Il rumore del maglio

di Giuseppe Schepis da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

Prima metà degli anni quaranta. Una notte di tarda primavera, un campo ai margini di un paesino del sud. Un bambino, l’acqua fino alle ginocchia, i piedi nella mota di un piccolo canale, aziona la paratia di una chiusa. Ha sonno, e brividi di freddo gli percorrono il corpo. Pensa che tra qualche ora potrà asciugarsi, correndo per i sei chilometri che lo separano dalla scuola. La scuola è il luogo che ama più di ogni altro; lì, almeno per un po’, dimentica i campi, il lavoro, la severità della famiglia, e apprende cose che lo affascinano. Il bambino è molto sveglio, ma gracile nel fisico, piuttosto piccolo di statura, forse per caratteristica ereditaria, forse per la cattiva alimentazione. Durante le notti passate ad irrigare attende trepidante il sole, che venga a liberarlo dall’umidità e dal sonno. Ma nel frattempo contrae la malaria che lo accompagnerà coi suoi postumi per tutta la vita.

Dieci anni più tardi, una sera d’inverno, nell’estremo lembo della Calabria. Un ragazzo lavora alla macchina per la spremitura, in un oleificio. Deve raccogliere il prodotto dopo il primo passaggio e ripetere l’operazione una seconda volta. Le olive già macinate formano una poltiglia densa e fredda. Il ragazzo ha le mani gelate, è stanco per i turni di lavoro massacranti, fino a diciotto ore giornaliere. La paga è misera, ma è assolutamente necessaria. Il padrone fornisce anche pranzo e cena. Il menù è costante: un’aringa salata e mezza pagnotta, appena sufficienti a calmare lo stomaco. Tutto questo dura, anno dopo anno, dall’autunno alla primavera; ed è già una fortuna un lavoro del genere, altri non hanno nemmeno questo. Ma il ragazzo preferisce un’altra occupazione, nella quale diventa sempre più abile: la potatura degli alberi d’ulivo. In questo lavoro la sua struttura fisica diventa un vantaggio, ed egli passa di ramo in ramo con facilità e leggerezza. Assapora, lassù, un po’ di quella libertà che gli è sempre stata negata. Ama il sole e il clima mite della stagione della potatura: vivrebbe – potendo – sempre così, sugli alberi, lontano dalla terra, libero.

Inizio anni sessanta. Una notte di fine ottobre. Un giovane cerca di prendere sonno nella sala d’aspetto della stazione di Aosta. È arrivato qui nel primo pomeriggio dello stesso giorno. Ha viaggiato per quaranta ore, con la speranza di un lavoro migliore, meno inumano di quelli cui è stato costretto fino ad ora. Ha saputo da conoscenti che qui, ad Aosta, c’era possibilità di trovare ciò che cercava, ed è partito senza indugi col solo peso di pochi indumenti stipati in una valigia. Ma ora il peso è come moltiplicato: quel lavoro qui non esiste, ed egli è solo, nella sala d’aspetto. Riesce a sentire soltanto il battito accelerato del proprio cuore. Attende un altro treno, per un’altra grande città del nord dove vivono alcuni parenti. È l’ultima speranza che gli rimane, e ci rimugina sopra mentre, insonne, fa dondolare le gambe stanche e fissa le cuciture della scarpa sinistra, sul punto di cedere.

Ottobre 1966, una fabbrica metalmeccanica nel triangolo industriale. Un operaio lavora ad una pressa per lo stampaggio di elementi per termosifoni. Ogni quindici secondi si ripete l’infernale rumore del maglio, ma al reparto presse le macchine sono più d’una, e i loro colpi si succedono con una frequenza elevatissima. L’operaio deve fornire lamiere alla macchina e vigilare che questa non dia alcun colpo a vuoto. Continua così per dieci ore al giorno. Quel mattino all’operaio si è slacciata una scarpa, ed egli si è soffermato a riallacciarla proprio mentre passa il padrone. Questi lo investe subito con una raffica di parole che lo colpiscono come sferzate in pieno viso.

– Beh, cos’è che fai lì, eh? Qui bisogna lavorare, non si può mica fare gli scansafatiche come fai te! Tirati su e torna alla macchina, che la prossima volta che ti trovo a fare niente ti spedisco via. Sai quanti ce ne sono fuori dai cancelli che vogliono il tuo posto? magari lavorano anche meglio di te! Dai! Dai! Lo dico sempre io, a voi bisogna sempre tenervi d’occhio, se no uno si trova a ramengo in un attimo. Che razza di lavativi! Il pugno di ferro ci vuole con voi, il pugno di ferro. –

Umiliazione e rabbia. Non riesce a provare altro. Stringe i pugni senza potere dire nulla, bloccato dall’emozione e dalla paura di perdere il posto; gli occhi bassi, sulle scarpe del padrone, nelle orecchie il rumore del maglio ripetitivo, assordante, ossessivo. Pensa al suo bambino di pochi anni e si ripete che non dovrà subire le stesse cose, che dovrà avere una vita migliore.

