzare dalle sonorità medio orientali e ne trasse i migliori benefici per i suoi album.
Era un poliglotta: cantava appunto in arabo, in spagnolo, inglese, tedesco, anche per onorare gli ospiti ai suoi concerti all’estero. E in siciliano, ovviamente. E sono sempre stato incantato dal tono della sua voce. Racconta un amico di FB in una intervista un dettaglio che adoro: la madre dell’amico, sicula, diceva della voce di FB: “canta calmo, sodato”, e sodato in siciliano significa sereno. Quel tono, che proviene da dentro, e fa vibrare il senso delle parole.
All’inizio degli anni ‘90 in lui subentrò l’interesse per la pittura. La sua produzione è di circa 80 dipinti, con tecnica ad olio, prevalentemente. E ha utilizzato tre sue opere per le copertine di Fleurs, Ferro Battuto e Come un cammello su una grondaia, oltre a illustrare il libretto dell’opera Gilgamesh. I suoi primi quadri sono firmati con lo pseudonimo di Suphan Barzani, e ha esposto in varie mostre in Italia e in Svezia. Oggi i suoi quadri sono introvabili, ma, per fare un esempio, una litografia numerata in 100 esemplari l’ho trovata in vendita a oltre 2500 euro sul web. Nella pittura FB praticava una forma di autoanalisi: essendosi convinto di non essere in grado di dipingere, voleva capire il perché di questa inadeguatezza e l’unico modo era provarci con la massima dedizione fino ad ottenere un risultato decoroso. Una forma di pittura che sa di antico, lontano dai canoni moderni, e, specialmente nella forma dei visi ritratti, a mio modesto parere, con caratteristiche della pittura iconica ortodossa. E questi ritratti erano una introspezione dell’anima, seguendo i prìncipi della fisiognomica: analizzare nei volti l’anima del personaggio.
FB, insieme al vecchio amico (dai tempi della leva militare a Udine) Juri Camisasca e a Saro Consetino, giovane musicista, si recarono al Monte Athos, e dopo molte difficoltà e privazioni (di tipo alimentare), furono accolti nel Monastero di Simonos Petras e restarono estasiati alla visione delle rarissime icone così come dall’atmosfera spirituale del luogo (e da buoni pasti, finalmente).
In seguito ritornò al Monte Athos, lui, definito uomo sedentario ma con la valigia sempre pronta.
Associo in qualcosa il suo pensiero a quello di Brian Eno, uno dei miei autori preferiti: entrambi, pur piangendo un’era in cui c’è troppa omologazione e globalizzazione non sempre positiva in ogni forma di cultura, riconoscono l’utilità dei mezzi tecnologici, che aprono a infiniti nuovi mondi musicali spesso inesplorati. (Soprattutto nel campo dei sintetizzatori elettronici, perché sia Eno che FB provavano le novità non appena messe in commercio, ed entrambi erano in grado di padroneggiarle con abilità in poco tempo, creando suoni innovativi).
Estraeva il meglio da chi collaborava con lui: Alice, ad esempio, con la quale lavorerà per molti anni, e per la quale nutriva una profonda amicizia. Le concesse di pubblicare, tra gli altri, Gioielli Rubati, un album in studio con solo brani di FB splendidamente reinterpretati dalla raffinata e mistica voce della cantante. E si incontrarono spesso ai concerti, dove Alice veniva spesso invitata sul palco a proporre un cammeo con l’artista siciliano.
La canzone Un’estate al Mare, scritta da FB e Giusto Pio, lancia la straordinaria voce di Giuni Russo nella top ten italiana, dove resta ben tre mesi; una canzone semplice, ma interpretata in modo magistrale, e non sarà l’ultima per la cantante siciliana prematuramente scomparsa. La capacità incredibile della voce della Russo permetteva interpretazioni straordinarie, quasi da trifonie dei mongoli; basta ricordare Lettera al Governatore della Libia con FB.
Altra bella collaborazione con Anthony Hegarty (conosciuta soprattutto per il gruppo Anthony & the Johnsons), con la quale si esibisce dal vivo, rispolverando l’elettronica e rivisitando alcune canzoni, con un mix davvero originale dal quale poi nasce il bellissimo Del suo veloce volo.
In passato c’erano stati Milva, Giorgio Gaber, Juri Camisasca, Morgan, Lino Capra Vaccina, Carlo Guaitoli, Angelo Privitera, Il Nuovo Quartetto Italiano e altri ancora a condividere il genio di FB.
A proposito di Milva, uno degli aneddoti più belli è il seguente: FB stava curando la produzione dell’ultimo disco della “Pantera di Goro”; il tecnico del suono, Patrizio, la chiamò al telefono per invitarla a venire in studio. Al che lei non riconobbe la voce e rispose: Non conosco nessun Patrizio. FB disse, ridendo: perfetto, abbiamo il titolo del nuovo album di Milva!
