Thalatta! Thalatta!

di Paolo Repetto, 15 novembre 2024

Mare, mare, mare
ma che voglia di arrivare
(da Mare mare di Luca Carboni,
cover dell’Anabasi di Senofonte)

Questo intervento nasce da una circostanza insolita, un estemporaneo reading nel quale si proponevano brani in prosa, poesie e testi di canzoni aventi per oggetto il mare. Per una peregrina associazione d’idee (peregrina perché ero capitato lì per caso e l’argomento non mi intrigava granché) mi è tornato in mente un piccolo saggio letto diversi anni fa, e poi dimenticato (non del tutto, evidentemente): si tratta di Terra e Mare, di Carl Schmitt. Ho citato la circostanza solo per ribadire un concetto cui sono molto affezionato, e cioè che occorre profittare positivamente davvero di tutto, lasciando sempre aperta la porta della conoscenza (o della reminiscenza), perché le cose passano lì davanti, e trovando aperto a volte entrano, anche senza essere esplicitamente invitate.

Ma veniamo a Carl Schmitt. Il personaggio è controverso: era un filosofo del diritto molto vicino, almeno nella fase nascente, al nazismo, del quale ambiva a diventare una sorta di guida spirituale. Diciamo che voleva “legittimare” il nazismo in punta di diritto, assunto decisamente improbo, vista la considerazione che del diritto, in tutte le sue accezioni, individuali o internazionali, i nazisti avevano. La cosa non garbava assolutamente a Himmler e alle sue SS, per cui il filosofo venne progressivamente emarginato, e quasi esiliato in patria, sino a tutto il secondo conflitto mondiale (una sorte molto simile a quella di Ernst Junger, col quale scrisse poi, nel 1953, un libro a quattro mani, Il nodo di Gordio). Schmitt peraltro non si ricredette e non rinnegò mai le sue posizioni originarie, limitandosi a sottolinearne la distanza da quelli che furono poi gli esiti “giuridici” del regime. Nel dopoguerra ha subito il destino di diversi altri suoi colleghi altrettanto e forse più compromessi, primo tra tutti Heidegger, che dopo un periodo di quarantena sono stati riesumati e reinterpretati. La riscoperta è avvenuta soprattutto all’interno di un filone di pensiero filosofico-politico che fa riferimento genericamente alla sinistra, ma che ormai, dopo che la conclamata fine delle appartenenze ha sdoganato tutto, dovremmo definire più propriamente post-moderno (quello per intenderci che va da Toni Negri ad Agamben, a Vattimo, allo stesso Cacciari, e che paradossalmente arriva a comprendere la “nouvelle droite” francese e il suo “maître à penser” Alain de Benoit).

Thalatta! Thalatta 02Terra e mare è stato scritto da Schmitt nel 1942, in un periodo nel quale il giurista, attento a non crearsi ulteriori problemi discettando di politica, si era dedicato piuttosto agli studi storici, e cercava conferme a una sua lettura quasi gnostica della storia: conferme che non aveva difficoltà a trovare, stante l’infuriare del conflitto e la convinzione di essere in presenza di cambiamenti epocali. Lo faceva presumendo per sé una condizione da iniziato, quella di chi va oltre la pura conoscenza dei fatti e delle vicende contingenti, e si spinge fino a riconoscere la trama segreta (che definisce ripetutamente “arcana”) entro la quale gli eventi si inseriscono e vanno letti. Di chi in sostanza cerca una verità esoterica, nascosta e negata anche agli “addetti ai lavori”, agli storici più qualificati. È un’interpretazione che sotto certi aspetti non esiterei a definire “complottista”, e questo è forse il motivo per cui avevo rimosso il testo: non manca tuttavia di offrire spunti di riflessione che, opportunamente depurati, possono rivelarsi fecondi.

Ci torno su dunque prescindendo per quanto possibile dal passato di Schmitt, dalle sue responsabilità e da qualsiasi giudizio sulle implicazioni politiche del suo pensiero: mi interessa solo seguire la sua particolare versione della storia dell’umanità.

Come premessa Schmitt rispolvera, sia pure in chiave metaforica, la teoria presocratica dei quattro elementi naturali, terra, acqua, aria e fuoco, che stanno all’origine della vita e che a suo parere condizionano la storia, quella naturale ma anche quella culturale. Questo a dispetto del fatto che la scienza abbia destituito di ogni fondamento la natura di sostanza semplice dei quattro elementi classici. “Nella nostra riflessione storica – scrive – possiamo attenerci ai quattro elementi, che per noi sono nomi semplici e intuitivi, caratterizzazioni generali che rinviano a differenti grandi possibilità dell’esistenza umana. […] Gli elementi di cui parlerò qui di seguito non sono dunque da intendere come grandezze meramente naturalistiche”.

Ho parlato di chiave metaforica, ma sono convinto che in qualche modo alle “proprietà” degli elementi primordiali Schmitt credesse veramente. Nel senso, almeno, che riteneva fondamentale l’influsso da questi esercitato non solo sui singoli individui, ma su intere comunità, su interi popoli. Che esistessero cioè «popoli “autoctoni” – cioè nati sulla terra – e popoli “autotalassici” – cioè foggiati esclusivamente dal mare, che non hanno mai calcato la terra e per i quali la terraferma non rappresentava altro che il confine della loro esistenza puramente marittima». E il ricorso ad un senso della natura precedente il “disincanto”, la “dissacrazione” del mondo avviata da Platone e Aristotele prima, e proseguita da Galileo, da Copernico e da tutta la scienza moderna poi, è perfettamente funzionale al percorso che il politico-giurista vuole disvelare.

Secondo Schmitt infatti l’antagonismo tra popoli “di terra” e popoli marittimi è il motore della storia delle civiltà, e il senso di questa storia lo si può intravedere analizzando le fasi dell’ostilità radicale tra ordinamenti tellurici e acquei.

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Ora, è evidente che in linea generale l’uomo ha carattere essenzialmente terraneo. È figlio della terra, “cammina e si muove sulla solida terra […] e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Ma possiamo davvero dire “che l’esistenza umana e l’essere umano sono, nella loro essenza, puramente terrestri, e hanno solo la terra come riferimento? In fondo, nelle reminiscenze remote, spesso inconsce degli uomini, l’acqua e il mare rappresentano il misterioso fondamento originario di ogni vita”. Non solo; anche le recenti ricostruzioni evoluzionistiche ci attribuiscono un’origine oceanica, e sopravvivono ancora oggi “uomini-pesce la cui intera esistenza, l’immaginario e la lingua sono riferiti al mare” (cita ad esempio i navigatori polinesiani, i Canachi, ecc …). Questo apre scenari diversi. Ma non bisogna pensare a una determinazione ambientale, “perché – scrive Schmitt – se l’uomo non fosse altro che un essere interamente determinato dal suo ambiente, non vi sarebbe alcuna storia umana intesa come agire umano e deliberazione umana. Invece l’uomo ha la forza di conquistare storicamente la sua esistenza e la sua coscienza […] gode della libertà d’azione, e in determinati momenti storici può scegliere addirittura un elemento quale nuova forma complessiva della sua esistenza storica, decidendosi e organizzandosi per esso attraverso la sua azione e la sua opera”. Come e quando ciò sia avvenuto è appunto quel che Schmitt vuole raccontare.

Thalatta! Thalatta 04L’evidenza di una conflittualità primordiale tra i due ordini Schmitt la trova già nella narrazione biblica, laddove si fa riferimento a più riprese all’epica lotta tra Behemoth, bestia terrestre, e Leviathan, mostro marino. Non insiste poi sui riferimenti che potrebbe rintracciare anche nella mitologia greca, ma passa direttamente alla protostoria, con la vicenda di Creta, civiltà marittima che impone il suo controllo sul Mediterraneo orientale, e alla storia, con Atene che sconfigge soprattutto sul mare la potenza terranea persiana. Per contro Roma, civiltà “terrestre”, trionfa qualche secolo dopo sulla marittima Cartagine (ma solo in virtù di un rapidissimo adeguamento alla nuova “guerra ibrida”, combattuta sia per terra che sul mare). E dopo il crollo dell’Impero d’occidente, è Bisanzio con le sue navi a fungere da freno (ovvero, come dice Schmitt, da katechon) alle forze storiche avversarie. Nel frattempo a nord e nel Mediterraneo sudorientale si affermano altre potenze marinare: i vichinghi e i pirati saraceni. Poco più tardi le crociate saranno guidate da condottieri che sono espressione di una cultura militare e politica tutta terranea, ma a trarne il maggior profitto sarà la potenza marittima veneziana (stranamente Schmitt ignora quella genovese).

Il bilancio complessivo vede però prevalere fino a questo punto la civiltà terranea. Venezia stessa rimane pur sempre una civiltà costiera, che dispone quasi esclusivamente di navi a remi adatte al piccolo cabotaggio: gli scontri navali si risolvono in abbordaggi e nei combattimenti corpo a corpo sulle tolde delle navi, e soprattutto la navigazione non si spinge negli oceani, ma rimane ancorata al Mediterraneo. Esattamente come accadeva ai tempi di Temistocle e di Euribiade.

In sostanza, non cambia la visione del mondo: per tutto il medioevo il mare non rappresenta un elemento “alternativo” sul quale un popolo può basare le proprie fortune. Il vero cambiamento si ha invece nel XV secolo, con le scoperte geografiche, e prima ancora con le innovazioni che le rendono possibili: tra tutte l’adozione di vele orientabili che consentono di navigare anche controvento, ma anche tecniche costruttive che rivestono gli scafi di un fasciame a prova di oceano o che consentono di governare la nave con timoni a ruota, liberando il ponte. Anche sul piano militare la battaglia navale diventa un’altra cosa, grazie al posizionamento di bocche da fuoco a bordo delle imbarcazioni da guerra, per cui gli scontri si svolgono a distanza e non necessitano più di una superficie che simuli la terra.

A consentire il vero slancio verso il mare è dunque la scoperta di un nuovo mondo, che dischiude gli oceani e offre immensi spazi di conquista: e a questa corsa partecipano, in maniera e misura diversa, tutti i paesi europei, anche se sarà poi solo l’Inghilterra a raccogliere fino in fondo la sfida del mare.

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Cronologicamente Schmitt riconosce una priorità agli olandesi, attribuendo con una certa forzatura alla loro cantieristica la svolta tecnica decisiva (e nella sua ottica questa attribuzione appare giustificata). Tributa poi un romantico omaggio agli uomini che giovandosi di tali innovazioni portano le nuove tecnologie, le nuove ambizioni e il conseguente nuovo punto di vista in ogni angolo del mondo: i pirati, i corsari e i balenieri. Può sembrare una divagazione bizzarra, ma ha anch’essa un suo perché. I balenieri sono per Schmitt, lettore appassionato di Moby Dick, gli eroici scopritori di acque e terre sconosciute, che affrontavano il Leviatano coi loro arpioni nei mari freddi del nord, si fondevano con l’elemento marino e ne conoscevano gli abissi. “Era un combattimento mortale fra due esseri viventi che, senza essere pesci nel senso zoologico, si muovevano entrambi nell’elemento del mare”, nel quale si creava “un intimo legame di amicizia-ostilità tra il cacciatore e la sua preda”.

Quanto ai pirati e ai corsari di tutte le nazioni, sottolinea che tanto gli ugonotti francesi che i puritani inglesi e i calvinisti olandesi, tra i quali soprattutto per due secoli furono arruolati gli “scorridori” dei mari, professavano lo stesso credo protestante e avevano un comune nemico politico, ossia la Spagna, la potenza mondiale cattolica. Ora, il protestantesimo, e massime il calvinismo con la sua idea di predestinazione, ha una vocazione individualista-universalista che trascende lo spazio della comunità, istituendo un rapporto diretto tra il singolo e Dio. Ciò significa che sul singolo ricade una maggiore responsabilità, ma anche che questa ultima è connessa a una maggiore libertà, a una reale possibilità di scegliere il proprio destino (e qui Schmitt pesca più o meno direttamente da Max Weber). Tutto questo produce una serie di risvolti economici, politici e giuridici che vedremo.

Insomma: per Schmitt i popoli cattolici hanno un rapporto con la terra assai più intenso rispetto a quelli protestanti, che sono invece aperti al mare e all’industria. In questo senso, come l’etica protestante ha sospinto lo spirito capitalistico, analogamente può dirsi che l’élite protestante, motivata dalla forte presunzione di una propria “superiorità” morale e spirituale, ha fornito il supporto ideologico e le energie umane alla scelta per il mare.

Esiste anche una connessione significativa tra elemento marittimo e capitalismo. Quest’ultimo nasce dall’arricchimento derivante dal “capitalismo di rapina”. Gli inglesi divengono ricchi navigatori anche in virtù delle grassazioni dei loro corsari, e l’Inghilterra decide infine per il mare, per il capitalismo, per la “deterritorialità” e la “destatualità”, per l’universalismo, non solo ereditando la tradizione marittima e le imprese oceaniche di tutti gli altri popoli europei, ma saccheggiandone le ricchezze necessariamente affidate al trasporto via mare.

Fin qui, come si è visto, lo spunto usato da Schmitt per reinterpretare la storia universale non è affatto originale. Fa riferimento a Hegel, che nei Lineamenti di filosofia del diritto naturale e scienze della terra rigettava il determinismo ambientale proposto ad esempio da Montesquieu (per il quale i diversi caratteri degli uomini e dei popoli sono legati agli influssi del clima e della conformazione del suolo), e considerava invece fondamentale l’opposizione terra-mare per accedere a un livello di interpretazione storico-filosofica più alto e universale. Hegel scriveva ad esempio: «Come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il “fondo” e il “terreno› stabile”, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il “mare”. Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio. In tal modo, inoltre, attraverso questo superiore mezzo di collegamento, l’industria ingloba delle terre lontane all’interno del traffico commerciale – cioè di un rapporto giuridico che introduce il contratto –, e in questo traffico rinviene al tempo stesso il massimo mezzo di civilizzazione. Qui il commercio riceve il proprio significato cosmostorico».

L’originalità di Schmitt sta dunque solo nella valutazione che dà di questo processo storico e del suo temporaneo esito, che non è altrettanto positiva di quella di Hegel, e apre comunque altri scenari. Va considerato, tra parentesi, che per entrambi i filosofi tedeschi la vicenda inglese è emblematica, ma mentre Hegel parla di un’Inghilterra all’epoca sua alleata della Prussia, e per molti aspetti riferimento alto di civiltà, Schmitt la vede invece come la potenza nemica per eccellenza del suo Reich. Non parla di “perfida Albione”, ma insomma, non mostra nemmeno una calda simpatia. D’altro canto, qui le simpatie c’entrano poco: deve trattarla per quello che rappresenta nel quadro dialettico che sta tratteggiando.

