di Paolo Repetto, 30 aprile 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018
Prima di affrontare le derive maniacali della bibliofilia sono andato ad accertarmi che non ci avesse già pensato Umberto Eco. Che lo avesse fatto, in realtà, ero sicuro: dovevo solo verificare la piega che aveva data al discorso, e se rimaneva qualche margine.
Come sospettavo Eco aveva già trattato il tema addirittura in una lectio magistralis alla Fiera del libro di Torino (ma anche in sacco d’altre occasioni), dicendo molte delle cose che avrei voluto dire io, e facendolo naturalmente meglio. Ma un margine lo ha lasciato, perché nei suoi interventi parla di una cosa un po’ diversa da quella che io avevo in mente. Eco fa infatti riferimento alla bibliofilia come è classicamente intesa, ovvero all’amore per i testi rari o per quelli in qualche modo impreziositi da fattori estrinseci (autografi, dediche, annotazioni, oppure prime edizioni, tirature ritirate dal commercio, ecc.). Io invece vorrei trattare di qualcosa di molto più terra terra, che nulla ha a che vedere col valore antiquario o con qualsiasi altro “plusvalore” caricato sulle opere. Esiste anche una patologia secondaria, decisamente più a buon mercato.
In sostanza, la domanda che mi pongo è: cosa induce uno come me a crearsi una dotazione libraria che va ben oltre il possesso delle opere lette o di quelle che prevede ragionevolmente di leggere?
Per farmi capire parto da un esempio concreto. Proprio ieri ho preso a Borgo d’Ale una ventina di libri d’occasione (quasi tutti a un euro). Di questi volumi solo un paio comparivano da tempo tra i miei desiderata. Gli altri li ho acquistati per i motivi più diversi, che provo a sintetizzare.
Due sono libri di viaggi. Uno (Inuk) proprio non lo conoscevo. Fa parte di una vecchia collana Garzanti della quale avevo già trovato alcuni pezzi interessanti e che mi piacerebbe completare. In realtà non è propriamente un libro di viaggi, ma un piccolo saggio di antropologia. Il missionario che lo ha scritto ha comunque viaggiato molto nell’estremo Nord. L’altro (Colombo, Vespucci, Verrazzano) lo possedevo identico, ma è una bella edizione della UTET, e ho pensato che potrebbe essere gradito a qualcuno dei miei amici.
Quattro sono biografie: Le Memorie della mia vita di Giolitti, il Casanova di Gervaso nella edizione Rizzoli con cofanetto, una biografia di Matilde di Canossa e lo Stalin di Robert Conquest. È quasi certo che non avrò il tempo di leggerne nessuno: ma intanto, mentre nel pomeriggio restauravo gli sbreghi della sovracoperta del Giolitti gli ho dato un’occhiata, e ho trovato cose interessanti, che dovrò approfondire. Autobiografico è anche il racconto dell’esperienza del gulag che Gustav Herling fa in Un mondo a parte, e questo ho già iniziato a leggerlo (era tra quelli che cercavo).
Poi ci sono due volumi di Mark Twain, il Viaggio in paradiso e una raccolta di racconti (Lo straniero misterioso). Quest’ultimo già lo avevo in una edizione più recente ma non rilegata, che diventa ora disponibile per eventuali donazioni. Twain lo prendo ormai ad occhi chiusi, è una scoperta continua.
Altri due volumi riguardano la storia dell’ebraismo. Una ennesima Storia dell’antisemitismo, che ad un primo rapido assaggio ha promesso bene, e Vento Giallo, di David Grosmann, scritto ai tempi della prima intifada, prima ancora che Grosmann perdesse il figlio nel corso di un’azione militare. L’argomento, e i modi della sua trattazione, appaiono però tutt’altro che datati.
Ci sono poi un saggio su Hitler (Il mistero Hitler), uno sul fascismo rivoluzionario (La rivoluzione in camicia nera) e una storia del mondo miceneo. Il secondo è già sul mio comodino.