Frequentava personaggi interessanti, come Manlio Sgalambro, filosofo, scrittore e poeta che per più di quindici anni collaborò ai testi delle sue canzoni. Giusto Pio, violinista, arrangiatore, direttore d’orchestra, che compose più di cento brani anche lui in un ventennio di collaborazione con FB, e altri ancora, tra cui il grande pianista Antonio Ballista. E vanno ricordati i tanti amici, tra i quali Roberto Calasso, la moglie Fleur Jaeggy, Elisabetta Sgarbi, Enrico Ghezzi, Luca Volpatti.
Al tempo stesso, nonostante tutte le conoscenze e frequentazioni, FB non era mai allineato.
Era distante dai musicisti dell’epoca, e questo suo essere diverso lo allontanava da chi con la musica faceva ideologia. Nel suo mondo, personalissimo, era riuscito ad evadere da tutti i cliché che avvolgevano la canzone. I suoi testi, circondati dall’ironia, parlano di tutto ma poco dell’amore tradizionale, poco di politica, eppure sapeva dare del “rincoglioniti” ai governanti del nostro tempo, senza distinguo e a ragione. Gli album Povera Patria e Inneres Auge, ad esempio, riflettono in alcune canzoni la sua assoluta libertà di pensiero ed espressione non politicizzata.
Ha vissuto il periodo della contestazione giovanile con un certo distacco, non accettava certe forme di inutile violenza dirette verso l’arte, verso la cultura. Diceva “preferisco il ‘68 al ‘69”, come Ionesco, che quando si sporgeva alle finestre di Parigi nei giorni dei cortei, gridava “finirete tutti notai”. Quando inizia la forma organizzata della contestazione politica, FB si tira fuori e si schiera dalla parte dell’arte. Significativa la sua frase “E poi, quando sono nella mia veranda, cosa mi frega della politica?”. Potrà suonare banale, ma solo a chi non ha capito.
Va ricordato che FB ebbe, malauguratamente, una negativa esperienza politica come Assessore al Turismo, Sport e Spettacolo dal novembre 2012 al marzo 2013 per la Regione Sicilia, sotto la supervisione di Rosario Crocetta. Fin da subito rifiutò ogni compenso, lui voleva solo fare qualcosa per la Sicilia, ma questo passo falso durò pochi mesi prima di allontanarsi definitivamente da un’ambiente che non gli competeva, e verso il quale disse “i 5 mesi più inutili della mia vita”.
Riveriva la musica sacra: la sua Messa Arcaica, incisa su disco, ma anche filmata nella Basilica Patriarcale di Assisi nel 1993, diretta da Antonio Ballista, e che si può vedere ed ascoltare gratuitamente sul web, rende l’idea del suo rispetto verso i culti, il rispetto del sacro, e le influenze assorbite dalla conoscenza delle varie religioni. Eppure non aveva un credo dichiaratamente orientato. Si considerava aconfessionale nel non voler essere cattolico, buddista o induista. Ma credente, e il Divino aleggiava sempre nella sua musica e nei suoi testi.
Anche nella lirica si distinse: opere come Il Cavaliere dell’Intelletto, poi La Genesi, con l’Orchestra Sinfonica “Arturo Toscanini” e il Coro del Teatro Regio di Parma. Il Gilgamesh, in due atti e per ultima Il Telesio, dedicata al filosofo e naturalista del XVI sec. Bernardino Telesio. La rappresentazione sul palco di questa ultima opera è in forma oleografica tridimensionale, senza attori reali, veramente sperimentale.
Era un uomo ricco di umorismo, cresciuto nei vicoli della periferia Catanese ed abituato al lazzo e allo sberleffo popolare; era pervaso di una umanità che possiede solo chi ha vissuto insieme agli altri, lontano dallo sfarzo e dalle ricchezze, nella condivisione, nell’inclusione. Sdrammatizzava ogni tensione, ogni momento di rabbia nel suo lavoro con i tecnici del suono, i musicisti, i colleghi, sempre con un sorriso, spesso con una barzelletta e una parola buona. Lo dimostrò a lungo a Milano, quando arrivò nel 1965 senza soldi ma pieno di idee. E ha sempre rispettato Milano per quello che gli ha dato, quando più ne aveva bisogno: idee, ispirazione, contatti.
A tal proposito, bello il dialogo e il rapporto con Fiorello: il conduttore radio–televisivo lo imitava spesso, e FB si rotolava dalle risate, tra i due siciliani c’era complicità e intelligente ironia.
