Esserci

(dalla Rappresentanza alla Rappresentazione)

di Paolo Repetto, 15 febbraio 2025

Ho avuto la percezione netta dello smottamento alla fine degli anni Settanta. Non che prima le cose andassero meglio, le tivù private erano nate a metà decennio e stavano già imponendo un nuovo “stile”, al quale la Rai era corsa immediatamente ad adeguarsi: ma tutto sommato la novità erano ancora i comici demenziali usciti del Bagaglino e un po’ di tette che davano fastidio a nessuno. Qualche avvisaglia c’era certamente già stata, ma all’epoca non avevo tempo da dedicare alla televisione, se non per gli incontri di boxe: quindi fui colto quasi alla sprovvista, e posso quasi citare anche la data della rivelazione.

Dell’accelerazione rovinosa mi accorsi assistendo a una delle prime puntate de Il processo del lunedì della gestione Biscardi, tra l’altro trasmessa su Rai3, l’emittente in forza alla sinistra. Ero allibito. Aldo Biscardi, che già di suo parlava un italiano a dir poco approssimativo e capiva una mazza di qualsivoglia argomento, aveva messo assieme una vera corte dei miracoli, nella quale tra pseudo-giornalisti ed ex-calciatori in bolletta gigioneggiavano personaggi assurdi come Maurizio Mosca, uno che su un campo di calcio non avrebbe avuto un ruolo nemmeno come raccattapalle. Non mi scandalizzava l’incompetenza, perché avendoci giocato sino a cinquant’anni sapevo benissimo che sul calcio non c’è nulla da sapere, da capire o da discutere, si tratta solo di mettere un pallone in rete o di non lasciarcelo finire, ma ero disgustato dalla beceraggine di tutto l’assieme, dai toni, dagli argomenti e dalle atmosfere da bettola d’angiporto, proposti su un medium nel quale un attimo primo erano passate notizie di guerre o di catastrofi, oppure rubriche di arte o di letteratura, o anche semplicemente qualche bel film o qualche documentario a tema storico. La cosa peggiore era che in quella trasmissione non circolava un filo di ironia, si prendevano tutti sul serio (come sogliono fare notoriamente gli imbecilli) e, ma questo l’ho scoperto dopo, venivano presi sul serio anche dalla sinistra più accorta, quella sempre un po’ più avanti, che plaudiva al fatto che finalmente si desse voce anche al più genuino “sentire popolare”, confondendo l’idiozia e la sguaiataggine con l’autenticità e la freschezza. In fondo, pensava, quei quattro bagonghi rompevano gli schemi seriosi e ingessati della televisione di regime, erano una ventata d’aria, magari puzzolente ma nuova.

Fu un tutt’uno: compresi allora che l’elogio di Franti tessuto da Umberto Eco e Fantozzi e il gossip confidenziale di Maurizio Costanzo non erano passati invano, c’era una logica che li legava, erano tanti cunei ribattuti nelle crepe della cultura occidentale aperte da due guerre e da tutto quel che c’era stato in mezzo. E compresi anche che quelle martellate non preludevano a una ripulitura e a un restauro (che non è una “restaurazione”, ma il riportare in vita quei motivi, quei colori, in definitiva quei valori originari che il tempo e le nequizie della storia hanno sporcato e deturpato), ma annunciavano la demolizione.

Da allora il degrado dell’etica, del gusto, del semplice buon senso non ha più avuto sosta: ogni volta che ho pensato si fosse toccato il fondo ho dovuto immediatamente ricredermi. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto di tutto: gabibbi chiamati a raddrizzare i torti e inviati “sul campo” bardati come mentecatti: filosofi di grido e indagatori della psiche ridotti a cumulare marchette nei talk show, senza il minimo pudore; intellettuali, artisti, politici, magistrati, sportivi, persino religiosi, in corsa a mendicare un passaggio televisivo per promuovere “eventi” o paccottiglia “d’ingegno”; uomini e donne di ogni età e condizione ansiosi di sputtanarsi in trasmissioni per cerebrolesi, in cambio di trenta secondi di visibilità.

I risultati li abbiamo di fronte: non è nemmeno più il caso di accendere la tivù per farsi un’idea del degrado. Basta girare per strada, origliare le conversazioni, quelle dal vivo e peggio quelle telefoniche, che vengono fatte condividere per un raggio di cinquanta metri, entrare in una scuola, sfogliare un quotidiano. Certamente però i media di massa rimangono il sensore più attendibile, non nel senso che ci raccontino il vero, ma, al contrario, perché del degrado sono il principale veicolo. Una trasmissione radiofonica come La Zanzara, ad esempio, giusto per fare riferimento alla manifestazione più recente di idiozia perversa nella quale mi sono imbattuto, dovrebbe essere usata come argomento di studio nelle facoltà di psicologia, di antropologia, di sociologia, per dare un taglio all’eterno dibattito sulla natura umana. Io non so se allo stato brado questa sia buona o cattiva, ma per certo è facilmente plasmabile da ogni input negativo, mentre non lo è altrettanto da quelli positivi. Se siamo stati modellati con la polvere, c’era qualcosa che non funzionava nell’impasto.

Comunque sia, credo valga la pena cercare di capire come milioni di anni di evoluzione ci abbiano regalato uno che si chiama come Paperino e ne ha la stessa consistenza cerebrale, ma si trova tra le mani le sorti del mondo. E che non ci è arrivato per via ereditaria, come accadeva un tempo, ma attraverso una ufficialmente libera competizione elettorale. È dura da spiegare, ma voglio provarci lo stesso, almeno a grandi linee e almeno per quanto riguarda la parte di cui sono stato un sempre più sconcertato spettatore.

Per parlare dell’oggi prendo spunto da un libro scritto sessanta anni fa, che fotografava la realtà sociale dell’epoca col teleobiettivo, ne coglieva gli sviluppi futuri e la incorniciava in una efficacissima definizione. Lo rispolvero non tanto per verificarne i riscontri, quanto piuttosto per constatare come nel frattempo l’interpretazione di quella (e quindi anche dell’attuale) realtà sia andata radicalmente cambiando. Devo dunque partire di lontano, sperando di non perdermi per strada.

Come è stata raccontata – Nel 1967 Guy Debord pubblicava La société du spectacle, (in italiano: La società dello spettacolo, De Donato, 1968, successivamente ritradotto e ristampato da Vallecchi, 1979, e ultimamente da Massari, 2002 e da Baldini-Castoldi, 2017). Debord era stato uno dei fondatori, dieci anni prima, dell’Internazionale Situazionista. (Per chi non conoscesse la vicenda del situazionismo, fornirò qualche riferimento in calce a questo intervento, allegando anche uno dei documenti di fondazione. Comunque anticipo che il situazionismo come inteso da Debord, da Asgen Jorn e da Raul Vaneigem aveva nulla a che vedere con i patetici sciamannati che da allora hanno nascosto dietro quella fortunata etichetta la propria presuntuosa inconsistenza).

Il libro arrivava al momento giusto – si era alla vigilia del Sessantotto. Conobbe anche una qualche notorietà (sia pure di seconda mano, perché era molto citato ma molto meno letto – in effetti era piuttosto noioso) e in particolare esercitò un forte influsso sul linguaggio immaginifico della contestazione. Debord vi sviluppava un’analisi della trasformazione che era in atto all’epoca nei rapporti sociali e nelle forme del dominio, ovvero della loro sempre più accentuata “spettacolarizzazione”: uno slittamento che aveva conosciuto un’accelerazione esponenziale con la comparsa della televisione, ma aveva preso avvio già nella prima metà del Novecento, con il cinema e con la radio. Non si limitava però a scandagliare il passato e il presente, profetizzava per questa trasformazione uno sbocco rivoluzionario: e lì la lucidità dell’analisi veniva meno, anche se non si può negare che in parte, almeno per quanto concerneva la deriva più immediata, quella precedente la rivoluzione informatica degli anni Novanta, i suoi pronostici fossero azzeccati.

Il testo di Debord si articola in una lunghissima sequenza di “tesi” (addirittura 221), e ha come modello formale quello del Manifesto del 1848. Esordisce così: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Enunciazione che rimane quanto mai vera oggi, anche se io farei risalire la tendenza a tradurre la vita in spettacolo molto più addietro, a tempi precedenti la cosiddetta “modernità”: direi piuttosto che il moderno “modo di produzione” l’ha solo spinta alle estreme conseguenze, ad un esito per il quale Debord può scrivere che “le necessità della produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come l’inversione della vita”.

Il nuovo manifesto prende l’avvio da dove Marx era arrivato, ovvero dall’alienazione prodotta dal capitalismo classico, che aveva indotto un passaggio di senso dell’esistenza “dall’essere all’avere”, e descrive l’ulteriore transizione ad un “capitalismo spettacolare”, quello che produce il passaggio “dall’avere all’apparire”. “La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”.

È accaduto insomma che la progressiva razionalizzazione dello sfruttamento, quella che il capitalismo moderno ha operato per esercitare un sempre maggiore controllo e mantenere gli sfruttati a margine del processo produttivo, nel ruolo di pura forza-lavoro, ha determinato una sovrabbondanza di beni (almeno nel mondo occidentale): ma questo non ha liberato né i popoli né gli individui dalla necessità, perché la sovrabbondanza è finalizzata al nuovo modello di accumulazione capitalistica, e non certo a venire incontro ai loro bisogni. Ha creato al contrario una necessità apparentemente meno immediata, ma più subdola, perché non potrà mai essere pienamente soddisfatta: la coazione al consumo. Il ciclo del controllo è stato quindi portato a compimento dal capitalismo contemporaneo sfruttando le masse non solo nella fase della produzione ma anche in quella del consumo, determinandone e falsificandone bisogni, aspettative, rapporti: penetrando insomma ogni aspetto dell’esistenza. (Come poi funzioni questa faccenda, perché insomma il capitale per accrescersi debba operare una sia pur molto contenuta redistribuzione, è apparentemente ovvio, ma i modi sono poi complessi da spiegare: ci hanno provato moltissimi economisti, arrivando a conclusioni diametralmente diverse. Io credo dipenda soprattutto da due fenomeni: la finanziarizzazione sempre più spinta – il prevalere del capitale finanziario su quello produttivo – e l’autonomizzazione della tecnica: cose di cui su questo sito si è già parlato, e sulle quali avrò ancora qui modo di tornare).

La totale dipendenza del produttore-consumatore è indotta dalla rappresentazione spettacolare che il capitale elabora di se stesso. I progressi tecnologici nel campo della produzione vanno infatti di conserva con quelli nella comunicazione – ma in questo caso sarebbe forse più corretto dire nella “persuasione”. Tanto meno un prodotto risponde ad una reale necessità, tanto più avrà bisogno di essere caricato di significati esterni che lo rendano desiderabile. I costi della sua promozione vengono naturalmente scaricati a valle, entrano quindi a far parte integrante del costo totale di produzione, mentre il marchio, la certificazione di qualità, promette al consumatore una ostentazione di esclusività e di capacità economiche. La comunicazione a questo punto non è più solo un mezzo, diventa un fine, e avviene in base a codici che sono elaborati tutti dall’offerente, e che vanno a ridisegnare le modalità dei rapporti tra gli individui. Nei paesi capitalisti si sta dunque configurando un modello sociale all’interno del quale gli individui sono ridotti a meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere. Queste immagini giustificano l’assetto di potere istituito e si sostituiscono completamente alla realtà. “Le nuove tecnologie della comunicazione spingono all’estremo il feticismo delle merci, la coazione al consumo, e soprattutto rimodulano il rapporto sociale fra gli individui, mediato dalle immagini”.

Il nuovo rapporto sociale è in realtà, secondo Debord, un non-rapporto. La messa in scena dello spettacolo presuppone, infatti, l’assenza di dialogo tra gli spettatori. Al consumatore non resta altro che ammirare, rimanendo nella passività assoluta, le immagini che altri hanno scelto per lui. L’individuo ha dunque esclusivamente il ruolo di “pubblico”, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. A parlare deve essere solo il potere. Gli individui risultano sempre più isolati nella folla atomizzata. “Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”.

In questo isolamento lo spettatore finisce per essere dominato dal flusso delle immagini, immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. O meglio: nel quale è vero ciò che chi governa lo spettacolo ha interesse a mostrare, mentre tutto ciò che non è stato creato o selezionato dal potere è falso, o non esiste.

Pertanto, nella misura in cui l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. Il consumatore non vive più esperienze dirette, ma si accontenta dei surrogati che lo spettacolo gli offre, e cerca di soddisfare quei bisogni, sia materiali che emozionali, che gli vengono artificialmente indotti. Diventa un consumatore di illusioni. Lo spettacolo è dunque il contrario della vita. Debord scrive “Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.

Molto all’ingrosso, questo è il succo della prima parte del saggio, quella dell’analisi: e direi che sin qui il discorso non fa una piega. D’altro canto, questa chiave di lettura della modernità e dei suoi esiti ultimi non arrivava del tutto nuova, e Debord stesso riconosce i suoi debiti. Si pone infatti come abbiamo visto in diretta continuità col marxismo (sia pure con un Marx liberato dai dogmatismi delle letture “ortodosse”, a partire da quella di Lenin), ma tra i suoi riferimenti vi sono anche Max Stirner, George Lucàks e i francofortesi (e io includerei Thornstein Weblen e Vance Packard, che tuttavia nel Sessantotto erano considerati “organici” al pensiero borghese, quindi poco spendibili – infatti non li cita mai). Il merito del libretto sta nell’aver raccolto e sistemato in una trama coerente tutti questi spunti, di averli attualizzati. E magari anche di avere intravisto le origini più remote del fenomeno, le cui prime avvisaglie fa risalire sino a Cervantes (e anche su questo tornerò).

Ciò che Debord metteva a fuoco sessant’anni fa oggi lo diamo per scontato, perché nella spettacolarizzazione viviamo immersi, è la nostra quotidianità: sul suo libro si è già depositata la patina del tempo, senza peraltro farne un piccolo classico del pensiero, ma al più un reperto documentale da esibire in occasione di future celebrazioni anniversarie o di festival del situazionismo. All’epoca invece l’analisi appariva, oltre che estremamente lucida, anche tempestiva, sviluppata in tempo utile per immaginare delle contromosse, per esorcizzare in qualche modo il fenomeno. Ed è proprio qui che Debord risulta datato: nell’idea che da questa coscienza potesse scaturire una qualche positiva reazione.

La seconda parte del nuovo manifesto è infatti dedicata alle strategie che Debord suggerisce per sottrarsi agli allettamenti della spettacolarizzazione. Non è il caso di elencarle tutte, ma direi che possono essere riassunte ed esemplificate nella pratica del détournement: ovvero del cambiamento di senso di tutto ciò che è espressione del potere, dell’inversione dei meccanismi della ricezione culturale, specialmente se legati alla comunicazione di massa, come la pubblicità o il fumetto, ma anche della modifica e della dissacrazione di oggetti estetici che da sempre orientano o dettano i canoni del gusto: “La libertà per esempio di trasformare la cattedrale di Chartres in luna-park, in labirinto, in campo di tiro, ecc.”.

Di primo acchito verrebbe da pensare che il suo invito sia stato raccolto. In fondo lo stravolgimento dei canoni estetici e dei messaggi, lo snaturamento di luoghi sacri o edifici storici, l’irrisione dei rituali, la falsificazione delle tradizioni, gli sberleffi alle istituzioni, tutto questo è già in atto da tempo. Il problema è che, appunto, lo “spiazzamento”, la “decostruzione”, il “disincanto” sono diventati la nuova normalità. Questa presunta “rivoluzione” continua ad essere gestita dal sistema stesso. Si può discutere se l’abbia anche innescata, senz’altro comunque se ne è appropriato, come è accaduto del resto per tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella inglese a quella francese, da quelle “nazionali” dell’Ottocento a quelle “sociali” del primo Novecento. È accaduto nel Sessantotto, quando la contestazione giovanile è stata pilotata a svecchiare il sistema e a reclutare nuove fasce di utenti al consumo; è accaduto l’altro ieri, col femminismo, continua ad accadere oggi coi vari movimenti di rivendicazione di identità sessuale.

Insomma, il rinnovato protagonismo auspicato da Debord si risolve in una provocazione sterile, totalmente autoreferenziale, quando non addirittura funzionale al sistema che professa di voler combattere. In linea con la presunzione di épater les bourgeois che dal Romanticismo in poi ha sempre animato ogni “avanguardia” intellettuale. D’altro canto il situazionismo nasce proprio nell’ambiente delle avanguardie artistiche, che con la prosa della realtà hanno in genere un rapporto piuttosto conflittuale, e alla spettacolarizzazione sono predisposte già di per sé. Debord non fa che riproporre in chiave più esplicitamente politica il “sabotaggio” predicato mezzo secolo prima dai surrealisti, da operarsi con gli spostamenti di senso e gli accostamenti paradossali. Ma un orinatoio esposto in un museo o i baffi sul volto della Gioconda non smuovono le coscienze: semmai le anestetizzano, irridono dei valori, decostruiscono dei codici, ma non ne propongono di alternativi. Debord sembra non aver capito che il sistema è un muro di spugna. Fagocita tutto quello che gli butti contro e te lo rigetta in forma di merce. Non a caso i surrealisti più famosi sono Magritte e Dalì, quelli che hanno disatteso i dettami “internazionalisti” di André Breton, mentre nessuno legge più le poesie di quest’ultimo. E non a caso le “avanguardie” del secolo scorso, dai futuristi appunto ai surrealisti, rivelano poi una inquietante consonanza coi totalitarismi.

Com’era –Il discorso a questo punto potrebbe sembrare chiuso: liquidati ormai tutti i sogni di una palingenesi che passi per la presa di coscienza collettiva, rimane solo l’illusione di un protagonismo individuale, sia pure effimero. E invece, proprio di qui potrebbe partire una riflessione non oziosa. Non so infatti se Debord fosse del tutto inconsapevole di quanto onnivoro sia il sistema: di quanto cioè egli stesso, con la fondazione del movimento situazionista, e tanto più con la pubblicazione del libro, si prestasse ad essere risucchiato nei meccanismi di quella rappresentazione sociale che voleva smascherare. Forse consapevole lo era, dal momento che già immediatamente dopo la contestazione sessantottina, durante la quale il movimento aveva conosciuto una particolare popolarità, disgustato dalla massa di aspiranti che professavano la loro adesione all’Internazionale senza averne minimamente capito il senso, dichiarò quest’ultima disciolta (definiva sprezzantemente i neo-adepti “i pro-situ”: lascio immaginare cosa potrebbe pensare degli odierni “post-situ”): ma rifiutava di accettarne le conseguenze, e si trastullava con l’idea che portando scompiglio nei modi della trasmissione culturale, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue” e di che trucchi e menzogne si nutra, si sarebbe aperta la strada ad un ribaltamento dell’assetto sociale.

Lungo tutto il saggio è fortissima la critica alla contemplazione: “Solo nell’attività l’uomo realizza se stesso, nel caso contrario non può esserci che alienazione”. Ma non è ben chiaro di quale attività si stia parlando: “Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di scuole, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente, ma simultaneamente.” Appunto, un gran casino. Ma non del tipo che Debord si sforzava di immaginare.

Se infatti l’analisi era centrata, non lo erano le prospettive future che l’autore ne inferiva. Certo, come abbiamo visto la “spettacolarizzazione” si è realizzata compiutamente, addirittura al di là di quanto ci si potesse attendere. Tutti sono diventati “produttori-consumatori”, in una filiera nella quale sotto molteplici spoglie il capitale tecno-finanziario gestisce i luoghi, i tempi e i mezzi di produzione delle merci, gli apparati per il loro spostamento, le cattedrali del loro consumo e i rituali per la loro consacrazione. E all’individuo continua ad essere riservato un ruolo passivo di contemplazione (quello dal quale il situazionismo avrebbe voluto riscattarlo), di consumatore delle merci e di una cultura e di una politica “spettacolarizzate”, ridotte a merce anch’esse.

Ma è accaduto anche qualcosa che Debord non aveva messo in conto. Non solo non c’è stata affatto quella reazione liberatoria che secondo il filosofo belga le masse e i singoli individui, una volta acquistata consapevolezza, avrebbero prodotto, ma al contrario le une e gli altri si sono totalmente integrati nella messa in scena, e hanno accolto l’invito all’azione e al ritorno al protagonismo in un senso esattamente contrario a quello da lui atteso. Hanno scelto di essere, ma non di essere consapevoli, quanto piuttosto di essere visibili. Di esserci, di essere riconosciuti (che è cosa ben diversa dall’essere conosciuti), e quindi di rappresentarsi. Si sono arresi ad un surrogato di protagonismo, ad una smodata e malata coazione ad apparire che rientra perfettamente nel disegno del sistema spettacolare.

Va detto onestamente che un detournement di questo tipo non era prevedibile. Nel ‘67 internet e gli smartphone e i social network erano di là da venire, la frontiera tecnologica più avanzata della comunicazione scritta erano la Lettera 22 e il ciclostile. Ma ora che abbiamo imparato a conoscere i media di ultima generazione, a usarli, ad avvertirne le dipendenze, dobbiamo prendere atto che hanno completamente stravolto il quadro. Con le nuove tecnologie l’inflazione multidimensionale di cui Debord parla si è tradotta in una polluzione multimediale, entro la quale tendenze, esperienze, “scuole” non si esprimono, ma si appiattiscono, si svuotano di senso e si perdono dentro un rumore di fondo indistinto.

Provo a riassumere. Nelle aspettative della sinistra movimentista la rete telematica avrebbe dovuto fornire a ciascuno un megafono, essere lo strumento di una partecipazione attiva all’esercizio della democrazia diretta, del controllo dal basso, della trasparenza, e consentire un libero accesso alla conoscenza. Nella realtà si è rivelata un ulteriore formidabile strumento di manipolazione e ha dato la stura al manifestarsi di un individualismo narcisistico e presuntuoso, che si nutre di like e dell’illusione di protagonismo, Se nella fase precedente non c’era alcun dialogo e gli occhi degli spettatori-consumatori erano puntati solo sul cinema messo in piedi dal sistema, ora l’isolamento è ancor più totale, perché il dialogo è in realtà solo un chiacchiericcio unidirezionale e l’attenzione si concentra soprattutto sulle immagini autoprodotte e su una patetica ricerca di “consenso”, che dia l’illusione di una qualche eco e di una qualche visibilità. Tutto ciò che transita sulla rete viene banalizzato, e anche i messaggi e gli inviti al risveglio lanciati in buona fede, persino quelli che sembrano momentaneamente conoscere un certo successo, sono risucchiati velocemente nel vuoto. Ne è riprova il caso delle proteste di massa dello scorso decennio, degli indignati e dei girotondini, delle primavere arabe e non, delle rivolte popolari che non si sono non mai tradotte in rivoluzioni durature, nonché dei passaggi nostrani di banchi di Sardine: milioni di persone hanno risposto simultaneamente, come si augurava Debord, agli appelli al cambiamento diffusi attraverso i network, ma una volta in piazza non sapevano più cosa dire e cosa fare, e nei casi più seri hanno finito per scatenare risposte ferocemente reazionarie.

Per capire come si sia arrivati a questa situazione è necessario comunque fare un passo indietro. Non è liquidabile come un rincoglionimento generalizzato (anche se ha tutte le caratteristiche), frutto di un qualche avvelenamento da piombo come si ipotizzava un tempo per la fine dell’impero romano, o dell’inquinamento atmosferico. Il fatto è che i nuovi media sono stati colonizzati immediatamente dal sistema, così come del resto era accaduto per quelli del passato, ma con effetti più diluiti e meno traumatici. Negli anni Novanta l’alleanza tra il neo-capitalismo digitale e quello finanziario ha prodotto un vero sconvolgimento, in primo luogo nell’economia, accelerando la globalizzazione e la concentrazione monopolistica. Le innovazioni portate dall’ industria high tech sono state sospinte ed enfatizzate con enormi iniezioni di capitali da una finanza in cerca costante di nuove opportunità di investimento. A loro volta le nuove tecnologie hanno velocizzato in maniera esponenziale le transazioni, creando di fatto un mercato finanziario unico, legittimandone le operazioni speculative più ardite e cancellando le regole e i contrappesi che sino a ieri lo avevano regolamentato. E soprattutto hanno “smaterializzato” il concetto stesso di capitale, un tempo legato ai frutti di imprese produttive, oggi a quelli di una attività puramente speculativa. La gran parte dei dirigenti delle grandi multinazionali non ha la minima idea di cosa producano le aziende di cui hanno il controllo, mentre è sintonizzata costantemente sugli algoritmi che ne monitorano le fluttuazioni di valore.

Gli effetti di questa trasformazione sono stati immediati. Intanto il ridimensionamento, in termini di occupati, degli apparati produttivi. In un mercato aperto e senza regole la competitività può essere mantenuta soltanto abbattendo i costi fissi di produzione: e dal momento che sulle altre componenti, materie prime ed energia, non ha il pieno controllo, il capitale interviene comprimendo l’occupazione, esternalizzando il più possibile le attività, spostandole in paesi nei quali il costo del lavoro è più basso o appaltandole ad aziende più piccole, nelle quali la forza contrattuale dei lavoratori è minima; o addirittura individualizzandole, tramite l’affidamento a lavoratori “indipendenti” che operano in regime di “libero mercato”. In quest’ultimo caso soprattutto, ma anche negli altri, sono appunto le tecnologie digitali a consentire un controllo costante e istantaneo.

Ma questa è una storia risaputa. Mi interessano piuttosto gli affetti sociali più eclatanti che questo terremoto economico ha prodotto.

Intanto la precarizzazione del lavoro, quindi il venir meno di quel riferimento fisso che nel bene o nel male informava le esistenze delle generazioni precedenti. Con conseguente insicurezza e perdita di ogni stimolo a progettarsi un futuro. Poi la dissoluzione di quei legami di solidarietà che il lavoro dipendente creava, e che diventavano anche occasioni di amicizie, di rapporti interpersonali effettivi, concreti. Quindi il progressivo isolamento dei singoli nel guscio individuale e il disinteresse nei confronti dei problemi collettivi.

Nel mentre procedeva a questa azione distruttiva l’alleanza tecno-finanziaria si premurava anche di fornirne una giustificazione. Il lavoro precarizzato e individualizzato è stato presentato come un’opportunità di democratizzazione dei nuovi modelli produttivi. In sostanza, il lavoratore verrebbe a godere di margini di libertà più ampi di quelli di cui godevano coloro che operavano nelle imprese fordiste.

A sostituire i rapporti sociali concreti maturati lavorando in azienda provvederebbe la stessa rete, ampliando a dismisura la possibilità di contatto con interlocutori sparsi in tutto il mondo, e consentendo di scegliere e selezionare entro uno spetto molto più ampio.

A questo tipo di rappresentazione fornito dal sistema corrisponde però una realtà molto diversa. L’autonomia di cui dovrebbero godere i nuovi produttori è smentita proprio dal controllo più stretto che le tecnologie digitali consentono, oltre che dalla dipendenza costante dai flussi verso i quali il capitale dirige i consumi. D’altra parte, l’isolamento degli individui non è affatto superabile attraverso un surrogato tecnologico di rapporto che di per sé, per quelli che sono gli aspetti essenziali della sua natura (velocità, appiattimento dei livelli, la modalità stessa della fruizione), prescinde da ogni effetto emozionale e al tempo stesso non si presta affatto a reggere un discorso ponderato e organizzato.

Ciò che effettivamente vediamo scaricato e circolante in rete sono piuttosto sfoghi insensati, urlati, patetici, quando va bene solo sterili; ed è tutto materiale funzionale allo spettacolo. Creano da un lato l’illusione di una appartenenza identitaria, di far parte di una comunità che sia pure solo virtualmente ti riconosce e sia pure solo attraverso gli emoji ti prende in considerazione, dall’altro quella di affermare una autonomia di pensiero e di giudizio all’interno del delirio di voci collettivo. Tutti si influenzano vicendevolmente, tutti parlano e straparlano, ma nessuno in realtà ascolta l’altro. Un brevissimo tour nell’inferno dei social ci offre una fotografia allucinante e allarmante della solitudine, del livore e dell’avvilimento che regnano in platea.

Ma non è tutto: utilizzando i dati forniti dalla coazione ad autorappresentarsi, il sistema è ormai in grado di andare oltre le proposte di consumo generalizzate, di elaborare per ciascuno delle risposte mirate. Non si fa a tempo ad esprimere un’opinione, una preferenza, un interesse o un dubbio che si è immediatamente inondati di offerte e proposte da parte del mercato (e di risposte o di insulti da parte degli altri utenti). È in fondo il modello Toyota, applicato ad ogni forma di produzione di merce.

Questo ci si doveva attendere. Il fatto che Debord non l’abbia previsto è comprensibile, mentre lo è molto meno l’ostinazione odierna della sinistra superstite a non prenderne atto.

Vorrei precisare che il difetto stava comunque già a monte, ben prima della comparsa dei social. Stava intanto nel continuare da parte della sinistra ad adottare criteri di analisi obsoleti; nel fare riferimento a categorie sociali, il proletariato in primis, assunte come se nulla fosse cambiato dai tempi della redazione del Capitale; nel continuare a leggere Marx come un profeta, e non come un economista che ragionava sui dati e sulla realtà del suo tempo; nel credere infine che il sistema sarebbe comunque rimasto ancorato al modello fordista. Debord almeno questo ultimo cambiamento lo aveva intuito.

C’era naturalmente anche l’abbaglio di fondo che ha condizionato tutti i messianismi, religiosi o secolari che fossero, e le utopie: il postulare una natura umana originariamente positiva, corrotta poi ed espulsa dall’Eden per la sua presunzione di dominio sulla natura, bisognosa soltanto di essere riscoperta e redenta. Paradossalmente, questa riappropriazione del sé dovrebbe passare attraverso un contradditorio iter di “rieducazione” alla libertà, di rifiuto di ogni condizionamento politico e sociale (che in occidente si esprime innanzitutto attraverso la critica della democrazia). Di fatto, si risolve nello scivolamento progressivo verso una centralità dei diritti individuali rispetto a quelli collettivi.

Com’è – È ora però di arrivare al dunque. Che non significa tirare delle conclusioni, perché la trasformazione sociale è velocissima e imprevedibile, e riserva ogni giorno nuove sorprese: si possono però fare almeno un paio di considerazioni.

Intanto penso di dover chiarire ulteriormente a cosa mi riferisco quando uso il termine “sistema”, perché dal significato che gli si dà dipende l’interpretazione di tutto quanto ho scritto finora. Io lo intendo come il risultato di un processo, sempre in divenire, messo in moto sin dai primordi dell’evoluzione della specie umana, quando quest’ultima si è trovata nella necessità di ricorrere al soccorso di tecniche per garantirsi la sopravvivenza (e per “tecniche” intendo tutto, secondo l’originale valenza etimologica, dall’uso di protesi e di strumenti materiali – per la difesa, per gli spostamenti, per la domesticazione della natura, ecc. – a quello di un pensiero e di un linguaggio complesso, e dei supporti – scrittura, stampa, ecc. – destinati a trasmetterlo). Col tempo quel supporto che era nato in funzione difensiva si è sviluppato in una direzione offensiva, ed è stato monopolizzato o comunque posto al proprio servizio da una piccola parte dell’umanità per soggiogare e sfruttare non solo la natura, ma la restante maggioranza di una popolazione o di intere altre popolazioni. Di qui la formazione delle classi sociali (sacerdoti, cavalieri, scribi, ecc.) e la sua cristallizzazione in dominanti e dominati, secondo un modello che ha continuato a funzionare così, pur con tutte le possibili varianti, per millenni. Poi sono arrivate la rivoluzione scientifica, e appresso quella industriale, e al seguito di questa quelle sociali, che hanno aperto in quel modello delle crepe.