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Con l’Inghilterra infatti siamo per Schmitt di fronte a un caso unico. La sua peculiarità, la sua unicità consistono nel fatto che “l’Inghilterra compì una trasformazione elementare in un momento storico e in un modo del tutto differenti da quelli delle precedenti potenze marittime, trasferendo cioè veramente la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. Essa così non vinse soltanto molte battaglie navali e molte guerre […], ma anche […] una rivoluzione di immensa portata, una rivoluzione spaziale”.

Analogamente a quanto già fatto nei confronti degli elementi, qui Schmitt si svincola dalle concezioni della spazialità proprie delle scienze naturalistiche. La concezione dello spazio, scrive, muta a seconda dell’osservatore, delle sue esperienze, della sua vita: un contadino, un marinaio o un aviatore hanno evidentemente dello spazio esperienze ben diverse. Anche in questo caso, nulla di particolarmente originale: Jules Michelet, ad esempio, aveva già trattato ampiamente questo tema un secolo prima, ne La mer. Ma per il giurista tedesco le differenze di sguardo sono ancora più grandi e profonde quando si tratta nel complesso di popoli diversi e di diverse epoche della storia dell’umanità. Lo spazio viene infatti costruito e costantemente ridefinito dallo sprigionarsi delle energie storiche. Cambia a seconda dei parametri che si adottano per misurarlo, dei tempi necessari per percorrerlo e dei modi in cui lo si fa. A dimostrazione porta gli esempi di grandi rivoluzioni spaziali avvenute nell’antichità. Quella di Alessandro il Grande, che violò le porte dell’oriente e mise a contatto ravvicinato delle culture prima contrapposte. Quella di Giulio Cesare, che conquistò la Gallia e la Britannia dilatando uno spazio politico che un secolo dopo copriva tutte le coste meridionali del Mediterraneo e arrivava a settentrione all’Atlantico. Quella determinata dalla comparsa sulla scena mondiale dell’Islam, che costrinse per secoli l’Europa a rinchiudersi in se stessa e in un rapporto quasi esclusivo con l’economia (e la cultura) della terra. Quella infine prodotta dalle crociate, a partire dal XII secolo, che riaprì i traffici commerciali e culturali col Vicino Oriente, avviando così nuovi traffici commerciali, e indusse una volta ancora un cambiamento nel concetto di spazio.

Nulla di tutto ciò è tuttavia paragonabile, per Schmitt, a quanto avviene nei secoli XVI e XVII. Non si tratta più soltanto di un adeguamento “quantitativo” nella percezione della spazialità, ma di una vera e propria rivoluzione spaziale, con tutto quello che comporta sotto il profilo culturale. La scoperta di mondi nuovi al di là dell’oceano fornisce la definitiva conferma della sfericità del globo terrestre e prelude anche alla rivoluzione copernicana, all’eliocentrismo, alla definizione delle orbite terrestri, all’idea di un universo infinito, alla formulazione della legge di gravità. Anzi, secondo Schmitt l’ordine andrebbe invertito: è proprio il rivoluzionamento del concetto di spazio ad aver consentito la scoperta di un nuovo continente e di nuovi oceani, piuttosto che il contrario. Altri prima di Colombo avevano toccato le coste americane, ma senza che questo originasse la coscienza di una “scoperta”. La scoperta implica infatti energie spirituali e consapevolezza storica superiori rispetto a ciò che viene scoperto: “Occorre una trasformazione dei concetti di spazio che abbracci tutti i livelli e gli ambiti dell’esistenza umana”.

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Qui Schmitt approda al campo di ricerca che gli è più congeniale. Questo rivoluzionamento del concetto di spazio cambia lo stato giuridico (il nomos) delle terre scoperte (e di chi le abita), che vengono conquistate, spartite e sfruttate dai popoli europei schiavizzando o addirittura eliminando le popolazioni indigene. Lo fanno invocando quali giustificazioni giuridiche la diffusione del cristianesimo prima e la civilizzazione di genti barbare dopo: “Da tali giustificazioni nacque un diritto internazionale cristiano-europeo, ossia una comunità dei popoli cristiani d’Europa contrapposti al resto del mondo. Questi popoli costituirono una famiglia delle nazioni, un ordinamento interstatale” che prevedeva un diritto internazionale dal quale i popoli non cristiani erano esclusi, o rappresentavano al più un oggetto. “L’epoca delle scoperte può essere definita altrettanto bene – e forse in modo ancora più esatto – come l’epoca della conquista di terra da parte dell’Europa”.

Il nuovo diritto non è dunque più quello della medioevale res publica cristiana. I popoli che hanno aderito alla riforma non riconoscono la spartizione (la raya) tracciata dall’autorità papale, e portano avanti una ridefinizione del nomos, del diritto terrestre e marittimo, che culmina in quello che diverrà lo jus publicum europaeum, il nuovo diritto internazionale, dettato dalla potenza inglese in quanto dominatrice dei mari.

Insomma, gli europei considerano i territori d’oltreoceano come terra aperta alla conquista, nella quale non valgono le stesse regole e le stesse autorità valide nel vecchio continente. Questi territori sono intesi, si potrebbe dire, più come una continuazione del mare che come un’appendice del suolo europeo, e in quanto tali consentono libero corso alle ambizioni dei nuovi soggetti politici che si affacciano alla ribalta della storia.

Sto semplificando molto, ma la sostanza dell’analisi di Schmitt è questa. Il disconoscimento dei poteri ai quali faceva riferimento la normativa precedente, il papato e l’impero, determina una crisi di legittimità. L’idea di una casa comune cristiana, sulla quale bene o male tutto il medioevo si era retto, si dissolve, e ciò innesca situazioni di conflitto che sono diverse nelle cause, nei modi e negli esiti da quelle del mondo antico e medioevale. Dapprima almeno ufficialmente questi conflitti mantengono un carattere di scontro religioso (la guerra dei trent’anni, ad esempio), ma assumono poi via via le valenze di guerre civili.

Ora, per comporre queste conflittualità cruente e indiscriminate (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes) si afferma sempre più lo Stato “moderno”, che regolamenta gli scontri e definisce la linea amico/nemico, sulla base però di una inimicizia orientata all’appropriazione territoriale. La politica dello stato è una politica di potenza, e funziona giocoforza a detrimento di altre entità statali-territoriali, perché la potenza, nella prospettiva continentale. si misura essenzialmente nella quantità di territorio controllato. Regolamentare gli scontri non significa dunque liquidarli. Significa “formalizzarli”, dettare regole per la loro conduzione (ad esempio, una guerra si inizia con una dichiarazione di guerra e si chiude con un armistizio), per quanto possibile senza coinvolgere i civili e facendo un uso moderato della violenza: in pratica al nemico viene riconosciuto uno status giuridico, ne vengono considerate, anche se non accettate, le ragioni. Tutto questo naturalmente in linea teorica, perché poi la dicotomia amico/nemico può essere estesa fino all’annientamento fisico dell’avversario. È comunque evidente che queste regole valgono solo fino a quando l’elemento di riferimento rimane la terra, sulla quale hanno senso dei confini e le distinzioni che questi impongono. La violenza viene dunque limitata nel Vecchio Continente, ma può esplodere senza vincoli sul mare e nei territori extraeuropei.

Ecco che si chiarisce allora il ruolo dei pirati e dei corsari di cui sopra. Hanno aperto un fronte nuovo, i primi scorrazzando per i mari come nemici di tutti, hostes humani generis, i secondi facendolo come “imprenditori privati”, autorizzati da lettere di corsa rilasciate dai loro governi ad arrembare le navi nemiche. Gli uni e gli altri hanno annunciato la grande trasformazione, anticipando il nuovo equilibrio tra elementi e tra continenti.

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In sostanza: il mare – che appare infinito, illimitato e sempre uguale a se stesso – a differenza della terra rimane libero per la pesca, la navigazione pacifica e la belligeranza. Rimanda in fondo allo stato di natura. La guerra che si combatte su di esso è guerra indiscriminata di preda e di distruzione, coinvolge tutto il naviglio battente bandiera nemica e persino le navi di paesi neutrali che commercino col nemico. La guerra terrestre mirava invece alla conquista di territorio e dunque a preservarne la popolazione, le risorse e l’ordine pubblico. Anche un’occupazione temporanea tendeva pur sempre alla conservazione dell’ordine sociale e dell’ordinamento giuridico vigente, se in linea con lo standard europeo.

La trasformazione agisce ancor più in profondità. Come abbiamo già visto sottolineare da Hegel, l’opzione per un’espansione marittima si è rivelata assolutamente funzionale alla rivoluzione industriale. Le innovazioni tecniche hanno senz’altro facilitato anche gli spostamenti via terra, ma per la traversata e la conquista dei mari sono addirittura cruciali. Il controllo e il dominio progressivo dell’elemento marino si sono immediatamente legati al progresso dell’equipaggiamento tecnico, che ha diminuito i rischi, sollecitato l’azzardo e alimentato la fiducia in una libertà senza limiti. Tradotto in concreto, questi stimoli e le risposte che hanno dettato hanno costituito il volano per le scoperte industriali che tra Settecento e Ottocento hanno valso all’Inghilterra il primato tecnologico ed economico.

L’epoca del libero commercio fu anche l’epoca del libero dispiegarsi della superiorità industriale ed economica dell’Inghilterra. Libero mare e libero mercato mondiale si unirono in una idea di libertà di cui solo l’Inghilterra poteva essere il latore e il custode”. Un’idea di libertà che si traduceva anche nell’aspettativa (non solo da parte degli inglesi, ma di tutto il mondo in via di industrializzazione), legata al rapido incremento della ricchezza, di un Paradiso terrestre millenario.

E tuttavia, durante la fase quasi bisecolare di dominio sul mondo, un dominio che sembrava definitivo, la rivoluzione industriale stava producendo anche una rivoluzione rispetto all’essenza stessa dell’isola e una mutazione antropologica della sua gente: “Da grande pesce il Leviatano si trasformò in macchina […]. La macchina mutò il rapporto dell’uomo con il mare. La temeraria specie di uomini che fino a quel momento aveva fatto la grandezza della potenza marittima perse il suo antico significato. […] Tra l’elemento del mare e l’esistenza dell’uomo si frappose un dispositivo meccanico”.

Secondo Schmitt altro è misurarsi col mare in un corpo a corpo, altro è invece un dominio meccanizzato, dovuto alla tecnologia navale sviluppata. “L’esistenza puramente marittima – il segreto della potenza mondiale britannica – era stata colpita nella sua essenza […]. Il mare rimase un forgiatore di uomini, ma l’azione di quella spinta che aveva trasformato un popolo di pastori in corsari diminuì, e a poco a poco cessò”.

E così, già all’alba del ventesimo secolo lo spazio d’azione delle grandi potenze si era talmente ampliato da non consentire più un predominio marittimo britannico. Si affacciavano sulla scena altri concorrenti, aventi alle spalle un potenziale industriale ben maggiore (gli Stati Uniti, ad esempio, ma anche la stessa Germania). Soprattutto però si stavano aprendo le altre due dimensioni, quella dell’aria con l’invenzione degli aeroplani e le applicazioni dell’elettricità, e quella del fuoco con i motori a combustione e con le bombe deflagranti e detonanti.

Sugli sviluppi futuri Schmitt è molto prudente. Non dimentichiamo che scrive in Germania, nel bel mezzo del conflitto più spaventoso che l’umanità abbia mai conosciuto, mentre la Luftwaffe è appena uscita sostanzialmente sconfitta dalla battaglia aerea d’Inghilterra e l’Operazione Barbarossa ha bruciato oltre mezzo milione di veicoli e milioni di uomini sul fronte russo. Sono avvenimenti che confermano da un lato e smentiscono dall’altro le sue idee sul dominio dell’aria e della potenza di fuoco. Mentre già intravede il fallimento del progetto tedesco di espansione territoriale sul continente, gli riesce difficile immaginare un nuovo assetto dell’ordine mondiale.

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Si limita quindi a constatare che il nuovo stadio della rivoluzione spaziale ha già prodotto un ulteriore mutamento del concetto di spazio. “Oggi non concepiamo più lo spazio come una mera dimensione in profondità, vuota di qualsiasi contenuto pensabile. Lo spazio è diventato per noi il campo di forze dell’energia, dell’attività e del lavoro dell’uomo.” Il che, scritto ottanta anni fa, mostra una notevole capacità di preveggenza, se consideriamo che il fattore produttivo principale oggi è il lavoro immateriale, il traffico di informazioni che avviene appunto attraverso lo spazio aereo.

Inoltre “rispetto all’epoca dei velieri per l’uomo il mondo del mare è mutato elementarmente. Oggi, in tempo di pace, qualsiasi armatore può sapere giorno per giorno e ora per ora in quale preciso punto dell’oceano si trova la sua nave in mare aperto. Ma, se le cose stanno così, viene a cadere anche quella separazione di terra e mare su cui si fondava il legame durato sinora tra dominio marittimo e dominio mondiale”.

Insomma: “Cresce, inarrestabile e irresistibile, il bisogno di un nuovo nomos del nostro pianeta. Lo invocano le nuove relazioni dell’uomo con i vecchi e i nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni dell’esistenza umana”. In tutto questo “molti vedono solo un disordine privo di senso, laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento”.

Che il mutamento si sia verificato, e che sia stato radicale quanto e forse molto più di quello del XVI secolo, è indubbio. Che un nuovo senso si sia affermato, è già più discutibile: o almeno, si è senz’altro affermato, ma sarebbe assai difficile anche per Schmitt riconoscerlo. Direi che se gli antesignani dobbiamo coglierli, invece che nei corsari, nei filibustieri della finanza e nei pirati informatici, allora il futuro si annuncia davvero fosco.

Dovremmo cominciare a prendere in considerazione un quinto “elemento”, ignoto ai filosofi antichi: un virus spirituale malefico e istupidente, capace di convogliare ogni umana volontà di potenza in una voluttà di suicidio di tutta la specie.

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La cosa buffa, o preoccupante, a seconda di come la si vuol vedere, è che in realtà non intendevo fare l’esegesi della Weltanschauung di Schmitt. Spero lo si sia capito, perché altrimenti dovrei vergognarmi del risultato. Non rientrava nel mio progetto iniziale e nemmeno è nelle mie forze. Oltretutto, Schmitt non è affatto tra i miei autori di riferimento. È capitato però che, rileggendo Terra e Mare, mi sia reso conto di aver completamente trascurato in un precedente scritto sulla rivoluzione industriale inglese (Perché l’Inghilterra?) l’aspetto di cui vi si parla: che non sarà determinante quanto lo vorrebbe Schmitt, ma è comunque tutt’altro che trascurabile. Volevo dunque fare parziale ammenda di questa lacuna e nel contempo offrire un po’ di informazione a chi non conoscesse il libro. Ma soprattutto volevo giustificare alcune considerazioni che il reading prima e la rilettura di Terra e Mare poi hanno indotto.