Formidabile, dopo tante imitazioni, una intervista reale tra i due in cui si sente FB rispondere con identica ironia a quel folletto di Fiorello. La si trova sul web e vale davvero la pena sentirla.
Quante immagini ci presenta, che, siamo sinceri, non avevamo mai sentito cantare prima: la paura sulla strada di campagna di schiacciare una lucertola, lo stupore della prima goccia bianca, strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo stonasse con le piante al sole sui balconi, e cento altre immagini simili.
Come paragonare i testi di FB a quelli di altri cantanti a lui contemporanei che parlavano solo di amore o politica? Infatti non era schierato, non amava i cantautori politicizzati. In una intervista, dichiarò che non considerava utile la canzone politica, perché semplificare certi temi non aiuta la crescita; la rabbia che deriva dall’ascolto di certe canzoni distoglie da quello che è l’obiettivo principale, che può essere fare arte o semplici canzoni da intrattenimento.
«FB è il più grande, è il musicista che stimo di più. Siamo diversi, ma in questa diversità lui mi assomiglia più di ogni altro artista italiano: è “crossover” a 360 gradi, attraversa i territori musicali più lontani con grande intelligenza e restando sempre se stesso. Per essere coerenti in musica bisogna fare proprio così: smentire sempre se stessi, non avere paura di avventurarsi dove non si è mai stati, dove ci si sente malfermi, dove le proprie certezze crollano».
Lucio Dalla, un altro grandissimo e amatissimo autore italiano, afferma sopra la sua stima per FB in questa breve riflessione. Tra i due grandi della musica italiana l’affetto era sincero e motivato, e Dalla aveva una casa a pochi passi da quella di Battiato, così i contatti erano frequenti.
Interessanti anche i tour degli ultimi anni che coinvolgevano la Royal Philarmonic Orchestra di Londra; musicisti superbi, missaggi perfetti, accostamenti tra archi e sinth che solo FB poteva amalgamare in modo eccelso. Le collaborazioni con musicisti stranieri erano selezionatissime: il già citato Gavin Harrison, Jakko Jakszic, John Giblin, David Rhodes, Simon Tong e altri ancora ne certificano il livello. Così come, dall’anno 2000 in poi, la scelta di registrare in studi diversi, in città diverse. Lui lo motivava col fatto che si sentiva ispirato in modo diverso, assorbiva gli umori di Parigi o Londra e li metteva nella sua musica. I suoi tecnici invece erano contenti perché nel solito studio italiano era un via vai di amici, invitati o autoinvitati, con ricchi cabaret di paste e bignè alle quali FB non sapeva mai dire di no, e che “rubavano” un sacco di tempo al lavoro.
Una delle caratteristiche che prediligo dell’autore è la sua originalità musicale: non c’è nessuno, in Italia e all’estero, che gli somigli nel mondo della canzone; ma è senz’altro di ispirazione per tanti.
Fu autore di numerosi libri, non necessariamente musicali, ma che affrontano soprattutto le domande sui misteri della vita e sulla religione. Non sono libri di facile lettura, ma tra questi ricordo: In fondo sono contento di aver fatto la mia conoscenza, libro abbinato al film Niente è come sembra, in cui si parla del mistero dell’esistenza, e del rapporto tra atei e credenti, e si parla di cinema. Produsse nel 2003 il suo primo film, dal titolo Perduto Amor, che ha caratteristiche autobiografiche ed ottenne un decorosissimo successo. Un secondo film è del 2005, Musikanten, un film particolare, imperniato sulla figura di Beethoven. So poco di questi lavori, e non sono un conoscitore del cinema come lo sono invece della musica moderna, ma Perduto Amor fu molto apprezzato anche da un critico esigente come Enrico Ghezzi, e Musikanten vide la straordinaria interpretazione di Jodorowsky nella parte di Beethoven.
Degno di nota il docufilm La sua figura, dedicato a Giuni Russo del 2007, scomparsa prematuramente nel 2004 a 53 anni, con filmati di concerti ed interviste inedite. Importante anche Auguri Don Gesualdo del 2010, sulla figura dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino.
Alcuni sostengono che la famosa canzone La Cura sia dedicata a lui.
Realizzato da altri ma incentrato sulla figura di FB il docufilm Temporary Road – (una) Vita di Franco Battiato, del 2013 diretto da Giuseppe Pollicelli e Mario Tani. Si tratta di una raccolta di interviste e filmati, anche dietro le quinte dei concerti, che permettono di analizzare la carriera di FB e i legami con la sua ricerca interiore.