Ma la rivoluzione profonda, quella che ha sparigliato del tutto le carte, è stata indotta dall’autonomizzazione della tecnica. Voglio dire che ad un certo punto il controllo di quest’ultima è sfuggito dalle mani delle stesse classi dominanti, perché si è innescato un meccanismo in base al quale l’innovazione tecnologica non è più governata in funzione della produzione o dell’accumulazione di capitale, ma è forzata da un processo “necessario” e autoreferenziale di accrescimento. Lo sviluppo della tecnica non è più finalizzato a scopi esterni, ma ad alimentare la capacità tecnica stessa. Un po’ quello che sembra destinato ad accadere in maniera eclatante con l’intelligenza artificiale, ma che già è accaduto ad esempio quasi tacitamente con la progressiva finanziarizzazione del capitale. Il sistema a questo punto non è più rappresentato dai colossi dell’industria o della finanza o del network, tutti protagonisti intercambiabili, e meno che mai dagli apparati politici al loro servizio: è come un enorme e complesso quadro elettrico dove si sono cumulati e intrecciati nel corso della storia innumerevoli fili di colore e diametro diverso, e interruttori e relè e inverter e altre apparecchiature e pulsantiere, che assorbe e distribuisce energia, ma del quale nessuno più è in grado né di individuare i dispositivi di accensione o di spegnimento né di ricordare le finalità del funzionamento.

Tutto questo ha potuto accadere per via della parcellizzazione e della specializzazione delle competenze e dei ruoli tecnici, a sua volta indotta dalle esigenze di strumenti e di modalità produttive (o accumulative) sempre più performanti. Per costruire una carriola erano sufficienti le competenze di mio nonno, per un’auto elettrica si assemblano quelle di migliaia di operatori, nessuno dei quali possiede un’idea complessiva del prodotto finale e a ciascuno dei quali si chiede solo di garantire e aumentare l’efficienza del proprio segmento. Ciascuno aggiunge un filo o un interruttore, e si preoccupa che all’interno di quello passi o si interrompa la corrente. La finalità unica del quadro pare ormai essere proprio quella di funzionare.

Il termine più adatto per definire questa situazione potrebbe essere “tecnocrazia”: ma anche qui, occorre intenderci sull’accezione in cui viene usato. Nel mio caso non mi riferisco a un “governo dei tecnici”, perché questa accezione suppone una “autonomia” di questi ultimi che di fatto non esiste, in quanto al momento è ancora il capitale finanziario a orientare e decidere le direzioni della ricerca e dello sviluppo, e i tecnici semmai rappresentano la componentistica più avanzata, ma sono essi stessi dei cavi o degli strumenti di trasmissione. Penso invece ad un “governo della tecnica”. Sono due cose decisamente diverse: un governo dei tecnici ha una dimensione ancora “umana”, è comunque uno strumento, che può essere piegato a finalità di sfruttamento o di egemonia, ma teoricamente potrebbe anche perseguire altre strade; un governo della tecnica, come dicevo sopra, prescinde da qualsiasi altra finalità che non sia la propria perpetuazione e il proprio sviluppo.

Può sembrare quindi prematuro definire quella attuale una “tecnocrazia”, perché ancora il processo non si è compiuto: ma siamo già molto avanti su questa strada, sulla via della totale autoreferenzialità tecnologica.

Su questo discorso si innesta quello della spettacolarizzazione. Il quadro-sistema è il teatro in cui tutti recitano una parte, alcuni da protagonisti, la maggioranza come semplici comparse, ma nessuno è insostituibile e nessuno ha davvero in mano la regia. A decidere su chi o su cosa puntare o spegnere i riflettori è il tecnico delle luci, come in questo caso potremmo definire la tecnica autoconsapevole, quello che fa sì che il tutto continui a funzionare, che le spie rimangano accese. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che oggi la scienza (e quindi la tecnica, che ne è l’applicazione) non guarda più a ciò che è utile fare, ma a tutto ciò che è possibile fare: che non è dunque più al servizio dell’uomo, ma di se stessa. Sembra stia parlando della saga di Terminator, ma se sostituiamo l’intelligenza artificiale guerriera che lì prende possesso del mondo in maniera violenta e crudele, e la sostituiamo con un’invadenza tecnologica strisciante, apparentemente ancora strumento e in realtà altrettanto determinata a diventare il fine, ci siamo già dentro. Fisicamente (io stesso ho già dovuto ricorrere a “ricambi” artificiali), ma soprattutto intellettualmente (la rete è già diventata un’indispensabile protesi della nostra memoria).

Non è un’immagine confortante, soprattutto se connessa a quella abusatissima (anche da me) di Kierkegaard, del teatro che sta andando in fiamme e degli spettatori che applaudono e se la ridono, ma è forse quella che meglio fotografa la realtà attuale.

Come se ne esce? Sinceramente, non ne ho la minima idea. Altri le idee le hanno, ma mi sembrano piuttosto confuse e contraddittorie, Per alcuni la soluzione verrà dalla tecnica stessa, che ad un certo punto, a sua stessa salvaguardia, attiverà un riduttore o un salvavita e rimetterà in ordine i fili. Altri prevedono un’operazione di autodifesa del capitale, che ha sensori acutissimi, e che davanti alla prospettiva di un generale collasso vorrà riformarsi secondo modalità più “sostenibili”. I nostalgici del marxismo continuano a sperare in un risveglio collettivo degli ultimi, che è improbabile quanto quello del capitale ed apre a scenari altrettanto foschi, e comunque nebulosi. Altri ancora, al contrario dei primi, ritengono che l’incombere della catastrofe ambientale stia già facendo maturare un rifiuto integrale della tecnica, e dunque del consumismo, e propugnano il ritorno ad una economia “a misura d’uomo”. Magari auspicando anche una drastica riduzione numerica della nostra specie, operata in questo caso dalla natura stessa coi suoi mezzi (dagli asteroidi alle epidemie). Insomma, l’impressione è che chi si pone il problema in termini realistici non possa augurarsi altro che un rallentamento della corsa al disastro, anziché una sospensione, e che negli animi si stia sottilmente insinuando la rassegnazione di fronte a ciò che appare ineluttabile. Non in tutti, per fortuna.

Non rassegnarsi non significa per me progettare migrazioni su Marte o continuare a vagheggiare rivolgimenti sociali sulla Terra, oppure ritirarsi a pascolar capre in montagna: significa molto più semplicemente continuare a fare quello che bene o male ho cercato di fare fino ad oggi: pensare, indagare, capire almeno come siamo arrivati alla condizione attuale, per vedere casomai una delle strade non scelte in passato potesse offrire qualche via di fuga. E lo scritto presente, nel suo piccolo, imponendomi di riflettere risponde a questo assunto.

Come sarà? – Cerco dunque di venirne a una, tornando finalmente al tema che avrebbe dovuto essere centrale. Ho parlato sin qui di due modalità di autorappresentazione, quella proposta dal sistema sul grande schermo del mondo e quella concessa nel formato selfie ai rimanenti otto miliardi di individui umani. Ora vorrei cercare di chiarire qual è il rapporto tra il trionfo della rappresentazione e il crescente rifiuto dell’istituto della rappresentanza. Che a questo punto mi sembra scontato. Ma andiamo con ordine.

La rappresentanza è uno dei cardini della democrazia occidentale, e di fronte all’attuale crisi di credibilità del sistema democratico è il primo ad essere messo in discussione. Lo si elenca tra i trucchi illusionistici imputati alla “modernità” per mascherare l’azione sempre più pervasiva del potere, anche se a ben vedere non è affatto un portato dell’età moderna. Delle modalità di delega erano già presenti infatti, per i ruoli più diversi e in ambiti di partecipazione più o meno ristretti, sin dalla nascita delle comunità umane (a dispetto di quanto sostenuto dai nostalgici dell’eden paleolitico, delle società “orizzontali” dei cacciatori-raccoglitori). E duemilacinquecento anni fa ad Atene erano già regolamentate secondo il modello vigente ancora oggi. Col tempo, con la crescita di istituzioni politiche di grandi dimensioni (per intenderci, con lo stato moderno), e soprattutto con i rivolgimenti sociali prodotti dal modo di produzione industriale, le forme della rappresentanza sono state più o meno uniformemente definite e universalmente accettate. Questo soprattutto in Occidente, e almeno fino a ieri.

Oggi non è più così. Nei confronti della democrazia rappresentativa crescono i dubbi e la disaffezione. E dal momento che non si conoscono modelli alternativi che abbiano funzionato meglio, la critica investe tutto il sistema di princìpi, valori, regole e procedure che caratterizzano le istituzioni democratiche nel loro complesso. Anche questi attacchi non sono una novità: nei secoli scorsi erano uno sport praticato principalmente dalle destre, legittimiste, populiste o tradizionaliste che fossero, e questo è comprensibile. Ma non meno ostile era l’atteggiamento delle sinistre più radicali, nelle loro svariate sfumature, ortodossamente marxiste, operaiste, consigliari, leniniste, anarchiche, che nel mirino hanno sempre avuto la “democrazia borghese”

La differenza sta nel fatto che quelle proponevano bene o male delle alternative, (anche se dove hanno potuto sperimentarle sono andate incontro a risultati tragici), dei progetti sociali definiti e strutturati, mentre il rifiuto espresso dal nuovo corso “movimentista” è tutto all’insegna dello spontaneismo, del culturalismo (le appartenenze identitarie non sono più quelle di classe, ma quelle di cultura o di genere), dell’“orizzontalismo” (quello che avrebbe dovuto passare per Internet). Ciò spiega l’incapacità di questi movimenti di coordinarsi e di adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Si tratta in sostanza di un velleitario miscuglio di ideologie ferocemente antigerarchiche e antistataliste, genericamente antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali o di gruppi specifici, che finisce poi paradossalmente per essere espressione più o meno cosciente della globalizzazione e per aggregare masse disorientate, il “volgo disperso che nome non ha”, attorno a leader carismatici.

Tutto questo meriterebbe però una trattazione specifica, che rimando a una prossima volta. Qui mi interessa invece mettere in luce come la narrazione in negativo della politica che prevale oggi non sia solo trasversale ai due vecchi schieramenti, ma li superi, perché è orchestrata appunto da quel “sistema post-politico” che ho identificato sopra. I temi, le argomentazioni e i modi della critica tradizionale sono ripresi e riproposti in una confezione patinata, che sfrutta la potenza e la duttilità dei nuovi strumenti mediatici lasciando parlare, per così dire, le evidenze. Quelle, naturalmente, che si prestano a screditare il modello democratico. Cosa ci raccontano infatti i notiziari, i talk show, le inchieste scandalistiche, ma anche i film, le serie televisive, gli spettacoli di satira, se non che il mondo della politica è un letamaio, che quello politico è uno sporco lavoro, che non c’è verso a giocare puliti e che occorre averci il minor contatto possibile se non vogliamo a nostra volta insozzarci?

Questa narrazione ha senz’altro buon gioco, perché per un funzionamento corretto della rappresentanza la delega dovrebbe essere conferita ad individui in possesso dei giusti requisiti, e nella realtà politica queste condizioni ideali non si verificano quasi mai – non è un problema di oggi, è sempre stato così. Sulle scelte influiscono infatti logiche di partito, condizionamenti economici, interessi più o meno occulti, che alla lunga falsano completamente le regole del gioco. Basti pensare ad esempio a ciò che accade negli Stati Uniti, dove l’enorme aumento dei costi delle campagne elettorali ha finito per riservare ai ricchi la competizione elettorale, tagliando fuori dalla possibilità di vedere rappresentati i propri interessi non solo le classi lavoratrici, ma anche le classi medie (per cui a questo punto è praticamente indifferente che vinca l’uno o l’altro candidato). Lì la cosa è più eclatante per le cifre spropositate che entrano in gioco, ma anche in Europa, pur senza arrivare a questi eccessi, la democrazia non sta molto meglio.  Ciò parrebbe in parte spiegare la disaffezione nei confronti della rappresentanza: in realtà spiega però solo quella nei confronti di coloro che deputiamo a rappresentarci, mentre oggi ad essere messo sotto accusa è proprio l’istituto politico.

Va altresì aggiunto che anche laddove una parvenza di senso le elezioni sembrano mantenerla, coloro che per onestà e competenza potrebbero essere più adeguati tendono a sottrarsi alla responsabilità, e non sempre per una scelta di comodo. In molti casi questo atteggiamento nasce dalle delusioni maturate nelle esperienze dirette, che inducono i più sensibili a ritirarsi nel loro guicciardiniano “particolare”.

Tutto, insomma, congiura a far prevalere l’idea che chi vuole preservare la sua dignità dovrà limitarsi alla resistenza passiva, alla difesa delle sue private libertà. E lasciare libero campo all’azione del sistema, rassegnandosi a vivere in una società post-democratica.

Questo avviene infatti mentre dietro le quinte dello spettacolo, nel mondo reale, aumenta in maniera esponenziale la distanza tra l’esigua minoranza dominante e il resto della popolazione, mentre è in atto lo smantellamento dello stato sociale, con la privatizzazione di una quota crescente di attività di assistenza, di cura, di controllo dell’ordine, di gestione del territorio e delle infrastrutture, tutte cose che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie. Quelle che erano le competenze degli stati sono trasferite ad agenzie transnazionali o a grandi aziende private che operano su scala planetaria, e le vecchie istituzioni politiche sopravvivono solo come facciate della gestione locale del capitale globale. E tutto ciò accade nella quasi totale indifferenza dei “sudditi”, la cui attenzione è stata frammentata e dirottata sui diritti individuali e sulle rivendicazioni identitarie, che sono impegnati a rappresentarsi e a gratificarsi reciprocamente sui social, e ai quali, disponendo di una tribuna teoricamente aperta sul mondo intero, di avere dei portavoce non importa più per niente. D’altro canto, che istanze dovrebbero rappresentare i delegati? quelle femministe, quelle ambientaliste, quelle pacifiste, quelle delle identità di genere o di cultura, e con quale tipo di mandato, e soprattutto, di fronte a chi?

Qui volevo arrivare. Il nuovo assetto sociale fa sì che venga meno anche la necessità di una finzione democratica, di un’ammortizzazione politica: democrazia e mercato, che bene o male avevano convissuto sino al secolo scorso, non viaggiano più di concerto. La prima non funziona nemmeno più da paravento, ha ceduto campo totalmente al secondo. Gli interessi del tecno-capitalismo globale, la sua nuova configurazione e gli strumenti di persuasione di cui dispone, gli consentono di governare direttamente le nostre vite, senza più bisogno di mediazioni politiche.

Questo, lo si voglia o no, è lo stato delle cose. Come si sarà capito, mi è difficile stabilire quanto sia frutto di un ben preciso progetto e quanto invece di un effetto a valanga, prodotto come dicevo sopra dall’autonomizzazione della tecnica, da una corsa di quest’ultima all’autorealizzazione che riesce per il momento perfettamente funzionale al capitale. Nel primo caso un’azione di contrasto dovrebbe essere eminentemente politica, e forse può essere ancora pensabile, nel secondo si tratta di mettere in discussione tutto un modello esistenziale, e qui davvero temo che le probabilità di sovvertire i pronostici infausti siano nulle. Rimanendo comunque al primo caso, sono convinto che l’azione politica non possa prescindere da una difesa e da una rivitalizzazione della democrazia. E che questa sia attuabile solo attraverso l’istituto della rappresentanza, senz’altro rivisto, purgato delle tante criticità, ridisegnato nei modi e nelle finalità: ma non ci sono alternative. Per come gli stati moderni sono configurati non si può pensare di saltare la rappresentanza per attuare una democrazia diretta: lo hanno dimostrato le recenti esperienze politiche dei “nuovi movimenti” che avevano come unico collante “l’indignazione”, l’insofferenza per i doveri, lo sprezzo per ogni tipo di istituzione – segnatamente di quelli che hanno avuto momentaneamente accesso al potere, come è accaduto in Italia per i grillini. Il rifiuto di un’organizzazione politica strutturata, la partecipazione digitale praticata con un click, ha creato in alcuni l’illusione che la democrazia potesse essere rivitalizzata semplicemente cambiandone le regole, in molti la presunzione di essere finalmente protagonisti e di farsi interpreti dei problemi del “paese reale”. Col risultato di consegnare il paese nelle mani di una combriccola incompetente e inconcludente, rissaiola, altrettanto disonesta e compromessa di quelle che avrebbe dovuto spazzare via, e di disamorare ulteriormente dalla partecipazione gli incerti e i delusi. Ha fatto cioè esattamente il gioco del sistema, ha recitato nel suo spettacolo.

Preferirei non assistere alle repliche.

Due postille

1)   Non vorrei che il mio approccio al tema della tecnica fosse confuso con quello dei vari Severino, Galimberti e, giù per li rami, Heidegger e Nietzsche. La differenza sta nel fatto che da costoro la tecnica è intesa come un male assoluto, il peccato originale che ha strappato l’umanità dal suo edenico rapporto con la natura, e ha indotto la nostra specie a contrapporsi alla natura stessa e a volerla dominare.

Ora, non c’è dubbio che la risposta adattiva della nostra specie alla propria particolare condizione di debolezza biologica sia finita sopra le righe, ma a mio giudizio questo rientra pienamente nella sua particolare natura. Si può anche pensare che l’uomo sia un tragico errore dell’evoluzione, ma è pur sempre frutto di un processo evolutivo, che nel suo caso ne è la continuazione “con altri mezzi”. La tecnica non è “innaturale” in sé, lo diventa semmai quando il suo controllo è volto a finalità che secondo il nostro metro morale risultano sbagliate. Non è espressione della pura “volontà di potenza” come pensa Heidegger, sulla scia di Nietzsche, o una fuga di fronte angoscia del divenire, del destino della mortalità, come la considera Severino. È una “necessità” evolutiva.

Insomma, dobbiamo capirci. L’uomo per sopravvivere ha bisogno della tecnica: su questo non ci piove. È una scimmia nuda: non ha una pelliccia né una corazza, non ha dentature potenti come le tigri o i coccodrilli, non ha zanne né artigli, non si difende e non attacca coi veleni. Non è attrezzato come tutti gli altri animali alla vita di natura, almeno a partire dal momento in cui lo consideriamo una specie separata dalle sue più affini. Quando questa separazione sia avvenuta più o meno l’abbiamo stabilito, ma non sappiamo né come né perché. Probabilmente i cambiamenti climatici hanno costretto una parte dei nostri cugini scimpanzé a uscire dalle foreste e li hanno gettati allo sbaraglio nelle savane. Comunque sia, per non sopravvivere precariamente solo come prede, gli esuli da quel momento hanno dovuto riadattare il loro fisico alla nuova situazione, e là dove la selezione non provvedeva hanno dovuto ingegnarsi con quello che l’ambiente offriva, pietre, ossa, bastoni, pelli degli animali uccisi. Farne delle protesi dei loro corpi. Sono diventati “umani”, e hanno cominciato a modificare con le loro attività l’ambiente stesso (caccia, raccolta, agricoltura, allevamento) e a plasmarlo progressivamente in un crescendo inarrestabile, a creare nuove forme di società e di rapporti, moltiplicandosi fino ad arrivare a coprire con la loro presenza ogni angolo della terra.

Tutto questo ad un certo punto ha travalicato la pura volontà di sopravvivenza. E qui sposo completamente la tesi esposta da Ortega y Gasset nella Meditación de la técnica (1939): “Senza la tecnica l’uomo non esisterebbe e non sarebbe mai esistito”. L’uomo, dice Ortega, sviluppa, proprio per le circostanze che deve affrontare, una “intelligenza tecnica”, idonea a individuare le relazioni tra i fenomeni che lo circondano. Oltre a fornirgli la basilare possibilità di sopravvivere, questa gli permette di immaginare molteplici possibilità esistenziali e di scegliere tra esse per costruirsi un programma di vita. La sua condotta non è quindi più casuale, ma intenzionale. Per poter realizzare questo programma, per poter “essere insomma quello che vorrebbe essere”, e quindi vivere bene, usa la sua ingegnosità tecnica per creare artifici e procurarsi strumenti che gli consentano di superare le difficoltà e gli allevino le fatiche. Compie delle azioni “tecniche” volte a modificare e a migliorare la natura che lo circonda, generando in tal modo una sovranatura, e adattando l’ambiente a se stesso. La tecnica non è infatti soltanto adeguamento dell’uomo alla Natura ma, viceversa, tende progressivamente a diventare adattamento del secondo termine al primo. “L’esistenza dell’uomo, il suo stare al mondo, non è uno stare passivo ma egli deve, necessariamente e costantemente, lottare contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere abiti nel mondo.

Bene. Anzi, male. Perché tutto questo funziona fino a quando l’uomo ha chiaro l’essere che vuole diventare: ma in caso contrario non può che maturare angoscia e disorientamento. E questa è la sua condizione attuale.

Cos’è accaduto allora (cosa è accaduto soprattutto nel frattempo, da quando quasi un secolo fa Ortega esponeva le sue Meditaciones: ma va ammesso che ciò che ancora non era così evidente il filosofo spagnolo ha saputo presagirlo)? È accaduto che gli sviluppi tecnologici hanno creato nell’uomo la sensazione di poter “essere tutto”: hanno moltiplicato esponenzialmente le sue possibili esistenze, ma proprio questa potenziale mancanza di limiti ha generato smarrimento, ha complicato sia l’individuazione che l’attuazione di un proprio progetto di vita, sino ad indurre all’assenza del desiderio o a perdersi dietro “pseudo-desideri, spettri di appetiti privi di sincerità e vigore”. L’uomo ha cominciato a riporre fiducia esclusivamente nella tecnica in quanto tale, addossandole anche la responsabilità creargli un senso. Dal canto suo il dominio della tecnica e della strumentazione scientifica, che orienta le nostre vite, quel senso invece lo nega, frammentandolo nella specializzazione e riducendo quei comportamenti che sono le caratteristiche costitutive della nostra identità a reazioni chimiche, elettriche o meccaniche (e questo per Ortega era uno dei prodomi della massificazione). “All’uomo è data l’astratta possibilità di esistere ma non gli è data la realtà. Questa se la deve conquistare, minuto dopo minuto: l’uomo, non solo economicamente ma anche metafisicamente, deve guadagnarsi da vivere”. Questo perché «l’essere umano e l’essere della natura non coincidono totalmente: dal “lato naturale” l’uomo risulta essere immerso nella natura circostanziale in cui i suoi processi naturali si attivano spontaneamente; la sua “parte extra-naturale” che “pretende di essere” ossia la sua personalità, il proprio io, necessita di costruzione, di cura ininterrotta e di attenzione».

Quindi: la tecnica è un beneficio nella misura in cui risponde alla sua funzione principale, ovvero, cambiamento ma soprattutto miglioramento della nostra situazione esistenziale. Il maggior rischio insito nella tecnica non è la produzione sterminata delle possibilità di vita che può offrirci; questa è una complicanza (il che non significa male assoluto) direttamente proporzionale alla sua grandezza. È invece l’uso improprio, il ricorso esasperato al suo aiuto per semplificarci la vita, che ce la semplifica ma solo nel senso che l’appiattisce, la omologa, la rende simile a tutte le altre, annichilendo la nostra identità. L’avanzamento tecnico, conclude Ortega, se fuori controllo, «indebolisce la forza dei centri riflessivi, semplifica e organizza razionalmente i rapporti umani. Potremmo essere vittime di un sistema tecnico che a sua volta corre un grave pericolo, quello “di sfuggirci dalle mani e scomparire in molto meno tempo di quanto potessimo immaginare”».

Riassumendo. La tecnica ha permesso all’essere umano di superare la sua ancestrale situazione di bisogno, di conquistare una libertà nei confronti delle determinazioni naturali della quale prima non godeva. Gli uomini hanno creato delle macchine moltiplicatrici della potenza, della velocità, della memoria, della conoscenza, le hanno usate per produrre o per distruggersi vicendevolmente, le hanno automatizzate e oggi con le nanotecnologie le hanno rese compatibili col nostro organismo, addirittura incorporabili. Tutto questo non l’hanno fatto le protesi, gli utensili, le strumentazioni, le macchine, lo hanno fatto gli uomini, e la tecnica è rimasta al loro servizio. Che poi ne abbiano fatto un buon uso o meno, è un altro discorso. Guardiamo al risultato: siamo più di otto miliardi. Dal punto di vista evolutivo, un incontestabile successo.

Fino ad oggi. L’evoluzione prevede infatti anche situazioni recessive. Anche queste le vanno messe in conto. Le specie che hanno esercitato sulla terra una eccessiva pressione si sono ridimensionate, o sono addirittura scomparse, e a questo non hanno provveduto solo i cataclismi o l’azione umana. I segni di una recessione di quella umana ci arrivano già dalle proiezioni sul calo demografico naturale a partire dalla metà di questo secolo (che potrebbe essere accelerato dalla natura stessa – epidemie, cambiamenti climatici – o dalla dissennatezza degli uomini – conflitti, carestie indotte). E sappiamo che anche là dove l’uomo ha inciso più profondamente e distruttivamente le tracce del suo passaggio la natura non impiega secoli per riprendere il sopravvento, ma pochi decenni.

C’è però un altro punto di vista da considerare: quello della essenza “umana”. Gli uomini non hanno bisogno della tecnica solo per sopravvivere. Hanno si trasformato il mondo per adeguarlo alle proprie aspirazioni, alla propria interiorità, per raggiungere i propri scopi, ma lo hanno fatto a costo di arrivare a dipendere totalmente dalle risorse tecniche. Le nuove necessità dell’uomo sono sempre meno determinate dalla sua natura e sempre più dallo stesso progresso tecnico-scientifico. La liberazione si è tradotta in una nuova forma di dipendenza.

Non è necessario insistere oltre su questo aspetto. Basta guardarci attorno. O riflettere su ciò che facciamo, sul tipo relazioni che viviamo. Ogni aspetto della nostra vita oggi è condizionato dalla tecnica, anche quando riteniamo di non essere “fuori controllo”. Può sembrare terribile, per molti versi lo è: ma l’ho già scritto sopra, non abbiamo alternative alla tecnica. Come scrive Ortega: “L’unica alternativa possibile all’uso delle macchine è quella di ritirarsi in se stessi e limitarsi a contemplare il mondo, rinunciando ai propri sogni e alle proprie aspirazioni per un futuro migliore”, e “vivendo in un continuo e vacuo sforzo di adattamento ai suoi (della tecnica) mutamenti”.

Questo non significa che non abbiamo alcuna possibilità di riprenderne almeno in parte il controllo, di sfruttarne positivamente i potenziali, di decidere se e quando cambiare marcia e svoltare. Significa che abbiamo una alternativa non all’uso, ma nell’uso.

Per darci un taglio, ed evitare di incartarmi ulteriormente, ricorro ad un esempio. Di fronte alla crescente digitalizzazione delle opportunità e delle competenze si parla del rischio di una “amnesia digitale”. Con questo si indica sia la precarietà dei contenuti, che possono andare dispersi per un qualsivoglia motivo, dall’attacco hacker all’incidente tecnico nel sistema, sia la perdita di competenze, la loro atrofizzazione, dal momento che l’operatività può essere demandata ai sistemi operanti sul web. Pensiamo alle mappe stradali, o alle calcolatrici sullo smartphone, o all’enorme deposito di conoscenze presente su Google. È chiaro che se ci affidiamo all’ausilio delle mappe digitali, che ci suggeriscono ogni svolta del nostro percorso, alla lunga perdiamo la capacità di orientarci autonomamente, di interrogare la segnaletica stradale, di affidarci al ricordo visivo. Lo stesso vale naturalmente se anziché ricorrere alle competenze di calcolo mi affido alla calcolatrice, o se per le mie ricerche consulto Google anziché faticare a rintracciare, a leggere e a comparare le fonti scritte.

È però da considerare un altro fatto: questo modo di procedere esige un investimento di tempo, di attenzione, di sforzo molto inferiore a quello classico. Se ci disabitua all’uso delle nostre facoltà, libera però anche molto spazio nel nostro cervello, che può essere riempito con altre conoscenze e competenze. È qui semmai che viene fuori il vero volto del problema: lo spazio liberato andrebbe riempito con conoscenze e competenze intelligenti, non col ciarpame. La responsabilità quindi non è della tecnica, che fino a questo punto ci offre una opportunità, ma nostra: siamo noi a dover decidere come utilizzare positivamente questi spazi. Il fatto che ciò non avvenga non può essere imputato all’invadenza degli strumenti, ma all’incapacità nostra di farne un uso sensato.

Quindi, lasciamo perdere le recriminazioni su come è andata a partire da Adamo ed Eva, o i vagheggiamenti di un’Arcadia presocratica desertificata dall’iper-razionalizzazione e dalle tecnologie. Abbiamo demandato alla tecnica la soluzione dei nostri problemi materiali, ci stiamo accingendo a demandarle anche il compito di pensare e decidere per nostro conto. È il momento di tracciare dei confini, e questo siamo ancora in grado di farlo: se non ci riusciremo come comunità umana, potremo comunque sempre volerlo come singoli. Non ci sono alibi.

Come vorrebbe dimostrare la postilla successiva.

2)  Ne La société du spectacle Debord indica tra i suoi riferimenti Cervantes, dandogli atto di aver precocemente intuito dove sarebbe andata a parare la “modernità”. E questo pur vivendo lo scrittore spagnolo in un paese che nel XVII secolo accusava un grave ritardo nella nascita di un capitalismo moderno. Nella seconda parte del Don Chisciotte attorno al “cavaliere dalla trista figura” viene infatti costruito un mondo artificioso, nel quale tutti recitano uno spettacolo ininterrotto, un po’ alla maniera del Truman Show. In questo caso lo spettacolo non è finalizzato come accade oggi a realizzare un dominio economico e psicologico totale, risponde semplicemente alla maligna voglia di divertimento del duca e della duchessa d’Aragona; ma si tratta comunque di una rappresentazione ingannevole, nella quale tutti hanno una loro parte, e che finisce per far perdere il senso della realtà anche a chi l’ha inscenata. Mano a mano che l’inganno si complica e richiede una partecipazione sempre più allargata ci accorgiamo che i primi a crederci sono proprio coloro che lo ordiscono, nel senso almeno che nello sbeffeggiamento della loro vittima cercano un riscatto, qualcosa che dia un surrogato di senso alle loro vuote esistenze.

L’ultima rilettura del romanzo mi ha rafforzato nel convincimento che avevo già maturato sessant’anni fa, al primo incontro: il cavaliere sarà un pazzo, almeno in base ai criteri di normalità che vigevano all’epoca e vigono tutt’oggi, ma non è un idiota. Attraversa tutte le sue disavventure consapevole di vivere nell’illusione, ma preferisce quella eroica che lui stesso si è scelta a quella squallidamente prosaica nella quale gli altri pretenderebbero di confinarlo. Lo dice chiaramente nel suo testamento: “Ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest’alta e nuova impresa”. Ma non è l’unico ad avere questa consapevolezza: poco alla volta la sua determinazione scuote anche l’ignavia di Sancho Panza, e apre gli occhi a Sansone Carrasco, lo studente di Salamanca suo amico-avversario, che così lo ricorda dopo la morte: “Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò, / e che pure nella morte / la sua vita trionfò. / Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura; / fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto”.

