Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

di Paolo Repetto, 20 aprile 2024 – dall’Album “Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima copertinaCredo che nove italiani su dieci (è una stima ottimistica) non saprebbero rintracciare l’Estonia su una carta geografica. Figuriamoci poi conoscere qualcosa dell’arte estone. Quest’ultima lacuna valeva anche per me, fino a quando non ho visitato una mostra di Konrad Mägi, a Torino, quattro anni fa, l’ultimo giorno utile prima della serrata per Covid. Forse per questo la mostra mi è rimasta così impressa. Ma in realtà credo che i motivi siano altri.

Mi aveva colpito soprattutto l’eccentricità della pittura di Mägi. In senso letterale: la lontananza da ogni centro, la non riconducibilità ad alcun modello. Avevo sì l’impressione di riconoscervi di volta in volta riferimenti alle correnti artistiche precedenti o a quelle sue contemporanee, dall’impressionismo al fauvismo, dall’espressionismo all’Art Nouveau e alla pittura metafisica; ma erano così rimescolati e sovrapposti da dare origine a qualcosa di assolutamente originale. E poi, ad amalgamare il tutto, una dimensione onirica, il senso di solitudine che pervade i paesaggi, i colori marcati, suggestivi, che esplodono fuori dalla tela. Insomma, dietro quei quadri ho percepito una personalità irrequieta, profondamente depressa, persino instabile.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 02

E infatti. Magi nasce nel 1878 in Estonia, ma si trasferisce nell’adolescenza a Tartu, in Finlandia, dove lavora come apprendista falegname e frequenta anche corsi di disegno. Sviluppa interesse per l’arte figurativa, senza dargli però uno sbocco; fino a quando, ormai venticinquenne, si sposta a san Pietroburgo, in cerca di fortuna, ma soprattutto di un indirizzo da dare alla sua vita. Qui partecipa agli eventi della rivoluzione del 1905, e subito dopo, per sfuggire ad una’atmosfera divenuta pesante, cerca rifugio per un certo periodo nelle Isole Åland, all’imbocco del golfo di Botnia, dove esiste una comunità quasi anarchica di artisti e letterati. Non ci resiste però a lungo. Non è uno scapigliato, è anzi molto elegante, distinto e attento alle forme (anche alla cultura fisica, che è uno dei suoi pallini), tendenzialmente solitario: le stravaganze se le tiene dentro. In quell’ambiente dipinge i primi quadri e matura la consape volezza di aver preso la strada giusta, ma anche quella di avere ancora molto cammino da fare per raggiungere risultati soddisfacenti.

Questo cammino lo porta inevitabilmente a Parigi, dove approda nel 1907, dopo un anno trascorso lavorando ad Helsinki per far su qualche soldo. Il contatto con un mondo culturale vivacissimo, così diverso da quello del baltico nordorientale, da un lato lo attira, dall’altro lo spaventa e lo respinge: in più c’è il problema economico, perché la vita nella capitale francese è carissima, e lui è ridotto letteralmente alla fame, al punto da ritrovarsi con una salute irrimediabilmente minata. Di lì a poco si trasferisce dunque in Norvegia, dove comincia a dipingere compulsivamente e a guadagnarsi la vita con la sua arte. Può così permettersi nuovamente una paio di escursioni in francia, e segnatamente in Normandia, ma il richiamo del suo Nord lo fa rientrare, soprattutto dopo che le sue opere hanno conosciuto un buon successo in occasione di una prima mostra in patria.. Nel 1910 è di ritorno a Tartu, e poi dal 2012 in Estonia, dove fonda una scuola d’arte decisamente avveniristica per i luoghi e per i tempi.

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Le peregrinazioni non sono tuttavia terminate. La rivoluzione d’Ottobre rimette scompiglio nel precario equilibrio che Mägi ha raggiunto. L’Estonia ottiene l’indipendenza, ma la situazione è pesante. La meta dell’ultimo espatrio (siamo ormai nel 1920) è l’Italia, dove soggiorna per quasi due anni, visitando Venezia, Roma e Capri. La luce e i colori del mare e dell’isola lo affascinano, così come hanno affascinato moltissimi suoi ex-connazionali in esilio (Konrad era stato sino a quel momento cittadino russo): tanto che pensa di aver trovato una seconda patria. Ma anche questa volta non tarda a ricredersi: è ossessionato dal trascorrere del tempo (e le rovine della classicità rinfocolano questa ossessione), dalle forze che lo abbandonano, dall’angoscia di dover lasciare lo straordinario spettacolo che la natura mediterranea gli offre. Il suo equilibrio psicologico è gravemente compromesso, e anche quello fisico è minato ormai da diverso tempo. Rientra così nuovamente a Tartu, dove si spegne lentamente a quarantasei anni, dopo aver dipinto in maniera “professionale” per non più di quindici.

La tormentata vicenda esistenziale di Mägi non ha conosciuto requie, e ha lasciato un segno progressivamente più profondo nella sua arte: che è tutta volta a fermare, nel senso di sottrarre al tempo, alla caducità, alla dissoluzione, gli straordinari momenti di bellezza, sia umana che naturale, dei quali la natura ci fa partecipi. Questo sembrano volere, con la forza del segno e del colore, sia i suoi paesaggi che i suoi ritratti, Se poi negli uni e negli altri cominciano a comparire delle nuvole, che si affacciano dietro le alture e i profili delle montagne, fino a creare nell’ultimo periodo atmosfere sempre più cupe, questo non fa che testimoniare la sua consapevolezza di addentrarsi in tempi bui, e non solo per la sua personale situazione. E anche una singolare e contingente preveggenza: il giorno successivo alla mia visita tutti i musei, assieme ad ogni altra attività pubblica, erano chiusi. Le sue opere, dopo essere state bandite in patria per tutto il tempo della dominazione sovietica, avrebbero dovuto attendere altri sei mesi per tornare visibili al pubblico italiano.

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Prendi tre paghi uno

di Vittorio Righini, 23 giugno 2023

Anticipiamo la segnalazione libraria di Vittorio Righini per il mese di Luglio, nella certezza di offrire agli amici che ci seguono l’occasione di una piacevolissima lettura estiva. Vittorio ha un fiuto eccezionale per i piccoli gioielli che passano nel nostro ingolfatissimo panorama editoriale quasi inavvertiti: questo perché prima ancora del libro ama la sua scoperta, la ricerca e il ritrovamento. E sa come e dove cercare. Non aspetta le occasioni (il tre per uno): le crea. Come in questo caso.

La tipica formula da supermercato economico, ma in questo caso si riferisce a un libro che ho appena terminato, e che in realtà è composto da tre parti.