Vanno ricordati anche due lavori teatrali: Baby Sitter del 1977, una interpretazione ironica e provocatoria di un certo underground del tempo, e Gli Schopenauer, opera poco conosciuta. Una “piece teatrale sul pessimismo, cioè una contraddizione”, come la definì Manlio Sgalambro.
Tornando ai libri, vanno ricordati Il silenzio e l’ascolto, poi Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, poi Attraversando il bardo e infine Lo stato intermedio.
Statua in bronzo di Dalla e Battiato a Milo (CT).
FB ha assorbito l’influenza di Gurdjeff sul suo essere, ma prima aveva già imparato a meditare; la sua conoscenza delle culture orientali gli permetteva di sentire necessaria, ogni giorno, una breve o lunga pausa di meditazione, per raccogliere il pensiero, per calmare l’animo, per riprendere più ispirato. Era un’abitudine che praticava da decenni, in genere nel tardo pomeriggio, e nessuno gliela avrebbe tolta fino alla fine dei suoi giorni. Penso fosse un tipo di meditazione personale, sviluppata col tempo e l’esperienza, e adattata al proprio respiro. Certo, il Sufismo gli era di grande ispirazione; all’interno della religione islamica, è una forma mistica la quale, attraverso l’ascetismo, la contemplazione e la meditazione, rende il credo religioso più profondo e intimo, e non limitato, come in molti casi dell’Islam moderno, al semplice e pedissequo rispetto delle leggi coraniche. In sostanza, il Sufismo potrebbe essere un antidoto contro l’integralismo, e penso che ce ne sarebbe bisogno ai nostri tempi.
La famosa canzone I Treni di Tozeur abbraccia il Sufismo; Tozeur è la prima vecchia oasi in Tunisia, dove il Sufismo era nato e aveva proliferato. Il pensiero di Gurdjeff, che non è poi così lontano dal Sufismo, si adatta all’Occidente, e FB lo fa immediatamente suo.
Un vecchio detto in campo musicale (e non solo) è: “don’t meet your heroes”; a volte, un musicista, un attore, uno scrittore idolatrato, quando lo si incontra finalmente di persona lascia a desiderare, delude caratterialmente. Gente strana, piena di sé o chiusa in se stessa, problematica in alcuni casi; oppure si tratta di una situazione inopportuna, e il nostro eroe è insofferente.
L’ho provato di persona con un musicista inglese da me idolatrato, una grande delusione, ma FB lo avrei incontrato davvero molto volentieri, e ne avrei sicuramente tratto beneficio.
Ci furono occasioni in cui si presentò l’improvvisazione, e non si ritrasse. Ad esempio, nella basilica di Monreale, con il suo bellissimo organo. Un enorme organo a più piani con le sue altissime canne che si perdono in alto tra le volte barocche e i marmi lucenti. Ma nessuno poteva toccare lo strumento, era vietatissimo dalla Curia. Allora, con la faccia di bronzo che FB sapeva tirar fuori al momento opportuno e la collaborazione di un amico fedele, si presentò al custode in veste di musicista americano espatriato dalla Sicilia da tempo. Usando un improbabile accento ameri-siculo, scongiurò il guardiano di fargli provare l’organo. Si accordarono per il pomeriggio successivo di una caldissima estate Palermitana. FB e l’amico portarono un tecnico, con un registratore Revoxa bobine, ma il giorno dopo, nella calura del primo pomeriggio, dopo solo venti minuti di sconvolgimento di tasti e canne urlanti, svegliarono un qualche prelato o vescovo sonnecchiante, che intimò al custode di far cessare lo scempio. Ad onore di Franco, a infamia del prelato. L’avessero lasciato fare, oggi avremmo interamente quel nastro.
Una delle sue canzoni più belle, e più famose, è certamente La Cura; questo brano nasce come un singolo, e poi viene inserito nell’album L’Imboscata del 1996, ripetutamente eseguito sul palco e nelle successive incisioni dal vivo. Scritta con Manlio Sgalambro, viene definita la più bella canzone d’amore degli ultimi anni ma, a mio parere (e non solo mio), l’amore descritto non è certo quello tradizionale. Ad ascoltare con attenzione, il testo sembra dedicato allo stesso musicista, perché ciò di cui ci si “cura” nel testo, è ciò di più gradito a FB. Ognuno è libero di dare a questa bella canzone (ma non la più bella di FB) l’interpretazione che preferisce.
Verso la fine della sua carriera, si dedicò a un piacere personale, un vecchio desiderio: cantare le canzoni di altri autori a lui gradite, in modo personale. Nacquero così i tre album Fleurs, in cui FB porge, col suo elegante modo e tono, un omaggio agli autori da lui cantati. Non sono lavori da me particolarmente amati, preferisco ascoltare i brani creati da lui, ma sono solo gusti.
