di Paolo Repetto, 21 settembre 2019
Mentre svuoto nei cassonetti tre borse di rifiuti (plastica, vetro e carta), e un’altra ne deposito in quello dell’organico, mi sorprendo a considerare la necessità e al tempo stesso la stupidità di questo gesto quotidiano (non è la prima volta, naturalmente, ma oggi mi ci soffermo più a lungo). Beninteso, la stupidità non riguarda il gesto in sé, più che doveroso e razionale, ma il sistema che lo ha reso necessario. Lo stato di salute di una società, come quello di ogni umano, lo si giudica anche, e forse prima di tutto, dai rifiuti che essa produce. Quella attuale sembra affetta da dissenteria cronica.
Parrebbe l’inizio di un peana sciolto al bel tempo che fu; ma vi rassicuro. Non sono un nostalgico del passato. O almeno, lo sono solo per alcuni aspetti. E consapevole che di passato, appunto, si tratta. Solo, quando mi capita di pensarci, torna a sbalordirmi il cambiamento incredibile nello stile di vita di cui sono stato testimone e partecipe. È una cosa che chiunque abbia meno di settant’anni, e probabilmente anche molti fra quelli che hanno superato quella soglia, difficilmente riesce a mettere a fuoco. Come si fa ad immaginare un mondo senza televisione, senza cellulari e computer e internet (e nel mio caso anche senza telefono e mezzi motorizzati e lavatrici e frigoriferi, e a casa di mio nonno anche senza acqua corrente, fornelli a gas ed elettricità)? Eppure, quella che ho conosciuto da bambino è la condizione nella quale per molti aspetti vive ancora oggi una fetta consistente dell’umanità, anche se tale condizione è diversamente percepita da chi ci sta dentro, perché lo sviluppo planetario dei nuovi media lo sollecita costantemente a fare confronti.
Senza dunque volgerla troppo in epopea, e a dispetto dell’essere nato all’interno di quello che allora era definito il “triangolo industriale”, di fatto sono cresciuto fino a quindici anni in una nicchia microeconomica pressoché medioevale, nella quale la circolazione monetaria aveva in tutti gli ambiti, a cominciare da quello alimentare, un ruolo secondario. Mio padre conduceva su una gamba sola un orto e un vigneto, e arrotondava lavorando la sera come calzolaio. A memoria della famiglia era il primo a possedere un fazzoletto di terra tutto suo. Gli scarsi ricavi della produzione di vino andavano comunque quasi tutti per pagare i lavori che non poteva eseguire lui stesso e che ancora non eravamo in grado di svolgere noi figli. Non volle sentir parlare di pensioni di invalidità fino a dopo i cinquant’anni, quando il carico famigliare aumentato e le spese per i nostri studi cominciarono a creare nuove esigenze. Ciò che ha dell’incredibile è che riuscivamo a cavarcela lo stesso: e questo per via di un regime che oggi, a posteriori, appare straordinariamente virtuoso, ma che all’epoca era pura strategia di sopravvivenza.
La nostra dieta non era affatto povera, ma si basava quasi per intero su cose che producevamo o allevavamo direttamente: latte, uova, farina di frumento o di mais, pollame di ogni tipo, conigli, maiali, verdure e ortaggi, frutta, vino. In pratica acquistavamo fuori solo l’olio, il sale, il riso, il parmigiano, lo zucchero e il caffè. Con molta parsimonia, e preferibilmente attraverso lo scambio. Il pesce (soprattutto lo stoccafisso e le acciughe) ce lo procurava, in cambio del vino, un misterioso pigionante che occupava nella nostra casa (in realtà ancora non era nostra, anche noi pagavamo un canone, sia pure quasi simbolico, in natura) due stanze in affitto, lavorava al porto di Genova e capitava in paese solo ogni tanto, all’improvviso. Nei mesi estivi barattavamo le altre derrate con la frutta che conferivamo ai negozianti. Per il riscaldamento, c’erano due stufe e la legna del bosco.
