di Paolo Repetto, dicembre 2017, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018
Il mercatino di Borgo d’Ale è diventato un appuntamento imperdibile. Aspetto da un mese all’altro la terza domenica, e non ci sono impegni o circostanze che tengano. La vince con i matrimoni, le comunioni e ogni tipo di evento culturale, e questo va da sé, li diserterei comunque, ma anche ormai con le occasioni di scampagnate e ritrovi con gli amici. È il tempo sacro che ritorna: da ragazzino avevo il primo venerdì del mese, da anziano ho la terza domenica.
Non sono l’unico ad aver abbracciato questa nuova forma di religione. Anche se parto molto presto, perché c’è più di un’ora di auto-strada, quando arrivo trovo auto parcheggiate ai lati dello stradone o nei campi già un chilometro prima. Sembra tra l’altro che gli organizzatori (e i frequentatori) abbiano stretto un patto col diavolo, perché non ho mai incontrato maltempo e non c’è mai stato un rinvio.
Negli ultimi due anni non ho mancato l’appuntamento una sola volta. Ho visto raddoppiare gli espositori, che a questo punto saranno ben oltre il mezzo migliaio, senza che tuttavia si guastasse l’atmosfera strapaesana (anche se temo che non durerà a lungo). Ho appreso nel frattempo tutti i trucchi e memorizzato la mappa dell’area, per cui riesco in genere a parcheggiare a poche. decine di metri dall’ingresso. Appena varcato il cancello che immette nell’enorme spiazzo (ospita il più grande mercato ortofrutticolo del Piemonte orientale) mi fiondo dal mio personal pusher, che ha una postazione fissa praticamente al centro.
I libri a un euro coprono un enorme tavolo, libero da tutti i lati, che consente di girargli attorno. I volumi non sono buttati lì a casaccio, ma impilati ordinatamente in piccole colonne, e avverti che sono stati inscatolati con un certo criterio. Li passo febbrilmente in rassegna, a volte sgomitando un po’ con quei clienti occasionali che non sanno cosa vogliono o con i curiosi che cincischiano e frugano disordinatamente, e si meravigliano se li guardi storto. I cercatori seri li riconosci invece subito: fanno passare i libri da una colonna a quella precedente, di modo che al termine della mattinata ogni volume rimasto ha praticamente fatto quattro o cinque volte il giro del tavolo, e soprattutto non intralciano il traffico, rispettano le precedenze e vanno a colpo sicuro. Naturalmente nessuno è veloce come me nell’esplorazione, ma io sono favorito da una lunghissima pratica di bancarelle e da criteri di ricerca che escludono in partenza tutti i titoli associati a determinate case editrici, riconoscibili ad una prima occhiata anche dal dorso. Gli specialisti poi, quelli appunto come me, sono dotati di uno strabismo che consente di adocchiare le cose interessanti anche mentre passano per le mani di un altro. Alimentano il loro mucchietto e quando diventa troppo ingombrante da spostare lo consegnano al pusher, che provvede alle prime imborsate provvisorie. Questa prassi è molto diffusa, tanto che nel primo pomeriggio sotto il bancone attendono di essere ritirate decine di borse, mentre i compratori flanellano lungo le file del mercato nell’eterna speranza di imbattersi nell’imprevisto.
Di norma, dopo dieci minuti dall’arrivo ho già giustificato il viaggio e la giornata. Ho la fortuna di cercare cose in genere poco appetite dagli altri, e di essere comunque onnivoro. Spesso poi mi faccio ammaliare da edizioni eleganti di opere che già possiedo, magari in economica. Trovo quindi invariabilmente qualcosa, e di norma non mi stacco dal banco senza aver cumulato almeno una ventina di volumi. La coppia che lo gestisce ormai mi conosce bene, credo sia persino un po’ in soggezione, e si premura di liberarmi ogni tanto le braccia, ritirando ciò che ho già messo da parte, per facilitare la mia ricerca.
Tornato al lato di partenza, effettuo quasi sempre un secondo giro, molto più veloce, di controllo, per accertarmi che non mi sia sfuggito nulla o per ripescare ciò che avevo lasciato in forse: so già che mi pentirei immediatamente di non averlo preso. Agli altri due banchi, quelli dei libri a tre o a cinque euro, do solo una veloce occhiata: di solito non offrono nulla di interessante, puntano su volumi più nuovi e rilegati, ma è solo materiale di dozzina, e quello che vale già lo possiedo. Quindi pago, lascio in deposito le mie due o tre borse e posso cominciare la perlustrazione a pettine del mercatino.
