Polinesia Francese – che ci faccio qui?

di Vittorio Righini, 3 aprile 2019, dal Quaderno “Quando viaggiare era un mestiere

la lumaca non indietreggia mai
A. Vialatte

Il sogno di una vita! Chi, davvero, non ha mai sognato un viaggio in Polinesia? Quante coppie hanno risparmiato a lungo pur di poter fare il viaggio di nozze a Papeete, Tahiti, il Paradiso in terra.

La ditta con cui collaboravo aveva un buon cliente a Tahiti, un tizio che era già stato almeno un paio di volte in Italia a visitare i nostri uffici. Quindi si rendeva indispensabile una visita nelle lontane Isole del Pacifico, per ricambiare e rinsaldare l’amicizia commerciale.

Questa fu la tattica che utilizzai per convincere il Capo ad autorizzare questo lungo e costoso viaggio. Ma, va scritto a onor suo, il Capo non era mai contrario ai viaggi, anzi era contento che i suoi due Export Manager viaggiassero molto e producessero molto. (Dividevo le zone del mondo con un più giovane collega, e tra noi c’era tutto sommato un buon rapporto: facevamo sempre molta attenzione a non pestarci i piedi reciprocamente).
Convinsi quindi il Capo, giustificando l’ingente spesa del viaggio col fatto che al ritorno avrei fatto sosta anche in California dove avevamo vari interessi commerciali.

Volai direttamente su Los Angeles: poi un lungo scalo nella hall, che generalmente è la cosa più antipatica. Arrivi da quattordici ore di volo in economy, sei bollito come un cappone nel brodo a Natale, e ti piazzano quattro o cinque ore a ciondolare da un bracciolo all’altro di una anonima sala d’aspetto, con un condizionatore a manetta.
Gli americani sono maestri in queste cose. In più, a inizio operazione di rullaggio in pista, un problema tecnico all’aeromobile ci riportò indietro alla sala d’aspetto, in attesa di riparazione del guasto o di cambio volo. Perdonatemi il breve excursus: ho sempre pensato che se un Comandante decide, all’inizio della pista, di tornare indietro, ha sicuramente le sue buone ragioni. Questo lo decise alla fine della pista, dopo un decollo abortito. Aveva più che mai ragione, pensai. Io sono un tipo pragmatico: Comandante, ti pagano, se parti con l’aereo scassato potresti cadere, non ti pagherebbero più e daresti un grosso danno alla Compagnia, oltre a fare centinaia di morti, te compreso. Per cui, se a te non va, anche a me non va. Non è uno sciopero dei Cobas delle Ferrovie, è ben altra cosa, non mi fa affatto arrabbiare … fine excursus.

Tutto ciò però si tradusse in cinque ore di ritardo, e atterrammo al Faa’a di Tahiti alle tre del mattino ora locale. Usciti dall’aereo, dove l’aria condizionata ci aveva cullato in un sonno ristoratore, mi sembrò di sprofondare in un cuscino d’aria calda e umida. Ci vennero incontro graziose fanciulle locali leggermente obese, completamente addormentate, che ci buttarono al collo ghirlande di fiori e ballarono danze locali. Cori di benvenuto al suono dei tamburi e degli ukulele.
Travolto dal caldo umido, dalla stanchezza e dal sonno, scappai velocemente a prendere un taxi e schizzai verso il mio hotel.
Ora, bisogna ricordare che tra Milano e Tahiti ci sono dalle dieci alle undici ore di fuso orario, dipende dalla nostra ora legale. La buona regola del viaggiatore è cercare di resistere in piedi e andare a dormire alle 22.00, cioè a un orario che sia localmente quello del riposo, e non quello del paese d’origine. Ma io arrivai alle quattro del mattino in Hotel, quindi i giorni che seguirono furono un calvario, quello che vi andrò a descrivere.

Alle 08.30 avevo già il primo appuntamento con l’amico / cliente, che non sapeva delle cinque ore di ritardo. Mi svegliai alle 07.30, ma mi sembrava di essere un terrestre appena sceso su Saturno.
Il cliente, Monsieur Sylvain, mi accolse senza collana di fiori ma con una birra gelata. Ora, sia chiaro, io sono un bevitore coi fiocchi, ma non riesco a bere mai prima di pranzo; però, a quel punto, che ora era? le nove del mattino di Papeete, le undici di sera di Milano, o le cinque su Saturno? La birra non mi fece poi così male, ma diciamo che la giornata cominciò in modo originale. Inoltre, era domenica, sarei stato lontano dal lavoro tutto il giorno, e in quelle condizioni era senz’altro un bene per tutti.
Cominciammo a visitare l’isola, in particolare alcune baie incantevoli, e ci fermammo a Papara, dove M. Sylvain aveva amici che ci invitarono nel loro bungalow. Mi offrirono birra (ma la Polinesia non era terra di straordinaria frutta tropicale e relative spremute? troppi francesi, come ovunque …) e un dolcissimo tortino al cocco. Feci il mio primo bagno nel Pacifico, all’interno di una bella laguna, con acqua tiepida, trasparente e rilassante, un vero paradiso. Poi proseguimmo in auto verso una località poco nota, dove avrei assaggiato una delle specialità culinarie dell’isola. Pregustavo un seviche di pesce crudo, oppure la famosa aragosta macerata in polpa di lime e erbette locali o un mahi mahi (pescione dalle ottime carini bianche) cotto alla griglia. No. Niente di tutto questo. La specialità erano le anguille alla griglia. Ora, non mi parve il caso di spiegare che, vivendo in Piemonte, ho pescato da ragazzo di notte le anguille nei torrenti della mia zona dai quattordici anni in poi, e ne ho mangiato le carni cotte in tutti i modi. Anzi, feci un balzo, e con educato stupore commentai “che rara squisitezza”. Tra me e me, invece, mi dissi: cazzo, trentasei ore di viaggio per mangiare anguilla …