La prima parte è un magnifico libro di viaggio, La Strada dorata, nel miglior stile della letteratura inglese del genere, 220 pagine sull’esplorazione dell’Asia Centrale dal 1937 al 1939, con base Mosca e con tutti i relativi problemi della libertà di movimento nel triennio peggiore in URSS, quello delle purghe Staliniste e del terrore negli alti ranghi del potere moscovita.

L’autore lavora per il Ministero degli Esteri inglese, accreditato all’Ambasciata inglese a Mosca.

Di famiglia scozzese di alto rango (il primo tartan depositato è quello della sua famiglia), divenuto negli anni amico di Churchill, poliglotta, Maclean è più un curioso esploratore che un’agente speciale (cioè una spia). Quasi sempre scortato da uno o più agenti del NKVD, il Commissariato Popolare per gli affari interni sovietico, riesce spesso a eludere la sorveglianza, e visita la regione caucasica in un’epoca ostica agli stranieri. La racconta con semplicità e completezza, una chiarezza esemplare e anche con un certo umorismo. Uzbekistan, Khirghizistan, Kazakhistan, Azerbaijan, Georgia e altri che dimentico sono alcune delle tappe dell’autore. Questa prima parte lo colloca tra Peter Hopkirk e Patrik Leigh Fermor, proprio nel mezzo.

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A pagina 221 ci si inoltra nella Sabbia d’Oriente, 100 pagine di guerra nel deserto, un anno di vita nel deserto, prevalentemente in Egitto, perché la base operativa degli Alleati è sempre stata Il Cairo. L’autore racconta, nella sua posizione di Capitano della SAS (lo Special Air Service, creato da David Stirling insieme ad alcuni ufficiali, tra cui il nostro), dei tentativi di incursioni sulla costa mediterranea dell’Egitto, in particolare a Bengasi e nelle oasi. Nonostante i risultati di queste incursioni non siano rilevanti, per non dire un mezzo fallimento, il racconto della vita nel deserto vale il libro. La mancanza di grandi successi militari e l’ambientazione mi ricorda Evelyn Waugh e la sua trilogia di guerra, ma questo scozzese riesce a scrivere in modo più immediato e più pragmatico, senza nulla togliere al pathos dell’azione. Waugh si sarebbe dilungato enormemente su un argomento simile (Waugh che, alla fine del libro, scopriremo essere un assistente del nostro scozzese, divenuto nel frattempo Generale nella ex-Jugoslavia).

Il nostro non si vanta, non è un Peter Fleming che si specchia nella bandiera inglese, nemmeno uno che si lamenta come Waugh. Scrive che il suo fallito attacco al porto di Bengasi, almeno, è riuscito a far spostare delle truppe italo-tedesche dalla zona dove l’Ottava Armata di Montgomery era maggiormente concentrata a preparare El Alamein.

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La terza parte del libro è la più consistente, Guerra nei Balcani, 300 pagine nelle quali si esamina prima la storia della ex-Jugoslavia, poi l’invio del nostro (prima Colonnello, poi Generale) al quartiere generale di Josip Broz (detto Tito, perché in lingua slava ti-to, ti ta cioè  “tu fai questo, tu fai quello”, era il tipico commento del Maresciallo, che così si prese il soprannome). Io avevo, tra le tante lacune, in particolare quella della storia nei Balcani, e questo libro mi ha veramente chiarito moltissimi dubbi. Il nostro resta diciotto mesi, e si vede regolarmente con Tito, col quale instaura un rapporto di rispetto e di fiducia, e racconta molto del carattere di un personaggio molto discusso ai tempi ma anche molto poco conosciuto. Questa terza parte è un libro a sé stante, che anche da solo avrebbe meritato l’acquisto. L’unico vero difetto è che l’autore è troppo gentiluomo per dimenticare di citare qualcuno, anche un’umile inserviente, così la narrazione si riempie di nomi e cognomi soprattutto inglesi. Lettura consigliata insieme a un atlante (o a un computer con maps) per seguire gli spostamenti da località a volte totalmente sconosciute, almeno a me.

Prendi tre paghi uno 02FOTO COPERTINA: Passaggi a Oriente, di Fitzroy Maclean, Neri Pozza nella collana “Il Cammello Battriano”. Prima pubblicazione inglese: 1949; prima stampa italiana 2002.

Un breve click a proposito della mia copia: l’ho comprato perché lo aveva segnalato come un gran libro Roger Deakin; difficile da reperire, finalmente ne scovo una copia sulla baia, e le spese di spedizione sono ingenti. Poi guardo l’indirizzo del venditore: Castellazzo Bormida! Il mattino dopo sono in piazza a Castellazzo a ritirare il libro, pure scontato! Se non è fortuna questa.

Teoria e pratica del pentagonismo

(che non è una disciplina olimpica)

di Carlo Prosperi, 18 maggio 2023

Teoria e pratica del pentagonismo 02Di Juan Emilio Bosch non conoscevo né le vicende umane e politiche né le opere letterarie. Sono quindi grato all’amico Francesco M. Bonicelli Verrina, che per primo ha tradotto in italiano il breve saggio El pentagonismo como sustituto del’imperialismo (1967)[1], di avermi dato modo di colmare in parte questa mia lacuna e di approfondire il tema trattato dallo scrittore e politico dominicano. Il quale ebbe la triste ventura di vivere sotto la dittatura, non meno grottesca che feroce, del dittatore Rafael Trujillo Molina, alla quale si sottrasse viaggiando e trascorrendo lunghi anni in esilio, tra Cuba e Venezuela. Solo nel 1961, dopo l’attentato che pose fine all’abominevole tirannide di Trujillo, fin allora sostenuto dagli americani con la scusa che era sì un “bastardo” (un autentico son of bitch, per dirla con l’icastica espressione roosveltiana), ma era pur sempre il “loro bastardo”, rientrò in patria e, nel dicembre del 1962, vinse le elezioni diventando il primo presidente eletto democraticamente dopo trentun anni di dittatura.

