Origini e fine repentina di un mito moderno
di Paolo Repetto, da Tam Tam n. 1, giugno 1987
In principio era il rock. Ma prima del principio c’erano tante altre cose, come il jazz, il blues, il country. Poi venne la bomba atomica, e al suo calore tutto si fuse, anche i generi musicali, e ne sortì un ibrido che al di là delle parentele costituiva qualcosa di fondamentalmente nuovo. Il rock, appunto.
La novità stava nel “senso” di questa rivoluzionaria espressione musicale. Chi aveva superato la pubertà ai tempi della bomba scoprì di essere incapace di concepire la vita senza un futuro. Chi non aveva ancora raggiunta la pubertà al tempo della bomba era incapace di concepire la vita con un futuro. Il rock nacque dalla coscienza di un inganno, dalla sensazione di essere allevati in batteria, nutriti di ipocrisie, costretti a ritmi e luci artificiali: nacque dal rifiuto di rinunciare quotidianamente all’uovo per inseguire un’inafferrabile gallina. Questo rifiuto fu espresso dalle giovani generazioni degli anni cinquanta con la nascita del teppismo giovanile, delle bande motorizzate americane, dei teddy-boys inglesi, con la scelta orizzontale della strada e degli spazi aperti e colorati da contrapporre a quella verticale dei grattacieli e dell’arrampicata nel grigiore dei grattacieli.
L’unico linguaggio appropriato a farsi interprete della nuova coscienza era quello musicale. Le altre forme espressive, da quelle plastico-figurative a quella letteraria, rimanevano bene o male legate all’ambito delle élites culturali, erano impossibilitate a prescindere da una tradizione “colta”, anche, e forse più, nei movimenti d’avanguardia. La musica poteva invece opporre ai generi colti un retroterra popolare ricchissimo e variegato, una tradizione di creatività, di esecuzione e di consumo “poveri” nella quale attingere ed alla quale fare riferimento, particolarmente radicata proprio in quegli strati sociali, in quelle etnie e in quelle forze generazionali che avvertivano una maggiore estraneità ed esclusione nei confronti del “sogno americano”. Fu così che quando Chuck Berry, Bill Maley, Jerry Lewis, Little Richard, Eddie Cochran e gli altri spinsero il piede sulla carica liberatoria ed anche esotica dei testi, accelerando e sincopando alla maniera jazzistica i tempi del blues, trovarono un uditorio immenso, affamato di modelli di identificazione diversi da quelli del perbenismo ufficiale, ansioso di sentirsi protagonista, una volta tanto, di una proposta culturale.
Il rock fu, almeno inizialmente, questo. Le scomuniche a raffica che arrivarono immediatamente dagli ambienti culturali, dai pulpiti delle diverse confessioni, dalla stampa di alta, di media e di bassa levatura, dai circoli dei genitori benpensanti, dai capotavola preoccupati, battezzarono il nuovo genere musicale come espressione “out”, partorita a dispetto del sistema e pertanto propria di chi del sistema si sentiva al margine. Nel rock riconoscevano infatti la propria voce soprattutto i negri e i giovanissimi, coloro cioè che per ragioni di pelle o di età non trovavano spazio nei canali ufficiali di comunicazione. In verità, scorrendo i testi di Chuck Berry o di Little Richard non si trova nulla di quella violenza dissacratoria di cui si vorrebbe far credito al rock delle origini. Ma non ce n’era bisogno. La dissociazione, la contestazione, erano impliciti nel ritmo, nella carica emotiva che questa musica originava, nella “scompostezza” degli esecutori e degli ascoltatori, nell’umiltà delle radici di questa cultura.
L’impatto del rock fu violento perché per un attimo quest’ultimo sfuggì al controllo del sistema, lo colse di sorpresa. Ma fu davvero solo un attimo. Poi venne subito Elvis Priesley, e con lui l’ambiguità, il disordine laccato e organizzato, la bianca rispettabilità che rientrava dalla finestra. L’attimo era trascorso velocemente. Il mercato già bussava alla porta.