Tre sono monografie di una collana d’arte che sto ricomponendo poco alla volta (quella di Skira), e tre sono testi di filosofia: due di Bertrand Russell e uno di Popper. Russel è stato importante nella mia formazione: la sua Storia della filosofia occidentale mi aveva riconciliato col pensiero filosofico dopo le mezze delusioni del liceo: con Anarchismo, socialismo, sindacalismo mi aveva invece aiutato a guarire dalle infatuazioni politiche giovanili. Ora prendo i suoi libri quasi per dovere, e non tutti li leggo (questi sì, però, perché se conosco un po’ l’autore i Ritratti a memoria dovrebbero essere una fonte di gossip straordinaria, e i Saggi scettici una doccia di buon senso). Anche Popper, sia pure in una ristampa di Euroclub, non guasta mai.
Infine, quattro pezzi già presenti nella mia biblioteca in copie plurime. Una vecchia edizione dei Canti leopardiani, quella curata da Calcaterra, in una veste elegante e ben conservata, e che si impone comunque anche solo per l’apparato di note. Un Passaggio a nord-ovest un po’ ingiallito dal tempo ma molto vintage, con due splendide mappe nei retri della copertina; e da ultimi Foto di gruppo con signora e Il mestiere di vivere, nella edizione einaudiana rilegata grigia, che andrà a sostituire quelle in brossura. Potevo lasciarli lì?
Proviamo ora a fare un bilancio. C’è una logica, negli acquisti che ho fatto?
A prima vista no, assolutamente. Non disegnano alcun percorso, solo un procedere disordinato in cinquanta direzioni diverse, per nulla coerenti o conseguenti tra loro, e non rispondono ad alcun reale bisogno. La logica arriva dopo: si costruisce a posteriori.
Accade questo.
Se ho urgenza di un libro, il che significa semplicemente venire a conoscenza, attraverso recensioni o rimandi o indicazioni di amici, di un testo che può interessarmi, lo compro. Avendo abbastanza chiaro ciò che davvero può essermi utile, e non coltivando altre passioni dispendiose, me lo posso permettere. Questo è il dato positivo della mia condizione attuale: ma c’è anche un risvolto negativo.
Per molti anni il primo piacere procuratomi da un libro desiderato è stato quello dell’attesa. Mi crogiolavo in calcoli e ricalcoli per farlo rientrare in budget sempre troppo ristretti. Ai tempi del liceo stornavo in letteratura gli striminziti buoni-pasto che i miei mi passavano per i due giorni di rientro scolastico pomeridiano (mi rifacevo abbondantemente con la cena). Poi, con una famiglia sulle spalle e una vita ancor tutta da costruire, ho istituito una voce di spesa da coprire con entrate straordinarie, che erano tali solo in quanto tutt’altro che frequenti, e soprattutto con tagli ai bisogni superflui (il gioco consisteva nel far sembrare superflui i bisogni). In questo modo un ulteriore godimento arrivava, al momento dell’acquisto, dalla sensazione di possedere qualcosa che in realtà non avrei potuto permettermi.
Nel frattempo avevo affinato tutta una serie di altre strategie, amici o amiche impiegati in grandi case editrici che mi rifornivano del nuovo a metà prezzo, remainder’s, promozioni dei club del libro, librerie dell’usato, ecc., dando avvio a quella spirale per cui, a prezzo scontato, diventano appetibili anche le cose non “urgenti”.
Ebbene, questo alone di contorno oggi non c’è più. Continuo ad essere fissato col metà prezzo, sono quasi un azionista del Libraccio di Alessandria e spendo senz’altro il triplo di quanto spenderei in un rapporto normale con i libri, ma la magia, il godimento di tenere tra le mani ciò che sembrava fuori della mia portata, quello è scomparso.