Teoria e pratica del pentagonismo 03Bosch, contando di avere l’approvazione di Washington, subito dopo il suo trionfo elettorale promise di “trasformare la Repubblica Dominicana in una vetrina dell’America Latina” che sarebbe servita come modello della “democrazia rappresentativa”. Ma il tentativo di proteggere gli interessi nazionali da lui intrapreso si scontrò con quelli del movimento conservatore che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti, timorosi di ogni novità sospetta che potesse intaccare il loro dominio su quello che fin dai tempi di James Monroe consideravano il loro “cortile di casa”. Tra le accuse mosse a Bosch c’era quella, infondata, di essere comunista. Così, dopo soli sei mesi, egli fu destituito e da allora smise di credere nella democrazia rappresentativa per vagheggiare l’idea di una “dittatura con l’appoggio popolare”. Fu proprio in questo periodo di amara disillusione che egli si sforzò di analizzare le cause del fallimento del modello democratico nei Paesi caraibici e il ruolo svolto in tutto questo dal capitalismo. Dopo Il pentagonismo sostituto dell’imperialismo, videro così la luce diversi studi sull’argomento: Tesi sulla dittatura con l’appoggio popolare (1969), Da Cristoforo Colombo a Fidel Castro (1969), Breve storia dell’oligarchia (1970) e Composizione sociale dominicana (1970). Negli anni successivi si dimise dal Partito Rivoluzionario Dominicano, del quale era stato uno dei fondatori negli anni d’esilio a Cuba, e diede vita al Partito della Liberazione Dominicana, che solo nel 1996, dopo vari tentativi, riuscì ad affermarsi, mandando alla presidenza Leonel Fernández.

Teoria e pratica del pentagonismo 04Convinto che “la mancanza di memoria più lieve può portarci su strade insospettabili”, Bosch continuò a riandare con la mente alla sua esperienza di governo e per primo intuì che alla base del fallimento c’era stato un errore concettuale derivante da un difetto nel valutare l’evoluzione storico-sociale. Si continuava a parlare di capitalismo e di imperialismo, senza rendersi conto che la realtà era nel frattempo profondamente cambiata. I formidabili progressi scientifici e – aggiungiamo noi – tecnologici non avevano solo prodotto, per dirla con John Kenneth Galbraith, una affluent society, moltiplicando a dismisura i consumi e il benessere economico degli americani, ma avevano altresì trasformato una società eminentemente individualistica in una società di massa. E tutto questo – si noti bene – senza che i cittadini se ne avvedessero, così che essi seguitavano a credere di vivere in una società di individui liberi. Mentre, in realtà, erano eterodiretti o, se vogliamo, telecomandati, dal momento che i nuovi mass media, a cominciare proprio dalla televisione ne condizionavano le idee, i comportamenti, i consumi. In questo la pubblicità giocò un ruolo di primo piano, giacché, sfruttando gli studi di psicologia delle masse, i “persuasori occulti” presero ad insinuarsi nella mente dei consumatori servendosi – a dire di Vance Packard – anche di messaggi subliminali alla stregua della psicologia usata dai governi per spingere al massacro migliaia di giovani nel conflitto mondiale.

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Secondo alcuni storici – e Bosch sembra in effetti condividerne la tesi – a salvare definitivamente gli USA dalla grande depressione del 1929 non fu tanto il New Deal di Roosevelt, quanto l’enorme incremento che lo sforzo bellico impresse alla produzione americana. E che determinò la metamorfosi stessa del capitalismo, destinato ad un ipersviluppo che ne cambiò radicalmente la dimensione e i connotati. Tanto che in esso si riconoscono già i germi dell’odierno “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla “smaterializzazione” dovuta all’informatica e all’elettronica. Ora, il capitalismo, sia pure nelle nuove forme via via assunte, è sopravvissuto allo stesso imperialismo, del quale, secondo Lenin, avrebbe invece dovuto essere la fase suprema. C’è chi si ostina, nel caso degli USA e di altre grandi potenze, a parlare di imperialismo, magari qualificandolo come “economico” o “commerciale” (come è stato anche definito l’imperialismo “in salsa cinese”) o come “neo-imperialismo”, senza rendersi conto che siamo ora di fronte a una realtà affatto inedita, prodotta dal capitalismo ipersviluppato, che Bosch chiama “pentagonismo”.

Nel Pentagono ha infatti sede il quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, in cui si concentra il potere militare nordamericano: un potere nato “dal ventre dell’economia di guerra” e che non può considerarsi costituzionale perché nella Costituzione politica della nazione non è menzionato. Un potere de facto, non de iure. Nondimeno, nella società di massa statunitense esso si è affermato indipendentemente dalla volontà cosciente degli elettori, fino a diventare, nel giro di pochi anni, preponderante rispetto a quello civile. Laddove il potere si misura in denaro, chi di più denaro dispone è inevitabilmente destinato a prevalere. È quanto si è verificato negli USA, dove il Pentagono è giunto a spuntare finanziamenti superiori a quelli del Governo federale. Questo non sarebbe potuto avvenire se l’apparato militare non avesse avuto il decisivo sostegno delle grandi corporations, che – come la guerra aveva dimostrato – alle ingenti commesse provenienti da quel settore dovevano il proprio ipersviluppo. Profittando del tracollo dell’imperialismo, il pentagonismo – che il presidente Eisenhower definì con preoccupazione “complesso industrial-finanziario” – pensò di raccoglierne l’eredità, ma – qui sta la vera novità – senza dovere conquistare dei territori coloniali e senza proporsi di sfruttarli economicamente. Dice bene Bosch: «Il pentagonismo non sfrutta le colonie: sfrutta il proprio popolo», e lo fa colonizzando la metropoli, costretta a finanziare gli interventi militari necessari per conquistare e mantenere posizioni di potere all’estero: ambito su cui il pentagonismo ha più voce in capitolo dello stesso potere civile.

Teoria e pratica del pentagonismo 06Un vasto complesso industrial-militare domina il Congresso” ebbe a lamentare Fulbright nell’ottobre 1967, e il senatore Eugene Mac Carthy, che guidava la campagna contro Johnson, ribatté: “Tutti noi al Senato stiamo tentando di mettere un qualche limite al potere del complesso industrial-militare che controlla la politica estera di questa nazione”. Segno che il rischio di una deriva antidemocratica e guerrafondaia era già avvertito. Almeno da una minoranza illuminata. Ma come poteva questa opporsi ad operazioni che sembravano avere benefici influssi sul benessere della nazione? “In un calcolo puramente matematico – annotava il Business Weech nell’aprile 1965 – il crescere della guerra ordinata da Johnson cambia le prospettive economiche per il meglio”. Era allora in corso la guerra in Vietnam e nei mesi successivi alla scalata delle operazioni belliche, quando la costruzione delle infrastrutture cominciava non solo sul territorio di Saigon, ma anche nei paesi vicini, e specie in Thailandia, una cospicua serie di industrie si giovò di un “atteso boom”. Con l’intensificarsi della guerra, si moltiplicò la richiesta di pneumatici, apparecchiature elettriche e elettroniche, armi, munizioni, carburanti, ecc. E si moltiplicarono di conseguenza i profitti delle imprese di costruzione, meccaniche, aeree, alimentari. Per le più grandi corporations d’America (Lockheed, Aircraft, Ford, Westinghouse, General Dynamics, ecc.), ma anche per l’industria giapponese produttrice di napalm, fu una vera manna. Si disse – ed è uno dei paradossi ricorrenti delle guerre moderne – che le compagnie petrolifere finanziassero persino i vietcong (Fortune, marzo 1966).