L’hidalgo non ha combattuto e vissuto invano.

Appendice

Informazioni più dettagliate sul situazionismo si possono trovare cliccando la voce su Wikipedia, e magari andando poi a confrontarle con quelle presenti su altri siti (ad esempio, su quello della Treccani, su Situazionismo.it, su Anarcopedia, ecc …) o in blog come Doppiozero e Carmilla; oppure consultando direttamente volumi come “AA VV, Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998”, o “Mario Perniola, I situazionisti, Castelvecchi, 2005”, e “L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013”.

È difficile dare un’idea dell’impatto reale che il situazionismo ha avuto sul pensiero alternativo del secondo novecento. Nato nell’ambiente delle avanguardie artistiche, il movimento si è poi spostato progressivamente sul terreno della critica rivoluzionaria, andando incontro nel frattempo a diverse scissioni (chi ha vissuto gli anni attorno al Sessantotto sa di cosa parlo) e prestandosi alle più svariate riletture. Gli va comunque riconosciuto di aver portato nella sinistra una ventata di rinnovamento, mettendo a nudo i ritardi e le miopie dei partiti tradizionali e la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni in atto nel secondo dopoguerra.

Aggiungo solo un personalissimo ricordo di uno degli autori qui citati, Mario Perniola, una delle persone più aperte, intelligenti e disponibili che io abbia mai conosciuto, a dispetto di una non sempre totale convergenza delle nostre opinioni. Lo cito perché, a differenza di troppi altri cialtroni incontrati dentro e fuori del mondo accademico, mi ha regalato, col suo solo modo di essere, una straordinaria lezione di vita.

 “Manifesto”, redazionale del 17 maggio 1960, I.S. n. 4, Giugno 1960

Una nuova forza umana, che il quadro esistente non potrà soggiogare, si accresce di giorno in giorno con l’irresistibile sviluppo tecnico e l’insoddisfazione per i suoi impieghi possibili nella nostra vita sociale privata di senso. L’alienazione e l’oppressione nella società non possono venire pianificate in nessuna delle loro varianti, ma solo rigettate in blocco con questa stessa società. Ogni progresso reale è evidentemente sospeso alla soluzione rivoluzionaria della multiforme crisi del presente.

Quali sono le prospettive d’organizzazione della vita in una società che, autenticamente, “riorganizzerà la produzione sulle basi di una associazione libera ed uguale dei produttori”? L’automazione della produzione e la socializzazione dei beni vitali ridurranno sempre di più il lavoro come necessità esterna, e daranno infine la libertà completa all’individuo. Liberato così da ogni responsabilità economica, liberato da tutti i suoi debiti e le sue colpe verso il passato e gli altri, l’uomo avrà a disposizione un nuovo plusvalore, incalcolabile in denaro perché impossibile da ridurre a misura del lavoro salariato: il valore del gioco, della vita liberamente costruita.

L’esercizio di questa creazione ludica è la garanzia della libertà di ognuno e di tutti, nel quadro della sola uguaglianza garantita con il non sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La liberazione del gioco, è la sua autonomia creativa, che supera l’antica divisione tra il lavoro imposto e i divertimenti passivi. La Chiesa ha bruciato un tempo le cosiddette streghe per reprimere le tendenze ludiche primitive conservate nelle feste popolari. Nella società attualmente dominante, che produce in maniera massiccia degli squallidi pseudo-giochi di non partecipazione, una vera e propria attività artistica è classificata necessariamente come criminalità. È semiclandestina. Si presenta come fatto scandaloso.

Cos’è, in effetti, la situazione? È la realizzazione di un gioco superiore, con più esattezza, è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana. I giocatori rivoluzionari di tutti i paesi possono unirsi nell’I.S. per cominciare ad uscire dalla preistoria della vita quotidiana. Proponiamo fin d’ora un’organizzazione autonoma dei produttori della nuova cultura, indipendente dalle organizzazioni politiche e sindacali che esistono in questo momento, poiché non riconosciamo loro la capacità di organizzare nient’altro che il riassetto dell’esistente.

L’obiettivo più urgente che fissiamo per questa organizzazione, dal momento in cui esce dalla sua fase sperimentale iniziale per una prima campagna pubblica, è la presa dell’UNESCO. La burocratizzazione, unificata su scala mondiale, dell’arte e di tutta la cultura è un fenomeno nuovo che esprime la profonda affinità dei sistemi sociali coesistenti nel mondo, sulla base della conservazione eclettica e della riproduzione del passato. La risposta degli artisti rivoluzionari a queste nuove condizioni deve essere un tipo nuovo di azione. Siccome l’esistenza stessa di questa concentrazione direttoriale della cultura, localizzata in un solo edificio, favorisce la conquista con un putsch; e siccome l’istituzione è del tutto sprovvista della possibilità di un uso sensato al di fuori della nostra prospettiva sovversiva, ci troviamo giustificati, di fronte ai nostri contemporanei, se ci impossessiamo di questo apparato. E l’avremo. Siamo determinati ad impadronirci dell’UNESCO, anche se per poco tempo, perché siamo sicuri di fare all’istante un’opera che resterà tra le più significative per illuminare un lungo periodo di rivendicazioni.

Quali dovranno essere i caratteri principali della nuova cultura, prima di tutto in rapporto all’arte del passato?

Contro lo spettacolo, la cultura situazionista realizzata introduce la partecipazione sociale.

Contro l’arte conservata, è un’organizzazione del momento vissuto, direttamente.

Contro l’arte parcellare, sarà una pratica globale basata contemporaneamente su tutti gli elementi utilizzabili. Tende naturalmente ad una produzione collettiva e senza dubbio anonima (almeno nella misura in cui, non essendo le opere immagazzinate in merci, questa cultura non sarà governata dal bisogno di lasciare delle tracce). Le sue esperienze si propongono, come minimo, una rivoluzione del comportamento ed un urbanismo unitario dinamico, suscettibile di essere esteso all’intero pianeta, e di essere poi diffuso su tutti i pianeti abitabili.

Contro l’arte unilaterale, la cultura situazionista sarà un’arte del dialogo, un’arte dell’interazione. Gli artisti — con tutta la cultura visibile — si sono separati del tutto dalla società, come sono separati tra loro dalla concorrenza. Ma anche prima di questa impasse del capitalismo, l’arte era essenzialmente unilaterale, senza risposta. Essa supererà questo periodo chiuso del suo primitivismo a favore di una comunicazione completa.

Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di “scuole”, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente ma simultaneamente. Inauguriamo ora quello che sarà, storicamente, l’ultimo dei mestieri. Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno «artisti», in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la costruzione della loro vita. Tuttavia, l’ultimo mestiere della storia è così vicino alla società senza divisione permanente del lavoro, che non gli si riconosce la qualifica di mestiere quando fa la sua apparizione nell’I.S. A quelli che non ci comprendessero bene, diciamo con un irriducibile disprezzo: “I situazionisti, di cui vi credete forse i giudici, vi giudicheranno un giorno o l’altro. Vi aspettiamo alla svolta, che è la liquidazione inevitabile del mondo della privazione, sotto tutte le forme. Questi sono i nostri fini, e saranno i fini futuri dell’umanità”.

Ariette 24.0: L’onda lunga

di Maurizio Castellaro, 2 gennaio 2025

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

La migrazione dei popoli è un’onda lunga, non sempre la vediamo perché restiamo molto tempo sott’acqua. Ma a volte si riesce a salire a respirare, e allora ci accorgiamo che attorno a noi galleggiano milioni di persone, portatrici sani delle loro culture aliene. Sono giovani neri eredi di tribù guerriere, con il DNA della pretesa nella testa, li riconosci perché anche dopo dieci anni in Italia non conoscono la nostra lingua.

Sono giovani asiatici che vivono a testa bassa con sulle spalle il peso di fratelli piccoli e genitori anziani e malati, che aspettano le loro rimesse come ultima speranza. Sono donne latine basse e grasse, che creano clan per difendere se stesse e i bambini dai loro uomini pigri e violenti. Sono giovani arabi e albanesi che postano stati davanti a Ferrari posteggiate e a vetrine di Gucci, anche se non hanno casa e dormono sotto i ponti. La loro linea dei diritti trova solo raramente punti di incontro con la nostra sbertucciata linea dei doveri.

Di fronte al carico di domande di quest’onda lunga, che dilaga silenziosa, non ci sono risposte possibili, non ci sono risorse sufficienti, non ci sono culture disponibili. Il Novecento si è inabissato da tempo con tutto il suo cucuzzaro, e per imparare a nuotare in quest’onda ci vorrebbe un pensiero con le branchie, ma è ancora presto, maledettamente presto. Dal kebabbaro (sono tutti del Kurdistan) dopo la mezzanotte non ci sono più clienti e allora fanno passare in tv video di musica del loro paese di origine. Ascolto affascinato quella musica ipnotica e bellissima, che affonda le sue radici in una tradizione culturale millenaria, di cui ignoriamo tutto. Quanta bellezza, quanta sapienza, quanto oro c’è nelle tasche vuote di queste persone che galleggiano sull’onda accanto a noi? È una domanda vagamente perturbante. Forse è una domanda con le branchie.

Indietro tutta! (introduzione)

di Paolo Repetto, 14 dicembre 2024, introduzione al Quaderno Indietro tutta!

Non ho paura di morire.
ma ho paura di morire per stupidità.

Nei romanzi di Verne il comando “Indietro tutta!” veniva impartito, anzi, urlato a squarciagola, quando il piroscafo rischiava di finire sugli scogli, o di arenarsi in una secca (in quelli di Salgari più raramente, perché preferiva i velieri, sui quali la formula era “vira tutta a tribordo!”). A me vien voglia di gridarlo quotidianamente, ogni volta che apro un giornale, accendo la tivù o semplicemente faccio una passeggiata in città e mi guardo attorno. Ma ho l’impressione che sia ormai tutto inutile: le cose corrono avanti come si fossero totalmente sottratte alla nostra volontà: nostra come umanità intendo, ma anche come singoli individui. Siamo rassegnati, e anche quelli che sembrano non esserlo partecipano in realtà più o meno consciamente come figuranti al padre di tutti gli eventi, al grande spettacolo messo in piedi (ma sarebbe più corretto dire “autoprodotto)” per celebrare la fine.

Si dovrebbe aggiornare l’apologo raccontato da Kierkegaard in Aut Aut: “Accadde in un teatro che le quinte prendessero fuoco. Il pagliaccio venne a darne notizia al pubblico. Tutti credettero che fosse soltanto una battuta di spirito e il pagliaccio fu applaudito. Allora egli ripeté l’avviso, ma il divertimento aumentò ancora. Ecco, penso che il mondo perirà tra il divertimento universale della gente di spirito, che crederà che sia uno scherzo”. (Neanche a farlo apposta, una cosa del genere è poi accaduta in un teatro di Edimburgo a fine Ottocento: gli spettatori evidentemente non erano lettori di Kierkegaard, si divertivano un mondo, e per farli smuovere ci volle la forza).

Il pagliaccio infatti c’è ancora, anzi, ce ne sono un sacco, ma sono molto meno seri e credibili di quello di Kierkegaard. Ormai anche quelli che dicono la verità lo fanno dalla pista del circo, in favore di telecamera o di smartphone, esibendosi in performance che degradano la protesta a fastidiosa buffonata. E ci sono ancora pure gli spettatori, con la differenza però rispetto all’originale che, lo vogliano o no, sono consapevoli del disastro imminente, eppure reagiscono allo stesso modo, applaudendo. Nemmeno con la forza (la dittatura ecologica che molti auspicano come extrema ratio) li si potrebbe dissuadere dal divertirsi.

Non sto annunciando la fine del mondo, non voglio recitare la parte del pagliaccio, al più mi riconosco in quella dello spettatore, perché nel teatro ci sono anch’io. Ma la fine dell’umanità, o almeno dell’umanità come l’ho conosciuta e come la intendevo io, quella sì. Credo che il pericolo più imminente non venga dal dissesto ambientale, ma da quello intellettuale e psicologico. Vedo crescere un atteggiamento collettivo nei confronti della vita totalmente disinteressato al futuro, alla sorte di chi verrà dopo, ai sacrifici e ai meriti di chi è venuto prima. Vedo un patrimonio di cultura accumulato negli ultimi cinque millenni ridotto in cenere, con una élite di intellettuali loggionisti che cinicamente plaude alle fiamme e una platea rincoglionita che acclama a comando senza capire un accidente di quanto accade in scena, attenta comunque solo allo schermo dei cellulari.

Vedo tutto questo, ma cerco comunque di seguire la rappresentazione, pur avvertendo un sempre più forte puzzo di strine, e anche se so già come andrà a finire. E mi sento persino ridicolo, o peggio, patetico, a insistere nel criticare gli interpreti, la regia, la sceneggiatura, come fossi convinto che lo spettacolo possa e debba continuare.

Per fortuna ci sono gli intervalli. Non quelli ufficiali, che vedono la corsa alla buvette, ma quelli che mi ritaglio io, uscendo a prendere una boccata d’aria o a fumare una sigaretta. Guardo fuori, che in questo caso vale per guardo indietro, e mi abbandono a pensieri e a ricordi che per un attimo mi strappano da quello che troverò rientrando. Forse come atteggiamento, di fronte all’incendio che vedo avanzare, è altrettanto patetico: ma almeno mi risparmia di applaudire.

Andare e tornare per strade contorte

di Fabrizio Rinaldi, 24 novembre 2024

Solo lungo vie secondarie e deviazioni
si può raggiungere la meta.
Sven Lindqvist, Nei deserti, Ponte alle Grazie 2002

Viaggiare, per molti, significa “vacanza”: una fuga dalla routine verso l’agognata meta, che sia una spiaggia, una vetta o un qualsiasi luogo dove concedersi l’ozio. Ma per chi, come me, fa il pendolare per scelta e necessità, lo spostarsi è la perenne condizione per recarsi al lavoro e, al contempo, per fare altro. È in questo viaggio forzato che trovo le mie personalissime evasioni mentali e una pausa dalla frenesia del quotidiano.

Vivere nei boschi, in una casa piuttosto isolata, lontano dal caos cittadino e dai borghi assopiti, mi consente di impostare un ritmo di vita che si avvicina alla mia natura: più lento, più consapevole di ciò che mi accade attorno. Almeno, ci provo. Non sempre ci riesco, spero di farcela almeno fino a quando le gambe reggeranno il salire fino alla provinciale quando la neve e il ghiaccio impediscono di portare l’auto sotto casa. Ironia della sorte, oggi il cambiamento climatico fa sì che nevicate e gelate siano eventi eccezionali, non la normalità di appena quindici anni fa. E così mi ritrovo, paradossalmente, a sperare nel perpetuarsi di questi cambiamenti al fine di salvaguardare il mio volontario isolamento (cosa mi tocca sperare!).

Abitare a un centinaio di chilometri dal lavoro è, fra l’altro, il mio modo per mantenere una giusta distanza dalle incombenze professionali e anche da quelle domestiche: una sorta di rigenerazione che mi consente di non essere assorbito da nessuna di queste due dimensioni in modo eccessivo. C’è qualcosa di insopportabilmente claustrofobico nell’avere tutto troppo vicino, troppo a portata di mano. È vero anche che ciò implica una piccola evasione dall’uno e dall’altro mondo, ma questo è il mio modo di tirare dritto.

Il pendolarismo, però, non è senza costi: cantieri eterni, strade interrotte, viadotti fatiscenti, code su code e continui aerosol di smog. Ogni viaggio diventa un calcolo incerto sul percorso più scorrevole, un compromesso tra tempo e pazienza. Così, quando posso, scelgo strade secondarie, quelle che si snodano tra i boschi incolti e i paesi sempre più deserti dell’entroterra ligure.

Non sto qui a fare la disamina della bellezza paesaggistica incontrata e delle ignorate potenzialità ambientali, culturali e strategiche dell’appennino, perché c’è chi lo ha fatto molto meglio di me, raccontandolo in un poderoso volume che invito a leggere per scoprirne i percorsi: Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti.

Andare e tornare per strade contorte 02

Il mio tragitto passa per Cremolino e Cassinelle, poi diviene una sequenza di curve fra boschi di castagno, faggio e rovere nella zona di Bandita. Dopo Cimaferle, la strada si fa più esposta e senza sponde, ove la distrazione è un’opzione non consigliabile. Alla Maddalena, immancabilmente, il termometro segna la temperatura più bassa del tragitto (lo scorso inverno, una mattina il cruscotto segnava -18°C, un preludio artico alle incombenze lavorative). Attraverso il centro “dis”-abitato del Sassello, poi arrivano le gole che sfociano a Stella (ha dato i natali al presidente partigiano Pertini, per il resto nulla di ché), per giungere infine ad Albisola, e da lì percorro l’Aurelia fino a Pietra Ligure. Per molti il tratto costiero è quello più suggestivo, con la vista sul mare e la luce del sole che si riflette su di esso; per me, invece, è il primo tratto a essere il più intenso, quello in cui si è veramente soli, senza incroci, senza città.

Gli incontri, su quelle strade poco trafficate, in realtà non mancano: lepri che passano rapide, volpi che si nascondono tra i rami, cinghiali che attraversano repentinamente, caprioli che sembrano osservarmi. Spesso il succiacapre se ne sta sull’asfalto fino all’ultimo istante prima di alzarsi in volo. Un paio di volte ho incrociato lo sguardo di un lupo, pendolare pure lui nel cercare una terra da conquistare: un attimo e poi la sua figura si è dileguata tra gli alberi. Giusto per ricordarmi che sono io l’ospite che attraverso il suo territorio. E pure sgradito.

Il viaggio per strade disagevoli è così una parentesi di autorigenerazione che richiede pazienza e attitudine alla solitudine. È qui, nella lentezza forzata della strada storta, che ritrovo il piacere della pausa: ogni svolta segna un distacco dalla frenesia che pervade la maggior parte dei nostri giorni. È come leggere un libro di poesie dove ogni verso ispira pensieri che altrimenti, semplicemente, non emergerebbero.

Andare e tornare per strade contorte 03

[…] le Alpi sono solo la cornice esterna del paese. Gli Appennini invece ne sono l’anima, lo stomaco, la colonna vertebrale. E sono lunghi quasi il doppio. Senza di loro, la patria si affloscerebbe come uno Zeppelin senza gas nella pancia.
Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli 2007

Però non viaggio mai del tutto da solo. Durante questi percorsi ascolto la mia selezione di brani adatti per il viaggio (ai tempi dei cd avevo assemblato una personalissima “razione kappa” adatta alla contingenza, ora mi affido a Spotify), oppure accendo la radio sintonizzata perennemente su Radio3, ma durante i viaggi notturni della pandemia ho iniziato a seguire molti podcast e ora sono diventati i miei compagni più fedeli. Parto con una raffica delle ultime puntate di Non hanno un amico con le freddure di Luca Bizzarri, di Timbuctu di Marino Sinibaldi e di Cose (molto) preziose di Loredana Lipperini (questi ultimi reduci da Fahrenheit di Radio3). Continuo con Copertina di Matteo B. Bianchi, Il posto delle parole di Livio Partiti, la trasposizione della trasmissione televisiva La torre di Babele di Corrado Augias, Mirabilia di Alessandro Calzolaro e Chiedilo a Barbero dello storico più iconico del momento.

Curva dopo curva, episodio dopo episodio, il viaggio si trasforma in una conversazione con queste voci e con i loro ascoltatori, che a loro volta stanno attraversando un proprio “bosco”, forse metaforico, forse reale, ma che, seppur distanti, sono lì con me, lungo quei tornanti.

Il bosco e il podcast diventano così simboli opposti e complementari. Da un lato ci sono le colline e le strade secondarie che mi connettono con un mondo naturale, privo di filtri, colmo di stimoli, sorprendente con i suoi scorci sul paesaggio e negli incontri furtivi con i suoi abitanti. Dall’altro il podcast, che mi fa sentire dentro una comunità selezionata, piena di cultura mainstream, accuratamente tarata su di me. È come se viaggiassi tra due poli: la comunità organica del bosco e quella mentale degli intellettuali. Quella vegetale è aperta all’ignoto e pronta ad accogliere l’inusuale, mentre quella culturale, per quanto rassicurante, mi sembra inevitabilmente soffocante: i miei gusti si trasformano anch’essi in merce, ciò che ascolto è finalizzato ad assecondare le mie piste precostituite, divenendo come le strade contorte che percorro, tanto abituali che quasi non mi rendo conto di farle ogni giorno.

Il rischio di una personalizzazione eccessiva è in agguato. La possibilità di creare una programmazione su misura rischia di generare “bolle” informative sempre più confortevoli, allontanandoci da quei punti di vista diversi, a volte persino stridenti, necessari per fornire un contraltare, un dubbio che possa incrinare le certezze o, al contrario, consolidare le convinzioni. In fondo è pure di questo che abbiamo bisogno: applicare il metodo sperimentale galileiano alle nostre convinzioni al fine di confrontarle e sottoporle a prove di forza, affinché possano emergere in un distillato di valori con cui ritemprarci. A volte è fondamentale cambiare strada per scoprire nuovi scorci che altrimenti resterebbero ignoti.

Vivo così una perenne dialettica tra il desiderio di appartenenza e il bisogno di indipendenza: è una costante ricerca di equilibrio, di quell’acme in cui lasciarmi ispirare senza isolarmi, ascoltare senza chiudermi, appartenere senza smarrirmi. Mi chiedo quanto io sia aperto davvero all’imprevisto, al pensiero diverso, alla voce sconosciuta. Per questo, a volte, spengo tutto e lascio spazio al silenzio, un compagno imprevedibile e, forse, più sfidante di qualsiasi altro.

Come scriveva Friedrich Nietzsche in Ecce Homo “Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi qualsiasi come”. E il mio perché è proprio questo: la pervicace ricerca di significati che vadano oltre l’apparenza, affinché sia maggiormente sopportabile la difficoltà della ripetitività, nella convinzione nietzschiana che ciascuno è artefice del proprio destino e dei valori a cui affidarsi.

Andare e tornare per strade contorte 04

Si vorrebbe sempre essere: essere stati, mai. E ci ripugna di non poter vivere contemporaneamente in due luoghi, quando l’uno o l’altro vivono nel nostro pensiero. Possiamo metterci in viaggio. Ma mentre la meta si avvicina e diventa reale, il luogo di partenza si allontana e sostituisce la meta nell’irrealtà dei ricordi; guadagniamo una, e perdiamo l’altro. La lontananza è in noi, vera condizione umana.
Mario Soldati, America primo amore, Mondadori 1959

Si suol dire che le strade sono una perfetta metafora della vita: partenza, tragitto e arrivo lungo un percorso a tratti tortuoso, con salite e discese, intervallato da ostacoli, interruzioni, cambi di direzione, incidenti, nebbia, pioggia, neve, ecc … Ciò che fa la differenza è il personale stile di guida, il modo in cui ciascuno affronta le curve e come schiaccia sul pedale.

Si può scegliere di pigiare sull’acceleratore per contendere il traguardo a chi è percepito come un competitore: ma questa opzione raramente appaga e di norma il traguardo non lo si raggiunge. Anche perché il contendente vero è il tempo, e a mettersi in gara con esso si finisce immancabilmente in riserva.

A volte le vie terminano in vicoli ciechi che impongono la retromarcia, di reimpostare tutto il percorso per uscire dal ginepraio in cui ci si è cacciati. Con o senza Google Maps, è necessaria molta umiltà per imboccare la via giusta che porta a destinazione. Questa, fra l’altro, non resta fissa: muta e si sposta, a volte sparisce per riapparire sotto forme diverse.

Mentre transito ai 60 all’ora davanti all’ennesimo autovelox quando il limite, assurdo in un rettilineo nel bosco, è di 30, mi viene in mente che il nuovo codice stradale prevede multe molto più salate. Possibile che non ci siano altre soluzioni rispetto a quelle sanzionatorie? Ricordo che all’inizio del mio peregrinare coprivo in poco più di un’ora lo stesso tratto che ora percorro in oltre due. Com’è possibile? Sarebbe troppo semplice additare lo sfacelo infrastrutturale all’attuale ministro dei trasporti (che peraltro si occupa di tutto tranne che di questo). È solo l’ultimo in una tradizione secolare di incompetenza. In pratica è dai tempi dei romani che in questo paese non si dedica un interesse adeguato alla viabilità. Loro dovevano spostare velocemente merci e truppe nel loro immenso impero. Non voglio sperare che per avere delle strade decenti sia necessario vedere delle centurie marciare al comando di politici in cerca di consenso al grido di “Ave Meloni” in direzione dell’Ucraina, della Cina o dei “barbari” immigrati di turno.

Andare e tornare per strade contorte 05

Faccio la mia passeggiata,
essa mi porta un poco lontano
e a casa; poi, in silenzio e senza
parole, mi ritrovo in disparte.
Robert Walser, Poesie, Ed. Casagrande 2000

Tornando al mio viatico, se al mattino percorrere le strade mancine dell’appennino è uno svelamento di ciò che mi attende e una riflessione sul da farsi (lavorativamente parlando, ma non solo), alla sera ripercorrere le stesse carreggiate non è semplicemente un’inversione di marcia, ma un nuovo viatico inframezzato dall’ascolto di Fahrenheit, dai podcast e dai silenzi fra un cantiere stradale e l’altro.

È facile fare un parallelismo fra il riandare a ritroso i tornanti e lo scendere dal Tobbio dopo una sempre più faticosa salita (l’ultima volta le mie ragazze mi hanno deriso dalla vetta per quasi venti minuti prima che riuscissi, arrancando, a raggiungerle). Se l’andata è sinonimo di apertura verso differenti stimoli e idee su cui riflettere, il ritorno dà forma a una sorta di discesa intima, che predispone alla chiarezza e, a tratti, al distacco necessario per guardare in prospettiva ciò che il giorno ha portato.

Tornare significa sottrarre, allontanarsi, lasciare alle spalle per trattenere solo l’essenziale e fare valutazioni sui traguardi raggiunti, ma in questo caso l’elenco degli spostamenti tracciati da Google Maps non consente di tirare le fila, anzi evidenzia le centinaia di ore trascorse a rimuginare, a macinare chilometri, ad ascoltare podcast, ma anche a procrastinare il prendere decisioni.

Il tornare indietro non è dunque un mero tirare dritto verso il mio rifugio nel bosco, ma un rituale necessario affinché il sedimento dell’ipocrisia, delle frustrazioni, dei dubbi, del superfluo si depositi sul fondo della damigiana e il travaso in bottiglia avvenga senza smuovere troppo. Altrimenti resta il torbido in bocca.

Ogni giorno il mio pendolarismo diventa così un’esperienza a sé, fatta di salite e di discese, dell’andare a gestire problemi (sul lavoro mi definiscono ironicamente il Signor Wolf, di Pulp fictioniana memoria), ma anche di un tornare con la convinzione di aver imbottigliato del vino buono.

Si srotolano così gli ultimi tornanti fino alla discesa che conduce all’intimità casalinga, ove a volte le dinamiche da reggere non sono meno complicate. Che poi “reggere” non è il termine corretto, rende forse più l’idea “esser travolti” dalle vicende familiari, specie quando a casa ci sono tre donne, fra cui una consorte psicoterapeuta con la fascinazione del mondo bioenergetico (o signur!) e due preadolescenti cellular-dipendenti, in piena fase di rifiuto del genitore che vorrebbe ostinatamente riuscire a insufflare delle regole di buon senso.

In certi casi la resa è un’opzione necessaria e il sonno ha la meglio su tutto.

Collezione di licheni bottone

Andare e tornare per strade contorte 06

Le elezioni americane e noi

di Giuseppe Rinaldi, 18 novembre 2024

Pubblichiamo la tempestiva riflessione di Beppe Rinaldi sull’esito delle presidenziali americane, col consenso dell’autore e per gentile concessione del blog “Città futura”, dove questo breve saggio è già comparso. Inutile dire che un’analisi così puntuale ed esauriente non l’avevamo ascoltata in alcuna trasmissione televisiva o letta su alcun quotidiano. Di Trump si è parlato sin troppo, ma Rinaldi si è concentrato giustamente, con la lucidità impietosa che già abbiamo imparato a conoscere dagli altri suoi scritti postati nel sito dei Viandanti, sull’ “… e noi”, allargando lo sguardo ben oltre la specifica contingenza delle elezioni americane. L’invito che rivolgiamo ora ai quattro gatti che ci seguono è di farsi vivi con eventuali osservazioni, obiezioni o proposte alternative di lettura della vicenda. Questo non servirà a rendere meno drammatica la situazione che ci apprestiamo a vivere (e che in realtà stiamo già vivendo da un pezzo), ma almeno ci aiuterà a rimanere un po’ più svegli.

1. Le recenti elezioni[1] americane del 5 novembre 2024 – che hanno determinato la vittoria del repubblicano Donald Trump sulla concorrente democratica Kamala Harris – meritano qualche riflessione, poiché costituiscono senz’altro un evento rivelatore, non soltanto della situazione politico sociale degli USA ma anche delle prospettive della democrazia in Occidente e nel resto del mondo. Si tratta dunque di un evento che ci riguarda da vicino, ben più di quanto non sembri.

2. Personalmente, ammetto di avere sbagliato le previsioni. Sapevo bene come Trump fosse un candidato forte e pericoloso. Sapevo anche bene come la Harris fosse un candidato piuttosto debole, sia per la prestazione scarsa svolta come vice presidente, sia per l’avventurosa e sciagurata scelta dei Democratici di candidare prima Biden e poi di cambiare il candidato in corsa. La Harris non ha così avuto la possibilità di sfruttare il lungo processo delle primarie per farsi conoscere dagli elettori e mettere a punto il suo programma.

Tuttavia mi aspettavo, da parte degli elettori americani, una qualche reazione nei confronti di Trump, peraltro già visto all’opera, sempre più impresentabile, con la sua sfilza di denunce e condanne, con la questione giudiziaria pendente per l’assalto al Campidoglio da parte dei suoi seguaci. E con il suo atteggiamento nei confronti delle donne, con le sue spacconate da showman. Perciò mi aspettavo una vittoria di stretta misura da parte della Harris. Una vittoria che avrebbe potuto derivare da una specie di fronte di resistenza civile della parte migliore del Paese contro un candidato manifestamente pericoloso per i fondamenti stessi della democrazia americana. Mi aspettavo perciò anche un passaggio di consegne travagliato e lunghe contestazioni, magari su poche migliaia di voti. In altri termini, pensavo che il Paese dalla democrazia più vecchia del mondo avrebbe alla fine mostrato un residuo minimo di cultura civica democratica e sarebbe stato capace di reagire contro una minaccia così grave. Mi sbagliavo.

La vittoria di Trump è invece risultata netta e inequivocabile, non solo nella conquista dei delegati ma anche nel voto popolare. Trump ha ora in mano il Paese, avendo la Presidenza, avendo la maggioranza delle due Camere, avendo la Corte dalla sua parte. Avendo dalla sua oltretutto uno spoils system che produrrà un ricambio totale dei piani alti dell’Amministrazione. A questo quadro va aggiunta la presenza inquietante di Elon Musk, cui a quanto pare sarà conferito il compito di “alleggerire” lo Stato. Ci dobbiamo rassegnare: dell’America di Roosevelt non c’è neppure più l’ombra.