Devo ammettere però che l’argomento mi ha preso la mano e a quel punto le mie considerazioni, che non riguardavano la storia del mondo, ma alcuni particolari aspetti del carattere, del mio e di quello di popoli che un poco conosco, sono passate in second’ordine. Mi limito dunque ad accennarle, ripromettendomi magari di tornarci su in altra occasione. Basterà questo comunque a rendere evidente che non sono in grado di abbandonarmi a una riflessione senza filtrarla attraverso le esperienze letterarie. È così, non posso farci nulla.

Sul mio rapporto col mare

Amo nuotare, ovunque, ma tanto più in mare. Dal momento che lo faccio quasi sempre in Liguria, quando mi spingo un po’ più al largo approfitto per abbandonarmi a galleggiare a morto, rivolto indietro a considerare l’arco dei primi contrafforti appenninici che chiudono lo sguardo a poche centinaia di metri, a volte a poche decine, dalla riva. Confronto quella barriera naturale con l’immagine che ho davanti, un orizzonte piatto e aperto e invitante, che una suggestione culturale mi fa percepire persino leggermente incurvato. E mi chiedo spesso da cosa sono maggiormente attratto. Da un lato c’è la sicurezza della terraferma, tanto più di una riva difesa alle spalle da una recinzione orografica che crea identità territoriale, racchiude un mondo che conosco e che mi è famigliare, anche se tecnicamente ne vivo al di fuori. Anzi, questa distanza mi porta a percepirne forse ancora meglio il particolare carattere aspramente “terrigno”. Dal lato opposto si apre la possibilità di fuga verso altri mondi, quali che siano, dove non valgono le stesse regole, le stesse consuetudini, lo stesso “nomos” direbbe Schmitt, che vale sulla mia terra. La possibilità di essere “un uomo libero, un orgoglioso nuotatore che fendeva l’acqua in cerca di un nuovo destino”, come Il Clandestino di Conrad. Ancora oggi, quando l’età mi ha tolto ogni voglia di sperimentare il nuovo e il diverso, e sempre più volentieri mi rifugio nella sicurezza del consueto, mi capita di rivolgermi la stessa domanda: magari ad una distanza sempre minore dalla riva, per cui la risposta parrebbe già implicita: ma ancora sto a chiedermi se il mio sia stato, al netto di esiti tutt’altro che clamorosi, uno spirito avventuroso o uno tranquillo, talassico o terraneo.

Se provo a interrogare le scienze naturali o quelle psicologiche ricevo risposte contraddittorie, almeno rispetto alle mie esperienze. Per la biologia il contatto e la vicinanza con l’acqua aumentano il rilascio di dopamina e serotonina, le sostanze chimiche collegate alla felicità. Per lo psicologo l’acqua non solo simboleggia la vita, ma anche la rinascita. Il movimento del mare e la sua immensità hanno un effetto quasi ipnotico, che genera una sensazione di tranquillità e benessere che ci permette di rigenerarci. In effetti, anche in molte religioni il mare viene considerato simbolo di purificazione. Per la psicanalisi poi il mare è una delle immagini più frequenti dell’inconscio, di quello personale come di quello collettivo. E via di questo passo.

Devo avere un metabolismo un po’ bizzarro, perché le sensazioni che il mare mi trasmette sono diverse. Su di me l’effetto è adrenalinico, non certo di tranquillità, ma di voglia di solcarlo, di penetrarlo. Non resisto cinque minuti sulla spiaggia, devo entrare in acqua e spingermi al largo. Byron descrive perfettamente questa pulsione ne Il pellegrinaggio del giovane Aroldo:

E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(e tra l’altro l’ha anche tradotta in vere imprese natatorie, come la traversata dei Dardanelli, ripetuta un secolo e mezzo dopo, a settant’anni, da Patrick Leigh Fermor, e da Charles Sprawson. Io, molto più modestamente, mi spostavo da Quarto a Bogliasco)

In gioventù ho anche navigato, sia pure per un breve periodo, e non su una nave da crociera ma imbarcato come mozzo (all’epoca la dizione, non so se ancora politicamente corretta, era “piccolo di camera”) su una petroliera: ebbene, la sensazione era la stessa: la voglia di andare avanti, di vedere altro mare. Non si trattava certo di una sfida, il natante su cui viaggiavo non era una barchetta a vela ma un mastodonte più che sicuro. Era piuttosto la strana sensazione di stare immerso in qualcosa che visto da riva, come scrive Michelet,” soprattutto quando c’è calma piatta e le onde si frangono tranquille e regolari sulla rena, ti trasmette il senso dell’instancabile eternità”, dalla quale non puoi che essere escluso: mentre visto da dentro, quando lo percorri, non appare più come quell’entità infinita ed eterna che ti respinge e ti annichilisce, ricordandoti la tua diversità. Ho anche constatato di non soffrire affatto il rollio o il beccheggio delle onde, neppure quando in mezzo a una tempesta erano particolarmente accentuati. Ancora dal giovane Aroldo:

Sull’acqua ancora una volta. Malgrado tutto sull’acqua!
E le onde sotto di me scalpitano come un destriero
Che conosce il suo cavaliere. Sia benvenuto il loro mugghiare!
Ovunque mi portino mi guidino rapide!

A quanto pare ho nelle vene un po’ di sangue inglese.

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… e sul mio rapporto con l’Inghilterra

Qui mi soccorre la lettura di Terra e Mare. Ho sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Naturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

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Infine: sui popoli di terra e su quelli di mare

Ricordo che mentre leggevo Il Mare di Michelet mi erano tornati in mente proprio i versi di Byron. Mi erano tornati in mente perché l’incipit del libro di Michelet trasmette un’immagine ben diversa: “Un coraggioso marinaio olandese, fermo e freddamente osservatore, che trascorre la sua vita in mare, dice francamente che la prima impressione che si riceve è la paura. L’acqua, per tutti gli esseri terrestri, è l’elemento non respirabile, l’elemento dell’asfissia. Barriera fatale, eterna, che separa irrimediabilmente i due mondi”.

E continua su questo tono, sottolineando come “Gli orientali vedono solo l’abisso amaro, la notte dell’abisso. In tutte le lingue antiche, dall’India all’Irlanda, il nome del mare ha come sinonimo o analogo il deserto e la notte. […] La massa immensa in estensione, enorme in profondità, che copre la maggior parte del globo, sembra un mondo di tenebre. Questo è soprattutto ciò che colse e intimidì i primi uomini […]”.

Quanto al rapporto con l’acqua marina, è l’esatto contrario di quello di Byron: “L’acqua del mare non ci rassicura in alcun modo con la sua trasparenza. Non è la simpatica ninfa delle sorgenti, delle limpide fontane. È opaca e pesante; colpisce forte. Chiunque vi si avventuri si sente fortemente spinto in alto. È vero che aiuta il nuotatore, ma lo controlla; e questi si sente come un bambino debole, cullato da una mano potente, che potrebbe facilmente spezzarlo”.

Il libro è poi in realtà tutto un peana ai doni del mare, ai benefici per la salute e per l’economia, ecc …. Ma con un rispetto che non è quello di Conrad. Intanto “Le piccole libertà audaci che ci prendiamo sulla superficie dell’elemento indomabile, la nostra audacia nell’incontrare questo profondo sconosciuto, sono poche, e non possono fare nulla per il giusto orgoglio che il mare mantiene, in realtà, chiuso, impenetrabile”.

Del resto anche Hegel aveva già affermato che “Il coraggio di fronte al mare deve essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento”.

Insomma, si direbbe che i popoli continentali, anche quelli che hanno avuto dei cantori del mare come Victor Hugo, Jules Verne o Pierre Loti, e sono bagnati su tre lati, col mare non abbiano mai conquistato la stessa confidenza degli inglesi. Questo vale tanto per i francesi (quando soggiorna in Bretagna e in Normandia, Michelet constata che i pescatori sono tutti ugonotti) e per gli spagnoli (i loro più grandi navigatori, Colombo e Magellano, arrivano da fuori) che per gli italiani: un po’ meno per i portoghesi e per gli olandesi. Per Hegel, e anche per Schmitt, in quanto tedeschi la cosa è già più comprensibile (ma ad Hegel non piacevano nemmeno le montagne, non piaceva nulla che non fosse immediatamente ric0onducibile sotto il dominio della ragione). Per quanto concerne gli italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, in fondo questi ultimi si sono storicamente formati sulle acque relativamente più tranquille del Mediterraneo. Dei santi conviene tacere, ma anche i nostri poeti non mostrano una particolare dimestichezza con l’elemento marino. Quando raramente ne parlano, come Montale in Maestrale, lo fanno dalla riva, avendo di fronte un mare placido:

S’è rifatta la calma
nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia.

La domanda a questo punto torna ad essere: gli inglesi sono diventati un popolo talassico per forza di cose, dal momento che vivevano su un’isola (ma allora i sardi? o gli abitanti dei Caraibi), o per una scelta spirituale, come in fondo afferma Schmitt e come già argomentava Michelet? (“La razza inglese – scrive quest’ultimo – ha riacquistato una forza straordinaria e un’attività estrema. Il suo rinnovamento lo deve prima al suo grande business (niente di sano come il movimento), poi, va detto, anche al cambiamento delle sue abitudini. Adottò un’altra dieta, un’altra educazione, un’altra medicina; tutti volevano essere forti per agire, commerciare, vincere.”)

Ma soprattutto: non è che il rapporto col mare agisca sui singoli individui come fa a livello delle popolazioni, e che anche là dove non è la causa sia quanto meno l’indizio di una precisa scelta esistenziale? Non c’è alcun giudizio di valore dietro questa domanda. Solo verrei capire se anch’io, sotto sotto, sono un calvinista.

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La breve bibliografia qui suggerita raccoglie sia i libri ai quali ho fatto diretto riferimento nel pezzo, sia alcuni di quelli che, senza comparire, lo hanno ispirato.

George Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, Kessinger 2010
Joseph Conrad, La linea d’ombra, Rizzoli 2008
Joseph Conrad, Il Clandestino, De Agostini 1982
Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani 2006
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Mursia 2016
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani 1961
Pierre Loti, Pescatore d’Islanda, Nutrimenti 2010
Jules Michelet, Il Mare, Elliot 2019
Eugenio Montale, Ossi di Seppia, Mondadori 1951
Vittorio G. Rossi, Oceano, Mondadori 1957
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1988
Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002
Senofonte, Anabasi, Rizzoli 2008
Stenio Solinas, Percorsi d’acqua, Ponte alle Grazie 2004
Charles Sprawson, L’ombra del massaggiatore nero, Adelphi 1995
Robert L. Stevenson, Nei Mari del Sud, Editori Riuniti 2002
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, Einaudi 2018

P.S. Una curiosità linguistica. Il mare è designato esclusivamente da un sostantivo maschile solo in italiano e in islandese. In inglese, in francese, in olandese, persino nel greco antico è al femminile, in spagnolo lo stesso termine può essere declinato in entrambi i generi. Vorrà dire qualcosa?

Rassegne e rassegnazione

di Paolo Repetto, 5 aprile 2024

Se la classe dirigente è fatta di imbecilli
immaginiamoci cosa possa essere la clientela media.

Fino a qualche anno fa comparivano regolarmente su La Settimana enigmistica (o magari compaiono ancora, non ho verificato) un paio di storiche rubriche, l’una titolata “Spigolature”, l’altra “Strano ma vero”. Raccoglievano in ordine sparso, senza alcun visibile criterio e con trattazione telegrafica, aneddoti e curiosità del tipo più disparato, dal gatto svizzero che giocando col telefono allerta la polizia all’invenzione dei catarifrangenti stradali (nel 1934, per chi fosse interessato), dalla storia di sant’Irmina di Treviri all’esistenza di oltre quattrocento varietà di agrifoglio. Se ricordo bene, l’unica differenza tra le due pagine stava nel fatto che la seconda era illustrata da vignette.

Si trattava in genere di informazioni banalissime, e quando non riuscivano tali erano comunque bizzarrie buttate lì a fare mucchio, e quindi totalmente inutili. Ciò nonostante, sino a quando La settimana enigmistica è rimasta l’ultimo nutrimento culturale di mia madre ho continuato a scorrerle avidamente: un po’ per una congenita coazione alla lettura, quella che m’imponeva di divorare tutto ciò che di scritto mi capitava sotto gli occhi, a tavola persino l’etichetta dell’acqua minerale (malgrado la conoscessi a memoria, perché si trattava sempre della stessa bottiglia, riempita con l’acqua del rubinetto), un po’ per la precoce e morbosa curiosità di indagare sino a che punto potesse spingersi la stupidità umana: e devo dare atto che entrambe le rubriche ne fornivano, non ho mai capito quanto involontariamente, degli esempi spassosissimi.

Bene, ho pensato di continuare a divertirmi proponendo io stesso una piccola antologia di “spigolature” recuperate nei quadernoni dalla copertina nera che ingombrano le mie scrivanie e i ripiani della mia biblioteca. Non ho seguito un criterio cronologico, e nemmeno avrei potuto farlo, perché si tratta di appunti, stralci di notizie e citazioni annotati frettolosamente sul primo spazio bianco disponibile, a margine di letture o di riflessioni estemporanee. Ho cercato qui di raccogliere quelli più recenti o che mi sembravano conservare un’inquietante (e tragica) attualità. Negli intenti avrebbero dovuto fornire lo spunto per futuri pezzi di costume o di approfondimento, di fatto sono poi rimasti lì, e forse è stato meglio così: nella forma grezza, e nel disordine sparso, sono più eloquenti di qualsiasi trattazione.

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Rassegne e rassegnazione 02Settembre 2023 – A Modena 160 persone hanno sborsato settanta euro a testa per seguire dal vivo il seminario di un “contattista”, un ex-ferroviere che parla coi marziani, razzola liberamente nelle basi nucleari russe ed è ospite quasi fisso di Red Ronnie (un giorno si dovrà anche parlare del dramma dei pensionamenti anticipati, in ferrovia o altrove, che hanno gettato un sacco di gente nella necessità di inventarsi le occupazioni più peregrine). L’incontro è durato otto ore e non comprendeva il servizio di buffet: chi voleva rifocillarsi durante la pausa pranzo o si accomodava al ristorante (pagando, naturalmente) o mangiava un panino sulla strada. Allo stesso prezzo si poteva anche seguire il seminario da remoto – risparmiando in questo caso le spese di viaggio e del pasto, ma perdendo la magia dell’incontro dal vivo col bagonghi. Comunque, a seguire tutta la faccenda via web erano iscritte diverse altre centinaia di persone.

