Il mio tarlo si chiama Fabrizio

di Paolo Repetto, 1996

Non so se esistano gli angeli custodi. A giudicare dalla mia esperienza direi proprio di no, sarei più propenso a credere in spiritelli maligni e dispettosi. So per certo invece che esiste una “presenza”, qualcosa che è stato definito come “tarlo della coscienza”, e che nel mio caso non si limita a lavorare da dentro, ma assume anche sembiante umano, si incarna in un correlativo oggettivo. Il mio tarlo si chiama Fabrizio. Fabrizio è una sorta di custode del Graal, e quel Graal è l’immagine di me che lui ha, che io ho provveduto a creare e che io stesso vorrei avere, ma non ho, perché non corrisponde a quello che sono, ma solo a quello che vorrei e che, almeno in parte, potrei essere. Incarna perfettamente questo ruolo; è silenzioso, quasi muto, non avanza pretese, non esprime giudizi, e quindi non ti dà modo di cercare delle giustificazioni. È un formidabile convitato di pietra che non ha bisogno di parlare, ma si limita a porgerti lo specchio, quel ritratto di Dorian Grey alla rovescia nel quale riconosci a stento i tuoi lineamenti e prendi coscienza del tuo deviare dalla via. La cosa straordinaria è che nel fare questo non risulta mai ossessivo, irritante, non ti induce a trincerarti dietro il solito “ma cosa vuoi, cosa volete tutti”: ti obbliga solo a riflettere, perché sai che lui sa, ed è inutile raccontar palle.

Non credo sia facile fare il tarlo. Non penso nemmeno ci si possa educare ad una funzione così delicata. Bisogna nascerci. Poi magari viene naturale, ma è comunque impegnativo. Occorre risultare in primo luogo assolutamente coerenti. Non puoi chiedere agli altri di essere seri con se stessi se non lo sei tu per primo, e sempre. È altrettanto necessario, poi, essere disponibili, affidabili, efficienti. Non per porsi al servizio della coscienza da tarlare, ma per non lasciare a quella coscienza vie di recriminazione e di fuga. Ma le due doti davvero indispensabili sono l’umiltà e la discrezione.

L’umiltà è oggi la più misconosciuta delle virtù, anzi, probabilmente non viene nemmeno più considerata tale. Ne esiste in giro talmente poca che ci siamo disabituati a riconoscerla, e tendiamo piuttosto a confonderla con l’arrendevolezza o con la modestia. Ma la vera umiltà non è né dimessa né arrendevole, anzi, è quanto mai orgogliosa e battagliera: perché nasce dalla consapevolezza, di sé prima di tutto, e per estensione degli altri, e la consapevolezza è coscienza dei limiti, e la coscienza dei limiti è l’unica condizione per affrontarli e superarli. Non è una virtù comoda, esige abnegazione, perseveranza, fierezza, e in apparenza gratifica ben poco; per questo chi se ne intendeva prometteva agli umili il regno dei cieli, lasciando intendere che per quello terreno c’erano poche probabilità. Difficilmente Fabrizio sarà un personaggio di successo, proprio perché non è un personaggio, non si adatta a recitare una parte. È un aristocratico genuino, e il suo regno, quello della sua coscienza, lo ha saldo in pugno.

 

Se l’umiltà è rara, la discrezione è ormai come Bin Laden: tutti ne parlano, nessuno sa dov’è. Quando si debbono fare norme per difendere la sfera del privato, e se ne demanda l’applicazione ai tribunali, è segno che gli argini sono crollati da un pezzo e stiamo annaspando nel fango. Non solo la discrezione non è praticata, ma è volgarmente irrisa, perseguitata per il suo rifiuto alla spettacolo. E tra i persecutori non ci sono soltanto quelle mandrie di imbecilli che si accalcano sulle soglie degli studi televisivi, aspettando il loro turno per potersi pubblicamente sputtanare; ci siamo anche noi, ormai irrimediabilmente affetti dall’incontenibile diarrea di sentimenti e di emozioni che ci rovesciamo addosso l’un l’altro. Tutti, tranne Fabrizio. Come i gatti, Fabrizio non sporca in pubblico: e nemmeno si sporca con i fatti altrui. Ascolta, annota mentalmente, salva e chiude. Pronto a pescare nell’archivio, quando ne hai bisogno, ma mai a sbatterti in faccia quel che avevi detto o fatto o promesso. Il fatto è che tu sai dall’archivio, e patisci quello sguardo che non ti interroga, quella presenza che non si impone, tanto quanto la desideri e la ritieni indispensabile. Non te ne rendi conto, ma è il tarlo che sta lavorando.

 

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