3. Certo, è stato da più parti sottolineato come gli avversari di Trump, i Democratici, guidati da una ristretta oligarchia di personaggi del tutto privi ormai di visione e di programmi, abbiano compiuto una serie incredibile di errori, consapevoli o meno che ne fossero. I Democratici avevano addirittura visto di buon occhio la candidatura di Trump nel campo repubblicano, con la convinzione di poterlo battere facilmente. Tuttavia, invocare come spiegazione della sconfitta le colpe dei Democratici sarebbe estremamente riduttivo. Al di là degli errori e delle carenze dei Democrats, evidentemente il sistema politico americano, nel suo complesso, non possiede più, al proprio interno, alcun antidoto efficace nei confronti delle tendenze anti-democratiche. I Repubblicani, dal canto loro, come partito tradizionale sono spariti, fagocitati dal movimento di Trump, il MAGA, (Make America Great Again!).

4. La cosa più preoccupante è che qui non siamo soltanto di fronte al caso americano. Non siamo soltanto di fronte ai limiti del sistema americano. Siamo evidentemente di fronte a un limite stesso dei sistemi democratici attuali, per lo meno in Occidente, che hanno mostrato di essere incapaci di reagire adeguatamente quando messi di fronte allo stile maturo del nuovo populismo. Il problema non è nuovo. Nel nostro Paese abbiamo ampiamente sperimentato il berlusconismo che aveva molti punti in comune con il Trump odierno e che addirittura, per molti aspetti, ha rappresentato una perfetta anticipazione del trumpismo. Dobbiamo costatare ormai che, in Occidente, le forme degenerate di democrazia (cui sono applicati nomi spesso fantasiosi, come democrazie autoritarie, democrature, sovranismi, democrazie del leader) sono sempre più diffuse, seppure con numerose varianti. E che si relazionano sempre più strettamente con le numerose altre democrazie border line ormai presenti in ogni angolo del Pianeta. Con queste ultime elezioni americane, la linea di tendenza è divenuta chiara.

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5. Se guardiamo questi esperimenti antidemocratici solo dal punto di vista del leader, dobbiamo rassegnarci a caratterizzarli col nome stesso dei leader, poiché ciascuno possiede caratteristiche proprie: trumpismo, berlusconismo, orbanismo, putinismo, erdoganismo, melonismo, mileismo (dall’argentino Javier Milei), bolsonarismo e così via. Possiamo metterci anche il lepenismo che non ha ancora governato in Francia ma che, probabilmente, vedremo all’opera ben presto. Ognuno ha il suo stile. Ognuno la sua storia. Ognuno i suoi caratteri idiosincratici. Ciò impedisce all’osservatore di identificare eventualmente i loro tratti comuni e impedisce di cogliere la questione di fondo: come è possibile che costoro siano democraticamente eletti, in un quadro di democrazia formale e poi, nella loro azione di governo, si esibiscano in provvedimenti anti istituzionali e anti democratici. Detto in altri termini, com’è possibile che le democrazie, invece di progredire e di maturare emendando i propri difetti, tendano oggi a scadere in circoli viziosi che danneggiano e indeboliscono sempre più le democrazie stesse. Spesso questi leader, nonostante il loro pessimo rendimento politico, sono felicemente rieletti, proprio com’è accaduto nel caso di Trump, di Berlusconi di Orban e di altri ancora.

6. Si tratta allora di cambiare il punto di vista. Si tratta di domandarsi com’è possibile che i cittadini elettori, in società ove sia presente un livello accettabile di democrazia formale, finiscano per eleggere, talvolta con maggioranze notevoli, dei personaggi che si atteggiano a leader popolari ma che nel contempo operano per distruggere le stesse fondamenta della democrazia. Il sospetto ormai è che non si tratti più di semplici errori dei cittadini elettori, dovuti ad astensione, distrazione, cattiva informazione, propaganda, creduloneria. Si tratta di prendere atto definitivamente dell’efficacia dello stile populista e, soprattutto, della più totale incapacità di reagire a questo stile da parte dei difensori della democrazia[2]. Del resto non si tratta di fatti rari o del tutto nuovi: è noto che alcune delle peggiori dittature del XX secolo hanno visto l’elezione degli stessi dittatori da parte del popolo e/o dei suoi rappresentanti. Non è il caso tuttavia di usare il solito appellativo di fascismo o totalitarismo nei confronti di questi nuovi populismi. Si finirebbe per non capire un bel niente. Proviamo allora a circoscrivere il problema: occupiamoci degli ultimi decenni e occupiamoci delle tendenze antidemocratiche che in vario modo hanno preso piede in molte delle democrazie, anche quelle di più antica e nobile origine. Con l’ipotesi che l’odierno Trump sia solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Altri ne verranno.

7. Siamo in presenza, dunque, di trasformazioni regressive della democrazia che avvengono attraverso competizioni elettorali che possono anche essere formalmente regolari, sebbene siano sempre possibili anche brogli, forzature e simili. Perché si arrivi agli esiti delle maggioranze populiste che ci interessano, occorre una qualche forma di polarizzazione, con il conseguimento di una maggioranza che si contrappone a tutti, in nome del popolo. La retorica populista, con al centro il leader, tenderà ad avallare l’idea che la maggioranza costituita rappresenti l’intero popolo e che la volontà dell’intero popolo sia impersonata nel leader e nella sua cerchia. Non importa più di tanto se il movimento populista è orientato a destra o a sinistra. Il M5S in Italia ha ben rappresentato un populismo di sinistra, ma lo stile anti istituzionale era lo stesso. Le democrazie sono per loro natura pluralistiche. Ogni forma di polarizzazione dunque tende già di per sé a indebolire il pluralismo. Quando poi uno dei poli pretende di costituire la totalità siamo palesemente su una strada regressiva.

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8. Che cosa rappresentano effettivamente queste maggioranze populiste incarnate nel leader? La risposta tradizionale è che rappresentino degli interessi di tipo economico sociale. In genere si fa riferimento alle classi sociali coinvolte, che di volta in volta si ritiene di poter individuare e descrivere: operai, contadini, ceto medio, alta finanza, borghesia, militari, disoccupati, precari e così via. A volte si usano appellativi più fantasiosi: gli esclusi, gli emarginati, i danneggiati dalla globalizzazione, i dimenticati, i ceti medi sull’orlo della proletarizzazione, le fasce deboli, “Quelli che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese”. E così via.

Queste analisi potevano andare bene nel primo Novecento. Poi le cose si sono complicate. Il sociologo americano Ronald Inglehart[3] ha posto una linea di distinzione tra le società in cui la maggior parte della popolazione si confronta ancora con problemi di ordine materiale e le società in cui la maggior parte della popolazione gode invece di un relativo benessere e dunque può cominciare ad affrontare problemi di ordine immateriale. A cercare di soddisfare quelli che lui chiamava i bisogni post-materialisti. Così è accaduto che, con la crescita delle società occidentali, i portatori immediati di interessi “materiali” siano diventati via via meno numerosi, più evanescenti, lasciando il posto a una nuova configurazione sociale basata su distinzioni di tipo culturale. Accanto alle tradizionali differenze economiche e sociali, cosiddette di classe, hanno cominciato a comparire e a esser poste in primo piano altre differenze: differenze generazionali, di tipo religioso, di tipo linguistico, di tipo etnico, oppure anche differenze di genere. Si tratta di differenze che potremmo considerare non più di classe, bensì come identitarie. Ebbene sì, il benessere relativo diffuso in Occidente ha permesso a strati sempre più ampi il lusso di occuparsi di questioni identitarie.

9. Ma non basta. Andando ancora oltre, le identità si sono ulteriormente moltiplicate e suddivise secondo rivoli sempre più particolari. Spesso secondo linee di frattura di carattere etico[4]. Abbiamo avuto l’irruzione dei valori: i difensori della vita, i pacifisti, i difensori delle frontiere, i sovranisti, i beneficiari del reddito di cittadinanza o dei bonus, i negatori della crisi climatica e così via. Schierati, ovviamente, contro il nemico opposto: gli abortisti, i bellicisti, gli immigrati, i mantenuti a far nulla o gli sfruttatori delle regalie, gli ecologisti fondamentalisti. Ma poi abbiamo avuto anche – sociologicamente – delle linee di frattura che non rappresentano neppure interessi, identità o valori consapevoli, ma che semplicemente si limitano a registrare differenze in termini di distanza, separazione, repulsione, odio, rancore, stigma. Spesso si coagulano come atteggiamenti taciti che sono sempre in cerca di occasioni per esplicitarsi e scatenarsi. Ad esempio l’omofobia, il rancore verso le élite, l’antipolitica, ossia il rancore verso i politici (“Roma ladrona”), il rancore verso le istituzioni (il “pizzo di Stato”), la xenofobia, e così via. In questo quadro di istigazione e moltiplicazione delle divisioni, possono anche comparire stigmatizzazioni del tutto inventate, come quella trumpiana recente degli “immigrati clandestini che uccidono e mangiano i cani e i gatti dei nativi”. A questi elementi si possono aggiungere anche ulteriori forme di identificazione in termini meramente simbolici, come le curve dello stadio, il machismo, le ideologie estremistiche magari dotate di riferimenti storici nazifascisti. Oppure i movimenti fake nati in rete, come nel caso di QAnon.

10. Tutti questi elementi divisivi, e svariati altri la cui lista è senza fine, costituiscono la materia basilare grazie alla quale viene oggi orchestrata la propaganda populista, con la quale si cerca di unificare, dietro al leader e ai suoi slogan, una maggioranza di seguaci convinti, con la quale si cerca cioè di dare vita a un “popolo”[5]. Il tutto in un intreccio inestricabile che mette insieme rivendicazioni economiche, invidia sociale, supposti diritti violati, rivendicazioni identitarie, paure, rancori, pulsioni violente, rituali simbolici contro gli avversari. Le motivazioni al voto, di cui sono portatori i populisti e che coesistono nel loro “popolo”, possono così intrecciare cose diversissime, come la concorrenza sul mercato del lavoro, l’astio verso gli omosessuali, il costo della vita, la paura di essere aggrediti per strada, l’invidia sociale verso particolari tipi di privilegiati, emarginazione e frustrazioni personali, l’adesione credula a fake news, a narrazioni complottiste, e così via. Vale qui il principio di Thomas: nella vita sociale, ciò che è creduto è reale nelle sue conseguenze. Dal loro punto di vista, si può dire che abbiano tutti ragione. Il populismo, nelle sue narrazioni pigliatutto, cerca di agitare tutte le motivazioni possibili, almeno quelle compatibili tra di loro. E talvolta riesce anche a mettere insieme motivazioni incompatibili (che cioè si rivelano incompatibili solo alla prova dei fatti). Ci si dovrebbe ricordare di quelle tecniche di propaganda sui social media, che adattano il messaggio al profilo di chi lo riceve. Il profilo di ciascun destinatario viene costituito sulla base dei big data raccolti in rete. Steve Bannon era specializzato in lavori simili. Un caso macroscopico dell’uso di queste tecniche, che ha avuto pieno successo, è stato quello della propaganda per la Brexit, inscenata da Farage e dai suoi in Gran Bretagna.

In altri termini, dobbiamo convincerci che non c’è più la marxiana classe universale, quella che subendo l’ingiustizia più totale diventava rappresentativa dell’umanità nel suo complesso. Che poi era ciò che giustificava la lotta degli sfruttati e organizzava la loro azione nella storia. E veniva così legittimata a prendere il potere, magari anche con la forza. Ci sono solo più degli aggregati eterogenei di motivazioni tenute insieme dal collante generico e superficiale, per lo più emotivo, degli slogan prodotti dal leader e dalla sua propaganda. Strano a dirsi, ma la cosa funziona.

11. Tuttavia, per fortuna, non tutti finiscono nel mucchio. Osservando queste improbabili artificiose aggregazioni, ci possiamo domandare se ci sono ancora delle variabili di ordine generale, che possano dar conto di questi rassemblement, di queste molteplici e infinite motivazioni, magari anche contraddittorie, che si ritrovano insieme, un po’ come attratte da una calamita. La calamita ovviamente, più che un programma politico dettagliato, è il leader. La vecchia sinistra nostrana su questo punto ha una risposta preconfezionata: dietro a tutto ciò, ci sono le condizioni economiche. Il vecchio economicismo è sempre di moda e opera come una spessa fetta di salame sugli occhi che impedisce di vedere le cose come stanno. È il caso dunque di ribadire ancora una volta che le condizioni economiche e sociali, per quanto ancora importanti, non sembrano essere più una variabile fondamentale nella costituzione dei nuovi blocchi elettorali populisti. Non ci sono più movimenti e partiti di classe (anche perché le classi sono sparite). Abbiamo cominciato ad accorgercene quando gli operai italiani hanno preso a votare per la Lega Nord, hanno cioè deposto l’universalismo tradizionale della sinistra e hanno aderito a una nuova formazione particolaristica su base etnica. Una vera e propria mutazione. È ormai luogo comune come il cosiddetto “popolo” del Novecento si sia allontanato dai partiti di sinistra per approdare spesso ai partiti di destra o all’astensionismo[6]. Mentre i partiti di sinistra vedrebbero ormai soltanto più l’adesione del ceto medio alto, la cosiddetta “area ZTL”[7]. Di questa tendenza sono state trovate notevoli conferme empiriche.

12. Spesso s’incolpano i partiti della sinistra storica di avere abbandonato il loro “popolo”, avendo compiuto così un colossale errore nell’offerta politica. Un errore dovuto evidentemente a dirigenti che hanno preso a coltivare ideologie sbagliate. I loro programmi si sarebbero così “imborghesiti”. Può darsi anche ci sia qualcosa di vero, soprattutto per quel che concerne i dirigenti, ma è un dato di fatto che quel popolo, cui la sinistra tradizionale si rivolgeva con notevole successo, oggi non c’è più. O, meglio, è diventato un’altra cosa. Quel popolo ha subito nei decenni una colossale mutazione antropologica[8], tale che le proposte della sinistra tradizionale sono diventate per loro estranee e irricevibili. Qualcuno storcerà il naso, ma è sufficiente guardare come stanno le cose, al di là delle più pervicaci illusioni. Tra i seguaci di Trump, già ricco di suo, abbiamo Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo. Accanto a costoro, stretti nello stesso “popolo”, abbiamo però numerosi bianchi del ceto medio, numerosi black e latinos, e i poveracci crédule di QAnon, nonché la feccia degli assaltatori del Campidoglio. È il caso di ricordare che da noi, il ricchissimo Berlusconi, notoriamente, raccoglieva il voto presso i ceti popolari e le casalinghe (nonostante trattasse le donne con una certa disinvoltura).

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13. Allora, chi sono prevalentemente quelli che finiscono nel mucchio populista? Osservando la dinamica delle aggregazioni elettorali populiste, la variabile più rilevante in assoluto sembra essere costituita dalla dicotomia tra le grandi città e le località periferiche. Una volta si diceva città e campagna. Oppure centro e periferia. Talvolta – come per ragioni storiche in Italia – questa dicotomia prende anche la connotazione di nord e sud. Basta osservare una mappa del voto territoriale di qualsiasi Paese occidentale per rendersi conto del peso enorme di questa variabile.

Certo, ogni Paese ha le sue specifiche mappe. Ad esempio, la distribuzione elettorale di destra e sinistra in Francia vede l’opposizione tra città e campagna: la sinistra sta nelle grandi città, e nell’area di Parigi in particolare. Gli estremisti di destra si concentrano nelle aree periferiche e nelle campagne. Si pensi ai gilet gialli. Spesso si qualificano come “i dimenticati”. Oppure, si vada a vedere la distribuzione territoriale del voto per la Brexit in Gran Bretagna: la dimensione città/campagna è stata clamorosa. Nel caso americano poi – si vedano le mappe elettorali – abbiamo la contrapposizione tra le due coste con la concentrazione delle grandi città (New York e Los Angeles/San Francisco) che son sempre state la tradizionale area dei Democratici, insieme agli Stati attorno ai Grandi Laghi, ora persi. D’altro canto, gli stati centro meridionali, la Bible belt e la Rust belt che sono ora terreno dei Repubblicani. Per capire l’enorme divide tra questi mondi, si pensi che una quota spropositata di americani nella Bible belt non crede alla teoria darwiniana e preferisce sostenere il creazionismo. Pare che nella prossima amministrazione, a occuparsi della salute degli americani sarà un fondamentalista No-vax. I seguaci di Trump, contro ogni evidenza, tendono a negare il cambiamento climatico. Insomma, due Mondi sempre più estranei.

14. La seconda variabile decisamente rilevante nella caratterizzazione delle aggregazioni populiste è il livello di istruzione. Da tempo è noto che il livello di istruzione condiziona enormemente l’analisi e la elaborazione delle informazioni ricevute. Può spingere a credere o a non credere ai messaggi, alla propaganda, alle fake. Il livello di istruzione determina poi il livello della definizione dei propri interessi materiali e culturali, dal particolarismo legato prevalentemente alla bassa istruzione, all’universalismo legato invece alla istruzione più elevata.

Abbiamo poi la variabile delle generazioni, cioè l’età, sebbene questa in sé non sia molto significativa e lo diventi quando legata ad altri fattori. Ad esempio, nell’America odierna la popolazione dei giovani dei college e delle università ha caratteristiche sue proprie ed è generalmente più progressista. In taluni casi sono presenti forme assai radicali di universalismo. Ciò è dovuto al fatto che i giovani che vanno al college o alle università si devono per lo più trasferire e così sono in un certo senso risocializzati nel nuovo ambiente che di solito è progressista e politicamente corretto.

Abbiamo poi ancora variabili come il genere e l’etnia (specie se legata a minoranze) che possono – seppure non sempre – avere un peso rilevante. Nel caso americano s’è visto come gli immigrati si siano schierati nettamente a favore di Trump contro l’immigrazione clandestina, considerata fonte di concorrenza economica e di disordine. All’interno delle diverse etnie, i rapporti tra i generi sembra abbiano avuto un certo peso elettorale: maschi neri non avrebbero simpatizzato per una possibile Presidente donna nera. Più in generale, l’America è ricca di movimenti, magari anche progressisti, che tuttavia pare abbiano finito per promuovere fratture e divisioni. Addirittura reazioni anti-establishment. Si pensi a stay woke e a BLM (Black Lives Matters). In molti Stati americani ci sono programmi progressisti che hanno lo scopo di favorire le minoranze (nell’ingresso alle università, nei concorsi, nelle assunzioni nel pubblico e nel privato). Tuttavia ciò ha prodotto l’accantonamento del criterio del merito, scatenando così rancori e rimostranze da parte degli esclusi. Tutto ciò s’è visto alla perfezione nei risultati elettorali americani.

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15. Tuttavia, per completare il quadro della polarizzazione antropologica delle società democratiche, va riconosciuto che tutto questo calderone non sarebbe stato possibile senza l’effetto dei media e soprattutto dei nuovi media. Nel nostro Paese abbiamo avuto una chiara anticipazione del peso di questa variabile nella figura di Berlusconi e del suo impero mediatico, con il suo relativo enorme conflitto di interessi che le istituzioni democratiche non sono riuscite a fronteggiare. Sottolineo, en passant, che i conflitti di interesse sono senz’altro tra le cause più sottovalutate del degrado delle democrazie. I nuovi media stanno dando un enorme contribuito alla polarizzazione e alla compartimentazione delle società contemporanee. I media relazionali producono una sorta di effetto bolla per cui essi tendono a mettere in comunicazione principalmente persone che si somigliano quanto a caratteristiche di fondo, motivazioni, interessi, visioni del mondo, tipo di linguaggio. In Italia ha fatto scuola la auto selezione dei militanti operata sul blog in rete dal movimento di Grillo. Il risultato era che i grillini si somigliavano tutti e ripetevano tutti le stesse cose.

16. In particolare, nel caso americano, i nuovi media hanno contribuito pesantemente a differenziare e separare la cultura delle élite rispetto alla cultura dei ceti popolari. Per essere più precisi, hanno consentito, in particolare, alla cultura dei ceti popolari di esprimersi, di organizzarsi e di contrapporsi con successo alla cultura delle élite, la quale aveva avuto invece da sempre anche altri canali. La cultura delle élite è la cultura delle due coste, delle grandi città, del reticolo delle grandi università e dei centri di ricerca, delle grandi imprese private che operano nel campo delle nuove tecnologie, o della AI, come Google, Facebook, Microsoft, che spesso si rappresentano come progressiste, sottoscrivono e promuovono le discriminazioni positive a favore delle minoranze e la cultura woke e il politically correct.

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17. La cultura dei ceti popolari è invece sempre stata assai più frammentata, distribuita sull’immenso territorio e spesso compartimentata in termini localistici, etnici e di genere. Tuttavia anche tra i ceti popolari le nuove tecnologie hanno contribuito a costruire e a mettere in contatto le bolle comunicative locali. Senza le nuove tecnologie, un fenomeno come QAnon sarebbe stato impossibile. Lo stesso vale anche – si badi bene – per le bolle dei progressisti: senza i nuovi media non avremmo il politically correct, la cancel culture, stay woke, me too e quant’altro. Solo che le bolle dei progressisti numericamente finiscono per contare assai meno. Notoriamente le élites costiere sono percepite in modo assai negativo dai ceti popolari, tra i quali fiorisce un forte sentimento anti-establishment. A loro volta le élites mostrano spesso un senso di superiorità e paternalismo nei confronti di questi ultimi. Sono mondi che non si parlano e che, così facendo, favoriscono la polarizzazione populista. È chiaro che i populisti possono realisticamente aspirare ad avere il numero dalla loro parte, poiché le culture delle élite sono per definizione numericamente ristrette.

Prima dei nuovi media si poteva pensare che le élite potessero fungere da avanguardie, guadagnare un’egemonia sul resto del Paese. Dopo i nuovi media, l’egemonia delle élite è sempre più contestata, poiché le culture popolari sono divenute relativamente autonome. E si esprimono. Si esprimono spesso identificando un leader, come paradossalmente diceva Marx, che fosse transfuga dalla propria classe, che usa linguaggi volgari, che si comporta come un carrettiere, disprezza la legge e le istituzioni, e così via. Senz’altro, tra i transfughi di successo dalla loro classe, possiamo annoverare Berlusconi, Trump e Musk.

18. Sulla scorta di questi elementi analitici di ordine generale, possiamo ora provare a decrittare alcuni aspetti specifici della cronaca che abbiamo visto all’opera in queste elezioni. Non sarò del tutto sistematico, farò solo alcune osservazioni sparse, scelte tra le questioni che mi sono parse più rilevanti.

La volgarità paga. In questo quadro, è stato un grande errore ritenere – come hanno fatto i democratici – che i trascorsi giudiziari di Trump, unitamente al suo stile volgare, antipolitico, immorale e scandaloso, avrebbero contribuito a screditarlo presso l’opinione pubblica. È invece accaduto esattamente il contrario. Nell’America polarizzata e spaccata, il personaggio Trump è stato visto dal polo populista come elemento anti-establishment, come il castigamatti nei confronti dell’élite. Del resto, anche nel caso di Berlusconi, il suo comportamento border line, nel pubblico e nel privato, il suo anti-istituzionalismo non gli hanno mai fatto perdere il consenso. Le volgarità non hanno mai fatto perder consenso alla Lega, sia nella versione di Bossi sia in quella di Salvini. Il linguaggio da borgatara di Meloni e quello parafascista di parte della sua compagine di governo – per quanto susciti strilli e infinite contumelie da parte della opposizione – non intacca minimamente il consenso della destra.

I diritti civili e la difesa della democrazia non pagano. La concentrazione delle piattaforme elettorali democratiche intorno ai civil rights non paga, non fa vincere le elezioni. I civil rights sono per lo più percepiti come faccende delle élite. La Harris si è impegnata in particolare sulla questione del diritto all’aborto, un diritto della persona che riguarda le donne, cioè la metà elettorato. Un diritto che evidentemente non è stato considerato prioritario dalle elettrici. Molte avranno pensato che la questione non le riguardasse direttamente. Ugualmente, un’eventuale prima Presidente americana donna non ha costituito una retribuzione simbolica e morale tale da mobilitare le stesse donne. Il fatto di essere donna e nera pare poi abbia sfavorito la Harris presso taluni gruppi sociali, in particolare tra i maschi neri.

Anche la difesa delle regole della democrazia – cavallo di battaglia di Harris – pare non avere lasciato traccia. Inutile ricordare agli elettori americani la lunga sequela di reati, processi, scorrettezza in cui era incorso il candidato Trump. Inutile ricordare agli elettori che il candidato Trump – se eletto – avrebbe potuto concedere la grazia a se stesso, facendo di lui un cittadino diverso da tutti gli altri, dotato di privilegi estranei a qualsiasi altro. Come un monarca assoluto. Ciò in aperta violazione dell’etica repubblicana. Ma il Partito repubblicano odierno non si sofferma più su questi dettagli.

Insomma, la questione dei civil rights, della difesa della democrazia e delle istituzioni, è ormai divenuta distintiva della “sinistra ZTL”, destinata a rimanere sempre più una minoranza, di chi abita le città, di chi ha elevata istruzione e reddito elevato.

Progressisti senza cultura politica. Anche se in Italia la questione è poco conosciuta, i Democratici e i progressisti americani (siamo dentro le élite dunque) hanno tagliato i ponti con la loro tradizionale cultura politica e hanno aderito a una specie di subcultura comunitaristica[9] dei diritti e delle pari opportunità declinata non più in termini universalistici, come diritti e pari opportunità del cittadino, bensì in termini particolaristici, come diritti e pari opportunità degli innumerevoli gruppi e minoranze che si sono via via costituiti, in base alla lingua, alle preferenze sessuali, al colore della pelle, al genere. E si battono per il riconoscimento. In questo ambito si sono sviluppati vari movimenti, come il politically correct, la cancel culture, Me Too, Stay Woke, LGBTQ(ecc.), Black Lives Matters e così via. Si tratta di movimenti che senz’altro hanno avuto all’origine radici democratiche e progressiste, ma che hanno subíto varie degenerazioni fondamentaliste. In un suo recentissimo saggio intitolato Il follemente corretto[10] il sociologo Luca Ricolfi ha descritto, analizzato e stigmatizzato questi movimenti, mostrandone le conseguenze devastanti in termini di disgregazione politica, sociale e culturale. Trump ha avuto buon gioco a usare la propria totale “scorrettezza” contro queste forme degeneri e modaiole di elitarismo. È appena poi il caso di sottolineare che la correctness nordamericana ha origine nella elaborazione delle filosofie postmoderne e nella importazione del poststrutturalismo europeo. Ma di questo tratterò eventualmente altrove.

Le improvvisazioni si pagano. Va poi osservato che la tattica dei democratici è stata disastrosa. Purtroppo qui ha pesato la mancanza di una struttura di partito di qualche rilievo (tipica dei partiti americani) capace di esaminare la situazione, di definire una strategia e di prendere le decisioni. Di fatto i democratici americani sono ridotti a una stretta oligarchia di pochi personaggi che sono titolati a decidere a prescindere. È mancata poi, in campo democratico, una seria analisi del quadriennio di governo di Biden, che invece è stato fatto a polpette dalla propaganda di Trump. È mancato il tempo e il modo, per la Harris, di differenziare ove necessario il suo nuovo programma da quello di Biden. Su alcune questioni, Biden si è limitato a portare avanti l’impostazione del Trump I, soprattutto sulla questione della immigrazione. E anche in politica internazionale.

La questione internazionale conta. Harris si è trovata ad avere le mani legate – nella campagna elettorale – anche a causa della situazione di indecisione nella politica estera condotta da Biden e a causa dei diversi gruppi di pressione presenti nell’area dei democratici. Del resto, la Presidenza di Biden era cominciata proprio con la disfatta afghana, che tuttavia era stata accuratamente preparata dal pacificatore Trump I e che Biden ha eseguito pedissequamente nella maniera più becera. Biden è riuscito a farsi accusare, anche dai suoi sostenitori, di essere un guerrafondaio in Ucraina e di essere un complice dei massacri condotti da Netanyahu a Gaza. Per paura di perdere sostenitori, il messaggio di Harris è stato confuso e indeterminato, a differenza di Trump che ha promesso di far finire le guerre in un battibaleno. Così i democratici in politica estera hanno finito per scontentare tutti. È chiaro che, in generale, dopo la loro opzione fallimentare per la globalizzazione, i Democrats non hanno più un’idea chiara e salda di politica internazionale. Per Trump e i suoi seguaci è stato molto più semplice sventolare la pace: farsi i fatti propri e darci dentro col MAGA (Make America Great Again). Basta che a pagarne le spese siano gli altri.

Manco a dirlo – lo dico qui solo en passant – tutti questi aspetti dovrebbero essere attentamente considerati anche nel nostro Paese, da quelle forze che intenderebbero operare per la difesa della democrazia dalle tendenze antidemocratiche.

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19. Tra le conseguenze più importanti di queste elezioni americane, ci saranno notevoli cambiamenti nella politica estera. In seguito alla vittoria di Trump, è il caso di domandarsi cosa potrebbe accadere nelle relazioni tra USA e il resto del mondo. Vediamo. Per avere un’idea grezza di come si svilupperà la politica internazionale americana, basta vedere chi sono coloro che hanno esultato per la vittoria di Trump. Pare che Alexandr Dugin, il filosofo russo rossobruno più estremista di Putin, abbia esultato per la vittoria di Trump. Putin dal canto suo sta dichiarando aperture pacifiste a più non posso, ovviamente alle sue condizioni. Praticamente siamo all’esordio del trumputinismo. In effetti, nella visione distorta di Dugin, il populismo occidentale è sempre stato considerato come il migliore alleato dell’euroasiatismo.

Anche i pacifinti[11] nostrani hanno esultato, convinti che Trump, in politica internazionale, facendo l’isolazionista e mettendo così da parte l’imperialismo americano, sarà pronto a “fare la pace” con la Russia (molti pacifinti nostrani hanno sempre pensato che la guerra in Ucraina fosse una guerra differita degli USA e della NATO contro la Russia). Ovviamente il tutto avverrà a spese di Kiev (e del diritto internazionale), che sarà disarmata e ricondotta a più miti consigli, oltre che territorialmente amputata. Finalmente qualcuno che sarà in grado di mettere a posto Zelensky e i suoi nazi! Nella retorica trumpiana, i Democratici fanno le guerre, mentre i Repubblicani trumpisti le faranno finire. Si prospetta dunque lo strano caso dei pacifisti filotirannici che vedremo presto all’opera, anche e soprattutto nel nostro Paese[12].

Anche Netanyahu pare abbia esultato, poiché ormai nulla si frapporrà al suo progetto massimalista e colonialista di un Israele esteso dal Giordano al mare. Il recente licenziamento di Gallant è un segnale abbastanza chiaro. Il progetto dei “Due popoli, due Stati”, con cui la nostra falsa coscienza occidentale si è baloccata per ottant’anni, è ormai divenuto impossibile. I palestinesi, col contributo suicida determinante di Hamas, hanno perso la loro tragica partita e faranno la fine degli indiani americani. Non che i Democrats fossero stati difensori convinti della causa palestinese, la prova è che hanno sempre foraggiato Israele con le armi, lasciandole ogni libertà di azione, ma almeno hanno tentato di mettere in atto un’azione calmieratrice, seppure alquanto ipocrita e nei fatti alquanto inefficace.