Autunno 2023 – A Trevigiano Romano, vicino al lago di Bracciano, una veggente parla da sette anni a intervalli regolari con la Madonna (o con Gesù, se la Madonna ha altri impegni). Ultimamente s’intrattiene in realtà molto più con gli inquirenti, perché la fede di alcuni dei seguaci, che le avevano intestato piccoli patrimoni, comincia a vacillare.

In compenso a Manduria, nei pressi di Taranto, da trent’anni la Vergine dell’Eucaristia (o suo figlio) appaiono ad un’altra veggente – ecco dov’erano impegnati –, una che ha intrapreso la carriera giovanissima, e le trasmettono messaggi accorati. Il fenomeno non ha la stessa risonanza mediatica, mantiene un basso profilo, ma non manca del suo bravo seguito ed è approdato sui social. Chi volesse partecipare alla preghiera in diretta dalla Cappella della Celeste Verdura (si chiama così, lo giuro, il piccolo santuario che ospita periodicamente il miracolo), può farlo in qualsiasi momento su Facebook o sul canale ufficiale accessibile da Youtube.

Dov’è la novità? Infatti. Nulla di nuovo sotto il sole. Sono solo tre banalissimi casi di citrullaggine tra i mille altri analoghi che si possono raccattare con un giro in rete o spulciando i quotidiani. Niente naturalmente a confronto delle stigmate di Padre Pio, o di fenomeni “globali” come quelli dei rettiliani o dei terrapiattisti. Rispolverano però per l’ennesima volta le domande fondamentali, alle quali varrebbe la pena ogni tanto provare a rispondere, per un esercizio di igiene mentale. E cioè: possiamo ancora liquidare queste cose con una risata, o sarà bene cominciare seriamente a preoccuparci? E in un contesto del genere, non sarà opportuno ripensare il significato di “democrazia”?

Rassegne e rassegnazione 03Marzo 2019 – «La verità è che George Orwell era una creazione della CIA, indipendentemente dall’opinione che si ha sulla qualità letteraria delle sue opere. La CIA non aspettò un momento ad investire fondi per promuovere la sua opera. Era consapevole dell’effetto devastante che il messaggio di un presunto rappresentante dei valori della sinistra poteva avere su ampi settori dell’opinione pubblica. Come altri intellettuali di quel, e di questo, periodo, Orwell soccombette alla seduzione del facile successo e della rapida notorietà che rese possibile la trasmissione di un messaggio costruito dai creatori della “guerra fredda”. Ma la tragedia della sua memoria fu duplice. Da un lato, l’apertura di alcuni fascicoli polverosi del Foreign Office ne rivelò la personalità fraudolenta. L’assenza di scrupoli dello scrittore inglese era paragonabile solo a quella dei più spregevoli protagonisti dei suoi stessi romanzi.» (Manuel Medina, George Orwell: Breve biografia di un magnaccia al servizio della CIA, da Forum Marxismo Leninismo)

Medina è palesemente un idiota, e il sito che lo ospita potremmo considerarlo semplicemente patetico, da non spenderci neppure un secondo: non fosse che, al pari di molti altri blog (personalmente ne ho rintracciati almeno una quindicina: quando sono giù di corda amo perdere tempo in queste cose) testimonia il persistere in quella che si arroga l’etichetta di “sinistra dura e pura” di un atteggiamento antico nei confronti della cultura autenticamente libertaria. Mi è tornata infatti immediatamente in mente la stroncatura di 1984 pubblicata da Togliatti su Rinascita (1950): «Con la pubblicazione di 1984 di Orwell […] la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire! […] L’autore accumula con la maggiore diligenza tutte le più sceme tra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti.

Nel “partito” (metafora del Pcus) si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti […] Il capo del partito ha i baffi neri e il suo nemico mortale la barbetta a punta, a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie.

Le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell […] doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana.»

Questo era lo stile di Togliatti, aggressione, insulto e menzogna, fatto immediatamente proprio da tutta quell’intellighentjia comunista che “il migliore” aveva ramazzato nell’immediato dopoguerra, pescando in gran parte dalle file dei transfughi dell’ultima ora dal fascismo.

Ora, devo ammettere che nel clima di incipiente guerra fredda degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta quel linguaggio, persino quel livore, ci stavano: voglio dire, non che fossero giustificabili, ma almeno era comprensibile perché se ne facesse uso.

Quella modalità polemica (soprattutto il “negare l’evidenza dei fatti” che Togliatti contestava alla vittima del suo attacco), e, ciò che è peggio, la forma mentis sottostante, sono state fatta proprie però anche dalle generazioni successive: lo testimonia ad esempio lo sprezzo col quale Calvino liquidava Orwell nei tardi anni Sessanta, definendolo un “libellista di second’ordine” (in una lettera “aperta” a Geno Pampaloni) “portatore di uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo”. All’epoca Stalin era morto da un pezzo, e il regime sovietico aveva mostrato il suo vero volto. soffocando nel sangue dimostrazioni e rivolte popolari in Germania, in Polonia e in Ungheria. La miopia e il livore non erano più nemmeno comprensibili. Calvino avrebbe poi parzialmente ritrattato il suo giudizio solo vent’anni dopo, dicendo che il libro era stato mal compreso perché sin troppo anticipatore. Ma altri, come ad esempio Vattimo, ancora a metà degli anni Ottanta, dopo che Orwell era stato “riabilitato” persino da L’Unità, hanno insisto a ribadire che 1984 è “lontano dal nostro mondo, tranne che per un particolare: l’impotenza del potere, la sua disfunzione, la sua fatiscenza” e che “segue la moda della fantascienza stracciona, dell’utopia delle rovine”.

È un fiele che corre ancora oggi tanto nelle vene della sinistra nostalgica quanto in quelle dei sinistrati dalla decostruzione post-moderna, e non è affatto prerogativa di un uno sparuto branco di anime povere. Lo si nomini putinismo, o madurismo, o più genericamente anti-occidentalismo, ha i suoi referenti culturali proprio in quelle “aristocrazie intellettuali” che si chiamano ipocritamente (e spettacolarmente) fuori dalla società dello spettacolo.

Rassegne e rassegnazione 04Gennaio 2013 – “La Digos di Firenze ha operato il fermo di un giovane fiorentino ritenuto un componente del commando che la notte di capodanno ha incendiato otto automezzi di una ditta di latticini di Montelupo Fiorentino e provocato anche gravi danni al deposito merci. Il ventiduenne Filippo Serlupi D’Ongran, rampollo di una nobile famiglia, è ritenuto fra i responsabili anche di altri quattro episodi a firma ARD (Animal Liberation Front) commessi in Toscana a danno di strutture di macellazione.” Gli altri componenti del commando sono riparati all’estero e all’epoca erano ricercati. Non mi risulta abbiano subito condanne.

Ottobre 2019 – È morto Beppe Bigazzi, prima vittima italiana dell’intolleranza animalista, sospeso dalla Rai nel 2010 per aver osato ricordare un necessario ingrediente della sua remota infanzia toscana: il gatto.

Dicembre 2020 – Uno spot di Telefono Azzurro, lanciato in occasione della Giornata universale dei diritti dell’infanzia (il 20 novembre), mostra una casa in fiamme. Si sente un cane abbaiare, e un uomo entra in una stanza già aggredita dal fuoco. Su un divano ci sono due bambini terrorizzati e con loro un cane, quello appunto che ha abbaiato. L’uomo prende il cane in braccio e lo porta in salvo, lasciando i bambini al loro destino. Messaggio crudo e schiettamente esplicito: c’è troppa gente che si preoccupa degli animali e dimentica e trascura i cuccioli d’uomo, ribadito dall’hashtag: #Primaibambini. Lo spot è stato immediatamente sepolto dagli insulti e travolto dalle polemiche, ed è stato ritirato.

Agosto 2021 – Paul Farthing, un politico inglese, ex-deputato liberal-democratico, ha evacuato per via aerea dall’ Afghanistan in Inghilterra centosettanta cani e gatti. Ha poi dichiarato “Sono davvero profondamente triste per gli afghani”, e non si riferiva ai levrieri, ma agli umani. Che non ha ospitato sull’aereo, non c’era spazio.

28 Luglio 2022 – “Tante sono le storie d’amore che legano le persone ai loro animali che spesso diventano compagni di vita da cui è difficile separarsi. Adesso qualcosa è cambiato, a Santa Margherita potranno rimanere insieme “per sempre”, anche dopo il decesso, dove (!?) è arrivata in consiglio comunale la richiesta della sepoltura con le ceneri del proprio animale da compagnia”. (Comunicato del sito comunale)

Quanto costa uno psicologo per cani? La tariffa oraria per la visita comportamentale è di 90 €. Indicativamente la prima visita comportamentale richiede 75-90 minuti. Gli incontri successivi generalmente richiedono 60 minuti. Nel caso sia necessaria una visita a domicilio, verrà addebitato un costo di viaggio pari a 0,30 € /km (andata e ritorno).

Rassegne e rassegnazione 054 Dicembre 2023 – Gli attivisti del movimento ambientalista Ultima generazione hanno occupato le carreggiate dell’autostrada Roma-Civitavecchia all’altezza di Torrimpietra. Nel corso della protesta hanno utilizzato del mastice per incollare le mani sull’asfalto dell’autostrada. Secondo il racconto degli ambientalisti durante la loro iniziativa un automobilista è sceso dalla sua vettura e ha aggredito un attivista, quindi è risalito a bordo e ha tentato di investirne un altro. Le due persone non sono rimaste ferite in modo serio. La polizia ha poi (con tutta calma) rimosso il blocco e identificato i responsabili dell’iniziativa (organizzata contro l’utilizzo di carboni fossili). Sono stati tutti accompagnati negli uffici della polizia stradale, e prontamente rilasciati.

19 Dicembre – Roma: nuovo blocco di Ultima generazione sulla Salaria, un automobilista schiaffeggia l’attivista e si becca una denuncia.

23 Dicembre – Blitz di Ultima Generazione sotto Palazzo Chigi. I poliziotti portano via due attivisti, che urlano: “Mi stanno facendo male”!

Commento di un mio coetaneo: “Se questi rappresentano l’ultima generazione, sono fiero di essere avanti con gli anni”.

5 Marzo 2024 – Condannati ad 8 mesi per il reato di danneggiamento aggravato i tre attivisti di Ultima Generazione che il 2 gennaio dello scorso anno erano stati arrestati per aver imbrattato con vernice rosa la facciata di Palazzo Madama. “Un fatto commesso con violenza – ha detto il pubblico ministero – che ha provocato danni considerevoli: l’ingresso a Palazzo Madama è stato interrotto per 30 minuti (che sarebbe il male minore) e sono servite decine di migliaia di euro per il ripristino (questo sì che è grave)”.

Autunno 2023 – Nei giorni scorsi, a chi gli aveva chiesto cosa pensasse dell’iniziativa dei giovani di Ultima generazione, Luca Mercalli ha risposto: “Quante opere d’arte sono state irrimediabilmente distrutte dalle alluvioni causate dal cambiamento climatico? Gli attivisti le hanno imbrattate? No, perché c’era sempre una lastra di vetro a proteggere i dipinti. Ecco, i giovani che protestano per il clima hanno ragioni sacrosante. Tutte le persone che stanno protestando fanno benissimo a farlo: chiedono un maggior impegno ai loro governi, chiedono la vivibilità del pianeta, per loro e per le future generazioni”. Fantastico. Sono convinto anch’io che il pianeta stia andando a ramengo. Al contrario di Mercalli ho però qualche dubbio sul tipo di “sensibilizzazione” che queste iniziative promuovono. Senza parlare poi del reale livello di consapevolezza e della coerenza comportamentale di chi le mette in atto.

Rassegne e rassegnazione 06Marzo 2024 – L’Università di Trento ha varato un nuovo regolamento. La novità è il femminile sovraesteso per le cariche e i riferimenti di genere. Si useranno “la decana”, “la rettrice”, “la professoressa”, “la candidata”, tutto declinato al femminile, anche se le persone indicate sono uomini.

Nel 2017 l’università di Trento aveva approvato un vademecum per un uso del “linguaggio rispettoso delle differenze”, con l’obiettivo di “promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria” come durante gli eventi pubblici o nel la produzione di testi amministrativi. Il nuovo Regolamento avrebbe dovuto essere scritto riferendosi ai gruppi di persone (studenti, docenti, eccetera) sia con il femminile che con il maschile. Questo secondo il rettore Deflorian avrebbe finito per appesantire eccessivamente tutto il documento e quindi, per “facilitare la fase di confronto interno”, gli uffici amministrativi avevano iniziato a lavorare a una bozza che conteneva solo femminili.

La demenzialità del tutto è stata denunciata proprio dalle rappresentanti femminili dei gruppi studenteschi. «Basta con la retorica vuota e paternalista che suggerisce che l’inclusione nelle università sia una questione di linguaggio. L’ambiente accademico richiede rispetto per l’intelligenza e la competenza di ogni individuo, indipendentemente dal genere […] L’uso del cosiddetto “linguaggio femminile sovraesteso” vuole essere un tentativo di compensare decenni di discriminazione di genere, tuttavia, potrebbe avere l’effetto contrario, finendo con il far sentire esclusi alcuni ragazzi e ragazze compromettendo quindi l’obiettivo di inclusione». Difficile sostenere il contrario. E ancora: «Riteniamo che porre l’accento in modo così esasperato sulla diversità sia esso stesso un modo per discriminare».

In Occidente c’è un’attività politica antagonista, ma si scioglie in questa specie di attivismo sostitutivo, nei confronti del resto del mondo e nei confronti del nostro passato. Alla fine, gioco di prestigio, la battaglia scompare, le cannonate non si sentono più e faccende come la lotta all’odio e all’intolleranza sul web sembrano importanti, persino coraggiose, per mancanza di termini di paragone.

L’asterisco e lo schwa, la comunicazione non ostile, genitore 1 e genitore 2, sono faccende irrilevanti e, quindi, non sono imboscate ideologiche tese ai valori e alla libertà. Sono, invece, un minuscolo sogno totalitario, inconsapevole e sfiatato, il passatempo di gente che gioca ai soldatini con la neolingua di Orwell e finisce per crederci.” (Claudio Chianese, Il linguaggio represso)

Rassegne e rassegnazione 07«Ogni nuova generazione di neonati è una invasione di barbari che invadono non dall’esterno, ma dall’interno e dal basso la società; la società ha il compito di educarli, disciplinarli, renderli civili prima che diventino adulti. Il che significa anche – soprattutto – fargli subire dei sacrifici e delle sconfitte esistenziali, in modo da far maturare i loro caratteri.