Ho dovuto sostituirlo con qualcos’altro. E qui entrano in scena i mercatini. Come esiste una logica del mercato esiste anche una logica del mercatino. Nel mercato, come in libreria, vai a cercare di norma (almeno, quelli come me) il conosciuto: nel mercatino cerchi invece proprio l’inaspettato. Tu non sai di desiderare una copia del Don Chisciotte di grande formato, con illustrazioni ottocentesche: anche perché ne possiedi già due o tre edizioni diverse, una in lingua originale. E invece quando lo vedi lì, ad un prezzo irrisorio rispetto al suo reale valore, ti rendi conto che non puoi rischiare che vada a far tappezzeria in una casa nella quale i libri sono una suppellettile, o peggio ancora, finisca invenduto e rovinato dalle intemperie. Te lo porti a casa, e là comincia il vero problema, perché devi scovargli una collocazione adeguata, e questo significa mettere a soqquadro i ripiani della letteratura ispanica e riposizionare un sacco di volumi. Alla fine comunque una soluzione si trova sempre. E può anche accadere che ti venga voglia, mentre lo stai sfogliando e ti compiaci della tua buona azione, di rileggerlo daccapo, e di scoprire che è una cosa diversa da quella che ricordavi.
Il piacere sommo nasce però da un altro tipo di acquisizione. Mettiamo ad esempio che dalla bancarella ad un euro ti strizzi l’occhio I proscritti, di von Salomon. Ne hai sentito parlare, soprattutto come di un testo ostracizzato dall’establishment politicamente corretto, ma non avevi capito che si tratta di una sorta di autobiografia piuttosto che di un romanzo. Non lo avevi preso in considerazione proprio per questo motivo, e non per la presunta scorrettezza: al prezzo di un caffè, tuttavia, e visto il perfetto stato del volume, lo si può imbarcare. A casa naturalmente lo sfogli, e ti rendi conto che hai in mano una di quelle storie nelle quali potrebbe comparire all’improvviso Corto Maltese, di quelle mai raccontate, o che comunque non hai mai trovato nella storiografia ufficiale. Finisce che il libro lo divori, ma solo per avvertire una nuova fame. Per la breccia aperta su un periodo e su un’area che conoscevi solo confusamente passano delle sinapsi, si attiva un circuito, si affollano le reminiscenze, tornano alla mente altri titoli che potrebbero avvalorare o ampliare quel racconto. Non solo. Ti accorgi anche che la vicenda incrocia in più punti percorsi già intrapresi molti anni fa, e va insomma ad integrare, ad infittire la rete di connessioni che copre sempre più strettamente gli scaffali della tua biblioteca.
Rinvenimenti di questo tipo mi mandano in fibrillazione. È come quando acquisti un attrezzo agricolo nuovo. Appena mi sono dotato, recentemente, di una motosega leggera, di quelle che si usano con una sola mano, ho scoperto attorno a me tutto un mondo vegetale che chiedeva di essere potato, capitozzato, sistemato. Mi sono aggirato per due giorni nel bosco e nel frutteto invaso da un sacro fuoco amputatorio. Ho dovuto frenare l’entusiasmo per non cimare anche gli steccati e i pali delle pergole. Allo stesso modo, un libro apparentemente superfluo può resuscitarne mille altri.
In alcuni casi certamente l’acquisizione non è del tutto casuale. Si tratta spesso di libri che consideravi “minori” o marginali rispetto ai tuoi interessi, ma che comunque già avevano con quelli una connessione. Per altri invece la sorpresa è totale: sono cose che magari hai preso solo per arrivare ad una cifra tonda, e appena varcata la soglia dello studio cominciano inaspettatamente a dialogare a destra e a sinistra con i vicini di ripiano.
Si è ribaltato tutto. Questo è accaduto. Prima l’offerta rispondeva a uno stimolo, ora lo crea. A ben considerare è il meccanismo tipico della società dei consumi (compreso il tre per due euro), che induce bulimia, eccita la curiosità, anziché soddisfarla, e porta alla dispersione. Ma non è del tutto così. Perché i libri, o almeno i libri che raccolgo io, non sono un prodotto usa e getta. Al contrario, li recupero dagli scarti nei quali qualcuno li aveva gettati, li sottraggo al macero, in vista di un “consumo”, anzi, di un impiego, molto lento. E si integrano perfettamente nella polifonia che arriva dai miei scaffali.