20. Xi è senz’altro un altro di coloro che hanno gioito per la vittoria di Trump, anche se i cinesi sono più composti, educati alla vecchia scuola, e sanno ancora controllare le emozioni. I prossimi quattro anni trumpiani – considerato anche in che stato critico è la Russia e lo stato comatoso in cui è ridotto l’ONU – costituiscono una perfetta finestra di tempo, una occasione insperata, per la Cina, di regolare i conti con Taiwan, con le buone o con le cattive. Il che potrebbe comportare, a tempi relativamente brevi, una nuova fonte di instabilità nel Pacifico. Non solo di tipo militare, ma anche di tipo economico, visto il ruolo rilevante che i prodotti tecnologici di Taiwan hanno per l’economia mondiale. Dopo la crisi dovuta alla fornitura del gas russo, avremo con buone probabilità la crisi dovuta alla carenza dei chip di Taiwan.

Sicuramente poi a livello di opinione pubblica avranno esultato i negazionisti del cambiamento climatico e le lobby dei combustibili fossili. Assieme a tutti i No-vax. Tutti coloro che ritengono che la transizione ecologica sia solo una futile moda di élite che si vorrebbe imporre a tutto il mondo per oscure finalità. Trump ha detto chiaro quello che pensa sugli Accordi di Parigi sul clima.

Gli altri esultanti, per ora, a livello di Stati -nazione sono senz’altro di rango minore. Ma tutti insieme costituiscono una bella banda. Sono tutti gli aspiranti facenti parte della internazionale populista e sovranista, quella che era stata messa in piedi proprio da Steve Bannon e che ora risorgerà a nuova vita. Per tacere di Orban e del nostro Salvini, magari comprendendo anche il M5S, non possiamo evitare di citare Bolsonaro, sempre attivo, oppure personaggi come l’argentino Milei.

21. Se c’è qualcuno che invece non può proprio gioire è la UE. I rapporti tra USA e UE sono stati sempre problematici, poiché interesse degli USA, in generale, è sempre stato di avere una Europa debole e divisa. Non è chiaro quel che farà Trump, data la sua imprevedibilità, anche se, da quanto annunciato, verranno al pettine sicuramente due questioni: la questione della difesa e la questione dei dazi.

Per ciò che riguarda la difesa, l’Europa sarà inevitabilmente tenuta a investire maggiormente nelle spese militari e a cercare di costituire una forza militare europea, di cui tanto finora si è parlato senza nulla concludere. Su questa questione, che è di una ovvietà totale, la politica europea sembra però paralizzata. È il caso di tener conto che in UE ci sono anche quelli che vorrebbero smantellare la NATO. Si prospettano dunque quattro anni di vuote discussioni ed eventualmente di realizzazioni puramente di facciata. Quattro anni in cui l’Europa si giocherà definitivamente la propria posizione internazionale. In ogni caso, questi tentennamenti costituiranno di fatto un indebolimento della difesa europea, tanto da incoraggiare le pressioni della Russia sui vari numerosi punti critici, quelli che tutti fanno finta di non vedere, dai Paesi baltici a Kaliningrad, alla Moldavia e alla Transnistria, fino alla Georgia.

Nel campo del commercio internazionale Trump ha enunciato con chiarezza quale sarà la sua politica. Una specie di miope ritorno al mercantilismo pre-liberista: esportare le proprie merci ed evitare di importare le merci degli altri. Una furbata colossale. I dazi americani nei confronti dell’Europa comunque ci saranno (nonostante l’“amica” Meloni), per cui l’Europa dovrà prendere delle decisioni radicali circa la sua struttura produttiva e finanziaria e la propria posizione nel mercato mondiale. E l’Europa non ha attualmente neppure la struttura politica adeguata che sarebbe indispensabile per questo compito.

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22. Se l’analisi che abbiamo svolto fin qui ha qualche fondamento, la vittoria di Trump dovrebbe allarmare alquanto quel che è rimasto del fronte democratico internazionale, almeno in Occidente. Dovrebbe allarmare anche e soprattutto i nostri democratici italiani. Cioè, quel gruppo eterogeneo di partiti e partitini più o meno di sinistra, che, nel tracollo di mezzo mondo, il massimo che stanno a fare è di concentrarsi sulla luminosa prospettiva del campo largo. Come già detto in esordio, si tratta di prendere atto ormai che il populismo funziona. Nelle democrazie più vecchie come in quelle più recenti. In ciò dobbiamo rivedere tutta la nostra storia recente. Il populismo che abbiamo sperimentato finora non è stato una parentesi. Non lo si può più considerare un incidente di percorso (come molti avevano fatto col primo Trump. O con il nostro Berlusconi che, erroneamente, abbiamo considerato come una storia lunga ma ormai conclusa[13]). Le mutazioni antropologiche delle democrazie hanno reso possibile questa nuova forma di populismo e l’hanno resa oltremodo efficace.

23. Oltretutto, i nuovi populisti sono in una botte di ferro, poiché i loro oppositori, chiamiamoli Sinistra, Democratici, oppure Progressisti, se vogliono restar tali, non possono usare lo stile e il metodo populista. Sarebbe paradossale combattere le tendenze anti democratiche usando stili e metodi antidemocratici. A meno che non si intenda adottare la prospettiva di Popper. Il quale sosteneva, appunto, che non si possono usare metodi democratici con gli anti democratici (quando Popper scriveva, però c’erano i nazisti). Credo che in linea teorica avesse perfettamente ragione. Soprattutto nel campo della politica internazionale. Tuttavia applicare oggi il metodo di Popper nelle democrazie populiste, per contrastare le tendenze anti democratiche, esporrebbe a gravi forme di conflittualità interna che non ci possiamo permettere. Sperando che la situazione non degeneri così tanto da rendere necessaria una reazione dura di resistenza.

Se non possiamo usare oggi il populismo contro il populismo, allora si tratta anche di considerare che il populismo di sinistra – di cui si è parlato fino alla noia[14] e di cui abbiamo ottimi esempi – è una palese contraddizione in termini, anche se momentaneamente e localmente può anche funzionare. La tentazione di combattere il populismo di destra alleandosi con il populismo di sinistra (tentazione ben presente nel nostro Paese) non tien conto del fatto che il metodo populista di per sé erode la democrazia. Sempre e comunque. I democratici allora sono con le spalle al muro. E lo saranno sempre di più. E ciò è divenuto perfettamente visibile. Stando così le cose, la destra populista vincerà sempre.

24. Come se ne esce? Occorre considerare, allargando un poco lo sguardo, che la mutazione antropologica di cui s’è detto ha prodotto, in sostanza, la evanescenza del citoyen. Gli elettori dei rassemblement populisti sono dei citoyen dimezzati[15]. Uso qui il termine originario francese citoyen per sottolineare il fatto che si trattava, sia teoricamente sia praticamente, di un tipo umano ben preciso. Quello che ha permesso la sostituzione della dimensione verticale della politica, la sudditanza, con la dimensione orizzontale, cioè la cittadinanza[16]. La costruzione del citoyen della democrazia ha richiesto un lungo percorso storico, assai faticoso e non privo di incognite. Erroneamente si pensa che il citoyen sia un dato di fatto, una specie di prodotto naturale. Basta esser nati in uno Stato nazionale e si è per ciò stesso cittadini. I marxisti poi hanno sempre pensato che il cittadino fosse un elemento sovrastrutturale superfluo, illusorio e ingannevole. Il cittadino sarebbe finito con l’eliminazione dello Stato nel comunismo. Invece il citoyen è un raro prodotto storico, un prodotto che può realizzarsi solo in determinate condizioni, attraverso una lunga fase di formazione, anche sulla base di precisi e generosi investimenti delle istituzioni pubbliche. Condorcet è stato uno dei primi a rendersi conto che i cittadini dovevano essere formati, costruiti come corpi artificiali[17]. Schiere di studiosi hanno esaminato con cura i contesti storici e culturali in cui questa formazione è stata possibile[18]. Ma sono stati per lo più ignorati.

In realtà, accade sempre che i citoyen rendono possibile l’esercizio della democrazia e a, sua volta, la democrazia esercitata dovrebbe produrre e riprodurre in forma allargata i citoyen stessi. Ebbene, si tratta di prendere atto del fatto che questi processi virtuosi stanno vistosamente smettendo di funzionare, almeno in ampi settori delle società democratiche. So che dalle nostre parti l’antiamericanismo pregiudiziale è ancora molto diffuso. Gli antiamericanisti cronici si stanno fregando le mani, ma costoro non si rendono conto che, furbi come sono, stanno segando proprio il ramo su cui sono seduti.

25. I partiti democratici nelle democrazie occidentali, quale che sia la loro tradizione, sono del tutto impreparati di fronte alla mutazione antropologica di cui s’è detto e all’insorgere del nuovo populismo. Questo perché il populismo erode la formazione dei loro i citoyen e li trasforma in una moltitudine di estranei, ciascuno chiuso nella sua bolla comunicativa, in costante ricerca di una appartenenza virtuale al mondo simbolico artificioso messo in piedi dal leader. In un simile contesto non è più possibile alcun dibattito pubblico razionale intorno al bene comune, come voleva Rousseau. Diventa impossibile una opinione pubblica come quella preconizzata da Habermas. Diventa possibile solo un’adesione individuale al “popolo” per lo più di carattere emotivo, sulla base di una informazione limitata e spesso distorta. L’adesione avviene per le motivazioni più eterogenee, sulla base di interessi per lo più particolaristici, legati a situazioni specifiche e subordinati alle miriadi di frammenti virtuali di discorso che si producono ogni giorno. Diceva Umberto Eco che, prima della rete, le chiacchiere da bar degli avvinazzati restavano tali e non facevano danni. Dopo la rete, qualsiasi chiacchiera, per quanto assurda, può essere riprodotta e ricevere milioni di Like!. Può cioè costituire un popolo, buono a tutti gli usi.

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26. Se questo è vero, per le nostre forze democratiche, invece di continuare a concentrarsi sulla recita del campo largo, cui non crede più nessuno, e che comunque lascerebbe sempre vincere alla destra, si tratterebbe di prendere il toro per le corna. Si tratta di affrontare proprio quella mutazione antropologica di cui s’è detto, che sta dando ovunque il potere ai populisti. Le mutazioni non sono inesorabili. Ma intanto bisogna vederle, capirle e cominciare a combatterle. Non possiamo più permettere che i nostri citoyen siano sistematicamente corrotti (è proprio questo che avviene) e cadano nelle mani dei populisti come utili idioti.

Come si fa? Finché i democratici o progressisti saranno “sinistra ZTL”, per di più divisi, rissosi e privi di una cultura politica di qualche rilievo, non vinceranno mai e non combineranno niente di buono. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale nel campo democratico. Le elezioni americane e le vicende dei Democrats americani come s’è visto, hanno parecchio da insegnare. Ma facciamo un esempio specifico, d’altro genere ma assai pertinente. Lo psicologo sociale Jonathan Haidt ha pubblicato una sua ricerca, davvero impressionante, che ha fatto discutere mezzo mondo[19]. È stata ora appena pubblicata in Italia. In soldoni, Haidt dimostra che l’uso dello smartphone e dei social da parte degli adolescenti produce danni gravissimi al loro sviluppo emotivo e cognitivo, fino a determinare un preoccupante aumento di disturbi psichiatrici e un aumento dell’autolesionismo e perfino del suicidio. Questo è un piccolo esempio di quello che ho chiamato mutazione antropologica. Ebbene, Haidt fa una serie di proposte radicali per ovviare alle problematiche denunciate. La più significativa, perfettamente fattibile, è proibire lo smartphone ai minori di 16 anni. Un piccolo passo per rientrare dalla mutazione. Ce la sentiamo?

27. Fuor di metafora, cosa possiamo fare per ricostituire i nostri citoyen? Si noti che è indubbio che si tratta di ricostruirli. Altrimenti saranno sempre pronti a seguire il primo Trump che passa. C’è un lavoro di lungo periodo che bisogna incominciare a fare, al di là delle contingenze della politichetta quotidiana. E questo lavoro possono farlo solo i democratici, quelli che sono rimasti. In primo luogo, i democratici devono riscoprire una cultura politica autentica della democrazia e devono fare una seria autocritica per quel che sono attualmente diventati. Secondariamente, si tratta di ricostruire la cultura civica della democrazia, quella che è stata devastata dalla mutazione antropologica e che rischiamo di perdere per sempre. In terzo luogo si tratta di ricostruire il capitale sociale, quella modalità relazionale fondamentale a livello locale che i populisti, nella loro illusione di unione totalizzante col popolo e col leader, distruggono sistematicamente. Cosa implica in pratica tutto ciò? Non ho spazio qui per affrontare la questione. Ci vorrebbe un altro saggio. Per intanto, sarebbe importante l’acquisizione di ciò che siamo andati sostenendo nella nostra analisi. Le elezioni americane ci stanno semplicemente spiegando che, senza un urgente e radicale cambiamento da parte dei democratici, non ci sarà più alcun futuro per la democrazia.

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Opere citate

2024 Haidt, Jonathan, The Anxious Generation, Penguin Press, New York. Tr. it.: La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, Rizzoli, Milano, 2024.

2020 Henrich, Joseph, The WEIRDest People in the World, Farrar, Straus and Giroux. Tr. it.: WEIRD. La mentalità occidentale e il futuro del mondo, Il Saggiatore, Milano, 2022.

1977 Inglehart, Ronald, The Silent Revolution, Princeton University Press, Princeton. Tr. it.: La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano, 1983.

2018 Mouffe, Chantal, For a Left Populism, Verso, London. Tr. it.: Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari, 2018.

2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.

2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

2021 Wagenknecht, Sahra, Die Selbstgerechten. Mein Gegenprogramm – für Gemeinsinn und Zusammenhalt, Campus Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, Roma, 2022.

Note

[1] Questo saggio ha origine da una serie di appunti che ho preso mentre seguivo la maratona elettorale del bravo Mentana (su La 7). A partire dall’evento in diretta, ho poi sentito l’esigenza di formulare una qualche spiegazione di quel che stava accadendo. Si tratta ancora di riflessioni grezze, che avranno bisogno di ulteriori approfondimenti. Ringrazio gli amici di Città Futura, con i quali ho avuto occasione di discutere l’esito elettorale americano. Naturalmente, la responsabilità di quanto qui sostenuto è solo mia.

[2] A questo punto sento il ruggito dell’imbecille di turno: “L’ho sempre detto io, che la democrazia non funziona!”.

[3] Cfr. Inglehart 1977.

[4] Ne ho parlato in un mio saggio recente pubblicato su Città Futura. Cfr. sul mio Blog: Finestre rotte: Toh, chi si rivede. Etica e politica!

[5] In un mio saggio del 2017 mi sono occupato in dettaglio del populismo. Cfr. Finestre rotte: I soggetti del populismo.

[6] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.

[7] Cfr. Wagenknecht 2021.

[8] Naturalmente mi riferisco alla antropologia culturale, sebbene alcuni studiosi abbiano sostenuto la presenza anche di inquietanti mutazioni di ordine psicofisiologico.

[9] Il riferimento va qui al comunitarismo nord americano, che è una filosofia ivi alquanto diffusa e che sostiene che i soggetti della democrazia non sono gli individui bensì le comunità, le quali devono ottenere dallo Stato il riconoscimento.

[10] Cfr. Ricolfi 2024.

[11] Il termine “pacifinto” è nato come termine spregiativo in occasione degli accesi dibattiti intorno alla guerra tra Russia e Ucraina e serviva a sottolineare il fatto che la volontà di pacificazione di costoro era tale da prescrivere la resa immediata dell’Ucraina (col rischio anche di una sua sparizione dalla carta geografica) e dunque tale da determinare una pace ingiusta, accettando come un dato di fatto la forza superiore della Russia (e i suoi dati per scontati interessi “imperiali”). Personalmente, pur criticando questo tipo di pacifismo, mi sono sempre rifiutato di usare questo termine, proprio per il fatto che esso veniva usato più come strumento di offesa che come strumento di analisi. Ora possiamo invece intravvedere effettivamente uno schieramento amplissimo di forze – a livello internazionale e a livello nazionale, di destra e di sinistra – che sosterranno questa posizione, ovviamente ai danni della autodeterminazione della Ucraina e ai danni di qualsiasi sopravvivenza dell’ONU. Dunque, poiché ormai il fatto c’è, il termine è destinato a divenire un termine descrittivo, perfetto descrittore dei tanti creduli promotori di una pace fasulla. Un altro motivo che mi ha indotto all’utilizzo descrittivo del termine è il fatto che i pacifinti della prima ora erano tutti intenti a predicare che qualsiasi invio di armi fosse sicuramente controproducente, da non farsi anche a costo di indurre, per ciò stesso, alla resa gli aggrediti. Ebbene, in seguito ai fatti di Gaza, non ho sentito nemmeno uno dei pacifinti – oltre alla dovuta condanna di Hamas – battersi per sospendere qualsiasi rifornimento di armi a Israele, visto l’uso che Israele ha fatto, sta facendo e farà di quelle armi. Più finti di così! Secondo costoro, mentre l’Ucraina non è legittimata a difendersi, Israele è legittimata a usare la forza “per difendersi” come meglio le aggrada, fregandosene del diritto internazionale e dell’ONU. Si è arrivati a sostenere che l’ONU sia antisemita. Che a Gaza e altrove ci sia stato un uso sproporzionato della forza non lo dico solo io. Su queste basi equivoche, si costruirà il trumputinismo nostrano. Prevedo già che qualcuno ci farà sopra un bel movimento e magari si presenterà anche alle elezioni.

[12] I pacifisti filotirannici sono quelli che concepiscono l’uomo in termini hobbesiani, come naturalmente incapace di vivere pacificamente. L’unica pace possibile, per costoro, è la sottomissione a un tiranno cui sono concessi tutti i poteri, compreso il potere di vita e di morte. Ci si aspetta la pace dal tiranno perché si ritiene che costui, avendo già tutto, non sia spinto a togliere la vita ai sottomessi. Tuttavia c’è il piccolo inconveniente di trovarsi a fare un patto con un tiranno, il quale a rispettare i patti non è tenuto. Beninteso, l’assolutismo hobbesiano è una rispettabile teoria politica, che poteva anche essere adeguata ai suoi tempi. La quale tuttavia pare non abbia mai garantito la pace. Ai tempi nostri, i pacifisti filotirannici rientrano nel prototipo dei servi del potere. Spesso, di mestiere, fanno a vario titolo gli intellettuali.

[13] Il berlusconismo è più vivo che mai. Meloni e Salvini ne sono i continuatori.

[14] Vedi Mouffe 2018. Ho sviluppato una critica alla nozione di populismo di sinistra nel mio saggio Populisti, Ircocervi e Sarchiaponi. Cfr. Finestre rotte: Populismi, ircocervi e sarchiaponi.

[15] So bene che affermazioni del genere possono condurre alla facile accusa di elitismo. Nelle mie parole non c’è alcun disprezzo morale nei confronti degli elettori populisti. C’è solo la costatazione che le loro scelte alimentano di fatto le tendenze antidemocratiche.

[16] La distinzione è di Steven Lukes.

[17] Per questo alcuni individualisti fondamentalisti hanno accusato la democrazia di essere totalitaria.

[18] Questi temi sono stati trattati da giganti del pensiero come Tocqueville e Max Weber. In ordine di tempo, si veda Henrich 2020.

[19] Cfr. Haidt 2024.

Ariette 21.0: In aria

di Maurizio Castellaro, 20 luglio 2024

Ariette logoLe “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Si ricorda un’assenza nel capannone in cui hanno ricostruito il puzzle malato del DC9 precipitato nel mare di Ustica. Degli ottantun corpi dei passeggeri e delle loro anime non è rimasto più niente. L’esplosione, lo schianto sul mare, l’onesto lavoro dei pesci e dei microrganismi di profondità. Nessun corpo da piangere, solo pezzi di aereo, valigie, borsoni, oggetti rimasti sul fondale. A Bologna hanno ricomposto quello che hanno trovato, si chiama Museo per la Memoria. Museo umanissimo. Sui muri del capannone ottantuno schermi neri bisbigliano i sogni e i pensieri di quelle anime assenti. I loro oggetti personali sono stati raccolti e chiusi in scatoloni fasciati di nero, vederli non ci è concesso, ed è giusto così. Possiamo però osservare la carcassa sacrificale dell’aereo, meditare sulle giunture dei singoli pezzi, valutare la portata degli squarci e dei cedimenti strutturali. È il Museo della Memoria, non si sventolano bandiere, si ricorda un’assenza.

Questa notte ho sognato che tutti i Presidenti, i Ministri e i Generali che sanno cosa è successo davvero quella notte sopra Ustica sono andati in televisione per dire finalmente a tutti la verità, per chiedere scusa e dire: “È accaduto questo, ora venga la giustizia”. Tutti potevano piangere finalmente, e quando le lacrime sono finite tutti hanno cominciato a saltare in aria per la gioia, perché era scoppiata la pace.

Prega coi lupi

ebdomadario logodi Nicola Parodi e Paolo Repetto, 23 febbraio 2024

Nella parrocchia di Forno, in Valle Strona (provincia del Verbano-Cusio-Ossola), il giorno di San Valentino non si celebra la festa degli innamorati, dei fiorai e dei produttori di cioccolatini, ma la “messa del lupo”. È un rito che risale ufficialmente a più di due secoli e mezzo fa (pare attestato per la prima volta nel 1762), e rientra in un’articolata liturgia cattolica di processioni propiziatorie e di funzioni esorcistiche (le rogazioni), diffusa soprattutto nelle comunità rurali. In realtà le origini di questi rituali apotropaici vanno fatte risalire molto più addietro, al mondo pagano, nel quale ad esempio venivano officiate le Ambarvalia, processioni aventi lo scopo di propiziare il buon esito dell’annata agraria. Insomma si tratta di usanze che rispondevano al bisogno delle popolazioni di credere in una protezione divina contro le calamità, naturali e non. Il primo cristianesimo, quello “di lotta”, aveva cercato di invano di sradicarle, fino a quando la Chiesa, ormai “di governo”, aveva realizzato quanto fossero necessarie e funzionali alla propria affermazione, e si era affrettata a recuperarle cambiando semplicemente le etichette e le divinità di riferimento. Per avere un’idea di quanto questa operazione abbia funzionato, basta ricordare che le rogazioni hanno continuato ad essere regolarmente celebrate anche dalle nostre parti fin dopo il concilio vaticano secondo, conservando addirittura il formulario più antico (non si chiedeva a Dio di liberare soltanto a fulgure et tempestate, ma anche a sagittis hungarorum – e dopo i recenti screzi ungheresi non è detto che quest’ultima formula non torni attuale). D’altro canto, bisogna ricordare che nelle nostre montagne, e non solo, sopravvivono ancora diverse manifestazioni (sia pure ridotte ormai a specchietti per il turismo) che prevedono lotte e scontri tra mascheroni di animali totemici.

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Bene, questo è quanto di fatto accade, Il che non costruirebbe nulla di nuovo. e potrebbe essere al massimo rubricato nel recente revival di madonne che piangono e parlano e di sette che praticano esorcismi e di interferenze religiose e superstiziose in una quotidianità del sentire sempre più povera. Non fosse per due circostanze particolari: che il rito ha coinciso, sia pure non volutamente, col primo caso da più di un secolo in Europa di un essere umano sbranato dai lupi, e che contro il parroco officiante è stata presentata da una associazione ambientalista e animalista locale una denuncia “per istigazione all’uccisione di animali selvatici e per maltrattamento di animali ai sensi dell’articolo 544 del codice penale”. È ipotizzabile che tra le due cose esista una correlazione, che cioè gli ambientalisti abbiano attivato una strategia di attacco preventivo, sapendo quanto la notizia avrebbe colpito l’opinione pubblica, e si siano mossi su piani diversi di intervento: “Abbiamo scritto al vescovo di Novara – recita un loro comunicato – per chiedere un intervento immediato e porre fine a questa idiozia pericolosa. Una messa con annesso un rito di esorcismo contro i lupi e per il loro abbattimento è roba da psichiatria”.

Ma non è finita qui. Dal momento che le disgrazie e le puttanate non viaggiano mai sole è arrivata tempestiva anche la presa di posizione di due esponenti della Lega, un europarlamentare e un consigliere regionale, che si sono immediatamente autoinvestiti del ruolo di paladini del parroco, del cristianesimo e della tradizione popolare indigena. Non perdendo naturalmente l’occasione per sparare minchiate. “La messa ovviamente non è contro il lupo – ha detto il primo – ma è un rito per la protezione del gregge e dei pastori, quindi non istigazione all’odio, ma la preghiera di una pacifica convivenza. La celebrazione, ripetuta dal 1762, ha l’obiettivo di chiedere la protezione divina contro gli attacchi del predatore, invocando in particolare l’intervento di San Valentino, la cui reliquia è conservata nella chiesa”. Visione francescana, verrebbe da dire.

Ora, si potrebbero liquidare con un sorrisetto di compatimento tutti i protagonisti della vicenda, non fosse che a furia di sorrisi di compatimento siamo ormai ostaggio costante dell’imbecillità e della malafede. Vale quindi la pena soffermarsi un attimo a riflettere su quali sono le forze in gioco e in che modo finiscono per tirare in mezzo alle loro scemenze anche tutti noi.

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Cominciamo dal rito. Nel 1762 la scienza già aveva capito come si potessero controllare le malattie e quali fossero le cause delle varie calamità: ma si può concedere che stanti le condizioni di vita su quelle montagne (e non solo) ciò arrecasse scarsa consolazione alla popolazione, e che dove i lumi della ragione non erano ancora arrivati la Chiesa continuasse a supplire con i soliti mezzi. I vaccini, i sieri, le penicilline, gli interventi di prevenzione di calamità varie sono arrivati dopo, mentre nel frattempo i lupi e gli Ungheri se ne sono andati (le tempeste di grandine e le alluvioni però no). La Chiesa, che in genere si adegua ai mutamenti con qualche secolo di ritardo, in questo caso ha visto lontano, lasciando che certi rituali sopravvivessero, perché quel che accade attorno dimostra come lo sfruttamento dei fattori emozionali funzioni sempre, e anzi, in questo periodo di incertezze e di sbandamento sia quanto mai redditizio. In realtà, nel nostro caso specifico è persino accettabile che il parroco puntasse più ad utilizzare un’emozione legata ad un’antica tradizione piuttosto che a istigare una autentica paura del lupo. In fondo, la funzione ultima dei riti vari di tutte le religioni resta comunque la suggestione dei fedeli. Vien da dire che la chiesa in questo caso fa il suo mestiere.

Più preoccupante è l’atteggiamento di quel movimento ambientalista che denuncia il parroco per una messa. Le motivazioni serie per sostenere posizioni ambientaliste ci sono, e sono fondate sulla scienza, che ci illustra come tutte le forme di vita abbiano pari dignità e siano legate da relazioni e forme di interdipendenza complicate e sofisticate, e dimostra che ogni modifica dell’equilibrio esistente crea scompensi e crisi con effetti imprevedibili. Dovrebbero essere queste considerazioni razionali a spingerci a ritenere funzionalmente giusto l’evitare di cacciare o di pescare troppo, o di spargere veleni che danneggiano animali e piante; a guidarci insomma nella ricerca di modalità di coesistenza le più equilibrate possibile tra le diverse forme di vita. Ma questo comporta il rifiuto di ogni integralismo. Va tenuto presente come funziona quel meccanismo di lotta fra prede e predatori che a volte viene definito “corsa agli armamenti evolutiva”: che esiste in natura e che, certo, in presenza di una specie che quanto ad armamenti ha già stravinto, va governato con criteri “culturali”. È comunque del tutto naturale che anche l’uomo abbia sempre tentato di evitare di diventare una preda, e che lo diventassero gli animali che allevava con fatica. E non risulta che qualche ambientalista si sia mai volontariamente messo a rischio di diventare preda di un branco di predatori affamato. La tecnologia ha offerto senza dubbio agli umani un vantaggio sproporzionato, e spesso ha fatto loro credere di avere licenza di uccidere: confondere però la celebrazione di un rito religioso con una istigazione allo sterminio di altre specie denota una visione tutt’altro che “naturalistica” della natura, legata a un sistema di credenze basate su un fanatismo simil-religioso, piuttosto che su solide convinzioni scientifiche. Rivela che siamo di fronte ad uno “scontro di inciviltà”.

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Quanto ai politici intervenuti, non c’è molto da dire. Visto che almeno in teoria prendono parte a decisioni riguardanti la nostra salute e la protezione da calamità naturali, dobbiamo sperare che non siano spinti da contorsionismi mentali tipo “no vax”, e che non considerino una funzione religiosa più efficace delle misure dettate dalla scienza. Ma è difficile dare loro credito persino di una cosa del genere. È molto più realistico pensare che si siano buttati a capofitto sull’accaduto per racimolare voti e un minimo di visibilità.

Riassumendo. La vicenda potrà sembrare oltre che stupida assolutamente banale, e meritevole di nemmeno un centesimo dello spazio che le abbiamo riservato. Ma occorre fare attenzione, perché è solo una tra le migliaia di altre simili che occupano totalmente lo spazio dell’informazione, e perché ci conferma che siamo ormai ostaggi di un cretinismo irrazionale che ha rotto ogni argine e dilaga in ogni aspetto della nostra quotidianità. Contro il quale, purtroppo, non valgono né rogazioni né esorcismi né terapie scientifiche. Non rimarrebbe che il silenzio, una “damnatio stultitiae” applicata in tempo reale. Ma non funziona più. Nella società dello spettacolo siamo ormai noi quelli condannati a minoranza silenziosa.

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Fuori quota

ebdomadario logodi Paolo Repetto, da uno spunto (o da una spinta) di Nicola Parodi, 10 febbraio 2024

Con una sentenza del 2022, della quale sono venuto a conoscenza solo recentemente, la Corte Costituzionale ha stabilito che anche nei comuni con meno di cinquemila abitanti va rispettato l’articolo 51 della Costituzione, quello che recita “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. In realtà la sentenza fa riferimento ad una modifica apportata poco più di vent’anni fa al comma 1 dello stesso articolo, con una aggiunta nella quale si dice che “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La pronuncia della Corte risponde nella fattispecie a un quesito relativo alla composizione delle liste elettorali, e precisa che quelle nelle quali non è presente un adeguato numero di canditati di entrambi i sessi vanno escluse dalla partecipazione. Perfetto. Anzi, no. Alla luce degli sviluppi intervenuti negli ultimi vent’anni mi chiedo se non sarebbe il caso di introdurre al più presto un’ulteriore modifica, che garantisca pari opportunità (e quindi una quota) anche a chi non si riconosce in un’identità di genere definita. E volendo essere davvero pignoli, sarebbe da intervenire anche sul testo originale dell’articolo 51, perché parla solo di cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”.

Ogni volta che leggo di pronunciamenti del genere mi chiedo se sono finito su questo pianeta per sbaglio. O se gli alieni sono i pronuncianti. Proprio non mi ci raccapezzo. Qual è la logica che motiva un’interpretazione di questo tipo? Certo, non il buon senso. Mi sembra più che evidente che fissare a priori in base al sesso, all’etnia, alla religione o a qualsivoglia altro criterio analogo il numero dei membri di un insieme, si tratti di un’assemblea, di un parlamento, di un consiglio di amministrazione o di un coro, è il sistema garantito per non avere il “meglio” possibile. Qui non si tratta di individuare un campione per sondaggi, ma di assicurare a quell’insieme un minimo di efficienza, di competenza rispetto alla funzione che dovrebbe svolgere. Il problema semmai sarebbe rimuovere tutti gli ostacoli economici e culturali ad una partecipazione libera, creare per tutti le stesse opportunità. E invece no. Anziché abbattere davvero gli steccati se ne costruiscono altri.