Ora, pensate a uno di questi piccoli mostri che entra in una società che si gloria di essere adulta e matura, di avere abolito ogni forma di “repressione”, che ogni giorno celebra la propria liberazione da tutti i pregiudizi, quindi da ogni gerarchia e di tutti i tabù moralistici, tipo l’antipatica distinzione fra “bene” e “male” (cosiddetti); dove i genitori prendono ogni cura per risparmiargli ogni “frustrazione”, ogni pressione dell’ambiente, tensione, sforzo e ogni dovere; scansano ogni ostacolo che si trovi davanti, vogliono essere suoi amici invece che suoi superiori. Lo mandano in una scuola che si vanta di essere “non repressiva”, di non bocciarlo mai e poi mai, che si sforza di “farlo divertire”, anzi prova a confondere il confine tra “studio” e “divertimento”; una scuola che sostanzialmente lo incita a “esprimere le proprie inclinazioni, ed opinioni”, ossia (a quello stadio) le proprie narcisistiche emozioni.

È inutile che vi dica come dovrebbe essere una società capace di civilizzare i barbari verticali, che sappia renderli virilmente adulti, continenti, cavallereschi, dotati di senso della dignità e dell’onore – ossia della vergogna di compiere atti bassi contro i più deboli. Inutile che vi canti le lodi del “controllo sociale”, del giudizio sociale che premeva su molti dei peggiori e li faceva essere meno pessimi; strillereste che voglio la società bigotta, insopportabilmente repressiva, ormai superata dal progresso e dalla libertà […].

È possibile che debba riconoscermi, sia pure in parte, sia pure con tutti i distinguo che vogliamo, in queste parole di Maurizio Blondet? Di uno dei personaggi più esecrabili della sottocultura complottista (gli ultimissimi pezzi comparsi sul suo blog titolano: Il grafene nel siero c’è, e serve ad hackerare l’uomo; Neonati uccisi e traffico di organi in Ucraina)? Dovrei chiedermi piuttosto come ci sono finito su quel blog, ma a questo ho una risposta immediata: Blondet aveva scritto a suo tempo Gli Adelphi della dissoluzione, praticamente sotto dettatura di un altro personaggio inquietante, Gianni Collu, che ho avuto la ventura di conoscere bene, e la cosa mi aveva incuriosito. Blondet di per sé non è nemmeno inquietante, è solo un paranoico (o uno squallido furbastro che specula sulla dabbenaggine diffusa) che vede poteri iniziatici e trame occulte ovunque: inquietante è invece il fatto che venga preso sul serio, non solo dallo stuolo di mentecatti che lo seguono, ma anche da coloro che lo combattono (e chissà perché, non mi meraviglia il fatto che il blog ospiti, tra gli altri, dei pezzi di Travaglio).

Ma questo è un altro discorso. La domanda era: perché mi sono riconosciuto in quelle parole, pur sentendomi distante anni luce dalle mefitiche esalazioni che circolano tra le righe? È presto detto: mi rode che come al solito un tema concreto, di evidente urgenza e rilevanza, in questo caso quello dell’educazione, venga lasciato cavalcare e snaturare e strumentalizzare a personaggi del calibro di Blondet, oppure venga trattato con la solita mielosa attitudine “buonista”. Mi cascano le braccia, ogni volta che le cronache raccontano episodi di bullismo o di violenza, per strada o nelle scuole, dei quali sono protagonisti bambini o adolescenti, al sentire psicologi e sedicenti educatori che sproloquiano di assenza di strutture, di specializzazioni, di attenzione, di stanziamenti, senza arrivare mai al dunque: al fatto cioè che le uniche vere assenze sono quelle di autorità e credibilità delle istituzioni, e di assunzione di responsabilità da parte di chi dovrebbe farle funzionare, a tutti i livelli.

La chiudo qui, per ora. Ma lo faccio proponendo un paio di altri piccoli stralci, questi recentissimi, nei quali Guia Soncini dice apparentemente le stesse cose di Blondet, ma per come le dice suonano immediatamente diverse. Non usa il “linguaggio femminile sovraesteso”, ma parla chiaro. Non si potrebbe ricominciare da qui?

Dicevo, il gruppo di madri di piccoli teppisti. Uno non voleva fare la doccia. Ma tipo costringerlo, come si è sempre fatto con tutti i bambini del mondo? Avessi suggerito di farlo al forno, si sarebbero indignate meno. Non capivo il trauma dell’acqua. Non capivo i bisogni del bambino. Ero praticamente la Franzoni.

Tempo fa Minnie Driver ha raccontato a Conan O’Brien che i bambini americani sono molto maleducati a tavola, e per lei è inconcepibile perché ha avuto un’educazione inglese e insomma, ha rassicurato i presenti e la madre dietro le quinte, non dico che mi menassero, ma se mi comportavo male al ristorante mi portavano in macchina e mi lasciavano lì chiusa finché loro non finivano di cenare.

Oggi se lasci un figlio in macchina scoppia un casino non dico pari a quello che ti toccherebbe se osassi lasciar solo un cane, ma insomma la potestà genitoriale secondo me te la levano, e qualcuno che per strada ti riconosce e ti sputa come fossi il simbolo d’ogni immoralità lo trovi. È perché i bambini in cent’anni sono passati da gente abbastanza piccola da esser mandata nelle miniere a creature sacre, certo.” (da linkiesta.it, 11 marzo)

Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.

Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura “i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita” – decidiamo che il problema è la seconda.

Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente “cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia”. Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante. […]

Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore. (da linkiesta.it, 4 aprile)

Magari! Farebbe senz’altro meno danni delle diagnosi di “disturbo oppositivo provocatorio” o di “disforie di genere”.

Rassegne e rassegnazione 087

Teoria e pratica del pentagonismo

(che non è una disciplina olimpica)

di Carlo Prosperi, 18 maggio 2023

Teoria e pratica del pentagonismo 02Di Juan Emilio Bosch non conoscevo né le vicende umane e politiche né le opere letterarie. Sono quindi grato all’amico Francesco M. Bonicelli Verrina, che per primo ha tradotto in italiano il breve saggio El pentagonismo como sustituto del’imperialismo (1967)[1], di avermi dato modo di colmare in parte questa mia lacuna e di approfondire il tema trattato dallo scrittore e politico dominicano. Il quale ebbe la triste ventura di vivere sotto la dittatura, non meno grottesca che feroce, del dittatore Rafael Trujillo Molina, alla quale si sottrasse viaggiando e trascorrendo lunghi anni in esilio, tra Cuba e Venezuela. Solo nel 1961, dopo l’attentato che pose fine all’abominevole tirannide di Trujillo, fin allora sostenuto dagli americani con la scusa che era sì un “bastardo” (un autentico son of bitch, per dirla con l’icastica espressione roosveltiana), ma era pur sempre il “loro bastardo”, rientrò in patria e, nel dicembre del 1962, vinse le elezioni diventando il primo presidente eletto democraticamente dopo trentun anni di dittatura.

Teoria e pratica del pentagonismo 03Bosch, contando di avere l’approvazione di Washington, subito dopo il suo trionfo elettorale promise di “trasformare la Repubblica Dominicana in una vetrina dell’America Latina” che sarebbe servita come modello della “democrazia rappresentativa”. Ma il tentativo di proteggere gli interessi nazionali da lui intrapreso si scontrò con quelli del movimento conservatore che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti, timorosi di ogni novità sospetta che potesse intaccare il loro dominio su quello che fin dai tempi di James Monroe consideravano il loro “cortile di casa”. Tra le accuse mosse a Bosch c’era quella, infondata, di essere comunista. Così, dopo soli sei mesi, egli fu destituito e da allora smise di credere nella democrazia rappresentativa per vagheggiare l’idea di una “dittatura con l’appoggio popolare”. Fu proprio in questo periodo di amara disillusione che egli si sforzò di analizzare le cause del fallimento del modello democratico nei Paesi caraibici e il ruolo svolto in tutto questo dal capitalismo. Dopo Il pentagonismo sostituto dell’imperialismo, videro così la luce diversi studi sull’argomento: Tesi sulla dittatura con l’appoggio popolare (1969), Da Cristoforo Colombo a Fidel Castro (1969), Breve storia dell’oligarchia (1970) e Composizione sociale dominicana (1970). Negli anni successivi si dimise dal Partito Rivoluzionario Dominicano, del quale era stato uno dei fondatori negli anni d’esilio a Cuba, e diede vita al Partito della Liberazione Dominicana, che solo nel 1996, dopo vari tentativi, riuscì ad affermarsi, mandando alla presidenza Leonel Fernández.

Teoria e pratica del pentagonismo 04Convinto che “la mancanza di memoria più lieve può portarci su strade insospettabili”, Bosch continuò a riandare con la mente alla sua esperienza di governo e per primo intuì che alla base del fallimento c’era stato un errore concettuale derivante da un difetto nel valutare l’evoluzione storico-sociale. Si continuava a parlare di capitalismo e di imperialismo, senza rendersi conto che la realtà era nel frattempo profondamente cambiata. I formidabili progressi scientifici e – aggiungiamo noi – tecnologici non avevano solo prodotto, per dirla con John Kenneth Galbraith, una affluent society, moltiplicando a dismisura i consumi e il benessere economico degli americani, ma avevano altresì trasformato una società eminentemente individualistica in una società di massa. E tutto questo – si noti bene – senza che i cittadini se ne avvedessero, così che essi seguitavano a credere di vivere in una società di individui liberi. Mentre, in realtà, erano eterodiretti o, se vogliamo, telecomandati, dal momento che i nuovi mass media, a cominciare proprio dalla televisione ne condizionavano le idee, i comportamenti, i consumi. In questo la pubblicità giocò un ruolo di primo piano, giacché, sfruttando gli studi di psicologia delle masse, i “persuasori occulti” presero ad insinuarsi nella mente dei consumatori servendosi – a dire di Vance Packard – anche di messaggi subliminali alla stregua della psicologia usata dai governi per spingere al massacro migliaia di giovani nel conflitto mondiale.

Teoria e pratica del pentagonismo 05

Secondo alcuni storici – e Bosch sembra in effetti condividerne la tesi – a salvare definitivamente gli USA dalla grande depressione del 1929 non fu tanto il New Deal di Roosevelt, quanto l’enorme incremento che lo sforzo bellico impresse alla produzione americana. E che determinò la metamorfosi stessa del capitalismo, destinato ad un ipersviluppo che ne cambiò radicalmente la dimensione e i connotati. Tanto che in esso si riconoscono già i germi dell’odierno “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla “smaterializzazione” dovuta all’informatica e all’elettronica. Ora, il capitalismo, sia pure nelle nuove forme via via assunte, è sopravvissuto allo stesso imperialismo, del quale, secondo Lenin, avrebbe invece dovuto essere la fase suprema. C’è chi si ostina, nel caso degli USA e di altre grandi potenze, a parlare di imperialismo, magari qualificandolo come “economico” o “commerciale” (come è stato anche definito l’imperialismo “in salsa cinese”) o come “neo-imperialismo”, senza rendersi conto che siamo ora di fronte a una realtà affatto inedita, prodotta dal capitalismo ipersviluppato, che Bosch chiama “pentagonismo”.

Nel Pentagono ha infatti sede il quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, in cui si concentra il potere militare nordamericano: un potere nato “dal ventre dell’economia di guerra” e che non può considerarsi costituzionale perché nella Costituzione politica della nazione non è menzionato. Un potere de facto, non de iure. Nondimeno, nella società di massa statunitense esso si è affermato indipendentemente dalla volontà cosciente degli elettori, fino a diventare, nel giro di pochi anni, preponderante rispetto a quello civile. Laddove il potere si misura in denaro, chi di più denaro dispone è inevitabilmente destinato a prevalere. È quanto si è verificato negli USA, dove il Pentagono è giunto a spuntare finanziamenti superiori a quelli del Governo federale. Questo non sarebbe potuto avvenire se l’apparato militare non avesse avuto il decisivo sostegno delle grandi corporations, che – come la guerra aveva dimostrato – alle ingenti commesse provenienti da quel settore dovevano il proprio ipersviluppo. Profittando del tracollo dell’imperialismo, il pentagonismo – che il presidente Eisenhower definì con preoccupazione “complesso industrial-finanziario” – pensò di raccoglierne l’eredità, ma – qui sta la vera novità – senza dovere conquistare dei territori coloniali e senza proporsi di sfruttarli economicamente. Dice bene Bosch: «Il pentagonismo non sfrutta le colonie: sfrutta il proprio popolo», e lo fa colonizzando la metropoli, costretta a finanziare gli interventi militari necessari per conquistare e mantenere posizioni di potere all’estero: ambito su cui il pentagonismo ha più voce in capitolo dello stesso potere civile.

Teoria e pratica del pentagonismo 06Un vasto complesso industrial-militare domina il Congresso” ebbe a lamentare Fulbright nell’ottobre 1967, e il senatore Eugene Mac Carthy, che guidava la campagna contro Johnson, ribatté: “Tutti noi al Senato stiamo tentando di mettere un qualche limite al potere del complesso industrial-militare che controlla la politica estera di questa nazione”. Segno che il rischio di una deriva antidemocratica e guerrafondaia era già avvertito. Almeno da una minoranza illuminata. Ma come poteva questa opporsi ad operazioni che sembravano avere benefici influssi sul benessere della nazione? “In un calcolo puramente matematico – annotava il Business Weech nell’aprile 1965 – il crescere della guerra ordinata da Johnson cambia le prospettive economiche per il meglio”. Era allora in corso la guerra in Vietnam e nei mesi successivi alla scalata delle operazioni belliche, quando la costruzione delle infrastrutture cominciava non solo sul territorio di Saigon, ma anche nei paesi vicini, e specie in Thailandia, una cospicua serie di industrie si giovò di un “atteso boom”. Con l’intensificarsi della guerra, si moltiplicò la richiesta di pneumatici, apparecchiature elettriche e elettroniche, armi, munizioni, carburanti, ecc. E si moltiplicarono di conseguenza i profitti delle imprese di costruzione, meccaniche, aeree, alimentari. Per le più grandi corporations d’America (Lockheed, Aircraft, Ford, Westinghouse, General Dynamics, ecc.), ma anche per l’industria giapponese produttrice di napalm, fu una vera manna. Si disse – ed è uno dei paradossi ricorrenti delle guerre moderne – che le compagnie petrolifere finanziassero persino i vietcong (Fortune, marzo 1966).