Una ricognizione completa richiede almeno tre ore. Alla dozzina di bancarelle fisse del cartaceo se ne aggiungono di volta in volta di occasionali, ma non frequento tutti gli spacci di libri. Ormai ho imparato a riconoscere il tipo di offerta di ciascuno, e alcuni li scarto a priori. Un paio ad esempio propongono solo storia legata al fascismo e militaria, alcuni praticano prezzi che neanche Sotheby’s, altri ancora ammucchiano i libri come cumuli di letame, oppure li affastellano in modo da rendere quasi impossibile la ricerca. Ammetto che in qualche caso scattano anche pregiudizi razziali: non riesco a mercanteggiare con chi tratta i libri come immondizia, salvo poi sparare “cinque euro” appena mostri interesse per qualcosa; o peggio, con chi cerca di giustificare la richiesta spiegandoti il valore intrinseco dell’opera, senza avere la minima idea di cosa sta parlando. Queste ricognizioni di norma non approdano a nulla, ma riservano talvolta inaspettate sorprese. Capita anche, invariabilmente, di trovare a un prezzo irrisorio opere che si erano cercate invano per mesi e ci si era poi risolti ad acquistare in rete, magari solo una settimana prima. È chiaro che a quel punto se ne possiederanno due copie.
Il mercatino non è però soltanto libri. Non compro altro, ma non lo frequento solo per appagare a poco prezzo la mia bibliomania. Mi piace per un sacco di altri motivi. Intanto, l’atmosfera. Calcolando che la metà almeno del nostro prossimo vive in uno stato di perenne irritazione, e che qui si concentra in poche migliaia di metri quadrati una miriade di persone che muovono in direzioni opposte, guardano, toccano, contrattano, e per la gran parte viaggiano in coppia e hanno interessi e gusti differenti, si dovrebbe navigare in mezzo a un tasso di adrenalina litigiosa altissimo. Invece no, non ho mai sentito nessuno alzare la voce. Il mercatino è zona franca. Si va alla ricerca dell’assolutamente inutile, quindi non valgono le comuni leggi e i consueti rapporti commerciali, e neppure quelli coniugali. Chi vende non campa su quel lavoro, chi compra non vuole realizzare l’affare, ma togliersi uno sfizio. Circola la moneta, ma la filosofia di fondo sembra quella del baratto piuttosto che quella dell’acquisto. È impressionante vedere la gente che riprende la via per l’auto carica delle cose più inverosimili, sedie sgangherate, mastelli di legno, tritacarne per insaccare il maiale, vecchie radio a valvole, strumenti musicali fuori uso, giacconi di pelle (una volta ne ho presi due per quindici euro). Non sa cosa ne farà, non può giustificarli con alcuna necessità, ma è felice di portarseli via.
La maggior parte cerca però in realtà solo l’atmosfera, la gioia che danno agli occhi oggetti mai visti o non più rivisti da tempo. Credo che il motivo maggiore di attrazione sia proprio questo: il mercatino è il Bengodi della memoria. Dai banchi occhieggiano suppellettili sparite non solo dal circuito commerciale ma anche dall’arredo delle case moldave, fumetti degli anni trenta o cinquanta, utensili che parrebbero risalire al paleolitico, le scatole da biscotti di latta che vedevi da bambino a casa di tua nonna, giocattoli con la carica a corda. È tutta una madeleine di ricordi che proprio col tramite degli oggetti riemergono, e non solo, confliggono con la melassa artificiale e virtuale dalla quale siamo ricoperti.
Il fenomeno infatti va controcorrente, perché sembra confutare l’imperativo dell’usa e gatta. È tutta roba già scartata e ora rimessa in circolo, che non intende morire. E segna la rivincita del legno e dei metalli primari (ferro, rame, stagno, …) e delle leghe (bronzo) sulla plastica (ma anche del vinile sui CD, del panno sulle fibre, dei fumetti sui videogiochi). Una immersione nel mercatino è una eccezionale lezione di storia del costume, del gusto, della tecnica, delle idee. Dovrebbe essere meta di gite scolastiche, con gli studenti condotti tra i banchi in formazione militare, guidati da docenti in veste di ciceroni e di sergenti. Ma forse no: non avrebbero nulla da ricordare, e dubito siano disposti ad imparare qualcosa. Meglio limitare i danni ai musei e ai monumenti.
Insomma, il mercatino è certamente un non-luogo, di quelli classificati come tali da Marc Augé: ma lo è in un’accezione positiva. È il regno dell’utopia, perché l’utopia mira in fondo a fermare il tempo, e qui una volta al mese questo accade.
Paradossalmente, però, nonostante la cornice sia vecchia e la velatura sul vetro risulti autentica, il mercatino è anche un ottimo specchio della società attuale. La deforma solo leggermente, ma questo invece di imbruttirla le conferisce quella patina un po’ surreale che rende tutto meno pesante e insopportabile. A proposito di cornici: proprio ultimamente ho udito un tizio dire alla moglie: “Roba da non credere. Quattrocento euro per una cornice! Neanche fosse d’oro massello!” Bene, cose così a Borgo d’Ale, anziché irritarmi, mi fanno felice: sono perle che raccolgo e conservo gelosamente, giustificano da sole duecento e passa chilometri.
Dicono della nostra società più di un libro di sociologia, e almeno lo fanno in maniera divertente.