Nel 2013 concluse il suo più grande progetto cinematografico, un film su Händel, che riteneva immenso musicista e libero genio, dal titolo Händel. Viaggio nel regno del ritorno. Un kolossal, già pronto e con un cast prestigioso. Come da sue abitudini, prima di realizzarne la regia studiò 3 anni la musica di Händel, leggendo 94 libri sul musicista. Il film non è mai uscito, nessuna casa cinematografica ha accettato la sfida, e questo per FB è rimasto il sogno nel cassetto.
Juri Camisasca, forse l’amicizia spirituale occidentale più intensa nella vita di FB (Camisasca fu musicista, poi per otto anni monaco benedettino poi di nuovo musicista), in una bellissima intervista, racconta che a suo parere negli ultimi anni l’amico si era avvicinato all’orizzonte culturale della Chiesa cattolica, ma solo nella sua essenza mistica. Aveva a lungo seguito e amato la cultura tibetana e l’aveva apprezzata nella sua forma così differente, frequentando monaci tibetani in Toscana, viaggiando in India, Nepal e Tibet, fino ad arrivare all’incontro col Dalai Lama.
Ma negli ultimi tempi non era più, come in passato, un convinto aconfessionale, un sincretista, un areligioso, ma approcciava al mondo dello spirito secondo i canoni dell’apofatismo. Non parlava mai di Dio perché il mondo dello spirito, il mondo divino non si può esprimere a parole. E il significato della parola “mistico”, da lui molto amata, spiegava il concetto: mistykos in greco significa misterioso, e deriva damyein che significa tacere.
Inoltre, FB fin da giovane ha molto meditato sul tema della morte, vista come una nuova apertura a possibilità infinite nel mondo dello Spirito, ci si è preparato a lungo e non l’ha mai temuta come un pericolo, ma come una nuova forma di creatività. E ha descritto questi concetti in un docufilm dal titolo Attraversando il Bardo. Sguardi sull’Aldilà.
E come tacere la grande passione di FB per i libri, come tutti noi. Al punto, nel 1985, di accettare la proposta di Henry Thomasson (allievo di Gurdjeff, e in seguito maestro di quell’insegnamento) e Francesco Messina (fotografo, grafico e musicista) di collaborare per provare a introdurre in Italia libri importanti. È cosa nota che alcuni capolavori sono arrivati in lingua italiana con secoli di ritardo (su tutti Siddhartha, scritto nel 1922 e pubblicato in Italia per la prima volta nel 1975 da Adelphi). I tre idearono la casa editrice L’Ottava, distribuita da Longanesi, cominciando con due titoli mai tradotti di Gurdjeff, poi altri 12 titoli rari. Non erano libri per tutti, e non erano destinati a tutti, ma colmavano delle lacune editoriali importanti nel panorama italiano.
Infine la Sicilia. Era il suo embrione. Lui ringraziava Milano, per quello che aveva imparato, per quello che negli anni giovanili gli aveva dato. E rispettava tutti i luoghi in cui era stato, a cantare o studiare, per tutti aveva un commento gentile. Ma negli ultimi anni era tornato ad abbeverarsi alla fonte. Il clima di Milo, la vista sul Mongibello e sul mare in lontananza, le antiche abitudini, la mitezza del clima pedemontano e la vicinanza di una città Mediterranea, di lontanissima influenza orientale. La cucina di casa. La veranda in giardino. Le lucertole che attraversano la strada …
Insomma, questo uomo che cominciò con le canzonette, poi passò all’elettronica, poi tornò alle canzoni elaborate, alla musica sacra, alla Lirica, e poi ancora alle canzoni, il cinema, i libri, ha operato un mare di cambiamenti dettati dal desiderio di innovazione, personale e musicale, sempre ricco di geniali illuminazioni e destinato a durare nel tempo.
Alla fine di queste quattro semplici righe, posso dire che, grazie a Francesco, detto Franco, qualche volta anche io ho trovato l’alba dentro l’imbrunire, e di questo gli sono immensamente grato.
Minima bibliografia suggerita
Per un primo approdo, Franco Battiato. Camminando con le aquile – David Nieri. Un libro semplice e breve ma che permette di avere una prima apprezzabile visione.
Anche il valido omaggio che la rivista a fumetti Linus del suo amico Igort fece a FB nell’estate del 2021 con un numero speciale è meritevole di attenzione, soprattutto per una bella intervista (sebbene interrotta e mai completata) che il musicista rilasciò a Elisabetta Sgarbi nel 2012.