La vicenda vietnamita, a preferenza di quella domenicana, che pure lo riguarda da vicino, è assunta da Bosch ad esempio paradigmatico dei guasti del pentagonismo, non solo perché più nota, ma anche perché a tanto dispendio di vite umane e di mezzi non corrisposero risultati adeguati sul campo. Gli USA riuscirono anzi nell’impresa di perdere una guerra senza perdere una battaglia. Oltre a questo, allarmarono l’opinione pubblica sia interna sia internazionale. Paul Kennedy, nel suo classico studio Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), riprendendo un concetto di Robert Gilpin, mise in guardia sulla “legge del costo crescente della guerra”, per la quale i costi del mantenimento dello status quo crescono più velocemente della capacità economica di sostenere lo stesso. A lungo andare, l’espansione del settore militare finisce quindi per danneggiare l’economia (come ha del resto dimostrato l’implosione dell’URSS).

Teoria e pratica del pentagonismo 08Forse, però, la parte più interessante del libro è quella dedicata alle motivazioni morali di volta in volta addotte dal pentagonismo. L’intervento militare non è mai giustificato da propositi dichiaratamente aggressivi, quantunque le guerre promosse o combattute dagli USA interessino ogni parte del mondo. Esse sono guerre preventive o volte comunque a soffocare presunti conati di sovversione (“dottrina Johnson”): guerre per “esportare la democrazia” o per combattere il terrorismo. A volte vere e proprie guerre per procura, qual è per certi versi quella attualmente in corso in Ucraina. Il pentagonismo ha così fatto degli USA “la polizia politica del mondo” (capitalista). E non c’è differenza in questo tra presidenze democratiche e repubblicane, perché, almeno nella politica estera, tutte, bon grè, mal gré, soggiacciono ai voleri del Deep State, cioè di quel variegato “complesso industrial-militare” che è per Bosch il pentagonismo. Mike Lofgren in The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government definisce lo Stato profondo come “un governo ombra” che opera al di fuori delle istituzioni rappresentative e “presta scarsa attenzione ai semplici dettami costituzionali”. Vi appartengono lobbies, massoneria, funzionari di Stato e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico, ma il nucleo preponderante è costituito dall’apparato militare, che, in combutta con le multinazionali, le agenzie di rating, i mercati finanziari, le banche centrali e le banche d’affari, influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici della nazione. In particolare, per quanto concerne la politica estera.

La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati. Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’URSS, glielo hanno impedito. Ma Trump non è stato l’unico a recriminare sul Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la sua battaglia contro i comunisti. Del resto, il cronista investigativo del Watergate Bob Woodward, in Peril, riferisce che il generale statunitense capo di stato maggiore dell’Esercito Mark Alexander Milley avrebbe istruito i vertici in carica al comando centrale militare, nella war room del Pentagono, “di non prendere ordini da nessuno senza il suo coinvolgimento”. La decisione di accentrare nelle mani del super generale tutti i poteri operativi militari sarebbe stata assunta (e quindi condivisa) durante una serie di vertici top secret tenuti da Milley con alti dirigenti della Cia, del Pentagono e in due contatti riservati avvenuti con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, allora leaders democratici dell’opposizione, rispettivamente alla Camera e al Senato.

Teoria e pratica del pentagonismo 07Il merito principale di Juan E. Bosch è stato quello di metterci in guardia da questi apparati, neanche tanto segreti, che agiscono da Stato nello Stato, senza averne alcuna legittimazione. Non lo consolerebbe certo sapere che il fenomeno non è più soltanto americano, se è vero che anche il capo della Wagner Evghenij Prigozhin, nel recente manifesto Solo lotta leale. Nessun accordo diffuso sui canali Telegram ha denunciato la tentazione circolante tra i segmenti dell’apparato militare russo che mirerebbero a un compromesso con gli USA onde “preservare i confini esistenti il 24 febbraio 2023”. Queste, secondo Prigozhin, che guarda alla trascorsa grandezza imperiale, sarebbero élites che “lavorano per padroni diversi: alcuni per il governo esistente, altri per coloro che sono in fuga da molto tempo”. Paradossalmente, anche una sconfitta in Ucraina potrebbe “portare a cambiamenti globali nella società russa” e spingere la gente ad abbandonare questi esponenti dello “Stato profondo” pronti – per difendere il proprio benessere – a tradire gli interessi della Russia scendendo a patti con Washington e Kiev.

[1] JUAN EMILIO BOSCH, Il pentagonismo. Come il “Deep State” U.S.A. tiene in pugno il continente americano, OAKS Editrice, Sesto San Giovanni 2022.

​Pendoli e pendagli

di Carlo Prosperi, 21 gennaio 2021

Credo sia ormai il caso di presentare “ufficialmente” Carlo Prosperi, anche se non dubito che i frequentatori del sito abbiano già imparato a conoscerlo. Sarò breve: se tirassi giù una sbrodolata mi toglierebbe immediatamente l’amicizia, alla quale tengo invece moltissimo. Mi limiterò a un paio di ricordi da ex compagno di scuola, che a mio giudizio inquadrano l’essenziale. Quando è arrivato nella nostra classe – credo in prima Liceo – Carlo sapeva già, a differenza di tutti noi, cosa davvero lo interessava e cosa avrebbe voluto fare da grande. Scelse di frequentare praticamente part-time, e di dedicare più proficuamente il suo tempo alla sua vera passione, la lettura. Alla fine delle secondarie aveva letto più di tutti noi messi assieme, e di matematica e fisica sapeva comunque quanto me (vale a dire ben poco) che in cinque anni non avevo perso un giorno. Una volta all’Università, libero da orari e scadenze e impegni di frequenza, ha bruciato le tappe ed è stato il primo a laurearsi. Di lì è iniziata la sua missione di insegnante e, ciò che maggiormente qui importa, una attività di studioso tutta fuori dagli schemi correnti. Nel senso che è uno serio, che non compare in tivù e poco anche fuori, professionale nel metodo e negli approfondimenti (è la cosa che più gli invidio) e onnivoro negli interessi culturali. Può scrivere d’arte, di letteratura, di storia o di filosofia con la stessa ferratissima competenza, e insieme con la stessa modestia. “Il faut cultiver notre jardin” potrebbe essere il suo motto (anche se ama poco Voltaire). Ma per crescere fiori bisogna anche avere il pollice verde. E Carlo lo ha senz’altro.

Paolo Repetto

Caro Paolo,

ho letto con sommo interesse il tuo saggio sul complottismo e ancora una volta mi devo dichiarare d’accordo, almeno in gran parte, con te. Il complottismo, inteso nel suo senso deteriore, non è molto dissimile dall’allucinazione ossessiva. E bene ha fatto Eco a irriderne e a smontarne, nel Pendolo di Foucault, gli aspetti mistificatori. Che accomunano ed hanno accomunato tanto la destra quanto la sinistra: se, per ragioni politico-propagandistiche, Mussolini evocava complotti massonici e demo-plutocratici, da Togliatti ed epigoni abbiamo appreso di una perenne “Reazione in agguato”. Nel Mulino del Po Bacchelli citava i “segreti” di cui si nutriva “la bislacca visione” del Cavallotti: «dopo quel di Novara, il “segreto” d’Aspromonte, e poi di Mentana…». Una trama di congiure antidemocratiche, quasi una “strategia della tensione” ante litteram.

Oggi, con la globalizzazione imperante, la Spectre ha assunto aspetti e dimensioni ancor più inquietanti. Certo i “poteri forti” esistono, ma spesso sono tra loro in conflitto. O in concorrenza. Per spartirsi le aree d’influenza. O i mercati (è il caso delle multinazionali). Come è sempre accaduto. Da sempre esistono gli arcana imperii. E quanti registi hanno costruito la loro fortuna sui complotti della CIA, dell’FBI, dei Servizi Segreti. Ma vogliamo chiamare complotto anche l’espansionismo cinese, che, con la “Diplomazia dei Vaccini”, va accelerando la sua penetrazione socio-economica nel mondo, a cominciare dall’Oriente, in un confronto muscolare a tutti i livelli con le economie occidentali? La “Diplomazia dei Vaccini”, da agosto in qua, si è estesa ad aree politicamente ed economicamente cruciali del Medio Oriente: dal Bahrain all’Egitto, dalla Giordania agli Emirati Arabi, dall’Arabia Saudita a diversi Paesi dell’America Latina. Ai vaccini si sono aggiunti accordi economici: con la Turchia, con Israele, col Pakistan. Al Marocco è stato concesso un brevetto per la produzione di un vaccino cinese per tutta l’Africa: continente in cui la penetrazione cinese è già molto estesa. Complotto? Ma tutto avviene alla luce del sole, tutto è di dominio pubblico, anche se i nostri mass-media ne parlano poco e senza dare a tutto ciò il rilievo che meriterebbe. Lo stesso poi si potrebbe dire degli USA e della disciolta URSS.

Il vero complottismo – come tu ben spieghi – si ammanta di mistero (arcano resta il “disegno perversamente intelligente” con cui si ripromette di asservire l’umanità) e sfugge ai giochi o agli intrighi diplomatici, ma le élites che promuovono la congiura si conoscono tra loro (tutte d’accordo? possibile?) e le conosciamo. Sappiamo nomi e cognomi dei componenti della Trilateral Commission o del Bilderberg. Ricordo che Gianni Collu a siffatta mia obiezione rispondeva che queste organizzazioni non sono il vertice di nulla, bensì soltanto la cinghia di trasmissione di un Potere Occulto, giacché i veri processi decisionali avrebbero luogo ancora più in alto. Un paradosso capzioso: se il Demiurgo non è Dio e se Dio sta sopra o dietro di lui, perché dietro o sopra Dio non potrebbe esserci, che so? un Super-Dio, un Ur-Dio? E via retrocedendo all’infinito: un altro esempio di “cattiva infinità”.

Come vedi, il discorso è complesso. E a complicarlo concorrono poi le “Società Segrete”, le Mafie, le P2 o P3, le infinite sette che nella storia hanno contribuito ad alimentare il mito e il gusto dei complotti. Non tutti a fin di male: stando a Luigi Natoli, i Beati Paoli, ad esempio, si proponevano di vendicare le ingiustizie a danno dei più deboli; altre associazioni si ripromettevano di liberare i popoli dall’oppressione o di instaurare l’uguaglianza tra gli uomini. Ma siamo pur sempre mille miglia lontano dal “complotto mondiale” dei tempi nostri. E fin qui hai perfettamente ragione. Come hai ragione a dire, a commento del pensiero foucaultiano, che tu in parte condividi, a distinguere la realtà (“ciò che accade”) dalle fantasie (“ciò che vien fatto accadere”). Ma dimentichi di aggiungere che Foucault, nel denunciare l’onnipervasività del potere o, se vuoi, quella “microfisica del potere” capace di penetrare in ogni atto, situazione, gesto, ometteva di menzionare il suo potere, quello da lui espresso come cattedratico, come intellettuale à la page, come scrittore di successo (già nel 1971, George Steiner vedeva in lui “il mandarino del momento”). Un successo, il suo, dovuto all’ambiguità o alla contraddittorietà dei suoi stessi enunciati, come ha evidenziato nel 1977 Jean Baudrillard nel suo saggio Dimenticare Foucault. Pensa ad asserzioni come quelle che seguono: “noi ignoriamo ancora che cos’è il potere, questa cosa enigmatica, a volte visibile e invisibile, presente e assente, investita in ogni parte”; il potere è “una modalità di azione sulle azioni degli altri», lo si coglie cioè solo quale mero effetto, senza poter risalire univocamente a una sola causa cosciente; «il potere è ovunque, essendo immanente alla struttura sociale”. Puro fumo, per di più oppiaceo.

Jean-Marc Mandosio, nel pamphlet “Longevità di un’impostura: Michel Foucault”, uscito in Francia nel 2010, ha giustamente rilevato come, con la sua prosa intessuta “di asserzioni contraddittorie e di ingiunzioni equivoche” e di termini-feticcio come “dispositivi”, “norme”, “biopolitica”, “trama reticolare”, “Biopotere», Foucault abbia dato “forma filosofico-letteraria ai luoghi comuni di un’epoca”. E parla di acrobazie teoricistiche, di terminologie passe-partout e di esibizioni erudite (come se avesse tutto letto e rovistato in tutti gli archivi), senza le quali l’idea ontologico-teologica di rivoluzione permanente e ubiqua non sarebbe stata così esportabile nelle università di mezzo mondo. Così Foucault ha messo in discussione i «dispositivi» della legittimazione sociale e intellettuale. Ma se il potere è dovunque, se l’uomo è sempre, inevitabilmente, parte delle leggi che lo governano, e queste leggi o sono storico-sociali o sono naturali, dove sta il problema? Tutti i sistemi politici sarebbero sostanzialmente equivalenti o almeno equiparabili. Se non esiste più l’individuo, ma la trama delle sue relazioni, ovvero ciò che è dato dalla continua, mutante struttura occulta che lo sottende, egli cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso. Si scopre che ciò che lo rende effettivo è un insieme di strutture che può pensare e descrivere, ma di cui non è il protagonista determinante. In altri termini, è un ente in balìa della sua trasversale esperienza. Di conseguenza, la volontà umana autocosciente giunge alla sua completa dissoluzione: l’individuo è soltanto un residuo e con esso, naturalmente, anche la sua specifica libertà. Alla luce di quanto detto, “ciò che accade” è anche “ciò ch’è fatto accadere”. Io, quindi, t’inviterei a non credere alla veridicità di Foucault: “ciò che accade”, ammesso che sia corretto usare tale verbo, non “accade” come dice lui.

Non solo. Foucault ha alimentato, fra l’altro, le rivendicazioni del femminismo. Le donne, che si sono sentite senza potere o vittime del potere patriarcale o maschilista, oggi quel potere lo reclamano. Ma partono da un assunto che contrasta con le premesse stesse del potere ubiquo. Personalmente – tanto per discendere dall’iperuranio a più prosaica e quotidiana realtà – ricordo che in casa mia (e di tanti altri che conosco) nominalmente comandava mio padre (il capofamiglia), ma nella pratica il potere “sotterraneo” di mia madre era non di rado vincente. Alla lunga era <più decisivo e dirimente. Oggi le femministe vogliono spogliare i maschi e i padri del loro ruolo sociale, della loro identità tradizionale, della loro auctoritas. Con esiti che ritengo nefasti. Anche per loro stesse. Ma qui, per dare una spiegazione esauriente, dovrei troppo dilungarmi; per cui tralascio il discorso.