La vicenda vietnamita, a preferenza di quella domenicana, che pure lo riguarda da vicino, è assunta da Bosch ad esempio paradigmatico dei guasti del pentagonismo, non solo perché più nota, ma anche perché a tanto dispendio di vite umane e di mezzi non corrisposero risultati adeguati sul campo. Gli USA riuscirono anzi nell’impresa di perdere una guerra senza perdere una battaglia. Oltre a questo, allarmarono l’opinione pubblica sia interna sia internazionale. Paul Kennedy, nel suo classico studio Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), riprendendo un concetto di Robert Gilpin, mise in guardia sulla “legge del costo crescente della guerra”, per la quale i costi del mantenimento dello status quo crescono più velocemente della capacità economica di sostenere lo stesso. A lungo andare, l’espansione del settore militare finisce quindi per danneggiare l’economia (come ha del resto dimostrato l’implosione dell’URSS).

Teoria e pratica del pentagonismo 08Forse, però, la parte più interessante del libro è quella dedicata alle motivazioni morali di volta in volta addotte dal pentagonismo. L’intervento militare non è mai giustificato da propositi dichiaratamente aggressivi, quantunque le guerre promosse o combattute dagli USA interessino ogni parte del mondo. Esse sono guerre preventive o volte comunque a soffocare presunti conati di sovversione (“dottrina Johnson”): guerre per “esportare la democrazia” o per combattere il terrorismo. A volte vere e proprie guerre per procura, qual è per certi versi quella attualmente in corso in Ucraina. Il pentagonismo ha così fatto degli USA “la polizia politica del mondo” (capitalista). E non c’è differenza in questo tra presidenze democratiche e repubblicane, perché, almeno nella politica estera, tutte, bon grè, mal gré, soggiacciono ai voleri del Deep State, cioè di quel variegato “complesso industrial-militare” che è per Bosch il pentagonismo. Mike Lofgren in The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government definisce lo Stato profondo come “un governo ombra” che opera al di fuori delle istituzioni rappresentative e “presta scarsa attenzione ai semplici dettami costituzionali”. Vi appartengono lobbies, massoneria, funzionari di Stato e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico, ma il nucleo preponderante è costituito dall’apparato militare, che, in combutta con le multinazionali, le agenzie di rating, i mercati finanziari, le banche centrali e le banche d’affari, influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici della nazione. In particolare, per quanto concerne la politica estera.

La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati. Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’URSS, glielo hanno impedito. Ma Trump non è stato l’unico a recriminare sul Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la sua battaglia contro i comunisti. Del resto, il cronista investigativo del Watergate Bob Woodward, in Peril, riferisce che il generale statunitense capo di stato maggiore dell’Esercito Mark Alexander Milley avrebbe istruito i vertici in carica al comando centrale militare, nella war room del Pentagono, “di non prendere ordini da nessuno senza il suo coinvolgimento”. La decisione di accentrare nelle mani del super generale tutti i poteri operativi militari sarebbe stata assunta (e quindi condivisa) durante una serie di vertici top secret tenuti da Milley con alti dirigenti della Cia, del Pentagono e in due contatti riservati avvenuti con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, allora leaders democratici dell’opposizione, rispettivamente alla Camera e al Senato.

Teoria e pratica del pentagonismo 07Il merito principale di Juan E. Bosch è stato quello di metterci in guardia da questi apparati, neanche tanto segreti, che agiscono da Stato nello Stato, senza averne alcuna legittimazione. Non lo consolerebbe certo sapere che il fenomeno non è più soltanto americano, se è vero che anche il capo della Wagner Evghenij Prigozhin, nel recente manifesto Solo lotta leale. Nessun accordo diffuso sui canali Telegram ha denunciato la tentazione circolante tra i segmenti dell’apparato militare russo che mirerebbero a un compromesso con gli USA onde “preservare i confini esistenti il 24 febbraio 2023”. Queste, secondo Prigozhin, che guarda alla trascorsa grandezza imperiale, sarebbero élites che “lavorano per padroni diversi: alcuni per il governo esistente, altri per coloro che sono in fuga da molto tempo”. Paradossalmente, anche una sconfitta in Ucraina potrebbe “portare a cambiamenti globali nella società russa” e spingere la gente ad abbandonare questi esponenti dello “Stato profondo” pronti – per difendere il proprio benessere – a tradire gli interessi della Russia scendendo a patti con Washington e Kiev.

[1] JUAN EMILIO BOSCH, Il pentagonismo. Come il “Deep State” U.S.A. tiene in pugno il continente americano, OAKS Editrice, Sesto San Giovanni 2022.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

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Letture e lettere dall’isolamento

di Stefano Gandolfi, 3 ottobre 2022

Lo sapevo, prima o poi doveva succedere. Devo ancora capire però dove e come l’abbia beccata questa maledetta pestilenza, malgrado quattro dosi di vaccino Pfizer (ma la quarta, e ultima, era ancora del “vecchio” vaccino, non del “nuovo”, bivalente e più attivo sulle nuove varianti); e mi piacerebbe anche sapere (non lo saprò mai, ovviamente) se senza vaccino sarebbe stato molto peggio (cosa assai probabile).

Fortunatamente è accaduto a fine estate, con temperature umane; fortunatamente alla fine di una settimana di vacanza in Dolomiti e non all’inizio; fortunatamente in forma lieve-moderata, come diciamo noi medici (anche se una fastidiosa astenia sta durando più a lungo dei postumi di una “banale” influenza, alla quale molti continuano a paragonare l’infezione da SARS-COV2).

E, fortunatamente, avevo un e-reader (sì, caro Paolo, quell’oggetto misterioso che ti permette di leggere libri senza sfogliare pagine e senza devastare la foresta amazzonica, che a quello ci pensa già Bolsonaro!).

E, fortunatamente, infine, avevo un amico che mi sfornava consigli di buona lettura. Uno in particolare mi ha incuriosito, visti i tempi e le circostanze belliche: il saggio di un norvegese (quindi compatriota della bravissima Erika Fatland) nientepopodimeno che sul pensiero e sull’ideologia russa passata e attuale: L’idea russa di Bengt Jangfeldt. Detto fatto: finita la telefonata con Paolo, acquistato on-line dopo un minuto e subito divorato.

Di cosa parla? Fate prima a leggerlo, non sono bravo a fare sintesi né critica letteraria, ma è chiarissimo e illuminante, dovrebbe essere letto obbligatoriamente in Europa, negli U.S.A., alla NATO, da tutti i leoni da tastiera che da mesi ci devastano con i commenti e le analisi sulla crisi Ucraino-Russa.