Per un’analisi profonda, anche fotografica, attraverso le interviste a colleghi, collaboratori e amici, L’alba dentro l’imbrunire – a cura di Francesco Messina e Stefano Senardi. È il lavoro più completo e esaustivo si possa leggere, perché è proprio grazie a chi ha conosciuto, vissuto, collaborato e gioito e scherzato con Franco che si ricavano le informazioni più vere del grande autore siciliano.
Per la discografia, Franco Battiato: Tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019 – Fabio Zuffanti. Questa è una enciclopedica descrizione di tutta la produzione di FB, utile – anche – ai completisti.
Discografia suggerita
La vastità e la varietà della produzione di FB rende problematico stendere questa lista. Proverò a indicare le mie preferenze, per quel che valgono, tacendo molti altri lavori di mio gradimento.
Il periodo iniziale, elettronica e sperimentazione: – Fetus – 1972 – Pollution – 1973
Periodo dal1979 alla fine degli anni ‘80: – L’era del Cinghiale Bianco – 1979 – La Voce del Padrone – 1981 – Orizzonti Perduti – 1983 – Mondi Lontanissimi – 1985 – Fisiognomica – 1988
Dagli anni ‘90 ad oggi: – Come un Cammello in una Grondaia – 1991 – Caffè de la Paix – 1993 – L’Imboscata – 1996 – Ferro Battuto – 2001 – Il Vuoto – 2007 – Inneres Auge – 2009 – Joe Patti Experimental Group – 2014
Dal vivo e raccolte: – Giubbe Rosse – 1989 – Del Suo Veloce Volo – 2014 – Anthology: Le Nostre Anime – 3 CD – 2015
Un polpo è, in primo luogo, un animale dotato di un grande sistema nervoso e di un corpo attivo e complesso. Ha cospicue capacità sensoriali e straordinarie potenzialità comportamentali. Mostra nella sua interazione con il mondo uno stile opportunistico ed esplorativo: è curioso, accoglie le novità, e si dimostra proteiforme non solo nel corpo ma anche nel comportamento.
Questi aspetti ricordano caratteristiche che molti studiosi associano alla coscienza sia umana che di alcuni animali più vicini a noi come prestazioni intellettive.
Queste caratteristiche hanno sicuramente colpito l’immaginazione e la fantasia degli umani dalla notte dei tempi, tanto da far arrivare fino a noi varie prove di questo sia in rappresentazioni figurative su substrati diversi, sia attraverso scritti e documenti vari. E questo in culture anche molto lontane fra loro, ma accomunate dalla conoscenza della specie e delle sue peculiarità, sicuramente prima fra tutte, quella della sua importanza come cibo.
Vaso di terracotta miceneo con polpo stilizzato, XII-XI sec. a.C.
Brocchetta di Gurnià esposta al Museo archeologico di Creta, XVI sec. a.C.
Abbi la mente del polpo policromo che tale appare quale lo scoglio sul quale vive. Teognide, poeta greco IV – V sec. a.C.
Onkia siracusana, Testa di Aretusa / Polpo, 430 a.C:
Mosaico Pompeiano con fauna marina tra cui spicca un polpo che preda un’aragosta, II sec. a.C.
Stampa del Kraken, 1800 ca
Ario Maru stava passeggiando sulla spiaggia, perso nei propri pensieri, diretto a Kikai-jima alla ricerca del suo maestro in esilio Shunkan, quando venne attaccato da una piovra gigante. Stampa di Kuniyoshi (datata al 1833-35)
Tra polpi e pesci blu
amo stare più tra polpi e pesci blu che non ove stai tu
Ringo Star nell’Octopus’s garden. The Yellow Submarine parcheggiato dietro uno scoglio
Polpo nel suo giardino
forme eteree nel giardino del polpo vite cerulee
La mia personale storia con i polpi cominciò quando, ragazzino, nei primi anni Sessanta, mi mettevo maschera e pinne e, tra gli scogli di Capo Linaro a Santa Marinella, armato di tridente, mi sforzavo, stante la mia precoce miopia, di scovare l’elusivo e mimetico polpo sul fondale.
Era questo la preda preferita dei miei cugini più grandi e speravo di contribuire anche io a procurare cibo molto apprezzato per i miei parenti, nella casa al mare di mio zio. Con esiti minimali, a dire il vero.
Ma fu in quegli anni che mi innamorai del mare e capii che ero più portato alla osservazione e allo studio che non alla predazione.
Da più grande, verso i 18 anni, cominciai a esplorare il mondo subacqueo con le bombole e ebbi modo di conoscere meglio anche i polpi, trovandone a volte esemplari piuttosto grandi rintanati con aspetto guardingo, intenti, come scoprii in seguito, a custodire e accudire le loro preziose uova.
In quel periodo, avevo ancora un atteggiamento predatorio, per cui ogni tanto ne prendevo uno a scopo alimentare.