Di ben altro spessore è il pensiero di Carl Schmitt, che pure, per altri versi, è dinamite (per dirla col Cucco). Alcuni concetti (la distinzione “amico-nemico”, lo “stato di eccezione”, il decisionismo) ormai entrati nel repertorio comune degli studiosi di politica sono a parer mio fondamentali e non mi stupisce che siano fatti propri da studiosi di destra e di sinistra. D’altronde lo stesso vale per Foucault: se è vero che la sinistra sedicente sovversiva parla oggi la sua lingua, esiste nondimeno un “foucaultismo di destra”. Io, peraltro, condivido anche idee più ardite, quali: “L’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”; o “La prassi si giustifica attraverso sé medesima” (Carl Schmitt, Le categorie del “politico”). Sono cioè convinto che, seppure lo ius presuma di ammantarsi di un abito scientifico e di essere asettico, oggettivo e imparziale, i rapporti di forza restino decisivi. Se non nel dettato giuridico, nella sua reale applicazione. La forza è alla base del diritto. In altre parole: esiste un ordinamento giuridico solo fintanto che è fatto valere con la forza, quindi solo finché è efficace. È bensì vero che per Kelsen la forza non è lo strumento del diritto, e che il diritto è un insieme di norme che regolano l’uso della forza. Ma lo scopo di qualsiasi ordinamento non è organizzare la forza, sì organizzare la società mediante la forza (di cui, non a caso, lo Stato sovrano si arroga il monopolio). Kelsen scambia la forza/strumento con la forza/fine dell’ordinamento. Del resto, anche il carisma è forza e forza è pure quella dei “persuasori occulti”. E poi basta riandare a Machiavelli: la forza può essere anche quella delle leggi, perché “sono dua generazione di combattere, l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie; ma perché el primo molte volte non basta, bisogna ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo”. La golpe e il lione, come sappiamo. Il politico ha la natura del centauro.

Il resto del tuo discorso mi persuade ed è svolto con affabilità da scrittore di vaglia, mescolando ironica sprezzatura a perspicacia argomentativa. Insomma, il saggio è avvincente e si legge di un fiato. Oltre tutto risulta ben impaginato e composto, con ottime illustrazioni. Dove le scovi?

Ho letto anche la risposta dell’amico Nico: nella sostanza siamo più vicini di quanto non sembra, quantunque lui si ammanti di un habitus più scientifico (e talora scientista) del mio. È un vero “mastino della ragione”, e tuttavia, a proposito dell’amore, qualcosa concede – bontà sua – anche alla poesia. Che sia meglio della chimica?

Scusami la forma, forse non sempre scorrevole, ma scrivo currenti calamo, cioè alla tastiera del computer, senza troppo badare alla concinnitas e al nitor dello stile.

Un abbraccio, Carlo.

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Attenzione
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Attenzione!

Di(re)gressioni

di Paolo Repetto, 15 gennaio 2021

Per una volta mi ero ripromesso di essere serio fino in fondo. Ma non ce la faccio. Evidentemente non è nella mia natura, o forse è oggettivamente impossibile rimanere seri affrontando un argomento come quello del complottismo (cfr. “Piovono sauri!”); o magari sento la necessità di sdrammatizzare un problema che purtroppo drammatico è, per come si presenta e più ancora per il modo in cui è affrontato. Però, essere seri significa anche dire la verità: e quindi faccio outing.

Lo confesso: alla fine mi sono scoperto anch’io complottista. Non per quel processo che si verifica di solito, di identificazione con l’oggetto dei propri studi, si trattasse anche di Jack lo Squartatore. E neppure perché il ritorno a Foucault o addirittura l’imbarazzante lettura di Icke mi abbiano creato dubbi e ripensamenti. No. É arrivato tutto da una direzione impensata. Su segnalazione di Nico sono andato a recuperare un racconto di fantascienza scritto esattamente settant’anni fa, che mi ha intrigato da subito per il titolo: Gli idioti in marcia. Pur essendo un estimatore del genere fantascientifico non ne avevo mai sentito parlare, così come non conoscevo affatto l’autore, Cyril Michael Kornbluth (ho scoperto dopo che Kornbluth è morto poco più che trentenne, interrompendo un lavoro che prometteva molto). D’altro canto, il racconto era stato pubblicato su “Galassia”, una imitazione piuttosto malriuscita di Urania, solo nel 1971, in un clima politico, tra l’altro, tutt’altro che adatto ad apprezzarlo (ma recentemente, nel 1994, è stato ripubblicato da Bompiani nell’antologia Le grandi storie della fantascienza 13, con una nuova traduzione).

Kornbluth mi ha lasciato secco. Ambienta Gli idioti in marcia in un mondo futuro sovrappopolato, e per di più abitato da persone con un quoziente d’intelligenza estremamente basso. Il pianeta tira avanti solo grazie al lavoro di una piccola élite di super-intelligenti, dotati di competenze di altissimo livello, guidati da un gruppo di genetisti che ha capito verso quale destino l’umanità sta correndo, ma non riesce a trovare soluzioni. A fornirle loro sarà un venditore immobiliare che arriva dal passato, dove era stato ibernato dopo un incidente, e che sterminerà gli idioti facendoli emigrare su Venere, dopo averli convinti con la sua esperienza di imbonitore che si tratta di un paradiso tropicale. Una soluzione che i cervelli raffinati degli intelligenti non avevano considerato, tanto è lontano il loro modo di pensare dall’affarismo cinico e rapace dell’uomo venuto dal passato. Alla fine del racconto però anche lui è imbarcato su un’astronave per la stella del mattino, seguendo il destino delle sue vittime.

Il racconto non è un capolavoro, è tirato via molto velocemente, senza badare troppo alle incongruenze, e anche lo stile riesce (almeno nella traduzione) un po’ approssimativo: ma è comunque efficace, e la storia presenta aspetti davvero inquietanti per quanto anticipano il presente: predice infatti il rimbecillimento progressivo e veloce degli umani, la condizione di clandestinità alla quale sono costretti i coscienti, la perfetta campagna pubblicitaria imbastita dai complottanti.

Dunque, intanto il resuscitato si accorge abbastanza velocemente che tutto quello che lo circonda – razzi, auto avveniristiche, palazzi, rampe sospese, ecc… – è un effetto teatrale (vedi The Truman Show), una scenografia imbastita abbastanza rozzamente, truccando ad esempio tutti i tachimetri delle auto e facendo volare scatoloni di lamiera in forma di razzi, ma sufficiente a ingannare una popolazione pressoché ebete, rissosa, indolente, pronta a bersi qualsiasi messaggio pubblicitario. Subodora immediatamente un complotto: “Avanti, non faccia la commedia. Lei e tutti gli altri aristocratici vivete nel lusso sul sudore degli schiavi oppressi. E avete paura di me perché volete mantenerli nell’ignoranza”.

Ma si sente rispondere: “Non avrebbe potuto ingannarsi in modo più clamoroso. La verità sacrosanta è che milioni di lavoratori vivono nel lusso, sul sudore di un pugno di aristocratici”.

Il termine “Aristocratici” fa venire in mente i cortigiani di Versailles, ma qui è inteso letteralmente, “oi aristòi”, i migliori, i più intelligenti. Quelli sopravvissuti ad una sorta di selezione in negativo. Il complotto quindi c’è, ma a scopo di autodifesa.

Ma, e voi chi siete?

Siamo diversi. Qualche generazione fa, gli specialisti di genetica hanno capito finalmente che nessuno avrebbe dato ascolto a quello che andavano predicando, perciò hanno smesso di parlare e sono passati ai fatti. In particolare, hanno reclutato aderenti per una corporazione chiusa destinata a mantenere ed a migliorare la stirpe. Noi siamo i discendenti di quella corporazione… siamo circa tre milioni. Gli altri sono cinque miliardi, e noi siamo i loro schiavi.

La spiegazione che viene data del degrado mentale degli “altri cinque miliardi” farebbe inorridire e gridare allo scandalo qualunque “progressista”.

Abbiamo bisogno dei falsi razzi e dei tachimetri truccati e di queste città pazzesche perché lei e altri come lei vi siete comportati da stupidi egoisti, avete permesso che le condizioni economiche e sociali vi inducessero a non mettere al mondo figli in nome della prudenza e della preveggenza, mentre gli operai immigrati, i baraccati e i contadini continuavano a mettere al mondo figli … a metterli al mondo senza pensarci. Mio dio, quanti ne hanno messo al mondo. La vostra intelligenza è andata al diavolo. L’intelligenza è quasi scomparsa dal nostro mondo. Il quoziente di intelligenza media è di quarantacinque.” Terribile vero? (Per capirci: Sharon Stone ha un QI di 148). Ma se al quoziente intellettuale sostituiamo il quoziente culturale forse non si allontana di molto dal vero. È quanto sta accadendo di fatto nel nostro paese, e un po’ in tutto l’occidente.

E sta anche accadendo che chi è in grado di pensare con la propria testa, chi trae soddisfazione dal proprio lavoro, chi si sente ferito dalla maleducazione e dall’ignoranza, debba non darlo troppo a vedere, pena essere incluso in quelle “élites” contro le quali è partita la rivolta: “Tinny-Peete non aveva nessuna voglia di finire a pezzi, e sapeva benissimo che sarebbe finita proprio in quel modo, se la popolazione avesse imparato, dall’uomo venuto dal passato, che c’era una piccola aristocrazia la quale si considerava ben al di sopra della massa. Il fatto che quella convinzione fosse perfettamente fondata e che l’aristocrazia fosse condannata dalla propria superficialità ad una esistenza di lavoro faticosissimo non avrebbe contato un bel niente: quella che contava era la differenza”.

Eccola, la rivelazione. La risposta ai dubbi che mi tormentavano ormai da tempo. Continuavo a chiedermi, ogni volta che in televisione sentivo parlare un politico, un esperto o un tuttologo, come fosse possibile che un pianeta abitato da quasi otto miliardi di persone simili a quelle potesse tirare avanti. Mi stupivo quando ruotavo la chiavetta di accensione e l’auto si metteva in moto, o usavo un computer o un frullatore, o mi imbarcavo su un aereo: com’è che queste cose (quasi) sempre funzionano? Se chi le deve costruire e far funzionare avesse le stesse capacità di quei politici – e quei politici sono lo specchio della maggioranza della popolazione – dovremmo essere tornati da un pezzo alla tecnologia della pietra scheggiata.

Pensavo allora che doveva esserci qualcuno capace di lavorare come si deve e, certo, qualcuno anche lo conoscevo, qualcuno lo avevo incontrato nell’ambito del mio lavoro, ma erano mosche bianche. Non era possibile che il mondo potesse funzionare così. A meno che …

A meno che la cospirazione esista davvero, e sia talmente autentica da rimanere completamente segreta, invisibile, malgrado il numero di coloro che vi sono coinvolti. Una congiura di persone che svolgono silenziosamente il loro lavoro, non compaiono in tivù, non messaggiano sui social, non partecipano ai flash mob. Che non possono venire allo scoperto perché verrebbero subito attaccate e smascherate come rettiliane, ma che in realtà non vogliono nemmeno farlo, perché sanno che richiamare alla realtà gli scemi è il più inutile e ingrato degli impegni, e poi perché va bene loro così, la soddisfazione la trovano nel fare bene ciò che fanno. E che almeno per il momento non hanno nemmeno la necessità di spedire su Venere la zavorra umana.

Non sono così pessimista come Kornbluth, uno zero virgola cinquanta di popolazione utile mi sembra un po’ poco per poter reggere, penso ad una percentuale addirittura cinquanta volte superiore. Ci sta tutta, per essere comunque una minoranza operosa e silenziosa. Soprattutto, se l’ordine delle cifre fosse quello, potrei presumere di rientrarci anch’io.

Qualcosa però mi preoccupa. Il mio sangue è ancora rosso, e non blu, eppure io un po’ di gente su Venere l’avrei già spedita, magari in low coast, dispersa appena fuori dell’atmosfera, per risparmiare qualcosa. Per questo nel frattempo ho cominciato, quasi senza accorgermene, a esplorare con le dita la mia pelle, per verificare se per caso non fosse squamosa, a controllare segni eventuali di biforcutismo della lingua, a preoccuparmi per l’accentuata eterotermia che mi ha sempre caratterizzato, tanto che chi mi sta attorno dice che vado ad energia solare.

Vuoi vedere, mi dico, che sono addirittura un rettiliano?

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Il mastino della ragione

di Nicola Parodi, 11 gennaio 2021

Queste sintetiche note di Nico Parodi rientrano nel dibattito che si è aperto sul sito (era ora!) sulle modalità umane di conoscenza e sulle risposte etiche e pratiche che ne conseguono. Erano state concepite dall’estensore come una risposta privata su alcuni punti sollevati da Carlo Prosperi nel suo ultimo intervento (“L’incostanza della ragione”), ma riteniamo sia giusto pubblicarle come una sorta di lettera aperta, uno stimolo rivolto a tutti ad approfondire ulteriormente le tematiche sin qui affrontate.

Caro Carlo,

posso essere considerato un partigiano della razionalità, ma non la idolatro. L’idolatria, di qualunque cosa, può essere considerata già di per sé una manifestazione di irrazionalità.

Condivido dunque molte tue considerazioni, ma resto molto vigile quando si parla di razionalità. So che la partigianeria può essere intellettualmente pericolosa, e tuttavia corro coscientemente questo rischio, perché mi sento in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza, soprattutto di fronte a quello che ultimamente è sotto gli occhi di tutti. Creazionisti, no vax, complottisti e quant’altro non sono un complemento folkloristico. Servendosi dei nuovi strumenti di diffusione di massa, che permettono la diffusione di “memi” eludendo la loro selezione (che invece gli strumenti precedenti di diffusione della cultura in qualche modo operavano. Attualmente certe sciocchezze si propagano con una velocità che nemmeno le peggiori malattie infettive riescono a raggiungere, letteralmente alla velocità della luce) mettono a rischio la conservazione di un livello di conoscenze adeguato, quello che permette alla società complessa da cui dipendiamo di sopravvivere. Non sono il solo a temere il diffondersi dell’irrazionalità, Steven Pinker ha addirittura scritto un libro dal titolo “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo”.

Una risposta esauriente alle tue considerazioni su quanto ho scritto a commento della tua lettera a Paolo rischierebbe di essere troppo lunga ed illeggibile: sarò pertanto schematico, sperando di riuscire ad essere sufficientemente chiaro per stimolare una riflessione sui vari punti. Altre argomentazioni mi riprometto di esportele in piacevoli chiacchierate, come quelle di una volta.

Premetto intanto che non sono tra coloro che sostengono che la ragione è in grado di dare una risposta certa a tutto. Del resto, l’ho già chiaramente sostenuto «Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”».

Dunque:

  • Non può essere considerato irrazionalista chi è disposto a confrontare con gli altri le sue idee.
  • Il confronto tra idee che siano frutto di impegno serio può mettere in rilievo differenze di interpretazione della realtà, che dipendono dalle “lenti” con cui si guarda il mondo. La realtà è poliedrica (vedi “Alle radice dell’umano”), e i modi per interpretarla e raccontarla sono molti. Si può ad esempio parlare di amore da poeti, da psicologi, da credenti o in moltissimi altri modi; ma se ne può anche parlare con l’ottica di un biochimico, definendo l’amore come “un effetto dell’ormone ossitocina”. È certo che, chiamiamolo amore o “ossitocina”, senza i comportamenti che ne sono il prodotto non potremmo esistere; e comunque, di solito, è più utile parlarne usando la terminologia “amorosa” piuttosto che quella biochimica.