Qui è però necessaria una premessa, temo totalmente inutile (OK, se una cosa è inutile perché dirla? ma permettetemi di dirla lo stesso…): non sono FILO-PUTINIANO né FILO-RUSSO. Magari avrei un po’ di cose da dire sugli U.S.A. sulla NATO, su Colin Powell e l’Irak, sull’Afghanistan, sul Tibet e sugli Uiguri di cui non frega niente a nessuno e altre cosettine varie, ma qui non c’entrano niente, o almeno non cambiano la sostanza: se uno è nel torto al 100%, rimane nel torto al 100%, anche se si attribuisce qualche torto pure ai suoi avversari. Non è necessario che la somma sia 100 (0% di torto ai buoni e 100% ai cattivi), si può anche attribuire un 15-20-25% ai “buoni”. e se il “cattivo” merita 100, 100 è e rimane. Punto.

Chiaro? Macché, entro consapevolmente in un terreno minato, ma sono sopravvissuto a un cancro e ad altre cose fastidiose, quindi vengano pure anche le mine.

Letture da isolamento per covid.02

Dunque, il libro. L’“Idea russa” è ciò che serviva disperatamente a Putin (e non solo) per colmare quel vuoto di pensiero, di intenti, di aspirazioni, creatosi dopo il crollo dell’URSS (a suo dire la peggiore catastrofe che potesse accadere alla Russia); serviva a lui, ai suoi generali, e anche a tanta parte del suo popolo. Pensiero folle, certo, ma è così. Putin non ha dovuto andare tanto lontano, né pensarci a lungo, la soluzione era a portata di mano: il ripristino dell’ideologia slavista ed eurasica, contrapposta al pensiero filo-europeista di una minoranza di intellettuali e di un ceto medio borghese purtroppo ancora troppo poco presente nella società russa e quindi largamente insufficiente, numericamente, a contrastare il pensiero dominante. Bastava riprendere l’idea della grande madre Russia di tutti i popoli russofoni, slavi, bizantini, benedetta da quella Chiesa Ortodossa che costituiva la base dell’impero russo sotto gli zar e anche, sostanzialmente, nei sessant’anni di comunismo (sì, certo, nonostante l’ateizzazione forzata e le persecuzioni contro la religione). Ecco dunque tornare buona e fondamentale quella spiritualità arcaica, rozza che fungeva e dovrebbe nuovamente fungere da collante fra lo stato totalitario ed il popolo. In una simbiosi quasi mistica con lo stato e con la chiesa quel popolo mette da parte i valori “tossici”, “marcescenti” delle democrazie occidentali, ripudia le libertà individuali, egoistiche, materiali in nome di un perenne eroico sacrificio collettivo finalizzato alla rinascita dello splendore e della gloria di una Santa Russia, rivendicando la differenza (e, abbastanza esplicitamente, la superiorità) dello spirito russo rispetto a quello decadente dell’Europa e dell’America.

L’idea russa dovrebbe dunque, una volta per tutte, prevalere sull’idea alternativa, quella dei “filo-occidentali”, che periodicamente negli ultimi due secoli si è contrapposta in un continuo ping-pong ideologico al progetto pan-slavista, evolutosi col tempo in una visione “eurasica”.

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Questa “Eurasia” è lo Shangri-La russo, un mondo (inesistente, presumo) completamente diverso dall’Europa (da quella occidentale, non da quella slavo-bizantina) ma anche dall’Asia al di fuori della Russia, benché se ne sottolineino spesso i possibili punti di contatto con l’India e soprattutto con l’ingombrante vicino cinese.

I punti di contatto sono soprattutto, in realtà, spunti per consolidare un pensiero mondiale anti-occidentale che trova terreno fertile nell’antagonismo fra il gigante cinese e gli U.S.A. e nell’ambigua posizione sempre più integralista e sparigliatrice di Modi. Quest’ultimo non si fa certamente scrupoli nel “maneggiare” e brandire la minaccia atomica contro lo storico nemico pakistano (anch’esso potenza atomica), quindi è verosimilmente poco impressionato dall’altrettanto disinvolto utilizzo che ne fanno Putin, Medvedev e compagni. Molto più cauta è semmai la Cina, in nome di un solidissimo pragmatismo economico-commerciale che alla lunga (ma già un poco anche adesso, fortunatamente) non potrà che essere infastidito dalla follia e prepotenza dell’imbarazzante amico e forzatamente alleato russo.

Una Russia quindi che si sente al centro del mondo, anche geograficamente, terra di mezzo e ponte fra civiltà diverse, quella occidentale decadente, marcia e destinata a crollare, e quella di “Cindia” (cit. F. Rampini), in continuo, progressivo sviluppo e in un certo senso (ma entro certi limiti, come detto) solidale con il progetto di rifiuto e di superamento delle istituzioni occidentali (U.S.A. U.E., NATO, e anche l’ONU che viene sfruttata solo per utilizzare l’arma del veto sulle risoluzioni scomode). Nell’orizzonte di questo progetto ci sono un nuovo mondo e una civiltà implicitamente superiore, con ideali, diritti e doveri, leggi, religioni, costumi sociali, culturali, antropologici, completamente diversi.

Nei confronti dell’Europa occidentale poi c’è un livore particolare, a mio avviso generato dal disprezzo nei confronti di un’istituzione (la U.E.) totalmente asservita agli interessi dell’America, schiava di meccanismi burocratici che la rendono incapace di generare un pensiero ed una politica veramente autonomi: un’Europa disunita e che funge (nel pensiero putiniano, ovviamente) solo da “cane da guardia” degli U.S.A. e dei loro interessi.

Al contrario, nei confronti degli U.S.A. l’attitudine è più ambigua: c’è odio sicuramente, ma c’è anche rispetto per un nemico più potente dell’Europa, seppure avviato inesorabilmente (sempre ad avviso del Putin eurasico e di Xi-Jinping) ad un irreversibile declino. Putin (e l’Idea Russa) hanno un certo grado di stima per i potenti: sono nemici da combattere, ma ad essi si riconosce forza politica e militare. Semmai sconfiggerli provocherà maggiore soddisfazione ed orgoglio e consoliderà il convincimento che il destino della Russia è di gloria immortale.

Letture da isolamento per covid.04

E in tutto questo, l’Ukraina?

Conta poco o nulla. Per la Russia è già una questione chiusa, a prescindere dal referendum-farsa: l’Ukraina autonoma è stata una invenzione ed un colossale errore di Lenin, a cui bisogna rimediare. Le norme del diritto internazionale, il diritto di autodeterminazione di un popolo, per Putin ed il pensiero russo (supportato da ideologi come Dugin) valgono zero. Conta il destino di tutte le popolazioni russofone e slave di far parte (e rientrarci, qualora momentaneamente separate) della grande casa madre, la Santa Russia (pensiero supportato dal Patriarca della chiesa ortodossa Kirill).