Un po’ mi stupiva il fatto che molte volte i polpi non scappavano, anzi allungavano un braccio come a volermi di proposito toccare, per palparmi, “sentirmi”, conoscermi. E si facevano acchiappare abbastanza agevolmente.
Parecchi anni dopo ho realizzato che il loro era un approccio amichevole e che io avevo in realtà tradito la loro fiducia.
Questa constatazione mi rese decisamente poco fiero di me e da allora ho scelto di non cacciare e non mangiare più deliberatamente il polpo.
D’altro canto, con ulteriore senno di poi, occorre anche tener presente il fatto importante della scarsa durata della vita polpesca: uno, massimo due anni nel vulgaris. Dopo la riproduzione, un polpo maschio declina in modo molto rapido, letteralmente disfacendosi. La femmina un po’ meno rapidamente, a causa dell’accudimento della prole, con un ritardo di due o tre mesi rispetto al maschio.
Questo può far riconsiderare l’eticità del pescare e mangiare carne di polpo, quantomeno degli adulti di grossa taglia, che altrimenti potrebbe finire per alimentare i decompositori.
Un elenco, non esaustivo, di caratteristiche (molto) particolari del polpo
Occhi differentemente evoluti, ma simili a quelli umani.
Otto braccia ognuna con due file di ventose in grado di ricevere sensazioni tattili, fisiche e chimiche e di attaccarsi con forza a materiali di diversa consistenza.
Differenti sistemi di movimento, di cui uno molto rapido a reazione-jet che fa uso di sifone e mantello.
Vita breve, non più di due anni nell’Octopus vulgaris.
Forti capacità mimetiche e imitative, sia di colori che di forme.
Capacità disorientanti verso i predatori, tramite l’inchiostro.
Bocca munita di becco corneo, in grado di rompere gusci di molluschi e corazze di crostacei.
Presenza di veleno, in alcune specie molto tossico.
Cervello complesso, diffuso nelle 8 braccia e centralmente.
Corpo interamente molle e capacità di passare attraverso fori di diametro poco superiore a quello dei propri occhi.
Rigenera facilmente le braccia perse nel corso di lotte.
Carni molto appetite dagli esseri umani e non solo, in varie parti costiere del mondo.
I neuroni degli invertebrati sono spesso raggruppati in numerosi gangli, masserelle nervose sparse nel corpo dell’animale e connesse le une alle altre. Il polpo ha un cervello “centrale” intorno all’esofago e 8 minicervelli più piccoli ognuno in un braccio. Braccio che possiede una certa autonomia motoria e di camuffamento, ma è anche soggetto a coordinazione centrale.
Suddivide l’ambiente in oggetti che possono essere reidentificati molto velocemente nonostante i continui cambiamenti nel suo modo di presentarsi e di camuffarsi.
I polpi sono intelligenti in quanto curiosi e flessibili; sono avventurosi e cacciatori opportunisti, ma anche obiettivi molto ambiti da molti predatori diversi. Devono per questo operare un attento equilibrio tra strategie opposte di attacco e difesa.
Polpo che imita una murena, sua acerrima nemica
Schema evoluzionistico semplificato
Il polpo ha un tipo di “incarnazione” della mente diversa dalla nostra, di una qualità talmente insolita da non corrispondere a nessuna delle consuete prospettive che si vedono negli altri animali.
In effetti vive al di fuori della comune separazione tra corpo e cervello-sistema nervoso.
Un polpo, tra l’altro, può in un certo senso vedere anche con la propria pelle e questo è alla base degli adattamenti repentini al mimetizzarsi in ambienti differenti, sia cromaticamente che morfologicamente.
Il polpo è pertanto quanto di più vicino ad una intelligenza aliena, pur facendo parte del nostro stesso pianeta.
Riuscire a stabilire un contatto intellettivo, una comprensione, un linguaggio comune, rappresenta una sfida eccezionale per l’intelligenza umana. Che in genere si muove lungo binari prestabiliti, soprattutto concependo il linguaggio essenzialmente come suoni o come segni grafici.
Col polpo, come del resto con altri animali, invece valgono altri piani comunicativi, che ci sono stati in parte suggeriti nel commovente documentario Il mio amico in fondo al mare, premio Oscar 2021.
In esso il protagonista, un documentarista sudafricano, racconta la propria esperienza di frequentazione subacquea con una polpessa lungo il corso di circa un anno, che sfocia in una relazione emotiva ed affettiva reciproca e, a suo modo, intensa.