Primi anni ottanta. Sono gli ultimi giorni che precedono le ferie d’agosto. Un saldatore lavora alla realizzazione di una carrozza ferroviaria. La maschera lo fa sudare mentre brucia alla luce irreale dell’arco un grosso elettrodo. Il lavoro è ripetitivo e non richiede alcuna concentrazione. La mente rimane libera, ma è occupata a pensare a quanto ha sentito dire il giorno prima. C’è crisi, quindi c’è un esubero di personale: quelli come lui, sui cinquanta, rischiano. Se lo licenziassero, dove troverebbe un altro lavoro, alla sua età? Alle sei esce dalla fabbrica e sull’autobus che lo riporta a casa non riesce a pensare ad altro: in famiglia è il solo a lavorare. La notte prima non è riuscito a dormire neanche un’ora, questa notte chissà.

Ottobre 1990. In una fredda mattinata autunnale un giovane appena laureato attraversa a piedi la città in cui è nato ed ha sempre vissuto. Si reca all’ennesimo colloquio, nella speranza di un’assunzione. L’aria gelida gli penetra nelle narici, ma il pensiero si scalda all’idea delle possibilità che un lavoro gli schiuderebbe. Entra negli uffici dell’azienda che lo ha convocato e viene ricevuto direttamente dall’amministratore unico. È l’uomo alle dipendenze del quale potrebbe domani lavorare. Sui quaranta, piuttosto basso di statura, ha un’ampia fronte e occhi furbi ma sfuggenti. L’atmosfera dell’ufficio è ovattata, tutto appare lucido ed asettico, dalla porta filtra soltanto un sottile ronzio di computer e ogni tanto il trillo dei fax.

Il giovane comincia a percepire uno strano rumore, che non proviene dall’esterno, ma nasce dentro la sua testa: un rumore lontano, indistinto. L’amministratore inizia a parlare sfoderando un tono professionale ammorbidito da una condiscendente cordialità. – Vede, noi cerchiamo una figura professionale in grado di affrontare sia problemi tecnici che moduli di gestione delle risorse umane. Oggi, come lei saprà, il concetto di “qualità totale” presuppone – anche per le medie aziende come la nostra – il controllo completo del processo produttivo e degli operatori ad esso legati. Il massimo rendimento di questi ultimi è la condizione senza la quale la competitività dell’azienda entra il crisi. In sostanza, lei dovrebbe lavorare alla diminuzione dei tempi di ogni singola lavorazione e all’ottimizzazione del rendimento di ogni singolo operatore. Ma il giovane sente, mentre l’altro parla, crescere il rumore nella sua testa ed inizia ad esserne seriamente infastidito: ma non riesce ancora a distinguere di che rumore si tratti. L’amministratore continua.

– Il segreto sta nell’attuare un processo produttivo che non consenta ai singoli individui in esso coinvolti alcuna distrazione, in modo da sfruttare al massimo le ore di lavoro retribuite. Vede quella foto? È mio padre, il fondatore della ditta. Lui non aveva studiato economia, anzi, non aveva studiato per niente: ma aveva capito, sia pure in maniera un po’ rozza, come si deve guidare un’impresa. Per il bene di tutti, si capisce, dal dirigente fino all’apprendista. “Il pugno di ferro, ci vuole!” Diceva sempre così; è un’espressione piuttosto colorita e superata – nella sua durezza … –

Ora il giovane percepisce chiaro e insopportabile il suono che rimbomba nella sua testa: è il rumore del maglio di una pressa, ripetitivo, assordante, ossessivo.

– Ma, in confidenza, rende piuttosto bene quello che … –

Il giovane impallidisce. L’istante dopo, improvviso come di notte una vampa dalla bocca di un cannone, il suo braccio destro scatta e l’uomo crolla per terra. Fosse per una precisa intenzione, o semplicemente per la superiore statura del giovane, il pugno colpisce in pieno la fronte, così ben formata e intelligente, si che il corpo stramazza lungo e disteso, come una greve tavola che venga fatta cadere da una posizione verticale. Un rantolo, due, e poi giace immoto. (HERMAN MELVILLE)

 

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