Come al solito, anche in questo l’Italia viaggia a rimorchio. Abbiamo importato il sistema delle quote dagli Stati Uniti, dove esisteva un problema storico di disparità dei diritti della popolazione di colore, ma dove comunque quella soluzione si sta rivelando fallimentare. Molte università, ad esempio, stanno facendo marcia indietro, e non per un rigurgito di razzismo o di sessismo, ma semplicemente perché le quote funzionano male e creano situazioni clamorosamente ingiuste. Da noi il problema storico al quale ci si appella riguarda invece la discriminazione di genere – che indiscutibilmente esiste, come in tutto il resto del mondo –, e l’introduzione di quote rosa è parsa il modo più spiccio (in realtà quello meno impegnativo) per dare una spallata al maschilismo radicato nel nostro costume. Il risultato è però lo stesso. Oggi sono proprio le femministe più consapevoli a chiederne l’abolizione e a denunciarne l’effetto ancor più sottilmente discriminante.

Gli unici a non averlo capito sono evidentemente i nostri legislatori e i nostri censori giuridici. Il fatto è che esiste “un combinato disposto” di estensori di regole eletti essi stessi con strani criteri, di superguardiani dell’ortodossia del politicamente corretto, di raffinati esegeti dei sacri testi fondanti la nostra convivenza civile, nonché naturalmente di bellicosi difensori del principio della parità a prescindere, brandito come una bandiera dall’avanguardia culturale ma interpretato senza un pizzico di buon senso e di realismo. Sono l’espressione di una classe dirigente (e non mi riferisco solo a quella politica) che ha esperienza soprattutto di salotti (televisivi e non), e nel caso in questione non ha la minima idea di come si amministra un piccolo o piccolissimo comune della provincia italiana, dove può capitare (e in effetti capita, sono situazioni che conosco personalmente) che il sindaco o gli assessori e i consiglieri non disdegnino di salire su un trattore per spalare la neve o per spargere ghiaia su una strada di campagna, o di effettuare le riparazioni degli acquedotti in prima persona. Certo, non dovrebbe essere compito loro, ma nella realtà il braccino corto dello stato nei confronti delle amministrazioni periferiche, il contenimento delle spese e la difficoltà di reperire personale con un minimo di voglia e di competenza li obbliga anche a questo.

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Con ciò sto forse insinuando che le donne non abbiano i requisiti per amministrare un piccolo comune, perché in genere non guidano i trattori o non sono esperte in idraulica? Sono un patetico rudere della fortezza patriarcale? Ma per favore, non buttiamola in caciara. So benissimo che all’occorrenza le donne sanno fare come e meglio degli uomini, e volendo rimanere sul piano delle incombenze straordinarie cui accennavo sopra so anche citare il caso della sindaca di Fanano, Elena Tosetti, divenuta famosa per una tavola di Beltrame che la ritraeva mentre spalava la neve (ma è comunque significativo che sia finita sulla copertina della Domenica del Corriere). Sto solo dicendo che dalle mie parti nessun paese rifiuta la partecipazione alle donne che vogliono contribuire al bene della comunità. Anzi, ce ne fossero. Il problema è semmai quello opposto, di convincerle a partecipare. Per vari motivi, che vanno senz’altro dalla storica abitudine alla separazione dei ruoli per le generazioni più addietro fino alla scarsa compatibilità con gli impegni lavorativi o familiari per quelle più recenti. In questo momento, ad esempio, nessuno dei sedici comuni del comprensorio dell’ovadese è a guida femminile (a livello nazionale lo è il dodici per cento), e non per un ritardo del processo di emancipazione, considerato che dieci anni fa qui le donne sindaco erano un terzo del totale, o per un rigurgito reazionario di maschilismo. Evidentemente questa reticenza esiste, è un dato di fatto che nulla ha a che vedere con la difesa aprioristica del “patriarcato” e molto invece con una giustificatissima disaffezione per la politica, per quella locale soprattutto. E comunque, a proposito di modello patriarcale, credo sarebbe bene chiarire una volta per tutte che, per quanto possa sembrare paradossale, nelle società contadine vigeva molto meno che in quelle borghesi e urbane (per il semplice motivo che in quella economia le donne avevano un ruolo nella produzione e nella gestione del reddito pari se non superiore a quello maschile). Basterebbe a dimostrarlo il fatto che le prime dieci donne sindaco in Italia furono elette nel 1946 tutte in piccoli comuni rurali.

Ora, qualche sospetto di come procedano realmente le cose ai giuristi del supremo organo della magistratura deve essere venuto, se si sono premurati di inserire nel pronunciamento questo rilievo: «La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe giustificata dalla presunta difficoltà (che a quanto pare non è così “presunta”, dal momento che si deve ribadire quanto segue) di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che comunque eventuali difficoltà derivanti dalla “carenza demografica” prescindono dal genere dei candidati». Tradotto in linguaggio corrente significa che qualora non ci siano indigene disponibili ad impegnarsi, si potrà pregare qualche “cittadina” amica di candidarsi per rispettare la lettera della legge. Che, si badi bene, è quanto in effetti già sta accadendo: è più facile infatti trovare disponibilità tra coloro che nei paesi vanno a villeggiare o hanno la seconda casa, che non tra i residenti (e questo vale sia per i maschi che per le femmine). Penso che tra gli altri motivi ci sia il fatto che attraverso l’IMU sono proprio i primi a contribuire maggiormente alle casse comunali, e se hanno scelto di vivere il tempo libero in un certo luogo si considerano particolarmente impegnati a difenderne o a promuoverne le caratteristiche. Resta poi da vedere se sono le stesse che stanno a cuore ai residenti.

Insomma, ciò che la Corte dice in sostanza è: “Ragazzi, se riuscite a convincere o a costringere qualche esponente dell’altro sesso a candidarsi, bene; in caso contrario fatevene prestare qualcuna da fuori e non rompete l’anima”. Direi che tutto questo con le pari opportunità c’entra ben poco. Ha a che fare invece con la riduzione semplicistica dell’emancipazione femminile a pura questione di numeri, cosa che si presta benissimo all’ipocrisia liquidatoria del sistema. Gli stessi criteri potranno essere adottati domani imponendo quote etniche, professionali, moltiplicando i generi “discriminati”, ecc… Quello che manca, dietro le “pari opportunità” che riempiono benissimo la bocca, è la domanda fondamentale: per fare che? A meno che si vogliano considerare conquiste femminili fondamentali la pratica del calcio o del rugby. Perché in questo caso dovremmo chiedere alla Corte Costituzionale l’esclusione delle squadre che non rispettano le quote.

Fuori quota 03 Ninetta Bartoli, il primo sindaco donna in Italia

Ninetta Bartoli, il primo sindaco donna in Italia

Nanni Moretti e la morte del Cinema

Note su “Il sol dell’avvenire” 1.1

di Giuseppe Rinaldi, 21 settembre 2023 (rivisto il 15 gennaio 2024)

Una premessa dell’editor (che potete saltare a piè pari)

Meno di un anno fa usciva sugli schermi italiani Il sol dell’avvenire, di Nanni Moretti. Era stato preceduto come al solito da grandi aspettative, ma anche dalle perplessità manifestate da chi già l’aveva visto a Cannes. Conoscendo da un lato le sudditanze psicologiche e le ipocrisie che immancabilmente scattano di fronte all’opera di un Grande Autore, e memore dall’altro del disagio che avevo provato nei confronti dei film più recenti di Moretti, ho cercato di liberarmi delle une e dell’altro e di esercitare uno sguardo imparziale. Risultato: ho visto un lungo selfie autocelebrativo, presuntuoso e pasticciatissimo.
Si badi bene, riconosco al regista una notevole intelligenza, e so che sul mio giudizio pesa un altrettanto marcata antipatia, ma nel caso de “Il sol dell’avvenire” non ho dubbi: ciò che mi ha disturbato, e tanto, è proprio l’uso distorto della prima, che lo ha portato a buttare una occasione e, peggio, a chiudere in partenza con una pagliacciata (letteralmente) un ripensamento e un dibattito che erano rimasti in sospeso per settant’anni. Mi riferisco naturalmente ai fatti d’Ungheria del 1956 e alle loro ricadute sulla sinistra italiana (l’unico vero motivo per il quale ero rientrato in una sala cinematografica, dopo le pene sofferte con La grande bellezza), e che il film banalizza con insopportabile superficialità. Per me, il discorso su Il sol dell’avvenire era chiuso.
Qualche mese dopo, però, ho avuto occasione di leggere su “Città Futura” la dettagliatissima analisi che ne proponeva Beppe Rinaldi. E ho dovuto tornaci sopra, perché la dissezione autoptica operata da Beppe ha evidenziato una serie di particolari che nella stizza del momento non avevo colto, ma mi ha suggerito soprattutto nuovi angoli prospettici dai quali inquadrare tutta l’opera. Non che il mio giudizio sia cambiato, continuo a considerare Il sol dell’avvenire un hellzapoppin sconclusionato ed irritante: ad appassionarmi sono stati invece il modo in cui è condotto l’esame radiografico, la minuziosità con la quale ogni indizio e ogni sintomo sono sviscerati, così che alla fine la diagnosi non concerne tanto Moretti quanto l’intero mondo nel quale si muove, sul piano professionale e su quello politico. Beppe parte da un’attitudine molto diversa dalla mia, Moretti gli riesce in fondo simpatico, ma una volta indossato il camice analitico non gli fa sconti. Ho l’impressione che per il futuro, se vorrò ancora divertirmi col cinema, mi converrà leggere a posteriori recensioni di questo livello (recensione è però una definizione molto riduttiva: si tratta di un vero e proprio saggio di lettura filmica) e prescindere dalle mie valutazioni di pancia.
Per questo motivo ho chiesto all’autore di poter rilanciare la sua analisi sul sito dei Viandanti, anche se rispetto ai ritmi odiernamente impressi ai “consumi culturali” potrebbe apparire un’operazione tardiva e inattuale. Non sono di questo parere. Coloro che hanno visto il film ne vedranno un altro, indipendentemente da come l’hanno giudicato. Coloro che ancora non lo avessero visto, saranno forse indotti a farlo, ma sapendo a cosa vanno incontro. E chi a suo tempo avesse a priori ricusato di vederlo godrà almeno della lettura di un testo esemplare. (Paolo Repetto)

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1. Che il Cinema [1]fosse ormai un morto che cammina era evidente da un pezzo. Per Cinema, intendo qui l’unico cinema per me degno di questo nome e cioè il Cinema d’Autore. L’altro Cinema sta benissimo. Personalmente, da un paio d’anni non vado più al cinema. Ho fatto però un’eccezione per Il sol dell’avvenire, il lavoro più recente di Nanni Moretti. Intanto perché proprio Moretti può essere considerato effettivamente un Autore e poi, senz’altro, per motivi personali, poiché questo Autore, come altri del resto, mi ha accompagnato in lungo e in largo, in tanti momenti della mia vita. Il film in questione è stato, mi pare, accolto piuttosto positivamente, è stato ovunque plaudito e non ho avuto sentore di critiche sostanziali[2]. Il film è stato plaudito, certo, tuttavia non mi pare di avere colto, tra tutti gli applausi, una prospettiva interpretativa dotata di qualche solidità. Tutti d’accordo, senza sapere perché.

Nanni Moretti e la morte del Cinema 022. Siccome ho visto il film solo poco tempo fa, e dunque con un certo ritardo, mi era capitato di fare, a diversi amici che lo avevano già visto, la classica domanda: «Com’è il film?». Sempre le stesse risposte: «Bello!», «Interessante!», «Eh!, il solito Moretti!». Sì, ma cosa vuol dire? «Mah, non è molto chiaro, ci sono dei film nel film». Per finire nell’immancabile: «Magari sarebbe il caso di rivederlo!». Diciamolo pure, questo film di Moretti è un film di cui, alla prima visione, non si capisce proprio un accidente di niente. E anche dopo una seconda visione non ci si sente tanto bene.

Sento già la cantilena: «Sei vecchio! Sei ancora uno che vuole avere il significato complessivo! Il significato di un’opera non c’è e non ci può essere. Oppure ci sono mille significati. Come dire che non ce ne può essere uno che conti più di un altro. Per questo è ormai del tutto inutile fare i dibattiti, tanto ognuno nei film ci vede quel che vuole. E poi, nessuno è più disposto a confrontarsi e a cambiare idea. Accontentati della superficie. Sotto la superficie c’è soltanto il nulla!». Dopo quarant’anni di critica postmoderna[3] siamo purtroppo a questo punto. Siamo ormai da tempo passati dall’opera aperta[4] all’opera spalancata. Per non sconfinare dunque nei territori proibiti della critica postmoderna, premetto che questo che state leggendo non dovrebbe essere inteso come un articolo di critica cinematografica. E non sarà certo inteso come tale dai critici sedicenti. Questo è soltanto un modesto e paziente esercizio di lettura del film, peraltro forse anche piuttosto noioso, tanto per andare oltre alla prima visione, con qualche pretesa in più di analisi e di riflessione, proprio a partire dal testo. In generale, i presupposti della mia comprensione di un film implicano, ahimè, che lo si debba in qualche misura raccontare[5]. Soprattutto nel caso di un film come Il sol dell’avvenire che è terribilmente denso e, in qualche misura, proprio non raccontabile. In casi come questo, soprattutto i dettagli costituiscono il materiale testuale indispensabile che può poi supportare le analisi, le argomentazioni e, infine, l’eventuale giudizio. Ma i dettagli possono anche servire per parlare di altro, poiché un qualsiasi testo è pur sempre connesso, per vie imperscrutabili, con il Testo universale.

Tanto per anticipare le conclusioni della mia analisi, a me è parso, per dirla in estrema sintesi, che con questo suo film Nanni Moretti abbia deciso di affrontare, con una prospettiva dall’interno, proprio il tema, senz’altro di attualità, della morte del Cinema. Moretti, finalmente, dice «qualcosa di sinistra», non sulla sinistra che purtroppo abbiamo e ci meritiamo, ma proprio sul Cinema.

3. Allora partiamo pazientemente dal testo. Solo così potremo accertare se io e il mio lettore abbiamo visto lo stesso film. Moretti è notoriamente un simpatico egocentrico e non poteva che partire da sé stesso, questa volta, in particolare, dal suo stesso mestiere di Autore cinematografico (“regista” qui mi parrebbe riduttivo, perché ci sono tanti cani che sono “registi”). In quest’ultimo suo film si parla quasi esclusivamente del Cinema. Si tratta di un film sicuramente autoreferenziale, un film dove il Cinema viene usato per riflettere su se stesso. Si può anche pensare che, al punto di crisi cui il Cinema è arrivato, questo sia ormai un esercizio piuttosto inutile, fuori tempo massimo, ma tant’è. Moretti ha scelto così. E per me ha fatto bene, poiché la sua riflessione è tutt’altro che banale.

Il filone narrativo principale del film, che cerca con qualche fatica di tenere insieme tutto l’arduo coacervo, emerge solo poco per volta dalle vicende di cui sono protagonisti Giovanni (impersonato dallo stesso Moretti) e Paola (Margherita Buy). Si tratta di vicende che occupano sia il campo professionale sia il campo della vita privata dei protagonisti, in un intreccio denso e inestricabile. Diciamo che la dimensione privata farà fatica a emergere, ma poi si scoprirà essere forse la dimensione principale. I due sono una coppia non più giovane e sono marito e moglie. Lui fa il regista e lei la produttrice. Hanno una figlia Emma, che fa la compositrice di musiche per film. Un’impresa casereccia, insomma, tutta incentrata intorno al Cinema.

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Veniamo quasi subito avvisati che quella di Giovanni e Paola è una coppia in crisi. Questo si capisce poiché Paola è insoddisfatta della sua relazione e va dallo psicoanalista, a insaputa di Giovanni. Vorrebbe lasciare Giovanni, ma non ne è capace. Giovanni invece, alquanto egocentrico, sembra tutto contento del suo rapporto con Paola, cita spesso il loro lungo matrimonio e la loro collaborazione di quarant’anni nel campo professionale. Paola, infatti, ha prodotto tutti i film di Giovanni. Solo ultimamente, probabilmente proprio in relazione alla crisi coniugale, si è risolta a produrre, con l’appoggio finanziario di un gruppo coreano, un film con Giuseppe (Giuseppe Scoditti), un giovane regista all’inizio della sua carriera. Giovanni è completamente concentrato sul suo film che si titolerà Il sol dell’avvenire e su una serie di molteplici altri progetti. Scoprirà tardi e male i problemi di Paola e il suo disagio nei suoi confronti.

Entrambi, poi, scoprono, in maniera quasi casuale, che la loro figlia Emma si è innamorata di Jerzy, a quanto pare console polacco, un uomo molto più anziano e maturo di lei, sebbene persona simpatica e di notevole cultura. La vicenda di Emma, oltre a riproporre la nota e ricorrente questione dei difficili rapporti intergenerazionali, costituisce anche la sottolineatura di una certa difficoltà relazionale che si respira nella famiglia di Giovanni e Paola[6]. Emma, avendo avuto un padre artista che si mostra bizzarro e problematico, non avendo avuto cioè un vero padre, evidentemente ha cercato un sostituto. E pare averlo trovato.

Giovanni, che fa il creativo, è presentato come un personaggio egocentrico, secondo lo schema morettiano classico. Paola gli rimprovererà di averla sempre considerata in termini soltanto utilitaristici e ammetterà di avere in fondo sempre accettato questo ruolo. Anche se ora (dopo quarant’anni!) non intende più continuare così. Allo psicoanalista dice che lei e Giovanni parlano di tutto, tranne che di loro due. I due sembrano in sintonia sul piano culturale e professionale ma del tutto incapaci di discutere del loro rapporto affettivo. Su sollecitazione esplicita dello psicoanalista, lei dichiara con fermezza di non voler affrontare l’argomento della loro vita sessuale.

4. Accanto al filone principale dei rapporti interpersonali tra i due, abbiamo poi una schiera di numerosi film nel film che si accavallano. E che sono spesso mostrati allo spettatore con un montaggio vertiginoso, tanto da lasciare confusi e interdetti. Proviamo intanto a vedere sommariamente quali film ci sono all’interno del filone narrativo principale.

C’è intanto il film più evidente, quello che Giovanni si accinge a girare e che investe lo spettatore fin dall’inizio, di cui sappiamo il titolo: Il sol dell’avvenire. Questo titolo è volutamente ambiguo: quando è usato esternamente per indicare l’opera di Moretti allude al titolo del film di cui si narrano le vicende di realizzazione. Quando è usato internamente allude al contenuto del film che viene girato da Giovanni. Si tratta di un film che apparentemente riguarda la storia del PCI nel 1956, nel frangente dei fatti di Ungheria. Diciamo subito che questo film nel corso degli eventi subirà disavventure varie e sarà infine modificato, soprattutto nel finale previsto dal copione. Il film è prodotto da Paola ed è cofinanziato da Pierre, un produttore francese piuttosto superficiale che ammira senza riserve, in modo addirittura untuoso e servile, il lavoro autoriale di Giovanni. Nel corso degli avvenimenti, Pierre metterà gravemente a repentaglio la stessa lavorazione del film.

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Poi c’è il film (il cui titolo non è esplicitato) diretto dal giovane regista Giuseppe, prodotto sempre da Paola, con una coproduzione coreana. Si tratta, eccezionalmente, della prima produzione di Paola con un regista diverso dal marito. Una rottura dunque nelle consuetudini ultradecennali della coppia. Il film sarebbe – si dice all’inizio – una riproposizione shakespeariana del conflitto amletico tra il padre e il figlio. In realtà comprendiamo ben presto che si tratta di un film di tipo splatter, piuttosto demenziale. Il giovane regista viene mostrato come un creativo esaltato dalle scene di violenza gratuita che abbondano nel suo film. Insomma, si tratta dell’esatta antitesi del Cinema di Giovanni, che rifiuta invece la violenza gratuita, che si rammarica di fare un solo film ogni cinque anni, che fa girare una scena anche 20 volte. Mentre per l’istintivo Giuseppe è sempre «Buona la prima!». Giuseppe e Giovanni sono evidentemente due modelli di Cinema che si collocano uno all’opposto dell’altro. La scelta di Paola di produrre il film di Giuseppe ha senz’altro qualche relazione con la sua crisi coniugale e con l’intenzione di divorziare, ma ciò non è esplicitato più di tanto.

5. Ci sono poi almeno due accenni, vaghi ma ricorrenti, ad altri film che il creativo Giovanni ha in progetto di realizzare. Come quello che Giovanni ha già in fase di scrittura, quello che dovrebbe titolarsi Il nuotatore, in cui, alla lettera, un nuotatore dovrebbe tornare a casa, passando da una piscina all’altra. Tratto da un racconto di John Cheever. Un film decisamente bizzarro a proposito del quale in una scena ci si domanda se, nella storia del nuotatore che salta di vasca in vasca, sia più in questione lo spazio oppure il tempo. Se il film riguardi un futuro utopico o distopico.

Oppure quello, a quanto pare ancora solo in fase di pura immaginazione, ma con due personaggi già perfettamente definiti e vividi nella mente del regista. I quali ogni tanto si prendono il loro spazio. Il film dovrebbe essere incentrato su cinquant’anni di vita di una coppia, e dovrebbe avere «tante canzoni italiane». Alcune parti del film immaginato irrompono abbastanza casualmente e vengono mostrate al pubblico in varie occasioni. Questo nel progetto doveva essere un film d’amore, ma evidentemente, anche solo nel percorso immaginativo, sfuggirà di mano al regista poiché i due protagonisti alla fine si lasciano[7]. Tuttavia Giovanni, forse in un tentativo estremo di salvare la storia d’amore, immaginerà anche un secondo finale, dove i due attori appariranno in un flash, in un prato, ridenti e felici con due bambini piccoli, mentre fanno la danza dei dervisci sulle note di Battiato. Giovanni sembra avere la propensione a riflettere sulle relazioni di coppia solo attraverso la scrittura dei suoi film. Sembra ossessionato dalle relazioni, eppure incapace di capirle e di governarle. Perfino gli elefanti, da usare in scena, pare abbiano problemi a lavorare insieme sul set. A un certo punto accade che «la loro familiarizzazione è fallita», dice Arianna, l’aiuto regista.

Insomma, progetti, idee, tentazioni di scrittura che Giovanni esibisce morettianamente, col suo solito egocentrismo autoriale, a partire dalle sue ossessioni profonde. Attraverso queste opere Giovanni/ Moretti sembra voler mostrare, dall’interno, le varie fasi del lavoro autoriale, da quella puramente immaginativa (il film sulle canzoni) a quella della elaborazione del copione (il nuotatore), a quella della vera e propria lavorazione, come nel caso del Sol dell’avvenire. Nella storia dei due giovani è già posta la questione del doppio finale, che avrà esiti imprevisti. Oltre a questi film di cui si parla esplicitamente, ci sono tante altre citazioni cinematografiche più o meno occasionali, unite a molte canzoni che, di quando in quando, irrompono, più o meno a proposito. Tutti questi film e tutti gli altri materiali si mescolano continuamente e interagiscono con le tappe di lavorazione del film principale in cui Giovanni è attualmente impegnato, che è Il sol dell’avvenire, quello sul PCI del 1956. Insomma, per quanto possa essere anche intrigante, siamo di fronte a un gran minestrone. Di tutto e di più. E ciò contribuisce a fare del film un’opera non facilmente fruibile. A volte lo spettatore fa fatica a seguire le diverse repentine soluzioni di continuità. Pezzi di vita personale della coppia Giovanni/ Paola e della figlia, che s’intrecciano costantemente con i pezzi dei film in lavorazione o in progetto. Cinema e vita per davvero. Fino all’esasperazione.

Nanni Moretti e la morte del Cinema 056. Giovanni è tutto concentrato sul suo lavoro creativo e procede nella lavorazione del suo film, Il sol dell’avvenire, inconsapevole di ciò che lo attende. Lo stile che usa sul set è quello cui Moretti ci ha abituati: egocentrico, maniacale, dispotico. Potremmo dire dittatoriale, tanto per evocare una delle tematiche politiche del suo stesso film. Ma vediamo il film più in dettaglio. In apertura, lo spettatore incappa nella lavorazione da parte di Giovanni del film sul PCI del 1956, tanto da far pensare che proprio questo sia il film che vedrà. Un film storico politico. Siamo a Roma. I titoli di testa si aprono con la scritta Il sol dell’avvenire sul muro, seguita poi dall’inaugurazione dell’arrivo della luce elettrica al Quarticciolo, il quartiere romano dove è ambientata la storia. Si capisce che a promuovere l’impresa dell’elettrificazione sia stata la locale Sezione Gramsci del PCI, guidata da Ennio Mastrogiovanni (Silvio Orlando) e dalla sua collaboratrice Vera Novelli (Barbora Bobuľová).

Diverse recensioni hanno presentato Ennio e Vera come marito e moglie. Anche Wikipedia lo sostiene. Tuttavia nel testo del film non c’è proprio nulla che lo dica esplicitamente o che lo suggerisca implicitamente. C’è in effetti una scena in cui Vera prende le misure a Ennio per una giacca nuova. Qui i due si ritrovano sullo sfondo di un ambiente domestico e non nel solito ufficio della sede del partito. Ma siamo già stati avvertiti che Vera, di mestiere, fa la sarta, dunque la situazione non può essere invocata come segno certo di vita coniugale. Giovanni poi, nel dirigere la scena, tende a negare qualsiasi relazione affettiva tra i due e rimbrotta l’attrice che interpreta Vera per essere troppo seduttiva. Quel che deve emergere, evidentemente, non è una eventuale vita privata dei due ma solo la loro stoica attività di militanza politica. L’attrice che interpreta Vera, sul set, abbastanza chiaramente tende invece a ricamare su un’ipotetica attrazione tra i due. Nel corso degli sviluppi del film saranno i due attori (per capirci, Orlando e la Bobuľová) a manifestare progressivamente un’attrazione reciproca, ma in quanto attori sul set, ben oltre la rigida estraneità richiesta dai loro due personaggi. Che i due siano o meno marito e moglie, non sfugge comunque allo spettatore che il sodalizio di militanza politica tra Vera e Ennio è esattamente analogo al sodalizio di militanza cinematografica tra Giovanni e Paola. Un sodalizio che tendenzialmente esclude la vita privata.

Che nel film si stia girando un film lo spettatore lo capisce poco per volta, nel passaggio continuo tra le scene girate e il lavoro di troupe. In particolare, durante un briefing con i suoi collaboratori, Giovanni è costretto a spiegare ai più giovani gli aspetti storici più elementari che costoro ignorano del tutto. Ebbene sì, in Italia c’erano i comunisti! Giovanni viene presentato come un esperto di quell’epoca, quello che sa quel che accadeva, tanto da poterci fare un film sopra con una certa sicurezza. Ma, come vedremo, non bisogna credere del tutto a questa impressione. Giovanni comunque è dipinto un po’ come il testimone di un’altra epoca che i giovani odierni non sanno più neppure immaginare. Testimone anche di un modello di impegno politico come quello dei comunisti italiani di allora, oggi impensabile. Insomma, Moretti sente il bisogno di proporci, attraverso il lavoro di Giovanni, un viaggio nel tempo. Vedremo con quale scopo.

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7. Lo spettatore è indotto a interrogarsi più e più volte su cosa abbia in mente Giovanni nel girare il suo film. Apparentemente sembrerebbe voler essere un film storico, intorno alle vicende di una sezione romana del PCI, nel frangente drammatico dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Lo spettatore tuttavia si accorge ben presto che non si tratta di un film storico. Il che si chiarisce poco a poco, soprattutto di fronte alla disinvoltura del regista proprio rispetto ai fatti e ai documenti storici.

Apparentemente Giovanni mostra attenzione per la ricostruzione esatta degli ambienti. Un tormentone ad esempio è quello di alcuni oggetti di scena “fuori tempo” che Giovanni rintraccia e di cui rimprovera Diego, il tecnico di scena. Poi si chiarirà l’origine di questi oggetti vaganti. Ma l’ossessione per la documentazione storica si trova sempre in bilico tra il vero e il falso. Le etichette autentiche delle acque minerali del tempo non piacciono a Giovanni, tanto da volersene inventare una: l’Acqua Rosa, in omaggio a Rosa Luxemburg[8]. Il titolo originale de l’Unità che annuncia l’invasione non va bene perché è troppo lungo, dunque si può liberamente accorciare, cioè falsificare. La foto di Stalin, la cui presenza è del tutto verosimile nella ricostruzione di una sezione del PCI di quell’epoca, si deve stracciare «perché Stalin è un dittatore», e così via. Avremo poi modo di discutere anche del finale del film, che, sul piano storico, stravolgerà completamente gli avvenimenti.

Nel film che Giovanni sta girando, si fa senz’altro molto uso della storia ma non si può proprio dire che si tratti di un film storico. Certo, ci sono anche citazioni storiche puntuali, soprattutto sul costume dell’epoca. Ad esempio, l’importanza del giornale di partito, l’Unità; il rito condotto da Ennio dell’intervista a coloro che chiedono l’iscrizione al Partito; il controllo asfissiante sulle abitudini sessuali personali degli iscritti e il pressante controllo ideologico. Tuttavia tutto ciò costituisce più che altro uno sfondo, ed è ben lungi dal costituire il centro del film. La ricostruzione di costume evidentemente è solo un mezzo per altro.

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8. L’attrice interprete di Vera, in seguito a uno degli innumerevoli battibecchi con Giovanni, pone il problema e ipotizza che si tratti di un film d’amore travestito da film politico. I rapporti tra Giovanni e questa attrice sono sempre piuttosto tesi. In questo quadro si colloca la sua insofferenza per il fatto che lei indossi i sabot, le ciabatte. Giovanni viene mostrato discutere seriamente con Paola se licenziare l’attrice che considera disobbediente e inopportuna, con tutte le sue domande sul film, con le sue idee sul personaggio e poi, con le ciabatte. Pur di cacciarla, sarebbe disposto a rigirare con un’altra attrice il materiale già realizzato.

Tra l’attrice che interpreta Vera e Giovanni si instaurerà una vera e propria dialettica, non solo incentrata sulla natura del film ma soprattutto sull’autonomia dell’attore nei confronti del copione. Su questo argomento viene tirato in ballo lo stile di regia di Cassavetes, disposto a un lungo lavoro di discussione con i suoi attori. Giovanni, stizzito, ci tiene a precisare che il suo stile sta all’opposto di Cassavetes. Si tratta di una questione evidentemente di qualche rilevanza per Moretti e che serpeggia un po’ per tutto il film. Tutti i tentativi da parte degli attori di dire la loro sul copione tuttavia sono cassati. Solo verso la fine, con una specie di ribaltone, la rielaborazione del finale del film sarà il frutto di una specie di adombrata riscrittura collettiva[9].