Mi viene quasi da pensare (sarà che il mio cervello è ancora un po’ intossicato dal virus, chiedo venia), che la farsa dei referendum Putin l’abbia concepita quasi come un paradossale sberleffo verso l’occidente: siete così ossessionati dall’ipocrisia, dalla formalità svuotata di ogni significato reale che io vi faccio un referendum che soddisfi la formalità: poi che nessuno ci creda, lui per primo, è un altro discorso! Ma, nel suo folle pensiero, magari un giorno nei libri di storia rimarrà scritto che i cittadini della quattro regioni hanno scelto volontariamente e liberamente… Quale sberleffo maggiore nei confronti delle odiate democrazie occidentali? Un delirio, ma estremamente lucido e pericoloso, e qui subentra purtroppo il punto più amaro e doloroso: che fare?

Qui si entra in un terreno ancor più minato, vuoi perché chiunque, ma veramente chiunque, ha già detto tutto e il contrario di tutto (spesso le stesse persone!), vuoi perché posizioni contrapposte corrispondono ad ideologie apparentemente simili (un grandissimo paradosso, si scoprono fili-putiniani in chi non dovrebbe essere filo-russo e si scoprono filo-U.S.A. e filo-NATO in chi dovrebbe essere – o perlomeno doveva fino a pochi anni fa – esserne acerrimo nemico. Da un punto di vista della logica e dell’intelligenza pura, la questione è interessante: se si accetta che non tutti siano dementi (me lo consenti, Paolo?), se si accetta che non tutti esprimano determinati pensieri solo in quanto pagati o manipolati da una potenza straniera, come si spiega che di fronte alla tragedia del popolo ucraino, qualcuno che manifesti punti di vista differenti dal pensiero unico occidentale?

Se non mi avete già sparato o tagliato le gomme dell’auto in quanto infame filo-putiniano, provo timidamente ad esprimere qualche considerazione.

OPZIONE n.1.

Per quanto si possa relativizzare ogni posizione (l’idea russa, l’eurasismo), ci sono dei limiti che non possono essere superati. Putin ha torto, punto. L’esercito russo commette atrocità da Tribunale dei crimini di guerra, punto. Conclusione logica ed inevitabile: si dichiara guerra alla Russia. Chiamiamo gli ambasciatori russi nei rispettivi ministeri degli esteri di ogni nazione europea e del blocco occidentale (e chi se ne frega se lo facciamo solo noi e non anche i cinesi, gli indiani, i nord-coreani ecc) e gli diamo il pezzo di carta da consegnare a Putin in cui si dichiara guerra. Punto.

Conseguenze folli, inimmaginabili? Rischio nucleare? Non importa, l’etica, la predominanza dei principi di umanità valgono più di ogni altra cosa. Se il genere umano si estinguerà per la guerra atomica, vorrà dire che era il suo (nostro) destino. Cinico? Chi, io? In fin dei conti gli U.S.A sono gli unici ad aver usato due bombe atomiche in una guerra e non ci siamo nemmeno estinti. Altri tempi, storia e non più cronaca? Nel calendario del pianeta 77 anni sono il battito d’ali di un colibrì.

OPZIONE ALTERNATIVA n. 2.

Per quanto sia ripugnante ciò che commette Putin nei confronti degli Ucraini, c’è un limite che non può essere superato nella supremazia dell’etica pura, assoluta e dell’umanità. È il limite del compromesso, dell’utilità, del rimanere sul filo dell’equilibrio senza cadere in alcun abisso, il limite di ciò che si può accettare senza sprofondare così tanto nell’ignominia da non potersi più guardare nello specchio e senza dover prendere ansiolitici a manetta per dormire poche ore di notte. Tradotto nel linguaggio dei semplici bisogna accettare un compromesso, concedere a Putin qualcosa, convincere, nel migliore dei modi possibili Zelensky ed il suo popolo che devono sacrificare parte del territorio ucraino, per il bene di tutto il resto della nazione, per far cessare la guerra ed i crimini dei russi, per dare scampo a chi non è ancora morto e non è ancora stato deportato, torturato, stuprato. Il giorno dopo l’Ucraina entrerà nella NATO, diventerà territorio inespugnabile e sacro per loro e per l’occidente tanto quanto i territori occupati dai russi lo saranno per Putin e per il suo popolo. Dopo di che ripartirà la ricostruzione, generosamente finanziata dall’Occidente, e l’Ucraina, con l’impegno di tutti, potrà diventare una nazione che vivrà in pace e nel benessere economico. Con il triste pensiero dei territori derubati e dei cittadini privati della loro identità.

In una società perfetta tutto ciò sarebbe inaccettabile: nella società sporca, ingiusta, cinica e materiale in cui viviamo potrebbe essere la meno peggio delle opzioni. In caso contrario ci sarebbe il rischio altissimo che le cose vadano comunque nel modo voluto dai russi, senza la parziale consolazione di una tregua, di un cessate il fuoco e di uno status quo accettato da entrambe le parti.

Mi sono dimenticato l’OPZIONE n°3:

Andiamo avanti così, con le sanzioni, con la (legittima e sacrosanta) guerra per procura combattuta dagli ucraini con le armi, la tecnologia, i soldi degli occidentali. Con l’asticella delle tensioni, delle provocazioni, delle minacce, che si alzerà sempre di più. Con costi insostenibili in termini di morti, di distruzioni, di rischi ambientali enormi (centrali nucleari …), col rischio, in definitiva, di scivolare comunque verso l’opzione 1. Con il rischio che Putin non sia malato di cancro e che non stia per morire, che non ci sia un’opposizione interna così forte e risoluta da riuscire a liquidarlo in tempi accettabili, che se anche Putin morisse domani quello che verrà dopo potrebbe proseguire il suo progetto… Col rischio che non si tratti solo di un singolo pazzo, di un “cattivone” emerso dal nulla, ma semplicemente il rappresentante più autorevole di un pensiero diffuso e logico, per quanto folle.

OPZIONI 4, 5, 6 …

  • Aspettiamo che Trump venga rieletto ed il giorno dopo metterà in atto l’opzione 2 con il suo amico Putin, magari con condizioni molto più sfavorevoli per l’Ucraina.
  • Aspettiamo che Xi-Jinping si rompa le scatole ed obblighi Putin ad accettare determinate condizioni. Il giorno dopo vincerà il premio Nobel per la pace, diventerà il dominus del mondo, e la settimana dopo si annetterà Taiwan, senza che nessuno fiati.
  • Ovviamente l’Europa non deciderà nulla, non vorrà e non potrà, accetterà passivamente ciò che decideranno i potenti del pianeta.

