di Paolo Repetto, 22 marzo 2020 – vedi l’Album
Russell, assieme a Remington, è il West. Lo hanno inventato loro, o comunque lo hanno fatto conoscere in tutto il mondo, ricamando su una realtà che di spunti ne offriva a bizzeffe. Il resto lo ha fatto John Ford.
Russel non ha semplicemente viaggiato nel West: lo ha amato sin da bambino, attraverso le narrazioni di mercanti e vagabondi e sulle pagine delle dime novel, ci ha lavorato a partire da sedici anni, come allevatore di pecore, come cacciatore e come cow boy, ha vissuto tra gli indiani, ci è rimasto fino alla morte. E una volta scoperta la sua vera vocazione il West lo ha poi ritratto in più di duemila dipinti e in numerosi racconti, dando il tocco decisivo all’ultima, e unica, grande epopea della modernità.
I suoi quadri li abbiamo già visti tutti: magari non direttamente, ma senz’altro attraverso gli adattamenti e le citazioni che ne sono stati fatti nei fumetti e nel cinema. La mia generazione è cresciuta, in genere senza saperlo, nutrendosi per interposta balia con l’arte di Russel. E quell’arte oggi non c’è alcun motivo di rinnegarla, o di declassarla a pittura “di genere”. Semmai va rivendicata come costruttrice di sogni, in un mondo sempre più disincantato. Non importa che Russel sia diventato col tempo un artista “istituzionale” (un suo murale fregia il Campidoglio della capitale del Montana), che gli sia stato dedicato un apposito museo e che le sue opere scaldino il mercato (un dipinto della maturità, Piegans, è stato venduto per sei milioni di dollari): i suoi indiani, i suoi cow boys, i suoi cavalli e le sue terre selvagge ormai ci appartengono. Il suo vero museo è il nostro immaginario.
Russell è coetaneo di Wölfli, sono nati a neanche un mese di distanza (il 29 febbraio lo svizzero, il 19 marzo del 1864 Russell), ma in parti molto diverse del mondo. È interessante, e senz’altro anche istruttivo, fare un confronto tra le loro opere e i loro destini. Per questo presentiamo in contemporanea i due Album.