9. Poco a poco si chiarisce che non solo si tratta di un film su una storia d’amore (e poi, vedremo, di altro ancora) ma anche che Giovanni, nella scrittura del film, sta usando inconsapevolmente una serie di meccanismi proiettivi. Del resto è noto l’interesse di Moretti per la psicoanalisi. Giovanni evidentemente proietta nei suoi personaggi elementi della sua vita privata dei quali non è del tutto consapevole o intorno ai quali tende a rimuovere. Vera è abbastanza chiaramente la trasfigurazione di Paola, che forse, nelle intenzioni di Giovanni, dovrebbe essere tutta dedita alla causa, senza una vita privata e che dovrebbe reprimere la sua sensualità. Una figura completamente idealizzata, fino a divenire irreale. L’attrice che interpreta Vera tende invece costantemente a rompere questo schema, irritando Giovanni. La scena in cui Vera, verso la fine del film, restituisce la tessera costituisce, in effetti, l’analogo di un divorzio. Quando si girerà la scena della restituzione della tessera, dove il copione prevede un tentativo articolato di chiarificazione tra i due, Giovanni reagisce negativamente, si mostra allarmato e contrariato. Dice che la scena fa schifo e così taglia via ogni dialogo, ogni tentativo di spiegazione e impone il semplice gesto della consegna del documento. Subito dopo – trovata tipicamente morettiana – parte la danza dei dervisci, troupe con sottofondo di Battiato, che poco a poco contagia tutta la nello studio. Le parole possono essere pericolose. Meglio l’estasi derviscia.

10. Se Vera è la trasfigurazione di Paola, allora il dirigente politico Ennio funge perfettamente da alter ego di Giovanni. Lo suggerisce anche il cognome scelto, Mastrogiovanni. Anche di Ennio nulla si dice di personale. La sua dedizione alla causa è totale, come la sua imbrigliatura dell’affettività e della sessualità. Lo vediamo addirittura esercitare il controllo sulla moralità sessuale dei suoi collaboratori. Un perfetto militante di partito di quegli anni, apparentemente tutto d’un pezzo. Veniamo informati del fatto che Ennio ha un certo peso nel PCI poiché è anche nientemeno che redattore de l’Unità, dunque assai vicino alla Direzione romana del PCI. Insomma, il tipico intellettuale militante comunista degli anni Cinquanta. Grazie a questa sua posizione, Ennio può promuovere le iniziative amministrative e politiche della sezione del Quarticciolo. Può invitare addirittura Togliatti alle sue iniziative. Può decidere cosa si deve pubblicare sul giornale. C’è una componente di tacito fanatismo nella figura di Ennio in cui evidentemente Giovanni proietta il suo stesso fanatismo autoriale.

Evidentemente, per Giovanni, nella relazione di coppia le parole non servono. Anzi, sono pericolose. È evidente che Giovanni, inconsciamente, proietta nei due protagonisti del film che sta facendo la sua situazione irrisolta con Paola. Il suo bisogno di comunicare si risolve volentieri nei gesti, nella musica, nella danza. Tutto va bene, purché rimanga confinato nel non detto sul piano verbale. Il film che Giovanni sta dunque girando appare dunque sempre più come un gigantesco meccanismo proiettivo della sua stessa vicenda personale. Ci sentiamo allora autorizzati a domandarci se anche secondo Moretti questo non sia proprio il senso della scrittura filmica in generale. Qui potrebbe trasparire una teoria psicoanalitica della autorialità, ma Moretti non si impegna più di tanto.

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11. Una trovata sicuramente efficace è quella che permette a Giovanni la connessione tra la Budapest del 1956 e la sezione romana del PCI. Si tratta dell’arrivo, proprio su invito della Sezione Gramsci del Quarticciolo, del circo ungherese Budavari, proprio nei giorni in cui avverrà l’invasione della Ungheria e la conseguente rivolta di Budapest. L’arrivo dà luogo a fermenti di solidarietà e a festeggiamenti vari con i “compagni” ungheresi. Qui Moretti ne approfitta per giocare con le memorie felliniane, sue e dei suoi spettatori. Alla prima dello spettacolo del circo si diverte con tendoni, pedane, musiche da circo, cavalli, acrobati e clown. Alla serata inaugurale del Circo è anche presente Togliatti, che però s’intravvede soltanto e che Giovanni, discutendo con l’aiuto regista Arianna, non vuol mettere in primo piano.

A un certo punto della serata però, Togliatti e i suoi accompagnatori (sempre mostrati in ombra) si alzano di scatto e abbandonano lo spettacolo di corsa, come colti da una notizia sconvolgente. Alla fine della serata tutti allora si precipitano in un appartamento vicino, dove hanno la televisione, per sapere cosa è successo. Le immagini sono spietate. I carri armati sovietici sono entrati a Budapest ed è iniziata la repressione. I titoli de l’Unità poi rendono chiaro che la Direzione del PCI ha condannato duramente la rivolta di Budapest e ha appoggiato l’intervento dei carri armati.

12. Faccio osservare che in una simile occasione, dove si manifestava solidarietà col nuovo corso ungherese, la presenza di Togliatti era altamente improbabile. Un Togliatti filo ungherese, inconsapevole e “sorpreso” dagli avvenimenti di Budapest, stride pesantemente con i fatti storici. La storiografia ha ormai appurato in modo incontrovertibile che Togliatti fu tra coloro che chiesero con insistenza a Mosca proprio di procedere all’invasione dell’Ungheria per mettere fine al nuovo corso. Togliatti poi, non contento dell’esito dell’invasione, fu tra coloro che appoggiarono la condanna a morte di Imre Nagy (il padre ispiratore della rivolta ungherese, per chi non lo sapesse) e del generale Maléter (l’eroico difensore di Budapest). Solo che Togliatti – è tutto ampiamente documentato – chiese che la loro esecuzione capitale avvenisse solo dopo le elezioni italiane del 25 maggio 1958, perché il Migliore aveva paura di squalificarsi con l’opinione pubblica italiana e di perdere voti. Chi abbia appena un po’ studiato gli avvenimenti, queste cose le deve sapere. Se Moretti/Giovanni si fosse minimamente documentato, avrebbe evitato certe macroscopiche incongruenze. Se invece l’incongruenza è voluta non se ne capisce proprio la ragione, forse per distinguere un Togliatti moderato dai sovietici cattivi? In ogni caso, la hybris autoriale non giustifica il travisamento dei dati e dei fatti storici. Ma alla critica e al pubblico queste cose non interessano. Proprio perché il pubblico odierno non sa nulla dell’Ungheria del 1956, diffondere versioni stravolte e/o edulcorate di quella storia rischia di mettere Moretti un po’ sullo stesso piano dell’odiato Netflix. Il rischio è sempre quello di sconfinare nel bullshite/o nella postverità.

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13. Tornando alla ricostruzione filmica, gli avvenimenti producono la costernazione dei “compagni” ungheresi del Budavari, ma provocano anche una lacerazione interna tra i militanti della sezione. E producono la spaccatura tra la coppia militante Ennio/Vera. Vengono così alla luce le differenze accuratamente celate dal rigorismo della vita di partito. Ennio si rivela qui come il dirigente inflessibile e ligio alle direttive, mentre Vera, aperta e solidale, prende posizione per i rivoltosi. Vera combatte valorosamente la sua battaglia per la libertà e si farà promotrice di una petizione con una raccolta di firme a sostegno degli insorti. Forse, a nostro giudizio, questa è un’allusione al famoso “Manifesto dei 101” che fu stilato da un centinaio di personaggi di primo piano della politica e della cultura di sinistra in appoggio alla rivolta ungherese e che l’Unità rifiutò di pubblicare. Il testo del Manifesto è qui riportato in nota[10]. L’appello di Vera con le firme, che era destinato alla pubblicazione sull’Unità, segue puntualmente lo stesso destino del vero Manifesto dei 101. Ennio, ligio alla consegna del Partito, rifiuterà di pubblicare la petizione sul giornale. Tutto ciò porterà Vera a riconsegnare la tessera, atto che, probabilmente, implica anche una vera e propria rottura nel campo dei loro rapporti personali. Per lo meno un divorzio simbolico. Ma di ciò per Giovanni poco o nulla si deve mostrare.

Moretti dunque, attraverso le scene girate da Giovanni, ci fa vedere, pur con qualche grave stravolgimento, quello che serve a intendere, in termini davvero elementari, la questione del 1956 anche dal lato storico. Tuttavia, a questo punto, quella che poteva anche sembrare l’avvio di una riflessione politica sul comunismo viene in un certo senso sospesa. Giovanni qui, giunto a mostrare la crisi della militanza che sopravviene nei suoi due personaggi, comincia a essere sempre più impegnato da questioni personali. Avanzano sempre più i segni di una crisi della sua stessa militanza professionale, la militanza cinematografica. I segni cioè di una crisi dell’Autore e del suo Cinema. Nello stesso tempo prendono spazio le questioni, sempre più problematiche, riguardanti la lavorazione stessa del film. Questioni che hanno a che fare con il lato economico della produzione, ma anche con il significato stesso del film.

Nanni Moretti e la morte del Cinema 1014. Dapprima il confronto tra Giovanni e Paola avverrà sul piano dei loro rapporti professionali e non su quello dei loro rapporti personali, che restano sempre rigorosamente nel non detto. Giovanni non pensa neppure che ci sia qualcosa da discutere, mentre Paola continua a non essere capace di dire a Giovanni quello che davvero pensa e vuole. Cioè la separazione. Un primo confronto drammatico avverrà sul piano delle scelte etiche ed estetiche coinvolte nel nuovo film prodotto da Paola, insieme con i coreani. Ed è di questo che converrà ora occuparci. Di questo film non ci è detto neppure il titolo. Sappiamo solo che il giovane regista Giuseppe aveva esordito con un film intitolato Orchi. Titolo che comunque è già tutto un programma. A Giovanni, in giro per Roma, era già capitato di trovarsi sul set del film dove si riprendeva la scena di una sparatoria, con un Giuseppe dietro la macchina da presa, esaltato come uno psicopatico, a mimare le mitragliate. In un altro luogo del film si dice, en passant, che sul set di Giuseppe si stava girando una scena con bambini disciolti nell’acido. Ora Giovanni capita per caso, con Paola, sul set dove si sta girando, con una certa aria di festa, proprio l’ultima scena del film. Si tratta di un’esecuzione mediante un colpo di pistola in fronte, con molto sangue sparpagliato, dove un esecutore, in piedi, punta una pistola contro una vittima inginocchiata. Non sappiamo chi siano e non conosciamo la storia che c’è dietro.

Giovanni interviene bruscamente e interrompe la scena con un’accusa pesante a Giuseppe: «La scena che stai girando fa male al Cinema, lo capisci? Fa male alle persone, allo Spirito. Fa male a te che la giri e a noi che la guardiamo!». Inizia così un lungo monologo sulla questione, che potremmo catalogare sotto la rubrica di cinema e violenza. Si tratta di una parte davvero interessante ed efficace, anche se apparentemente priva di legami con la lavorazione de Il sol dell’avvenire su cui lo spettatore era stato indotto a concentrarsi in precedenza. Giovanni tiene tutti in sospeso “per tutta la notte” – così ci vien detto – in cui si esibisce in una filippica ininterrotta contro la violenza nel cinema. Si tratta di un’orazione che ha davvero dei punti notevoli. In ciò, come aveva già fatto Woody Allen con McLuhan[11], chiama in supporto della sua tesi illustri personaggi come l’architetto Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio, che nella sua veste di matematica spiega, dal canto suo, «la geometria del lupo e dell’agnello». Cerca anche di interpellare Scorsese per telefono. Rivolto a Giuseppe, che cerca confusamente di giustificare il proprio operato, dice: «Il fatto è che a te la violenza proprio piace, ne sei affascinato». Ancora: «Tutti sono in preda da anni di un incantesimo. Poi una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato». Stupendo poi, a mio modesto avviso, è il monologo di Giovanni sull’episodio Non uccidere del Decalogo di Kieslowsky. La troupe e tutti i presenti sono ammutoliti. Sembrano tuttavia colpiti e incapaci di reagire. Paola cerca di convincere Giovanni a smetterla e a permettere di girare l’ultima scena del film. Solo all’alba, dopo la consegna dei cornetti da parte del venditore di passaggio, all’esecutore esausto è permesso far partire il colpo di pistola, ma il tutto si vede in lontananza, dietro le spalle di Giovanni che si sta allontanando.

Sempre nel contesto del lungo discorso sulla violenza, Giovanni rivolto a Paola, sul finire, aveva detto: «Nella vita, due o tre principi bisogna pure averceli, no?». Paola irritata aveva risposto che quel tipo di film lì li fanno tutti e li vedono tutti. E Giovanni amareggiato: «Tu non eri come tutti!». Qui risuona evidentemente il richiamo al mondo perduto del PCI del 1956, quando la fedeltà ai principi, quali che fossero, poteva anche dare un senso alla vita, poteva determinare destini e rapporti tra le persone. Qui è abbastanza chiaro che non c’è in gioco solo una polemica contro l’uso della violenza nel cinema, bensì anche una presa di posizione contro la svolta commerciale del Cinema, la tendenza alla produzione seriale di film che rincorrono i bassi gusti del grande pubblico, scritti a tavolino da equipe sbrigative e girati da registi altrettanto sbrigativi. Insomma, una polemica contro il Cinema che adotta lo stile delle serie televisive. Una polemica contro il Cinema che ha messo da parte l’Autore. Contro il tipo di Cinema cui Paola colpevolmente avrebbe aperto le porte, cercando implicitamente la propria personale liberazione da Giovanni.

15. Possiamo a questo punto tentare di accennare una risposta appena un po’ più complessa alla domanda: che c’entrano il PCI e l’Ungheria con la violenza e con la morte del Cinema? Per capire questo punto essenziale dobbiamo cercare di ricostruire i termini di quella che potrebbe essere stata la riflessione morettiana – a dire il vero per i miei gusti un poco contorta – sulla storia recente del cinema italiano[12]. Quella riflessione che può averlo condotto a connettere l’Ungheria del 1956 con i film splatter dei giorni nostri e con le serie televisive. Si tratta certo qui di supposizioni, ma dotate di qualche fondamento in base a ciò che Moretti ci ha mostrato finora.

Il Cinema d’Autore italiano è stato quasi sempre un Cinema di sinistra. E questo è un fatto. La genesi di questo Cinema sta nel neorealismo del secondo dopoguerra, nel rapporto tra politica e cultura, così com’era stato impostato proprio da Togliatti. E talvolta anche polemicamente contestato. Si ricordi il famoso dibattito tra Togliatti e Vittorini. Per quel mondo, che comunque agiva nel solco del sol dell’avvenire annunciato dall’Unione Sovietica, il 1956 è stato effettivamente un momento di grave crisi, di disorientamento, di riflessione. Abbiamo già citato e riportato il Manifesto dei 101. Molti intellettuali, in quel frangente, hanno rinunciato alla militanza politica. Si sono scrollati di dosso l’occhiuto controllo del Partito. Ne è testimonianza il dibattito, aperto proprio nel 1956 sulla rivista Cinema Nuovo[13]. L’avvio del dibattito fu promosso da un articolo di Renzo Renzi che si intitolava «Sciolti dal “giuramento”»[14]. Tuttavia – e questo è il punto cruciale che forse interessa a Moretti – quegli intellettuali che si erano allora emancipati dal Partito non hanno mai rinunciato all’impegno. Dopo la rottura del 1956, il cinema autoriale ha continuato a sviluppare un suo impegno militante. Non più sotto le ormai truci bandiere rosse ma sotto il vessillo dell’impegno autoriale libero. Questo vale per l’Italia, ma anche per le più importanti cinematografie straniere. Sembra dire Moretti che anche quando, come nel suo caso, ha sviluppato un cinema davvero molto personale, con i tratti di egocentrismo che egli stesso ha sempre esibito, il suo Cinema non ha mai rinunciato all’impegno. A costo di esibire anche maldestramente la propria dimensione più intima e personale, a costo di fare un film ogni cinque anni, a costo di comportarsi sul set come un dittatore autoritario: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?».

Per Moretti allora, di fronte all’andazzo odierno del cinema commerciale, di fronte alle imposizioni del mercato, di fronte alla progressiva corruzione dei gusti del pubblico, si tratta di tornare a interrogarsi sul senso dell’impegno dell’Autore. A interrogarsi, cioè, intorno al rapporto tra politica e cultura, tra intellettuali e potere. Tra l’opera artistica, la tecnologia e il mercato. E a interrogarsi sulle conseguenze sociali e culturali di tutto ciò. Insomma, un richiamo alla responsabilità. Interpretato in questo modo, quello di Moretti (per il tramite del personaggio Giovanni) si configura come un vero e proprio appello. Un Manifesto, se vogliamo. Una chiamata a scegliere urgentemente da che parte stare, giacché non è possibile stare a metà, proprio come non era possibile stare a metà nel 1956: «[…] una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato».

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16. Ma riprendiamo il corso del filone narrativo principale. Intanto per Giovanni si tratta di prendere atto del fatto che la lavorazione del suo film è messa a repentaglio da un evento imprevedibile: l’arresto del coproduttore Pierre da parte della Guardia di Finanza per reati fiscali. Così il duro peso delle incombenze materiali si fa sentire. Si scopre che Pierre era già ricercato fin dall’inizio della lavorazione del film e, per questo, si nascondeva e soggiornava proprio negli studi. Era lui il disseminatore degli oggetti “fuori epoca” e dei cartoni delle pizze che facevano impazzire Giovanni e di cui egli rimproverava il povero Diego.

Pierre, che esce di scena in maniera goffa e ingloriosa, aveva comunque già offerto a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Rivolgersi a quelli di Netflix, che avrebbero potuto essere interessati a subentrare nella produzione. L’incontro con gli esponenti di Netflix si tiene effettivamente ed è narrato in forma caricaturale, sebbene assai significativa. Questo incontro è davvero rivelatore e offre allo spettatore una importante chiave di lettura del film di Giovanni (e dello stesso film di Moretti). Il dialogo tragicomico che avviene tra le due parti è fatto apposta per evidenziare la loro distanza lunare. Da un lato, Giovanni che spiega come San Michele aveva un gallo dei Fratelli Taviani potesse essere, insieme, un film politico e poetico. Dall’altro, quelli di Netflix che spiegano a che punto del film (cioè, dopo 2 minuti!) lo spettatore medio decide se continuare a guardare o meno. Il copione di Giovanni viene rifiutato perché sostanzialmente non soddisfa i canoni del cinema commerciale e perché il contenuto deve essere suscettibile di essere compreso universalmente, visto che Netflix è diffuso in ben «190 Paesi». In estrema sintesi, poi, secondo Netflix, rappresentato qui da una distinta signora, nel copione manca il momento «What the fuck!».

Sarà un caso, ma proprio durante il colloquio con gli esponenti di Netflix Giovanni comunica allo spettatore un’informazione sul copione che costituisce effettivamente un colpo di scena, un vero e proprio momento What the fuck!, un elemento finora accuratamente celato, intorno al quale prenderà forma tutta l’ultima parte del film di Moretti. Dice Giovanni en passant: «San Michele aveva un gallo […] era un bellissimo film e finiva con il suicidio del protagonista, proprio come il mio!». Moretti, evidentemente, allude qui nientemeno che al suicidio di Ennio. Insomma, apprendiamo qui che il “film d’amore” di Giovanni ha un finale tragico. Era piuttosto un film d’amore e di morte! Questa novità è clamorosa ed è effettivamente in grado di unificare le due parti apparentemente sconnesse del filone principale. Cominciamo forse a capirci qualcosa!

17. Intanto, dopo il monologo sulla violenza e il relativo scontro, Paola ha trovato il coraggio di esplicitare la propria intenzione di separarsi e così si trasferisce nell’appartamento che aveva affittato da tempo, proprio in vista della separazione. Giovanni va a dormire a casa della figlia Emma. Dove Moretti ha modo di mettere a segno alcune ulteriori osservazioni di tipo generazionale, discutendo di dipendenza, di sonniferi e antidepressivi. Giovanni continua a non capire i motivi della separazione e continua a chiedere a Paola di ripensarci. Paola mantiene la sua decisione ma, nello stesso tempo, offre a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Grazie alla mediazione di Paola, il copione del film viene fatto leggere ai coreani. Sorprendentemente, i coreani ne sono molto colpiti e decidono su due piedi di finanziarlo, subentrando così allo sciagurato Pierre. Qui la portavoce dei coreani spiega accuratamente, in un modo che più chiaro non si può, il senso effettivo del copione appena letto: «La sceneggiatura è stata davvero apprezzata. Soprattutto il finale, così drammatico, senza speranza. È un film sulla morte dell’arte, sulla morte dei comunismi, sulla morte dell’amore e della morale. È proprio un film sulla fine di tutto quanto!». Giovanni risponde con un laconico: «Certo!».

Forse un film d’Autore sulla «fine di tutto quanto!» deve essere apparso ai coreani ben più potente della violenza infantile e gratuita del film del giovane Giuseppe. O forse, più semplicemente, per i coreani un film “sulla fine di tutto” è solo una corsa al rialzo, la logica conseguenza del trend nichilistico aperto dai film splatter. O forse, ancora, Moretti ha voluto fare una strizzata d’occhio benevola al nuovo cinema coreano[15]? Non è del tutto chiaro. Non è chiaro neanche se la diagnosi dei coreani, cui Giovanni acconsente, sia anche la chiave condivisa dallo stesso Moretti e valida dunque, estensivamente, per l’intero film. Un Moretti così didascalico (e ideologico) da mettere nel film un’esplicita traccia per la sua corretta lettura? Oppure Moretti tenta comunque ancora di mascherarsi e di sfuggire a qualsiasi definizione?

18. Grazie all’intervento dei produttori coreani, si riprende a girare il film. Tuttavia, al momento dell’ultima scena del film, il finale «drammatico e senza speranza», cioè il suicidio di Ennio, le cose si complicano. Sulla scena, Giovanni, per spiegare a Orlando/Ennio come recitare l’impiccagione, gli dà questa dritta, con la sua voce strascicata: «Pensa a quello che disse Calvino: Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere. Pensaci, poi però dimenticalo!». Poi, quasi come per una coazione inconscia, Giovanni, nella sua foga dimostrare come fare, caccia la testa dentro il cappio e se lo stringe al collo. Diventa allora chiaro che qui si tratta proprio del suicidio dell’Autore, un suicidio sospeso tra la realtà e la fiction. Gli astanti guardano la scena palesemente angosciati. Paola è attonita. Forse per la prima volta Paola capisce il dramma di Giovanni, messo per iscritto da mesi nel copione del film, ma mai veramente approfondito e discusso. Forse per la prima volta Giovanni è riuscito davvero a spiegarsi senza l’uso delle parole – come ama fare – e a ottenere l’attenzione di tutti.

In quel momento tuttavia si ha una specie di catarsi. O forse, più banalmente, a Giovanni si accende la classica lampadina. Giovanni si toglie il cappio e decide che quella scena non avrebbe più fatto parte del film. Insomma, rifiuta il finale che aveva previsto, quel finale così necessario nell’economia del copione e così ammirato dai coreani. Si noti che in precedenza aveva detto, en passant, che l’intero film lo aveva scritto solo dopo che gli era venuto in mente il finale. Era stato dunque il finale tragico, il suicidio, il motore dell’intera scrittura del film. Ma allora, senza quel finale, che senso può ancora avere quel film?

Qui comunque appare ancor più chiaro come l’alter ego psicoanalitico di Giovanni sia proprio Ennio, lo stalinista riluttante. Colui che doveva essere destinato al suicidio per un irriducibile conflitto tra sé e il mondo. Se riteniamo – come credo sia giusto pensare – che per Moretti il film altro non debba essere se non una sorta di autoanalisi, una presa di coscienza attraverso la scrittura, qui Giovanni si rende finalmente conto che il film che sta girando altro non è se non il pretesto per mettere in scena la propria crisi, forse anche politica ma soprattutto esistenziale e artistica. Del tutto speculare alla decisione di Paola di andare in analisi per riuscire a separarsi da Giovanni.

19. Successivamente a questo moto di rifiuto del finale, tutta la troupe, compresi i produttori coreani, si ritrova riunita attorno a un tavolo, in una specie di ricevimento alla ambasciata polacca, ospiti di Jerzy. In questo contesto, tra l’altro, la figlia di Giovanni annuncia l’intenzione di sposarsi proprio con Jerzy. Jerzy assume così sempre più la figura del padre maturo. Qui Giovanni dichiara che il finale del film non gli piace più, di non voler mai più vedere quel cappio. A questo punto, come se si fossero passati la parola, tra i convitati si sviluppa una specie di concitato e sonoro brainstorming cui partecipano tutti appassionatamente (attori, collaboratori, produttori coreani inclusi …) il cui risultato sarà un radicale cambiamento di finale.

Giovanni ascolta il brusio e pensa tra sé qualcosa di abbastanza singolare: «La storia non si fa con i “se”. E chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i “se”!». Il suo “se”, come si vedrà, è grosso come una montagna ed è, purtroppo per noi spettatori, piuttosto difficile da comprendere. Tanto da lasciare, forse, un po’ di amaro in bocca a chi è arrivato fin qui. Comunque val la pena di seguire fino in fondo la nuova intuizione creativa di Giovanni.

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20. Subito parte il nuovo finale, fatto vedere al pubblico in diretta. I numerosi “compagni” sottoscrittori della petizione promossa da Vera a favore della rivolta ungherese si ritrovano sotto la Direzione del PCI (più o meno una storica ricostruzione delle Botteghe Oscure) e inscenano una grande manifestazione. Tra la folla, violando la logica temporale della narrazione, si trovano anche Giovanni e Paola, forse finalmente riconciliati in seguito agli eventi precedenti. Dal basso della piazza s’intravvedono in alto i dirigenti comunisti, Togliatti in primis, confabulare dietro le finestre del primo piano. Poco dopo viene fatto uscire un numero de l’Unità che ha come titolo un clamoroso e sorprendente: «Unione Sovietica addio!» scritto a caratteri cubitali.

Le prime copie del giornale con l’addio all’Unione Sovietica sono diffuse e di lì, col supporto della banda musicale, degli artisti del circo Budavari e degli elefanti, parte un corteo – in stile da circo equestre sempre decisamente felliniano – che si dipana per le vie di Roma. Un corteo che figurativamente nelle inquadrature evoca un po’ il Terzo Stato di Pellizza da Volpedo. Nella sfilata, Moretti provvede a salvare Ennio (alter ego di Giovanni) e Vera (alter ego di Paola), i quali si vedono, finalmente, felicemente abbracciati, non si sa se come personaggi o, più probabilmente, come attori, visto il loro progressivo innamoramento durante la lavorazione del film. Sempre Cinema e vita, dunque. I due stanno a cavalcioni di un elefante, uno dei quattro elefanti del corteo, resi ora disponibili dalla onnipotente produzione coreana e, anche loro finalmente “familiarizzati”, divenuti cioè socievoli e disponibili a lavorare insieme. Nel corteo sono compresi anche Togliatti e i produttori coreani.

Si tratta di un corteo, collocato ormai al di là dello spazio e del tempo, dove compaiono tutti i protagonisti, non solo del film di Giovanni ma anche dei diversi altri film di cui si tratta nel film, cui si aggiungono addirittura anche molti attori e protagonisti di precedenti film di Moretti. Attraverso la sfilata dei protagonisti dei suoi film precedenti, evidentemente Moretti vuol rivendicare qui il proprio lavoro autoriale, compreso il suo egocentrismo vagamente staliniano, la sua difficoltà ad affrontare i sentimenti e le relazioni interpersonali. Rivendica insomma la causa del Cinema contro la spazzatura mediatica dilagante. Rivendica una sorta di Cinema totale che si intrecci con la vita. Un intreccio così autentico da farsi psicoanalisi per chi scrive i copioni e decide i finali. Alla fine della sarabanda – ed è questa la ancor più sorprendente chiusura del film – compare, inaspettatamente, un cartello, su sfondo rosso, che recita così: «Da quel giorno il Partito Comunista Italiano si liberò dell’egemonia sovietica, realizzando in Italia l’utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, che ancora oggi ci rende tanto felici».

21. Non possiamo proprio trattenere qui un sonoro gulp! Un finale siffatto è senz’altro da opera aperta. Spalancata. Ma si potrebbe anche dire da opera inconclusa. Che cosa ha voluto dire Moretti? E, soprattutto, ha voluto dire qualcosa? O si è limitato a menare il can per l’aia riproponendo tutte le sue macchiette più o meno scontate? In sostanza, come dobbiamo intendere la nuova determinazione di Giovanni di voler «fare la storia con i “se”»? Se non vogliamo rassegnarci alla critica postmoderna, si tratta senz’altro di domande più che lecite. Quel tipo di domande che tra il pubblico ci si poneva quando si faceva il dibattito, dopo la visione del film.

Intanto va osservato che «Fare la storia con i “se”» non è di per sé negativo ed è presente, seppure in tono minore, nella stessa metodologia della scienza storica. Per meglio valutare l’importanza di certi avvenimenti, gli storici possono talvolta, in mera sede teorica, come esperimento mentale, sopprimere o modificare un certo evento per vedere quali conseguenze ne sarebbero potute derivare. Si tratta di meri esercizi teorici che possono tuttavia aiutare a meglio valutare il peso di determinati eventi nella storia[16]. Di qui purtroppo ha anche preso piede una certa letteratura minore, di carattere piuttosto popolare, attraverso la quale sono state proposte varie ipotesi, più o meno strampalate. Non ci pare proprio tuttavia che questo tipo di esperimenti possa effettivamente essere stato nelle intenzioni di Moretti.

Mi sentirei di appoggiare un’altra tesi, anche questa tuttavia di plausibilità relativa. Moretti potrebbe avere inteso suggerire che stando ai fatti (cioè stando alla effettiva storia recente) la soluzione tragica, il suicidio di Ennio (e con lui, si badi bene, della parte preponderante della sinistra italiana) avrebbe dovuto essere il finale autentico, il finale più appropriato, quello conseguente all’effettivo andamento delle cose. Si sarebbe trattato di un film sulla grande tragedia dell’ultimo secolo vista dal Quarticciolo. Insomma, un dramma politico e poetico a livello dei Fratelli Taviani. Un drammone effettivamente del tutto plausibile, un’opera di riflessione senz’altro necessaria ma che Moretti, implicitamente, dichiara di essere incapace di portare a termine, forse data anche la caratteristica peculiare del suo linguaggio espressivo. Moretti, in altri termini, ci fa vedere pezzi di un film che sarebbe necessario fare ma che egli stesso ammette di essere incapace di portare avanti e di concludere col rigore necessario. La trovata geniale di Moretti resta tuttavia – e credo che in ciò abbia avuto perfettamente ragione – quella di avere individuato, con una certa precisione, il nodo, l’evento storico che ci ha resi quello che siamo, la nostra “giornata particolare”, per dirla con Aldo Cazzullo. Un nodo tuttora rimosso che la sinistra italiana non ha ancora compreso, non ha ancora analizzato e superato. E non ha alcuna intenzione di farlo.

È proprio dalla rimozione di quella storia – che poi costituisce un caso drammatico di fallimento dell’utopia – che deriva la «fine di tutto», cioè – come dice la portavoce dei coreani – la morte dell’arte, la morte dei comunismi, la morte dell’amore e della morale. E naturalmente, la morte del Cinema. Con la baraonda finale Moretti, di fronte all’incombenza di concludere degnamente, si sposta repentinamente sul piano fantastico e confessa implicitamente di essere incapace di procedere alla rielaborazione, incapace di produrre una psico – analisi dello smarrimento dei tempi nostri e incapace di indurre una decisiva ed efficace presa di coscienza. In proposito, la citazione calviniana è quanto mai chiara: «Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere».

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22. Se probabilmente questo è, in maniera del tutto generale, il senso plausibile della baraonda finale, questo non ci esime dall’entrare nel merito dei suoi specifici contenuti. Quel che Moretti ci ha messo dentro – a cominciare dalla scritta finale – non è sicuramente casuale. E con ciò ci dobbiamo ora confrontare.