In casa giravano pochissimi soldi, giusto quelli per pagare i consumi di quattro lampadine, la bombola del gas e il forno dove mia madre faceva cuocere quotidianamente il pane, o per i capi di biancheria e d’abbigliamento indispensabili. Ma, anche qui, pantaloni, camicie e maglie per la gran parte arrivavano da Genova, dalla zia portinaia che ne faceva incetta presso tutti gli inquilini del suo palazzo. Mia madre li adattava e li riparava, per le scarpe c’era mio padre: quando già frequentavo il liceo ho indossato per un anno un paio di pantaloni rattoppati, e confesso che solo allora per la prima volta, fuori dal mio ambiente, la cosa mi ha fatto sentire a disagio. Al materiale scolastico, quaderni, matite, provvedeva il patronato. Di giocattoli naturalmente non si parlava. Quelli che c’erano arrivavano anch’essi da Genova, per la stessa via, assieme ai libri e a rotocalchi vecchi di qualche mese: il resto era affidato alla nostra fantasia o all’abilità di mio nonno nell’intaglio. Unico lusso, la radio.
In un contesto del genere era giocoforza ingegnarsi e darsi da fare precocemente. Lo scambio valeva anche per le prestazioni. Mi sono procurato i primi kit per il traforo e per il disegno alzandomi per anni alle sei e mezza e stravincendo le classifiche dei chierichetti, i primi fumetti de l’”Intrepido” e del “Monello” andando a recuperare, appena uscito dalla messa del mattino, i sacchi della posta e dei giornali che la corriera depositava in piazza, i miei film western facendo il proiezionista presso il cinema parrocchiale. Lo stesso valeva comunque per tutti. Tra i miei coetanei c’era chi faceva il giro all’alba a consegnare il latte e chi arrivava a scuola dopo aver pulito la stalla (e si sentiva). Ma in tutto questo non c’era nulla di sofferto. Prima dei quindici anni non mi sono mai sentito povero, dopo ho cominciato a pensare di esserlo stato in passato, ma senza rimpianti, anzi, col tempo con un certo orgoglio. Forse per questo lo rievoco così spesso.
Era un sistema perfetto? No, non era un eden ma neppure era un inferno: era il modo in cui viveva, fino ai tardi anni cinquanta, almeno la metà delle famiglie in paese.
Ma in realtà non di questo mi interessava parlare. Come accade ai vecchi, i ricordi mi hanno preso la mano. Volevo tornare invece da dove son partito, al fatto che all’interno di quella economia non si produceva alcun rifiuto. Gli scarti alimentari erano una benedizione per maiali, galline e conigli, che spolveravano persino le ossa. La carta, quella poca che circolava, era il detonante per la stufa, nella quale finiva anche ogni minima scheggia di legno. Lo sfalcio andava a finire nella mangiatoia della stalla. Residui metallici non ce n’erano: ogni minima barretta di ferro era utilizzata per gabbie e recinzioni. La plastica ancora non esisteva, o almeno non era diffusa a Lerma, pentole, secchi e altri recipienti erano di latta, di rame o di bronzo, le bottiglie di vetro, e venivano riutilizzate all’infinito. Non parliamo poi degli ingombranti. La mia culla, quella che servì in seguito anche per mio fratello e mia sorella, l’aveva costruita mio nonno, arrivava dagli zii e aveva già ospitato l’intera generazione precedente dei Repetto. Per riempire un cassonetto coi nostri rifiuti sarebbe occorso un secolo.
Alla fine, il punto è proprio questo. Forse le mie divagazioni iniziali non erano così gratuite. Nel mondo che ho conosciuto l’economia era ancora principalmente fondata sulla produzione, e la finanza fungeva al massimo da supporto: la produzione era finalizzata a rispondere ai bisogni essenziali, non a quelli creati dalla pubblicità: i consumi non erano indotti, al massimo le scelte erano orientate. Nell’economia del baratto non c’è spazio per il superfluo: si cerca solo ciò che veramente si vuole, perché serve, o perché anche se in apparenza superfluo soddisfa un desiderio genuino, e non indotto per imitazione o con un martellamento asfissiante. Gli oggetti non vengono usati e gettati frettolosamente, ma utilizzati e conservati a lungo, gli alimenti sono consumati per intero. Quando si affronta il tema della polluzione consumistica e degli scarti che essa si lascia dietro, queste cose vanno tenute presenti, e non per proporre impraticabili conversioni a U, ma per avere almeno chiara la complessità inestricabile del quadro, evitando appunto di perdersi dietro arcadiche favolette. Nella sostanza: il cerchio nel quale alla fine in qualche modo si ricomponeva il rapporto uomo-natura, in un equilibrio delicatissimo, è andato allargando il suo raggio nei millenni, fino a quando ad un certo punto si è rotto. I due estremi non tornano più a sovrapporsi, il cerchio è diventato una spirale, che da Vico in poi è stata considerata progressiva, ma oggi, da un punto di vista ribaltato, mostra tutta la sua negatività. La spirale è impazzita in avvitamento, nell’accezione aeronautica del termine: si produce per poter continuare a produrre, non c’è più alcun rapporto coi bisogni reali, e se creano quindi di nuovi, effimeri, che devono essere costantemente reinventati.