Queste ultime righe ovviamente sono equivalenti alle chiacchiere da bar, quelle che si fanno nell’intervallo fra una discussione sul campionato di calcio, una sui motori della automobili, una sulla Lega e i 5stelle, su Calenda, Renzi e Letta….

Ovviamente non ho nessuna soluzione (se la avessi non sarei qui a scrivere cazzate!), ma ho accettato l’invito di Paolo a buttare giù qualche considerazione/provocazione… vediamo se qualcuno abbocca!

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Sinistra non è solo una mano

di Paolo Repetto, 1979

Questo intervento è apparso sulla rivista “CONTRO” nel 1979, anche se il tono e l’uso di termini come “compagni” parrebbero farlo risalire a qualche decina d’anni prima. Lo ripropongo perché in realtà trovo significativo constatare come i problemi, al netto dei contesti e della forma in cui erano espressi, siano rimasti per la sinistra esattamente gli stessi. Diversi eravamo solo noi.

Nell’editoriale di apertura dell’ultimo numero di CONTRO (ottobre 1979) compagni e simpatizzanti erano sollecitati a rilanciare il dibattito e la riflessione all’interno della sinistra. Crediamo che questo invito non andrà deserto. Esso rappresenta infatti un’esigenza che tutti, in questo momento, sentiamo profonda dentro di noi e diffusa attorno a noi. Soprattutto, la interpreta nei termini nuovi in cui questa esigenza si pone: vale a dire come bisogno di prendere le distanze dalle vane e assurde beghe ideologiche che hanno caratterizzato la cultura “progressista” negli ultimi tempi, di dare finalmente alla nuova sinistra un’identità non ricalcata su velleitari modelli esotici, di costruire un nuovo rapporto attraverso e in funzione di una presenza più concreta nella dinamica politica e sociale del paese.

Una seria riflessione sullo stato e sugli obiettivi odierni della sinistra non può esimersi, a mio giudizio, da uno sforzo preventivo di chiarimento e di intesa sul valore stesso del termine “sinistra”. Non si tratta di trovare la formula che risolva un secolo e mezzo di dibattiti, di incomprensioni o di vere e proprie lotte: più semplicemente, vanno individuati punti di riferimento comuni che consentano di discutere e di lavorare assieme senza equivoci. Per questo motivo è necessario riprendere e ribadire concetti che possono apparire scontati e acquisiti: me ne scuso in anticipo, ma ritengo che ciò giovi alla chiarezza.

È scontato, ad esempio, che le grandi formazioni partitiche tradizionalmente legate alla classe lavoratrice non esauriscono oggi, come non hanno mai esaurito, il potenziale di prassi e di teorizzazione politica implicito nell’essere “a sinistra”. Addirittura, i partiti storici, in quanto coautori dell’attuale forma di dominio politico, sono entrati in simbiosi col sistema ed hanno finito per farsi garanti della sua sopravvivenza. E tuttavia, nell’ottica dell’esercizio di una opposizione concreta o alla ricerca di un’alternativa di potere a scadenze non troppo remote non si può prescindere dall’esistenza di queste forze e dalla necessità di instaurare con esse un rapporto non ambiguo e non puramente tattico. Ci si deve allora chiedere entro quali confini e su che basi può muoversi la ricerca di una intesa, ovvero, per arrivare ad una enunciazione meno sfumata del problema, quali tra queste forze sono recuperabili in un progetto di rifondazione della sinistra, e in che misura. Né meno urgenti sono un confronto ed una chiarificazione su questo piano con altre forme organizzate che percorrono vie diverse ed originali ai margini della sinistra storica, dal radicalismo all’Autonomia.

È anche scontato che la connotazione “di sinistra” non copre un’area ideologica omogenea e perfettamente definita nei suoi contorni. Ad un “pensiero di sinistra” sono grosso modo rivendicabili tutte le teorie socio-economiche esprimenti il rifiuto del modo di produzione capitalistico e del tipo di organizzazione sociale che ne consegue, e informate alla prospettiva di una società non classista (quest’ultima condizione costituendo la discriminante primaria nei confronti delle altre forme di anticapitalismo, cattolico o laico di destra, che ipotizzano invece un ordinamento societario gerarchizzato).

Dobbiamo tuttavia chiederci se rientrano in esso (e nel caso, in che misura) anche quelle posizioni che il rifiuto intendono in termini non fattivamente antagonistici, ma come difesa (movimenti ecologici) o addirittura come fuga ed estraniamento (dal fenomeno hippie ai periodici revivals orientalistici). In questo senso sarebbe opportuna, ad esempio, una riflessione meno superficiale sul movimento nordamericano degli anni sessanta e sui suoi esiti attuali, che sappia scorgervi la prefigurazione delle tendenze involutive della sinistra in uno stadio di avanzata realizzazione del modello sociale capitalistico (naturalmente, fatte le debite distinzioni…).

Niente affatto scontata, invece, e quindi tanto più necessaria, mi sembra la presa di coscienza nei confronti di alcune realtà sino ad oggi testardamente ignorate in nome di vecchi miti: primo tra tutte il processo di uniformazione che il capitale, nel suo aspetto totalizzante, ha innescato. Mi riferisco alla dissoluzione, sia pure per il momento limitata al piano formale e operante su scale diversificate, dei confini di classe rispetto alla nuova attività primaria, quella del consumo. È su questa base ormai che il capitale tende a perpetuare il suo dominio. Anche lo sfruttamento della forza-lavoro è destinato a passare in second’ordine, dal momento che il capitale comincia già a fare ricorso, per la soddisfazione delle sue esigenze produttive, all’alta tecnologia della robotizzazione e dell’automazione. Esso mira a sviluppare nei propri confronti un nuovo tipo di subordinazione, consensuale, incentivando un consumo opportunamente caricato di valenze indotte (prestigio sociale, “realizzazione”, liberazione ecc…). La devalorizzazione della forza-lavoro e il carattere antagonistico del consumo fanno emergere nell’ambito della classe lavoratrice atteggiamenti corporativistici che sono il primo passo verso la dissoluzione della classe in sé e verso una sorta di atomizzazione sociale.

A questo proposito va riesaminato criticamente, ad esempio, il ruolo dei sindacati, che barattando troppo spesso l’utile immediato, magari anche in termini di potere contrattuale, con l’assecondamento di queste tendenze, hanno funto da cinghie di trasmissione del nuovo meccanismo capitalistico. E va accettato il fatto che lo scontro non si dà più immediatamente tra le classi, ma tra il capitale autonomizzato, mirante ad una superiore razionalità distributivo-consumistica, e la coscienza che questa operazione, una volta permessa, è irreversibile: coscienza che non è più di classe, ma postula altre determinazioni, meno automatiche, dell’ “essere a sinistra”.