Al di là dell’indubbio bias legato agli aspetti di attrattività emozionale ricercati ed evidenziati ad arte nella trama del filmato, si colgono elementi di “iniziativa” polpesca che risultano sorprendentemente simili a quelli comunemente presenti in specie a noi più vicine quali cani e gatti. E che ci fanno appunto riconsiderare in modo più accurato la nostra supposta conoscenza di questi esseri viventi.
Infatti, soprattutto presso i pescatori, il polpo non gode di buona fama, essendo considerato un animale un po’ tonto, che invece di scappare, molto spesso si avvinghia al braccio o alla mano del pescatore, infliggendo segni della forza succhiante delle ventose o, molto più raramente, morsi del becco corneo, piuttosto dolorosi.
Inoltre, è considerato una preda relativamente facile da pescare, sfruttando la sua curiosità col metodo della zampa di gallina, o il suo desiderio di tana e ripari lisci, mediante vasi di argilla. Poi, può tirare getti di inchiostro, sporcando i vestiti o le membra di chi lo pesca.
Tutt’altra realtà ci viene dai resoconti delle organizzazioni ove si praticano ricerche sulla specie.
Evidentissimi sono i segni di intelligenza osservati in alcuni polpi, sia in cattività che in natura – per esempio la risoluzione di problemi, l’uso di strumenti, l’esplorazione di oggetti, il gioco.
Ma anche scherzi e dispetti, o viceversa manifestazioni di simpatia nei confronti di umani addetti al loro mantenimento in cattività, che vengono riconosciuti individualmente, anche con abiti diversi.
Altra peculiarità, in apparenza contraria all’instaurarsi dell’intelligenza, è la scarsa vita sociale dei polpi. Essi conducono infatti una vita piuttosto solitaria, con poche interazioni, prevalentemente di tipo conflittuale, con propri simili.
Ma anche se i polpi non sono molto sociali nel senso consueto del termine – ovvero nel senso che comporta passare molto tempo con altri polpi –, il loro coinvolgimento con altri animali in qualità di predatori o prede è, in un certo modo, “sociale”, ovvero li costringe a escogitare strategie di sopravvivenza, sia di difesa che di aggressione.
Polpo nella noce di cocco a metà
Tutti questi aspetti dello stile di vita dei polpi sono probabilmente effetti della loro lunga storia evolutiva e sono alla base dello sviluppo del loro grande sistema nervoso, dei loro comportamenti complessi e della loro concentrata e incredibile capacità di imparare in una vita di così breve durata. Da tutto questo emerge un sentimento di meraviglia e ammirazione verso un animale comunemente sottovalutato e largamente incompreso. La decisione di continuare a considerarlo soltanto un cibo ricercato e prelibato è chiaramente facoltà di ciascuno, con le proprie valutazioni personalissime.
[1] Biologo ex ricercatore ENEA, fabio0457@fastwebnet.it
Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).
Ci sono arrivato per gradi, anche se gli indizi erano evidenti. A Bogliasco qualcuno lascia libri sulle panchine, nei luoghi di passaggio dei turisti che scendono dal treno. Nessun nome, nessun progetto organizzato di booksharing. Solo misteriose ed eterogenee proposte di lettura. Solo dopo un po’ ho capito che al centro di questa ragnatela organizzata di doni sta il negozio del vetraio. Appena fuori dal negozio, al coperto, è posto il punto di raccolta dei libri. Anonimi donatori scaricano lì le biblioteche del nonno defunto e se ne vanno. Lui raccoglie, mette a disposizione e distribuisce per il paese, attento soprattutto a farsi trovare da chi viene da fuori. L’ultima volta ho trovato un Pennac, ma anche libroni di storia, un tomone sulla storia del fumetto italiano, un Conrad. Con il vetraio ho parlato solo una volta. Sapevo già cosa mi avrebbe detto. Da allora mi sento un po’ complice della sua impresa. Quando penso a Bogliasco penso spesso a lui e alla sua instancabile missione, che ai miei occhi nobilita la comunità di cui fa parte. Tutto questo per riflettere sulla forza potente del dono, inteso in tutte le sue accezioni possibili. Dono può essere un libro, ma anche un’occhiata d’intesa, un sorriso, una parola non detta, una parola detta. Sempre più mi convinco che siamo come gli alberi: apparentemente separati, ma in realtà connessi da una sotterranea rete micorrizica che ci tiene costantemente in contatto e ci nutre – anche a nostra insaputa, anche a nostro dispetto – e che fa di noi comunque foresta, anche se ci pensiamo deserto. In questo tempo in cui la linea della sabbia sembra avanzare inesorabile, mi aggrappo a questo pensierobambino come un talismano. Sempre e comunque accanto a noi – silenziosi, invisibili, organizzati – sono in azione i vetrai di Bogliasco.
Giulia Nelli, Quando gli uomini avevano le radici (collant su tela)