Quando con precisione tutto questo abbia avuto inizio, quando il verso si sia invertito, non lo sappiamo, ci sono in proposito svariate scuole di pensiero: senza dubbio negli ultimi duecento anni, probabilmente anche molto prima. Le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti, ormai ne sono coscienti anche i bambini: ma questa consapevolezza non si traduce in una risposta che vada al di là dell’indignazione sui social, di un movimentismo inconcludente e dei summit-evento. La verità è che sotto sotto il processo è dato da tutti per scontato, e ad esso vengono opposti soltanto l’ottimismo tecnologico o il fideismo irrazionalistico in una “nuova era”. Chi come me ha vissuto, come dicevo prima, in una sorta di nicchia, in una riserva indiana, ha avuto modo di assistere alle ultimissime fasi della rottura del cerchio, sia pure alla maniera in cui oggi assistiamo a fenomeni cosmici verificatisi milioni o miliardi di anni fa. Ha visto sintetizzata in cinquant’anni una mutazione che si è prodotta nell’arco di secoli, e che ha toccato ogni sfera della vita umana, da quella economica a quella politica, sociale, culturale, affettiva. Che ha interessato non solo gli scenari naturali e culturali (leggi: i modi di produzione), ma anche gli attori che in essi si muovono. Una vera e propria mutazione antropologica.
Quando parlavo di stupidità del sistema mi riferivo a questo. La trasformazione è stata tale da non consentire più di credere a ripensamenti, a rallentamenti, a mutamenti di rotta interni al sistema stesso, e chi ha visto scorrere i fotogrammi della vicenda a velocità moltiplicata ne è più che mai persuaso. Il sistema è stupido proprio perché nella sua totalizzante pervasività non prevede e non si concede scelte alternative, nemmeno quando acquista coscienza di avviarsi all’autodistruzione.
Tutto qui. La mia voleva essere solo una constatazione, una malinconica testimonianza. Decisamente e volutamente ovvia. So che non è possibile, e forse nemmeno sarebbe auspicabile, tornare a quella condizione, ma non posso ignorare che l’accelerazione impressa, nel bene e nel male, da questo ultimo mezzo secolo è impossibile da sostenere. Che il meccanismo si sta inceppando, perché produce ormai più scarti, compresi quelli umani, che benessere. E che l’umanità pare ansiosa di suicidarsi soffocandosi allegramente nel suo pattume.
Ricette per venirne fuori non ne conosco: quelle che circolano, suggerite da economisti, filosofi o professionisti dell’ambientalismo mi paiono tutte poco credibili, quando non palesemente stupide. L’unico antidoto sarebbe il senso collettivo di responsabilità, ma ne occorrerebbero dosi da elefante, mentre non ci sono più laboratori che lo producano e manca soprattutto la materia prima indispensabile. Temo che sarà la natura a dettare quelle davvero efficaci, e che si tratterà di terapie tremendamente invasive e devastanti. E non è detto che l’astuzia riequilibratrice della natura non passi proprio per le mani sciagurate degli uomini stessi.
Nulla da fare, dunque? Non proprio. Nell’attesa del peggio possiamo comunque salvaguardare un minimo di dignità. Cominciando da subito. Torno indietro, ai cassonetti, e vincendo il senso di schifo e l’irritazione butto dentro e cerco di compattare anche quei sacchetti e quei cartoni che qualche deficiente, senz’altro più di uno, ha abbandonato lì vicino.
Non lo faccio sempre, so che serve a ben poco e che l’azione più corretta sarebbe prendere per un orecchio gli incivili e costringerli a farlo essi stessi, e poi cacciare anche loro nell’indifferenziato. Ma oggi si, in assenza della possibilità di applicare la seconda opzione mi adatto alla prima. Per un attimo mi attraversa la mente l’idea che sarebbero necessari cassonetti anche per le stupidaggini, i pregiudizi, le falsità che ci stanno letteralmente sommergendo. Per queste cose però non sarebbe sufficiente un container ad ogni angolo di strada, ed è purtroppo questa la spazzatura meno differenziata.
Il lavoro per quel che resta del futuro non manca. Se proprio dobbiamo seppellirci, cerchiamo almeno di farlo in maniera un po’ più elegante e pulita. Differenziamoci.