Nel pomeriggio ci mettemmo in spiaggia, e dopo un bel bagno mi sdraiai sulla sabbia ripromettendomi di non addormentarmi. Mi svegliò M. Sylvain alle diciotto, faceva buio e dovevamo andare a cena.
Non sapevo chi ero, da dove venivo, soprattutto dove andavo … Mi scusai; lui comprese il disagio del volo del giorno prima. Mi promise una cena memorabile, con un piatto assolutamente diverso dal solito. E questa volta aveva ragione. Cenammo infatti sempre a base di pesce, ma assaggiai il Taioro, pesce fermentato in latte di cocco, dal gusto aspro e indescrivibile. Quando chiesi come si faceva mi rovinai la vita, scoprendo la parte relativa alla durata della fermentazione del pesce una volta pescato. Il mio già debole intestino però resistette gloriosamente. Mi ritirai in camera convinto che sarei morto di lì a poco, ma nonostante il fuso orario mi addormentai subito, per risvegliarmi alle quattro del mattino.
Stavo bene, ma era come se fossero le sette, non avevo sonno. Ero “dormito”, come mi diceva un amico da ragazzo, uno che aveva studiato poco. Feci passare in qualche modo le ore che mi separavano dagli incontri d’affari, e ricominciai la giornata. Nei tre giorni successivi, a parte il problema del sonno che mi prendeva in primissima serata con degli abbiocchi pazzeschi (l’abbiocco è quando ti crolla la capoccia sul petto, una sorta di svenimento da sonno), e del risveglio alle quattro, puntuale come un orologio svizzero e fresco come un fiore, il lavoro andò a buon fine e arrivò il momento di lasciare Papeete.
Mi ero ritagliato tre giorni e due notti a Bora Bora, la mitica Bora Bora …. Qui andavo a mie spese, quindi prenotai un albergo che in foto sembrava modestissimo, ma era carissimo; solo che gli altri costavano di più. Per il cibo mi sarei aggiustato, un panino a pranzo, una cenetta leggera la sera in qualche ristorantino locale. Volai con un ATR 42, un breve volo e un atterraggio su una pista che a fianco era priva di sala aeroportuale, c’era solo una capanna di legno e paglia, e quando arrivava un volo ci si recavano un paio di dipendenti dello scalo. Una cosa comunque simpatica. Poi una barca per arrivare al mio hotel, composto da una serie di bungalow a due passi dal mare. Il sogno da copertina delle riviste di viaggio, e io c’ero! Disfatto il poco bagaglio, costume maglietta infradito libro e asciugamano, mi recai al chiosco dell’Hotel, e ordinai un french toast e una birretta. Buono, ma pagai l’equivalente odierno di quaranta euro. Per i giorni successivi avrei dovuto prestare maggiore attenzione ai prezzi. Pagavo io, mica il Capo!

Alla sera, dopo aver camminato un paio di km., trovai un localino molto modesto, quasi privo di luce, dove c’erano cinque o sei coppiette in viaggio di nozze, o amanti, o quel che erano, comunque tutti piuttosto arrapati. Io ero l’unico single, ma mi dissi “che ti frega, pensa, sei a Bora Bora, che diavolo!!!”.
Pagai circa ottanta euro per pollo e patatine, il solito dolce al cocco, e qualche birra. Rifeci tutta la strada alla luce di una mezza luna (a quel tempo non c’erano gli smartphone con la torcia incorporata), inciampando con le fottute infradito almeno una decina di volte. Provato, alle 22.00, come da regola, mi infilavo sotto al lenzuolino leggero e accendevo il ventilatore a pale, che per me vale molto di più dell’aria condizionata. Alle quattro del mattino, sveglio come un galletto all’alba, ero a bagno nella laguna, ma non proprio a fare il bagno. Siccome non ci vedevo un granché, anche perché c’era poca luna in quel periodo, stavo a mollo nell’acqua tiepida fino alla cinta chiedendomi, in puro stile Chatwin: che ci faccio qui?

Oggi, mi domando cosa ci vanno a fare i turisti in Polinesia, soprattutto gli italiani, che hanno la Sardegna, la Sicilia, isole come Lampedusa, il Giglio, le Tremiti, Salina, Pantelleria, per dire solo le prime che rammento, raggiungibili in pochissimo tempo, climaticamente ottime, con una cucina notevole e splendidi vini, oppure la vicina ed amatissima Grecia. Chi glielo fa fare di spendere migliaia di euro per un viaggio fin laggiù. Forse il fascino dell’esotico, forse il desiderio di andare lontano per poterlo poi al ritorno raccontare, forse il fatto che poi si vivrà una vita a Sapri, a Genzano o a Mandrogne, e almeno ci si potrà cullare nel ricordo.
Ma, in fondo, anch’io sono stato giovane, anche io sono stato tentato dal fascino dell’Oceano Pacifico.

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