di Paolo Repetto, 2012
Micotto arrivava puntuale le sere d’inverno, nell’immediato dopocena, intabarrato nel suo mantello nero e col cappello a larghe tese in testa. Si sedeva accanto alla stufa, sorbiva lentamente il caffè che mia madre gli preparava e, dal momento che nella bottega adiacente la cucina la conversazione era sempre animata, se ne rimaneva per un’oretta in silenzio ad ascoltare e a fare strani versi con la bocca. Solo qualche volta, su diretta richiesta mia, chiudevamo la porta e mi raccontava una delle sue strane storie, piene di eroi contadini, invariabilmente orfani e forti come Sansone, che si ribellavano ai tiranni e vivevano mirabolanti avventure. Poi si alzava all’improvviso, recitava una filastrocca mezza in dialetto e mezza in italiano (buona sera/ vacca nera/ pecciu russu/ tucci a cucciu) e se ne tornava a casa.
Non ricordo cosa facesse in estate, forse sedeva come tutti fuori dell’uscio di casa, e nemmeno ricordo di averlo visto qualche volta in maniche di camicia. Solo più tardi ho capito quale fosse il rapporto di parentela che ci legava. Era lo zio che aveva accolto e cresciuto mia madre, rimasta orfana a soli due anni. E solo più tardi ho anche saputo che nei primi anni venti ogni domenica mattina, all’ora dell’uscita dalla messa, Micotto si faceva trovare seduto sul Ciapun, la grande pietra che funge da sedile nella piazza del castello e della chiesa. Aveva una sorta di appuntamento con una banda di vigliacchi in camicia nera che arrivavano da Silvano o da Castelletto e gli offrivano un bicchierone di olio di ricino da ingurgitare. Micotto prendeva il bicchiere, beveva l’olio di ricino e sempre in silenzio si avviava verso casa, sperando che non facesse effetto troppo presto. I suoi persecutori erano dapprima irritati della sua tranquilla mitezza, poi si stufarono e poco a poco lo lasciarono perdere. Rimase per vent’anni segnalato alla questura e interdetto ad ogni occupazione che non fosse quella del suo fazzoletto di terra, ma non subì altre vessazioni.
Micotto abitava quasi di fronte alla bottega da ciabattino di mio padre, dall’altra parte della via. Trenta metri più in su, nella casa più fatiscente del paese, la “casa della Chiesa”, abitava Modesto. Anche Modesto negli anni venti aveva il suo appuntamento domenicale. Non andava in piazza. Rimaneva seduto sul pianerottolo della scaletta esterna di pietra che portava alla casa, le gambe penzoloni nel vuoto, allo stesso modo in cui l’ho visto sedere io trenta e passa anni dopo. Si arrotolava una sigaretta dopo l’altra, oppure masticava tabacco, sputandolo poi senza alcuno sforzo a distanze da record, e teneva posata accanto, a portata di mano, la pugarina, una roncola lunga e pesante che serviva per gli arbusti del sottobosco. Non bevve mai un bicchiere di ricino: gli arditi fermavano l’auto o il camion nella piazzetta, lo dileggiavano, lo insultavano, lo provocavano un po’, tenendosi a debita distanza: poi se ne andavano. Non era tanto la roncola a metterli in rispetto, quanto il sapere che non avrebbe avuto la minima esitazione ad usarla (mio padre sosteneva che Modesto sarebbe stato pericoloso anche con una ciabatta in mano, e che comunque, tra l’aglio che mangiava e il tabacco che masticava, avrebbe potuto ribaltarli con il solo alito). Era alto e magro, somigliava vagamente a Lee Van Cliff ed era una miniera di sorprese: a differenza degli altri bambini, che ne avevano paura, io ne ero affascinato, e a quanto pare anche lui mi aveva in simpatia. Una volta, quando ormai ero un adolescente, mi lasciò secco recitando a memoria tutto il sesto canto dell’Inferno.
Lo zio Micotto era un socialista; Modesto era un anarchico. Per mio padre erano due idealisti un po’ sprovveduti e testardi; per mia madre l’uno era un uomo buono e mite, traviato in gioventù dalle cattive compagnie, l’altro era la cattiva compagnia.
Ho scoperto gli anarchici a dodici anni, in un opuscoletto finito chissà come in bottega, tra i giornali vecchi che servivano per incartare qualunque cosa vendessimo, dalle scarpe riparate alle pesche della vigna. All’epoca non leggevo, letteralmente divoravo ogni pezzo di carta stampata, ed ero già affetto dal morbo del bibliomane. Per cui conservai a lungo quell’opuscolo, nascondendolo all’occhio censorio di mia madre nella cassa da birra dove tenevo i fumetti, e riprendendolo in mano di tanto in tanto, affascinato dalla storia che raccontava e dai ritratti di uomini barbuti e fieri che la illustravano. I ritratti erano una decina, ma le storie che mi si impressero nella memoria erano tre: erano quelle di Cipriani, di Cafiero e di Berneri. E sono quelle che ora, a modo mio, vorrei cercare di raccontare.