Intanto è il caso di considerare che il «se» di Giovanni si dimostra neppure così tanto radicale. Nel 1956 qualcuno che ha dato l’addio all’Unione sovietica c’è stato davvero. Abbiamo già citato e riportato in nota lo storico Manifesto dei 101. La repressione della rivolta ungherese causò effettivamente una spaccatura profonda nella sinistra italiana. Il PSI prese tuttavia apertamente posizione a favore degli insorti. Tranne una sua minoranza interna, i cosiddetti “carristi”, i fautori dei carri armati, che poi, nel 1964 lasceranno il partito e andranno a fondare lo PSIUP. Anche la CGIL prese posizione a favore degli operai ungheresi insorti. Non era dunque davvero così impossibile a quell’epoca condannare l’Unione Sovietica. E molti lo fecero. Bastava non avere la mente prigioniera tipica dei comunisti allineati. Ma non è così semplice. Secondo Moretti, quell’addio avrebbe dovuto comportare non un passaggio nelle file del Blocco occidentale ma un riavvicinamento all’utopia comunista tradita. Fino alla sua realizzazione. Questo è il punto.

In realtà, volendo ragionare storicamente, “se” Togliatti avesse preso le distanze dall’Unione Sovietica nel 1956 sarebbe cambiato certo qualcosa, ma forse nulla di risolutivo. Se fosse riuscito a evitare una scissione estremistica a sinistra, la Guerra fredda in Italia avrebbe senz’altro avuto un altro corso. Forse ci saremmo risparmiati gli anni di piombo. Si sarebbero risparmiate, certo, molte lacerazioni interne, non si sarebbe disperso, com’è invece avvenuto, buona parte del patrimonio storico del movimento operaio italiano e, forse, in questo Paese avremmo oggi una migliore cultura civica e una democrazia più solida. Dubito tuttavia che avremmo realizzato la utopia di Marx e Engels «che ci rende tanto felici» e che ciò ci avrebbe preservato dalla «fine di tutto», dai postcomunisti, dai postmoderni, dai film splatter, da Netflix e dalla morte del Cinema. La nostra crisi culturale attuale è certo frutto anche ella crisi della sinistra del 1956, ma a questa non si riduce affatto.

23. Comunque, se si tratta volonterosamente di «salvare il soldato Ennio», occorre allora fare un po’ di pulizia anche nella cantina (o nel solaio, se si vuole) del nostro Moretti. Gli spunti politico ideologici seminati qua e là nel film, non certo casualmente, non promettono gran che sulla strada di una maturazione in termini di coscienza. Giovanni (insieme a Moretti) deve fare ancora un bel po’ di strada. Decisamente problematica per noi, oltre al cartello finale sulla utopia marx-engelsiana che “ci renderebbe tanto felici”, è la presenza, in questo corteo, di un gigantesco ritratto di Trotsky, benevolo e sorridente. Ci dispiace, ma qui non riusciamo proprio a seguire. Come già non avevamo capito la battuta dell’Acqua Rosa, sulla Luxemburg. All’inizio del film, nell’allestimento del set della sezione, per Giovanni non andava bene l’immagine di Stalin, tanto da determinare il famoso “strappo”, ma Lenin, certo non meno responsabile di Stalin nelle vicende del comunismo sovietico, era stato lasciato in bella mostra. Non possiamo poi neanche asserire che “se” avesse prevalso Trotsky le cose sarebbero andate diversamente. Trotsky non era certo migliore degli altri due, semplicemente è stato lo sconfitto dalle lotte interne. Forse perché era un po’ meno analfabeta dei suoi concorrenti. Oltretutto è stato uno dei principali perpetratori del massacro di Kronstadt del 1921. Forse per Moretti – come ancora per tanti “compagni” incanutiti – far fuori gli anarchici era allora il prezzo da pagare per salvare la rivoluzione. Le battute sul «pasticcere trotskista» in un precedente film di Moretti e la riproposizione in questo corteo finale della figura di Trotsky a mo’ di tormentone, lasciano molte domande aperte, soprattutto sulla cultura storica e filosofica di base del nostro Moretti.

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L’idea di fondo, sottesa a tutto ciò, è che l’ideologia comunista (o se si vuole, l’utopia comunista) fosse originariamente una cosa buona e giusta e che sia poi naufragata per una sorta di fortuita deviazione costituita da Stalin e dalla Unione Sovietica staliniana. Si tratta di un’idea piuttosto ingenua e superficiale. Se c’è una cosa ampiamente provata dalla storia del XX secolo è la totale inemendabilità della ideologia comunista. Certo, nessuno è perfetto. Rispettiamo profondamente l’Autore Moretti, anche se manteniamo enormi riserve sul politico Moretti. Chi si aspettava da Moretti – visto anche il titolo del film – una qualche intrigante riflessione sulla crisi della sinistra odierna è stato sistemato. Nel campo della militanza, il suo massimo Moretti lo ha dato con «D’Alema, dì qualcosa di sinistra!» e «Con questi dirigenti non vinceremo mai!»[17]. Non è compito del Cinema risolvere i problemi che la politica non è in grado di affrontare.

24. Se l’abbozzo di riflessione critica sulla sinistra italiana condotta da Moretti a partire dalla crisi del 1956 è decisamente insufficiente, non altrettanto lo è – nostro modesto avviso – l’analisi e la riflessione critica sui destini del Cinema o, come abbiamo detto, sulla morte del Cinema. Purtroppo, anche nel campo del Cinema, nonostante gli apprezzabilissimi spezzoni di lucidità che abbiamo segnalato, la presa di coscienza della situazione attuale non offre alcuno sprazzo di ottimismo. Anche qui Moretti ci suggerisce che oggi il suicidio dell’Autore sarebbe in realtà la giusta soluzione, forse del tutto inevitabile. Nello stesso tempo rifiuta quasi istintivamente il cappio, per una specie di istinto di sopravvivenza. O forse per proporre un invito alla Resistenza. Un invito forse fin troppo prevedibile e rituale, ma ci sta bene. L’autoanalisi totale di Giovanni attraverso il film, dopo essere passata per l’ipotesi drammatica del suicidio, si è compiuta infine con una fuga fantastica, una specie di evasione dalla storia, dal tempo, dando luogo alla costruzione di una comunità immaginata che può essere identificata con la comunità di coloro che credono ancora al cinema autoriale, nonostante Netflix. Non più la «fine di tutto», la fine dell’arte, come stava scritto nel copione originario, ma l’alba fantastica del mondo nuovo, politico e cinematografico insieme. Tra l’altro è qui suggerita implicitamente l’amara consapevolezza che senza la politica non c’è la cultura e viceversa. Quello che Moretti offre al suo pubblico è tuttavia un finale “politico culturale” destinato a rimanere nell’ambito consolatorio. Il suo corteo non va da nessuna parte e si chiude con quell’ambigua scritta finale che contiene in sé un elemento utopico insieme alla sua stessa delegittimazione.

Moretti conosce bene il suo pubblico e sa che esso è comunque disponibile alla critica ironica nei confronti della realtà, al distanziamento, magari alla fuga nell’utopia. Ma anche un pubblico capace di comprendere le debolezze individuali, i fallimenti, le rimozioni. Un pubblico poi che, sul piano morale, ha dietro le spalle una lunga storia di disillusioni e sembra costitutivamente destinato a guadagnare una sconfitta dopo l’altra. Un pubblico che apprezza un mondo politico e poetico, dove tuttavia può anche incombere il suicidio del protagonista. Un finale per il suo pubblico, dunque. Un finale comunque senz’altro non suscettibile di essere «diffuso in 190 Paesi», come richiesto dai rappresentanti di Netflix. Forse oggi non sarebbe neanche suscettibile di essere diffuso al Quarticciolo.

25. Non nascondiamocelo. Questo finale, comunque lo si rigiri, per quanto fantasioso e accattivante, sembra per lo meno insufficiente. Non all’altezza. L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi, per sollevare appena un po’ il generoso Moretti da questa débâcle, è la seguente. Si badi bene, non è certo che questa spiegazione sia stata mai effettivamente nelle intenzioni di Moretti, ma senz’altro, a mio modesto avviso, emerge con qualche plausibilità dal testo del suo film. La propongo qui nello spirito del dibattito.

Torniamo a Giovanni, che con ogni probabilità rischia ancora di essere la chiave di tutto. Vediamo in generale come si comporta, come lavora. È immaturo, pasticcione, capriccioso, irresoluto. Nella vita privata è un padre assente e un partner pesante e problematico. È superstizioso. A ogni nuovo film deve fare il rito di guardare Lola con tutta la famiglia; nei momenti di difficoltà invoca la mamma, dichiara di prendere gli antidepressivi. Sul lavoro è terribilmente inefficiente, visto che fa un film ogni cinque anni. Il film che Giovanni gira ostentatamente sotto i nostri occhi è un’opera erratica, indecisa, dall’incerta collocazione tra i generi, soggetta a mille condizionamenti, dalla vita privata dell’Autore ai diktat dei conti economici. Un’opera perfino indecisa riguardo al finale e al suo significato generale. Dalla figura di Giovanni, così com’è delineata, e dal suo film, così come viene mostrato nel suo farsi e nella sua in conclusione, sembra emergere l’intenzione di un vero e proprio elogio della imperfezione. Un’imperfezione che per Moretti è senz’altro ineluttabile, tipica della vita, delle relazioni interpersonali, degli Autori, dei produttori. Ma anche della politica e della grande storia.

Netflix (qui pars pro toto), a rovescio, non ha il retroterra umano troppo umano dell’Autore solitario, del free rider. Non subisce il peso dei condizionamenti più disparati. Non ha bisogno della psicoanalisi. È una macchina del consenso che produce e distribuisce merce «in 190 Paesi». È uno standard cui ci si deve adeguare per stare dentro al meccanismo produttivo e distributivo. Gli autori di Netflix calcolano minuto per minuto quale meccanismo narrativo sia preferibile per acchiappare e accontentare il pubblico. È possibilissimo poi che, di questo passo, gli autori di Netflix possano perfino essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Sicuramente una AI potrebbe produrre storie tecnicamente più efficaci di qualsiasi Autore o collettivo di autori. Perché la AI rappresenta il collettivo autoriale assoluto, quello che emerge automaticamente dal Testo universale.

Secondo Moretti invece – e questo discorso a nostro parere emerge dal suo testo –l’Autore solitario, il free rider potrà avere anche mille difetti, potrà anche essere enormemente imperfetto, ma sarà sempre meglio di Netflix, semplicemente perché è espressione della vita: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?». Gli intellettuali del 1956 avevano di fronte la macchina comunista in tutte le sue manifestazioni locali e mondiali. Gli intellettuali di oggi hanno di fronte una macchina ben più temibile. Di fronte alla «fine di tutto quanto» l’unica speranza di reagire, di restare umani, è quella di fare un ricorso intelligente alla nostra imperfezione. E di imperfezione intelligente Moretti certo se ne intende.

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NOTE

[1] Questo saggio è stato originariamente pubblicato su Città Futura on-line. Questa è una nuova versione (1.1), rivista il 15/01/2024, in occasione della pubblicazione sul sito de I Viandanti delle Nebbie. Ringrazio vivamente il sito dei Viandanti per l’attenzione e la condivisione. Ho cominciato a scrivere questo piccolo saggio l’08/09/2023, tanto per collocarlo rispetto alle uscite dei commenti e delle analisi altrui.

[2] Chiedo scusa se per caso mi fosse sfuggita qualche importante controversia critica. Non mi capita più tanto di leggere la critica cinematografica.

[3] L’espressione critica postmoderna è ovviamente una contraddizione in termini.

[4] Di opera aperta ha parlato Umberto Eco. Il quale era tuttavia ben consapevole dei pericoli connessi alla pretesa di un’interpretazione infinita. Cfr. Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990

[5] Sento qui ruggire i ritualisti fondamentalisti antispoiler.

[6] Giovanni, che fa un film ogni cinque anni, in occasione della partenza delle riprese del nuovo film vuole imporre a tutta la famiglia il rituale della visione di Lola, con tanto di poncho da Ecce Bombo, gelato e quant’altro. Ma rimane ben presto da solo. Mormora tra sé: «Questo film andrà male, lo sento!».

[7] Giovanni compare come una specie di Cupido che incita Lui a baciare Lei mentre sono al cinema. I due però poi si lasciano, sorprendentemente dopo una dettagliata spiegazione da parte di Lei, di fronte a un Lui che palesemente è inadeguato e non sa cosa dire (anzi, lo stesso Giovanni gli ingiunge di non dire niente). È tuttavia l’unica parte del film dove – almeno da parte di Lei – le relazioni di coppia sono esaminate e spie-gate con una certa cura e con una certa articolazione nell’analisi dei sentimenti.

[8] Qui abbiamo una prima violenza alla storia. Cosa c’entri la Luxemburg con il PCI del 1956 è davvero difficile da capire. Farà il paio con la citazione di Trotsky che comparirà alla fine del film.

[9] Questa faccenda non è occasionale e/o pretestuosa come potrebbe sembrare, poiché la scrittura collettiva è proprio la tecnica che usano i grandi network del Cinema per produrre i loro contenuti. Cioè proprio il tipo di cinema contro cui polemizza Moretti. È il tipo di scrittura che sta demolendo la figura stessa dell’Autore. Qui Moretti non dice, ma sicuramente accenna.

[10] Forse è il caso di riportare, per chi non lo conosca, il testo di quel Manifesto dei 101, che è piuttosto breve ma assai significativo: «Ai compagni del Partito Comunista Italiano. Ai lavoratori italiani. Agli uomini di buona volontà. La rivolta del popolo ungherese contro il regime staliniano ha suscitato nel mondo intero un’ondata di simpatia e di solidarietà. Noi, intellettuali comunisti italiani, sentiamo il dovere di esprimere la nostra ferma approvazione a questa rivolta, che è stata una manifestazione di coraggio e di libertà da parte di un popolo che ha lottato per la propria indipendenza e per il socialismo. L’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche è un atto di violenza e di sopraffazione che non può essere giustificato. Esso è un tradimento dei principi del socialismo e della solidarietà internazionale. Noi denunciamo questa aggressione e ci dissociamo dalla linea del Partito Comunista Italiano, che ha accettato passivamente l’invasione dell’Ungheria. Crediamo che la via del socialismo passa attraverso la democrazia e la partecipazione delle masse alla vita politica e sociale. Noi ci impegniamo a continuare a lottare per la costruzione di un socialismo autenticamente democratico e progressista. Roma, 29 ottobre 1956». Seguono le firme dei sottoscrittori. È stata lievemente modificata la spaziatura e la punteggiatura, per ragioni di spazio.

[11] La scena si trova in Io e Annie (1977).

[12] Moretti avrebbe potuto anche trattare della storia del cinema a livello internazionale, nel periodo della Guerra Fredda. Ma non ce la fa. E ha fatto bene a limitarsi al cinema italiano.

[13] Si veda – per chi fosse interessato – la ricostruzione documentata di quel lontano dibattito nel volume di Guido Aristarco, Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta, Dedalo, Bari, 1981

[14] Il “giuramento” cui si allude nel titolo non è in realtà il giuramento di fede comunista, bensì il titolo di un film stalinista osannato dalla critica filosovietica dell’epoca. Ovviamente, c’era un gioco di parole voluto.

[15] In effetti, il Cinema coreano ha recentemente portato alla ribalta alcuni notevoli Autori.

[16] Max Weber in proposito aveva suggerito il metodo delle “possibilità retrospettive” (o, detto anche della “possibilità oggettiva”). Funziona più o meno così: si tende a constatare se, escludendo o mutando una delle condizioni antecedenti, il corso degli eventi, in base alle regole generali dell’esperienza, avrebbe potuto assumere una direzione diversa.

[17] La prima frase si trova nel film Aprile del 1998. La seconda, collocata nel contesto del Movimento dei girotondi, è del 2 febbraio 2002.

Bona et circenses

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 11 dicembre 2023

I nostri governanti hanno preso gusto ai “Bonus”. Senza rendersene conto, e usando tra l’altro il lemma latino in modo improprio (bonus inteso come sostantivo significa uomo buono: per significare vantaggio si deve usare il sostantivato neutro “bonum”. Chi ha dubbi consulti il Castiglioni-Mariotti) si rifanno direttamente alla prassi politica dell’ultimo periodo della repubblica romana e di tutto quello imperiale, quella del panem et circenses. Va detto che lo fanno con un ammirevole dispiego di fantasia. Attualmente sono in corso il Superbonus (quello del famigerato 110%, che nel nome rimanda a un personaggio del Monello degli anni ‘50), il Bonus prima casa, l’Ecobonus, il Sismabonus, il Bonus per l’abbattimento delle barriere architettoniche, il Bonus Verde, il Bonus casa green, il Bonus ristrutturazione e il Bonus mobili. Ma ci sono poi il Bonus trasporti, quello vacanze, quello cultura, quello per lo psicologo, ecc… Insomma, come se piovesse.

Ora, sarebbe interessante in primo luogo vedere come funziona questa Caritas di stato. Nelle linee di massima, e al netto delle immancabili frodi e dei pantani burocratici, il gioco dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. Se ad esempio si acquistano infissi per ristrutturazioni interne con lo sconto del 75% in fattura, l’importo finale risulta mediamente triplicato rispetto a quello di un acquisto normale (dato verificato per esperienza diretta – caldaie, finestre, ecc…). Il che significa che il singolo spende pressappoco la stessa cifra, mentre gli altri tre quarti (il plusvalore!) li paga lo stato, con soldi che comunque sono usciti dalle tasche del contribuente (cioè della minoranza che paga per intero le tasse). In sostanza, gli unici a guadagnarci davvero sono i produttori. Certo, se proiettiamo la faccenda sul piano macroeconomico si tratta di un incentivo al consumo e quindi alla produzione, e ci sta (insomma …): ma non raccontiamoci che lo scopo sia quello degli adeguamenti energetici, dell’abbattimento delle barriere architettoniche o della transizione ecologica.

Non di questo tuttavia volevamo parlare, quanto piuttosto della concezione dello stato e della società che sta alle spalle del sistema dei “bonus”. Il dato innegabile di partenza è che un sacco di gente annaspa in difficoltà economiche. Magari andrebbero discussi i criteri coi quali sono classificati e conteggiati i “nuovi poveri”, ma rischieremmo di perderci nel tentativo di definire i parametri che identificano lo “stato di povertà”, che cambiano di tempo in tempo e da luogo a luogo, e variano di gran lunga nella percezione individuale. Oppure, varrebbe la pena verificare quanto questo impoverimento sia determinato dal meccanismo classico del mercato del lavoro, dal prevalere cioè dell’offerta sulla domanda, e quanto invece dipenda dal diverso (e negativo) rapporto col lavoro che si sta diffondendo nelle nuove generazioni. Questi però sono temi che torneremo ad affrontare in altra occasione. Qui ci limitiamo a constatare che è aumentata la concentrazione della ricchezza in poche mani, e che la forbice economica si allarga sempre più: ciò che esigerebbe urgentemente una reazione della sinistra, ma prima ancora una ridefinizione dei suoi obiettivi sia “tattici” che “strategici”.

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Da sempre infatti l’obiettivo della sinistra è la chiusura di questa forbice, o quantomeno un suo restringimento, e una redistribuzione della ricchezza: operazione che peraltro appare oggi quanto mai necessaria anche prescindendo dalle considerazioni etiche (ovvero dagli ideali della sinistra) e indipendentemente dal fatto che il lato “povero” della forbice si sia comunque innalzato rispetto al livello della miseria assoluta (almeno nel nostro paese, e più in generale in Occidente o nei paesi di recente sviluppo). Appare necessaria se si vogliono evitare per il futuro sconvolgimenti sociali incontrollabili: in sostanza quindi converrebbe a tutte le parti in gioco non tirare troppo la corda. La tendenza in corso risulta invece decisamente contraria, e prefigura scenari da nuovo medioevo.

Veniamo al caso dell’Italia. Di fronte alla situazione di cui sopra, per sua natura la sinistra dovrebbe chiedere una redistribuzione radicale, mentre la destra tende ovviamente a ridistribuire il minimo indispensabile. All’atto pratico però sino ad oggi tutti i governi dell’ultimo mezzo secolo, della prima come della seconda repubblica, di centro-destra o di centro-sinistra, hanno redistribuito (quando l’hanno fatto) togliendo al ceto medio e toccando in misura irrisoria i grandi profitti e i grandi patrimoni. È vero che abbiamo assistito nel tempo ad aumenti dei sussidi minimi, alla creazione del reddito di cittadinanza (immaginato come un salvagente per chi si trovasse senza lavoro e senza reddito, e applicato poi alla carlona) e appunto alle svariate forme di “bonum”: ma tutto questo con interventi di rattoppo, realizzati più per finalità elettorali, per raccattare consensi, che in funzione di un disegno complessivo di equità sociale. Va detto peraltro che questo disegno non sembra essere molto chiaro nemmeno ai pochi che ne fanno una bandiera: e in effetti è assai più complesso di quanto si vorrebbe credere.

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In teoria infatti la nostra società dovrebbe reggersi sui principi di uguaglianza e di equità: ma la traduzione di questi principi nella pratica incontra poi enormi problemi, che non sono solo quelli legati alla cattiva volontà, all’inefficienza degli apparati, al gioco dei pesi e delle lobbies politiche, insomma, ai fattori contingenti. Ci sono prima ancora problemi “strutturali”, che vanno a toccare proprio le basi su cui si fonda una convivenza comunitaria. Un processo redistributivo rinforza infatti il principio dell’uguaglianza della disponibilità di risorse, ma se i meccanismi che devono farlo funzionare non rispettano anche il principio dell’equità l’equilibrio interno al gruppo va in crisi (favorire un’ape danneggia l’intero alveare).

Cerchiamo di spiegarci meglio. In ogni società di ogni tempo gli individui (tranne alcuni asociali) si riconoscono in un gruppo e desiderano essere riconosciuti come membri uguali agli altri (e questo attiene all’uguaglianza). Nell’ambito di questa identificazione il concetto di equità si riferisce invece all’aspettativa che i componenti del gruppo hanno rispetto ad una suddivisione delle risorse: una suddivisione in parti uguali, ma che rispecchi nel contempo i contributi di ciascuno. La redistribuzione non deve essere infatti una elemosina, ma deve riconoscere la dignità e l’apporto del singolo al bene comune.

Per funzionare correttamente un sistema redistributivo deve pertanto eliminare, o almeno ridurre al minimo, i comportamenti opportunistici (free rider), onde evitare che tali comportamenti scoraggino i “buoni” e portino alla crisi del gruppo sociale (la reazione del figlio fedele, nella parabola del figliol prodigo, o dei lavoranti della prima ora in quella dei Vignaioli, seppure entro una apparente contraddizione ci confermano che le regole morali hanno basi evolutive).

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Ora, cercare di eliminare i furbastri non significa non volere l’uguaglianza e l’equa distribuzione delle risorse, mirare allo smantellamento dello “stato sociale”: significa comprendere che sono proprio i comportamenti opportunistici (in sostanza lo sfruttamento del lavoro altrui, sia esso volto all’arricchimento che ad un lavativismo passivo) a metterne in crisi la sopravvivenza. Quindi, non si tratta di abbandonare chi non è neppure in condizioni di eseguire lavori di pubblica utilità, o chi per qualsivoglia giustificato motivo si trova in gravi difficoltà economiche. Lo “stato sociale” è una caratteristica naturale delle comunità umane, e non solo: anche tra gli altri primati sono documentati casi di individui che non sarebbero stati in grado di sopravvivere autonomamente per incidenti o per altre avversità, e che sono stati accuditi a lungo sotto l’ala protettiva della comunità. Ma i nostri cugini aiutano coloro che sono in difficoltà oggettive (e così facevano i nostri progenitori), e non chi intende condurre un’esistenza parassitaria sulle spalle del gruppo. Questi ultimi vengono invece espulsi senza troppi complimenti, esclusi dalla redistribuzione delle risorse.

Tutto ciò ha a che fare in qualche modo coi bonus? Certamente, e non lo scopriamo noi. I bonus sono distribuiti o a pioggia, e quindi, come nel caso di quelli edilizi, o di quello per la “cultura”, non redistribuiscono un accidente, perché vanno necessariamente a cadere nel primo caso solo su chi già possiede un’abitazione propria (per come poi funziona tutto il meccanismo, come si diceva sopra, avrebbero potuto essere girati direttamente ai produttori o ai costruttori) e nel secondo anche su chi, volendolo, potrebbe permettersi investimenti culturali ben più consistenti. Oppure, come per quelli relativi alle bollette energetiche, vengono erogati solo a chi è inserito nelle fasce economiche più “deboli”, appartenenza che viene certificata dall’ISEE. E sappiamo tutti che su questa base, per come l’ISEE è calcolato, al di là dei lavoratori dipendenti con stipendi minimi o dei disoccupati, ne beneficiano imprenditori, lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, ovvero quella metà dei contribuenti che evade in parte o in toto le tasse, o quei pensionati che hanno versato contributi risibili. Sarebbe questa la redistribuzione?

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Si obietterà che stiamo scoprendo in effetti l’acqua calda. È sempre stato così, o forse anche peggio. Ma appunto per questo è sconcertante che a “sinistra”, in una sinistra che annaspa alla ricerca di una pur minima base progettuale sulla quale rifondarsi, non si discuta in modo serio della progressiva riduzione del popolo a plebe sottoproletaria. E che, anzi, si assecondi e si caldeggi il passaggio dallo stato sociale allo stato assistenziale. La vicenda del reddito di cittadinanza erogato senza alcun corrispettivo in termini di partecipazione, di riconoscimento di un contributo per lavori di pubblica utilità, e quindi di dignità, ne è un palese esempio. Così come lo è il complice silenzio su milioni di pensioni di invalidità assegnate per puro scambio di voto, e anzi, la loro “validazione” quali ammortizzatori sociali.

Certo, ci sono scandali più gravi, evasioni ben più clamorose, ma quelli che il semplice cittadino percepisce come comportamenti più tangibilmente diffusi, e dai quali si sente preso in giro, sono proprio questi. Non ci si può trincerare sempre dietro il “c’è di peggio”, e pensare di poter condurre una battaglia contro i comportamenti clamorosamente scorretti se poi si avvallano quelli quotidianamente più evidenti.

Eppure, a chi oggi ambisce a rappresentare in politica o nella cultura la sinistra questi argomenti sembrano tabù. Una malintesa concezione dell’eguaglianza ha fatto passare in second’ordine il concetto di equità, o ne ha forzato una interpretazione errata. Non si riesce infatti a tenere distinti i due concetti, a capire che l’uguaglianza riguarda le uguali opportunità che a ciascuno devono essere offerte e garantite, indipendentemente dalle condizioni fisiche e sociali della nascita e da quelle culturali della crescita, mentre l’equità riguarda il riconoscimento dell’apporto dei singoli alla vita e alla crescita comunitaria.

Messa così può sembrare una semplificazione quasi patetica del problema, che necessariamente produce risposte utopistiche, senza alcun rapporto con la realtà di fatto e tutte le sue complessità e complicazioni. Ma esistono alternative “realistiche”? A parte il fatto che col “realismo” occorre andarci cauti, e la sinistra ne sa qualcosa, oggi la vera utopia è pensare di poter tirare avanti ragionando e agendo nello stesso modo che ha portato in tutto il mondo ad una sostanziale debacle del fronte “progressista”. Quindi un pensiero di sinistra serio deve avere almeno il coraggio di mettere in discussione le aporie concettuali che continuano a condizionarlo, di liberarsi dai preconcetti e da dogmi troppo profondamente radicati.

Non è il caso di riaffrontare qui l’intera questione, che è già stata approfondita, addirittura più di vent’anni fa, quando ancora il sito dei Viandanti non esisteva, in un breve saggio di Paolo dal titolo L’ultimo in basso, a sinistra, e di recente è stata lucidamente ripresa e ampliata da Beppe Rinaldi in Prolegomeni a una nuova sinistra. A quelli rimandiamo. Ma per chiarire meglio cosa intendiamo parlando di aporie ne proponiamo solo un clamoroso esempio.

Dunque: il concetto di equità così come lo abbiamo inteso noi è mal digerito a sinistra perché si scontra con una serie di contraddizioni. È difficile stabilire quali di queste sono intrinseche alla natura umana (ad esempio, l’altruismo che induce a collaborare e l’egoismo che spinge a emergere e a distinguersi) e quali invece sono eredità culturali. Nello specifico della cultura occidentale sopravvivono senza dubbio anche in campo progressista forti connessioni col pensiero cristiano, che da un lato demonizza la ricchezza (è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio) dall’altro rimanda la realizzazione dell’equità al regno dei cieli (beati gli ultimi perché saranno i primi, ma ciò avverrà solo dopo la fine dei giorni: il mio regno – quello appunto della giustizia – non è di questa terra). Un pensiero dunque che predica l’uguaglianza, denuncia l’ingiustizia, ma accetta poi sostanzialmente lo status quo. E nella versione protestante coltiva addirittura l’idea che il gradimento divino si manifesti attraverso il successo economico (Dio premia chi lavora).

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La contraddizione di fondo sta però ancora più a monte di questo groviglio, laddove lo stesso dio è visto alternativamente o come dio della misericordia e del perdono, che riserva a tutti, indipendentemente dal contributo che hanno effettivamente dato, un eguale premio (la parabola dei vignaioli), o come dio della giustizia, che premia chi ha più meritato (magari concedendogli già su questa terra un segno di distinzione con l’accumulo di ricchezza). E infine, c’è un altro assioma che pesa, originario come il peccato che va a sanzionare, ed è quello per il quale il lavoro è una condanna, l’espiazione di una pena. Il che si porta dietro anche la diffidenza, o addirittura il rifiuto, nei confronti di tutto ciò che può rendere il lavoro più agevole e produttivo: ovvero nei confronti della tecnica (e della scienza, della quale la tecnica è una pragmatica traduzione).

La sinistra deve dunque prendere atto di questi debiti (in fondo il socialismo è una secolarizzazione del messianismo cristiano), liberarsi una volta per tutte dai condizionamenti vetero o neo-testamentari, e affidarsi (col dovuto atteggiamento critico) alla conoscenza scientifica e agli strumenti della razionalità.

Tutto ciò ci ha portati lontani dal tema di partenza, ma solo apparentemente. La logica del “bonum” è tale e quale quella della Società di San Vincenzo, che si occupa di aiutare le persone più sfortunate: i poveri, gli ammalati, gli stranieri, gli ex carcerati, gli anziani soli, ai quali paga le bollette e fornisce pacchi di alimentari, Ora, fermo restando che le persone più sfortunate esistono, e ben venga chi le aiuta, la domanda continua ad essere quella iniziale: a cosa porta questo atteggiamento, che tipo di società prefigura? Non è che correndo dietro le urgenze e la rivendicazione di diritti, sociali, civili o economici, sganciati totalmente dai corrispettivi doveri, la sinistra stia avvallando un modello di società da basso impero? Lo scenario è in fondo già quello. I media e i social forniscono già (a spese nostre) circenses in quantità da stordire; le ondate migratorie garantiscono per il momento lavoro semi-schiavile, ma non governate si trasformeranno a breve termine in barbariche, dando l’ultima spallata ai sistemi democratici: qualche sporadico “bonum” per l’acquisto dei beni di consumo essenziali, e più spesso per quelli inutili, e la distribuzione del panem è fatta.

Non crediamo che le future generazioni, quelle che vedranno la fine dell’impero dalla parte dei soccombenti, ce ne saranno grate.

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