Ecco che una logica si disegna: prendo solo ciò che “sento” essere possibili tessere di quel grande mosaico del sapere che ho in testa, dalle quali mi attendo frammenti di immagine inaspettati e rivelatori. Ogni nuovo tassello contribuisce a definire la mappa, ma non la completa: piuttosto la espande in altre direzioni.
È vero però che in questa bulimia gioca anche un’altra componente: la sindrome collezionistica, quantitativa. Ho tanti libri perché mi piace averne tanti, e per quanti già ne possieda, e a dispetto del fatto che non so più dove ficcarli, vorrei possederne di più. Un amico mi raccontò, mezzo secolo fa, di aver visto in casa di Franco Antonicelli oltre ventimila volumi, stipati per ogni dove, persino nel bagno (oggi sono patrimonio di una fondazione a lui intitolata). Di Antonicelli sapevo poco, ma quella rivelazione lo ha fatto balzare in testa alle mie classifiche: dove peraltro è rimasto, dopo che naturalmente mi sono affrettato a cercare notizie e a leggere le cose sue. Credo sia stato lui, indirettamente, a convincermi che quella era la mia strada. Ventimila era un numero molto alto, ma possibile. E così, una delle mete che mi proponevo a vent’anni era di arrivare a possedere una biblioteca come la sua.
Quando parlo di un movente “quantitativo” non intendo comunque un accumulo indiscriminato: la quantità è interna e funzionale ad una qualità. Da anni raccolgo ormai quasi solo saggistica, e non tutta. Per alcune aree il mio interesse è molto tiepido (l’economia) o quasi nullo (la psicanalisi, il mondo dello spettacolo, la critica d’arte “militante”, ecc.), ma anche negli altri ambiti sono alquanto selettivo. Ad esempio, non prenderei i libri di Zichichi o di Alberoni nemmeno se l’euro lo dessero a me.
La quantità ha anche una sua valenza estetica (in senso kantiano, di percezione sensoriale). Può sembrare strano ma è così. Paperone godeva a tuffarsi tra i dollari del suo deposito. Anch’io mi immergo, e godo a guardare i dorsi dei miei libri, che sono tante madeleine. L’unico rammarico è di non averli tutti in un’unica sala: potrei far scorrere lo sguardo ininterrottamente per ore, fermandolo ogni tanto, e dicendo: “Ah, eccoti!”
La coazione all’accumulo (librario), assieme all’origine contadina (o come diretta conseguenza di quest’ultima), è tra le ragioni che mi hanno sempre impedito di aderire convintamente ad ogni concezione “comunistica”. Come contadino non ho mai creduto nella collettivizzazione della terra, come giovane romantico inorridivo all’idea di una comunione delle donne, ma soprattutto come bibliofilo non potevo assolutamente concepire un possesso comune dei libri. E nemmeno ho fatto molto affidamento sulle biblioteche pubbliche (che peraltro dalle mie parti non esistevano). Quando un libro o un attrezzo per i lavori agricoli o per il fai da te mi servono voglio averli disponibili subito e a tempo indeterminato. Ho quindicimila libri (Antonicelli è ancora lontano, devo darmi una mossa o smettere di fumare, per cercare di campare altri vent’anni), tre motoseghe, tre trapani, due decespugliatori, una decina di serie di chiavi inglesi e cacciaviti e brugole di tutte le misure. Sono le mie protesi.
Ciò non mi ha comunque impedito di far circolare i miei libri (e di mettere a disposizione degli altri le mia attrezzature). Ho tenuto per anni un libro mastro dei prestiti, sono arrivato ad avere contemporaneamente in giro una sessantina di volumi, molti non li ho più visti tornare: ma questo non toglie che quei libri continuino ad essere miei. Quando non mi affanno troppo per riaverli è perché penso possano essere più utili a chi li ha in uso che a me: e in quel caso, se capita l’occasione, non ho problema a ricomprarli.
La cosa davvero importante, in definitiva, è che la tessera sia già stata inserita nel mosaico, abbia già coperto il suo spazio bianco, la sua piccola porzione di terra incognita. Parafrasando Ungaretti, è la mia testa la biblioteca più affollata.