Un’ulteriore conferma di questa nuova realtà ci viene, se ce ne fosse bisogno, proprio in questi giorni da Torino: sono esempi clamorosi di scarsa combattività operaia e delle forme esasperate in cui la combattività residua è costretta a esprimersi nelle minoranze. Ma lo stravolgimento di significato degli strumenti tradizionali di lotta è un dato su cui da tempo si sarebbe dovuto riflettere maggiormente. Fino agli anni sessanta ogni sciopero costituiva un momento di aggregazione allargato a tutti gli altri spezzoni della classe operaia. La lotta tendeva con facilità a generalizzarsi, nelle componenti come negli obiettivi. Oggi non possiamo nasconderci che lo sciopero sortisce in realtà effetti disgreganti: ogni categoria si sente danneggiata, più che stimolata, dalla lotta delle altre: e proprio su questi presupposti riesce a passare un discorso sino a qualche tempo fa inconcepibile, come quello dell’autoregolamentazione. D’altro canto, gli stessi scioperi generali e nazionali non sono più un’espressione di lotta economica e sociale, ma vengono usati come strumento di dissuasione o di spinta nelle situazioni di stallo politico. da momento più alto della conflittualità spontanea essi sono diventati il paradigma della involuzione burocratica.

A volerli cogliere, comunque, gli indizi di questa perdita di fiato dell’opposizione tradizionale sono infiniti, non ultimo quello della resa della protesta giovanile, del suo incanalamento in direzione iperconsumistica (e in ciò il capitale ha potuto giovarsi anche della ingenua complicità di frange della nuova sinistra, Lotta Continua in testa), ecc…

Mi rendo conto che queste note circa ciò che la sinistra non è, o non è più, rimangono vaghe e possono dare luogo ad interpretazioni distorte. Esse tuttavia si pongono soltanto come spunti per il dibattito e confidano nella volontà e nella capacità di non fraintendere da parte di chi al dibattito stesso è interessato. Lo stesso vale per le brevi considerazioni su ciò che ritengo la sinistra dovrebbe essere.

Sinistra è innanzitutto un modo di pensare, di agire, di essere con se stessi e con gli altri. Una militanza quindi che non ha confini privati o politici, non nel senso che all’una dimensione vada sacrificato tutto il resto, né nell’ottica di un recupero a dimensione politica di qualsiasi forma d’espressione (per intenderci, non ha niente a che fare con la sinistra non solo il “bucarsi” ma anche il drogarsi intellettualmente con qualsivoglia forma di fanatismo intellettuale, sportivo, musicale, ecc…). Una militanza che non conosce riflussi, fondata sulla convinzione che il miglior modo di preparare la via alla società socialista sia quello di vivere già, nell’arco del possibile, i rapporti umani ipotizzabili in tale società.

In questo senso sinistra è quindi capirsi, in primo luogo farsi capire (e ciò dovrebbe valere tanto più in questo dibattito): un problema di linguaggio, anche nel senso più esteso, ma insisterei soprattutto nel senso più elementare del termine. Quella che si autodefinisce “cultura progressista” ha finito infatti per adottare un linguaggio esoterico e cifrato, e per creare emarginati di doppio tipo: da un lato chi parla, portato a privilegiare se stesso come interlocutore, a “sentirsi parlare” e quindi a perdere il contatto con chi ascolta: dall’altro quest’ultimo, che o reagisce passivamente, fingendo di capire ciò che non capisce (anche perché spesso non c’è niente da capire) o si volge a ciò che gli riesce più accessibile (mi riferisco soprattutto alle giovanissime generazioni, alle quali la scolarizzazione di massa non ha offerto molto sotto il profilo dell’arricchimento linguistico, e che si lasciano facilmente sedurre dalla semplicità del linguaggio televisivo –ma anche di quello concertistico, ecc…).

Il problema del linguaggio della sinistra va visto senza dubbio nel contesto più generale di una cultura ormai volta a funzioni prevalentemente decorative, all’interno della quale è già in fase avanzata il processo di omogeneizzazione. La verità è che dal punto di vista intellettuale è diventato difficile ormai distinguere una destra da una sinistra. Il caso dei “nuovi filosofi” e dell’uso indiscriminato che essi fanno di categorie un tempo esclusive dell’una o dell’altra parte ne è l’esempio più clamoroso. Quindi l’adozione generalizzata di forme espressive appunto esoteriche, proprie di una cultura elitaria, aristocratica, risponde ad una effettiva crisi di identità della cultura progressista. Essa troppo spesso soccombe alla propria mercificazione, degradandosi a prodotto di pronto consumo per il quale è più importante la confezione che non la sostanza (SPIRALI e compagnia). Anche in presenza di una maggiore serietà di intenti le cose cambiano poco. Riviste sul tipo di AUT AUT, che si candidano ad avanguardia culturale della sinistra, attuano in realtà un uso terroristico del linguaggio, impiegando veri e propri cifrari specialistici in relazione a concetti già di per sé tutt’altro che accessibili. In fondo, anche questo erigersi attorno una barriera linguistica è uno stratagemma per non confrontarsi con lo sfacelo delle idee.

Di fronte a questa babele, “sinistra” è quindi un’apertura ed una umiltà intellettuale che consenta di attingere criticamente a ciò che dalle più svariate direzioni può venire, e di usarlo senza preconcetti. Non si tratta di essere onnivori, ché in questa direzione il capitale ci dà comunque dei punti. Si tratta invece di raggiungere una maturità che ci consenta di aggirarci senza scudi ideologici, ma anche con una certa impermeabilità alle facili suggestioni, nel magma culturale odierno, e di trarne alimento. In questo senso si impone, ad esempio, il superamento di quella forma mentis determinata dalla chiusura degli sbocchi rivoluzionari in occidente e dalle delusioni relative all’URSS, che spingeva a cercare modelli e spunti nelle aree non ancora colonizzate dal capitale. Anche se a partire dal ‘68 essa ha subito un ridimensionamento, resta ancora vivo una sorta di rifiuto moralistico per tutto ciò che col capitale ha attinenza, ciò che impedisce di scorgere la possibilità di un uso alternativo dei prodotti (culturali o materiali) del capitale stesso.

Sinistra è infine un sacco di altre cose, più precise e più pregnanti probabilmente di queste accennate: esse troveranno spazio senza dubbio negli altri interventi. Su di una cosa soltanto credo di dover insistere e di dover chiedere un unanime consenso: sulla speranza che la sinistra non sia ancora morta, anche se il coma minaccia di diventare profondo.

 

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