Chiarito questo, passo a sintetizzare rapidamente le mie idee sui modi e sugli scopi della conoscenza:

  • La vita, come ci spiega Schrodinger[1], si può considerare un insieme ordinato di materia in grado di mantenere il proprio ordine a spese dell’ambiente esterno, di accrescersi e replicarsi.
  • La membrana cellulare separa l’interno di una cellula, un frammento di materia vivente, dal mondo esterno, determinandone l’individualità (un arcaico sé?). La membrana permette però anche la comunicazione tra l’ambiente esterno e l’interno della cellula, producendo, tra l’altro, le condizioni che possono determinare i movimenti cellulari in relazione alle esigenze vitali.
  • Gli organismi pluricellulari hanno sviluppato, nel tempo, un sistema nervoso, che raccogliendo ed elaborando le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno dell’organismo produce le reazioni appropriate (compresi i movimenti) per la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo stesso. In questo quadro il nostro cervello ha assunto le caratteristiche che gli permettono di contribuire al meglio alla sopravvivenza e alla riproduzione degli individui della nostra specie.
  • La funzione del nostro cervello (o mente, se si preferisce) è raccogliere informazioni sull’ambiente esterno, formare delle “immagini mentali” e, in relazione ad altre informazioni provenienti dall’interno dell’organismo, produrre le “azioni” migliori per permettere la sopravvivenza e lo svolgimento della funzione di replicatore del fenotipo “homo sapiens sapiens”.

  • Il nostro cervello naturalmente non è perfetto: deve gestire le informazioni e produrre il risultato in fretta, e quindi si serve di scorciatoie cognitive che approssimano i risultati. La realtà non sempre è semplice, più spesso è complicata o complessa. Anche con i moderni computer occorre ricorrere ad algoritmi di approssimazione per trovare soluzione a certi problemi.
  • Per interpretare il mondo esterno ed estrarne conoscenze che ci servono per scegliere poi i comportamenti e le conseguenti azioni, siamo portati ad attribuire delle “intenzioni” ad altri esseri viventi, ma spesso anche a quelli inanimati. Da questo nascono anche quelle credenze che non si possono definire razionali. I problemi che creano difficoltà di comprensione derivano spesso dalla nostra incapacità di accettare di essere semplicemente degli aggregati di materia ordinata: vogliamo quindi trovare spiegazioni più gratificanti, che ci pongono su una sorta di piedistallo rispetto agli altri viventi.
  • Comprendere anziché condannare. Comprendere, ovvero conoscere, è l’essenza dell’illuminismo. Sapere aude! Se invece a “comprendere” diamo un contenuto empatico, occorre guardarsi dagli errori di valutazione che il giudizio influenzato dalle emozioni fa compiere. Le emozioni svolgono un ruolo importante nel creare comportamenti che uniscono una comunità, ma a volte non vanno d’accordo con la razionalità.
  • Nelle scienze la realtà, l’esperienza, “le prove”, servono a dimostrare la bontà di una speculazione teorica; confermano, non negano.
  • Il vivente deve agire: ma da solo? In un gruppo l’individuo comprende le intenzionalità dei conspecifici e coordina il suo agire con gli altri nell’interesse di tutti. Oltre al classico esempio dei lupi che cacciano in branco, tantissimi altri animali hanno comportamenti collaborativi.

E l’uomo?

  • Il nostro cervello evoluto è in grado di comprendere (sia pure con molte carenze) le regole che fanno funzionare la natura. In conseguenza delle “immagini mentali” che ci siamo formati compiamo delle scelte e agiamo (nella società e nella vita personale). Gli errori possono essere frutto di scarsa conoscenza o di scelte dettate dall’egoismo: in quest’ultimo caso, attribuire errori alla “razionalità” è solo confondere l’uso di ragionamenti ex post, per giustificare le scelte, con deduzioni frutto di razionalità.
  • Gli uomini che agiscono collettivamente modificano non solo la storia ma l’ambiente. Il terremoto è un accadimento, reclutare un esercito e occupare una città è un’azione volontaria organizzata, e se disordinata non funziona. L’inazione è sconfitta. Da non credente riconosco che la chiesa ha fatto bene a inserire tra i peccati anche quelli di “omissione”.
  • Non è la ragione a creare ideologie, sono quegli uomini che si comportano da teologi di teorie scientifiche, sociali o economiche, limitandosi a farsi esegeti di libri sacri che secondo loro contengono la verità, e contraddicendo in questo modo i principi dell’illuminismo.
  • È la ragione o piuttosto la sua assenza a creare l’inebetimento?
  • La nostra non è certo una società modello. Permette la sopravvivenza agevole a qualche miliardo di persone perché è tecnologicamente in grado di sfruttare enormi quantità di energia, ma questo non significa che corrisponda al modello di organizzazione sociale sufficientemente egualitaria e collaborativa a cui si è evolutivamente adattato l’uomo. Alcuni studiosi utilizzano, per esaminare la storia, il modello del macroparassitismo o cleptoparassitismo intraspecifico applicato alle società umane. Potrebbe essere una cifra interpretativa interessante.
  • Quindi, anche se il pessimismo può sembrare il nostro naturale approdo (un po’ per l’età, un po’ per i tempi che ci troviamo malauguratamente a vivere) non possiamo rinunciare alla battaglia per la difesa della cultura: quella cultura che ci consente di incontrarci, sia pure sulle pagine di questo sito, e di confrontarci civilmente, è in pericolo: e non possiamo lasciarla spazzare via dallo straripamento del magma di sciocchezze i nuovi mezzi di comunicazione stanno vomitando.

Auguri di buon anno, con la speranza di poterci presto incontrare, chiacchierando tranquillamente seduti su una panchina o, come non facevamo un tempo, seduti al bar a prenderci un caffè.

[1] «Qual è l’aspetto caratteristico della vita? Quando è che noi diciamo che un pezzo di materia è vivente? quando esso va “facendo qualcosa”, si muove, scambia materiali con l’ambiente e così via, e ciò per un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. […]
Quando un sistema che non è vivente è isolato o posto in un ambiente uniforme, tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente, in conseguenza delle varie specie di attrito; differenze di potenziale elettrico o chimico si uguagliano, sostanze che tendono a formare un composto chimico lo formano, la temperatura si uguaglia ovunque per conduzione.
Con ciò, l’intero sistema si trasforma in un morto, inerte blocco di materia. Si raggiunge uno stato permanente, in cui non avviene più nessun fenomeno osservabile. Il fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o stato di “entropia massima.
È proprio in questo suo evitare il rapido decadimento in uno stato inerte di equilibrioche ‘un organismo appare così misterioso, tanto che, fin dagli inizi del pensiero umano, si sono invocate alcune speciali forze non fisiche o soprannaturali (vis viva, entelechìa), quali forze agenti nell’organismo, e in taluni ambienti ancora si sostiene la loro esistenza.
Come fa un organismo vivente a evitare questo decadimento? La risposta ovvia è: mangiando, bevendo, respirando e (nel caso delle piante) assimilando. Il termine tecnico è: metabolismo.
Ciò di cui si nutre un organismo è l’entropia negativa. Meno paradossalmente si può dire che l’essenziale nel metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita.
[…] Secondo i risultati esposti nelle pagine precedenti, gli eventi spazio-temporali che si verificano nel corpo di un essere vivente e corrispondono all’attività della sua mente e alle sue azioni, siano consce o no, sono (considerando pure la loro struttura complessa e l’accettata statistica della fisica chimica) se non strettamente deterministici, almeno statistico-deterministici.»
Erwin Schrodinger, Che cos’e la vita?, Adelphi 1995

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Piovono sauri!

di Paolo Repetto, 11 gennaio 2021

Di complotti e di complottismo si è parlato anche recentemente su questo sito, forse persino troppo. Verrebbe davvero voglia di seguire il consiglio del tizio che ha scritto: “Implicando che siano così pericolose da meritarsi una censura, i censori danno una patina di serietà a idee che sono, diciamocelo, veramente, veramente idiote”. Il che è più che giusto, non fosse che queste idee sono cerini accesi buttati su chiazze sempre più larghe di idiozia stagnante. Se vogliamo dunque dare al sito una minima ragione d’esistere, questa ha da essere nella lotta contro la stupidità, nel buttare a nostra volta acqua su queste chiazze. Fino ad ora lo abbiamo fatto però in maniera episodica, cercando di capire se un atteggiamento così idiota avesse una qualche matrice biologica, o limitandoci a liquidarlo con sufficienza, come uno dei tanti segnali della degenerazione cerebrale in atto. Siamo probabilmente fuorviati da quella ambigua formula che si chiama “libertà di pensiero”, della quale in genere sottolineiamo il primo termine a completo discapito del secondo, e alla quale guarda caso si richiamano soprattutto i sostenitori delle teorie complottiste. “Penso che la gente debba avere il diritto di credere, di leggere e di avere accesso a tutte le informazioni, per formarsi una propria opinione su cosa pensare. Se qualcosa non ha senso, e se qualcosa non accade, verrà mostrato come insensato sotto le luci dell’arena pubblica”, dice uno dei più famosi tra costoro, giocando furbescamente sulla indeterminatezza del concetto di “informazione”.

Io penso invece sia opportuno, a questo punto, proporre uno schema di lettura di questo tipo di “informazione” il più chiaro possibile, per non continuare poi a tornare sull’argomento, e per non assecondare un gioco che vorremmo interrompere. Sono consapevole del rischio che corro, perché è materia viscida, che ti si attacca da tutte le parti, ed ha un effetto tossico. Ma penso non si possano maneggiare queste cose senza sporcarsi le mani, e che queste ultime vadano lavate solo dopo averci provato. L’intento è di offrire un piccolo manuale di sopravvivenza per cervelli passabilmente sani, che aiuti a tagliare corto di fronte alle palesi professioni di idiozia delle quali siamo quotidianamente spettatori e ad applicare nei loro confronti una inflessibile tolleranza zero. Essere amanti del dialogo è in teoria una cosa molto bella, ma dialogare con degli imbecilli è solo una inutile e pericolosa perdita di tempo. Provo dunque a chiudere il cerchio ponendomi quattro o cinque semplici domande e cercando, per quanto possibile, di dare altrettanto semplici risposte.

Per chiarezza, preciso che userò i termini “complottista” o “cospirazionista” per indicare i fautori delle teorie del complotto, e “cospiratore”, “congiurato” o “complottante” per i presunti partecipanti al complotto.

Intanto: di cosa stiamo parlando?

Prima di affrontare l’argomento in maniera, se mi si passa il termine, “sistematica”, vorrei dire qualcosa sulla reale portata e sulla qualità del problema, che temo ancora ci sfuggano. Il modo migliore per farlo è chiamare al banco, come persona informata dei fatti, quello che è stato definito “il più influente degli autori cospirazionisti” Si tratta di David Vaughan Icke, personaggio a dir poco bizzarro, e decisamente inquietante. Icke è il testimone perfetto, perché è riuscito a operare la sintesi di tutte le teorie complottiste (cosa tutt’altro che facile), e ad ottenere un risultato molto superiore alla semplice somma degli addendi. Mi è persino difficile tentare di riassumere le sue teorie, che sono state sviluppate (e aggiornate e corrette costantemente) in almeno una quindicina di libri, oltre la metà dei quali tradotti anche in Italia, a partire dal più famoso, “E la verità vi renderà liberi”. Non perché siano complesse, ma perché sono talmente demenziali da provocarmi un rigetto mentale e fisico. Ci provo comunque.

Facciamo parlare prima di tutto lui, attraverso la quarta di copertina del suo capolavoro: “L’autore espone la storia reale che sta dietro gli eventi globali che modellano il futuro dell’esistenza umana e del mondo che noi lasceremo ai nostri figli. Coraggiosamente, solleva il velo su una sorprendente rete di manipolazioni interconnesse che rivelano come le poche e stesse persone, società segrete e organizzazioni controllano la direzione quotidiana delle nostre vite. Questi poteri occulti progettano le guerre, le rivoluzioni violente, gli attentati terroristici e gli assassinii politici. Essi controllano il mercato mondiale delle droghe pesanti e la macchina dell’indottrinamento dei media. Ogni evento globale negativo può attribuirsi alla stessa Élite Globale. Alcuni dei nomi delle persone in essa coinvolte sono veramente molto conosciuti. Mai prima d’ora questa rete, i suoi aderenti e i suoi metodi, sono stati svelati in un modo così dettagliato e devastante”.

Sul devastante sono d’accordo, se si riferisce all’effetto prodotto su cervelli già in rottamazione. Secondo Icke l’universo è solo un ologramma cosmico, una immensa simulazione, una matrice quantica (cfr. Matrix) controllata da un gruppo segreto di “rettiliani”, riuniti nella Fratellanza di Babilonia, o del Serpente. I rettiliani sono esseri alti due metri e tredici (sic), provenienti da un altro sistema stellare, Alpha Draconis: le loro fattezze sono quelle di enormi lucertoloni, ma sulla terra assumono sembiante umano (cfr. L’invasione degli ultracorpi): o meglio, ci appaiono umani perché sono in grado di alterare le nostre percezioni. Sono rettiliani i personaggi più influenti della politica e dell’economia mondiale, nonché tutta una serie di vip dello spettacolo e della cultura. Tra loro, oltre ai reali d’Inghilterra, ci sono George Bush, Bill Clinton, Obama e naturalmente i Rothschild e i Rockefeller, e c’è persino Bob Hope (ora, posso capire Bush, qualche sospetto che non fosse del tutto umano lo avevo anch’io, ma Bob Hope mi sfugge. Quando Icks lo ha inserito nella lista andava per i cento anni. Forse i suoi film lo avevano annoiato da piccolo). Non sono aggiornato sugli ultimissimi sviluppi, ma immagino siano entrati nel novero anche l’altra Clinton, la Merkel, George Soros, Bill Gates, Madonna e Lady Gaga. In realtà non tutti i coinvolti nella cospirazione sono propriamente rettiliani: c’è una vasta area di fiancheggiatori, umani plagiati o schiavizzati dai dominatori.

I rettiliani si nutrono di sangue (preferibilmente fresco, quello dei bambini) e si dedicano a violenze carnali e a varie forme di abuso sui minorenni, compreso il prelievo di organi. Il loro scopo è naturalmente quello di dominare il mondo, esercitando il controllo attraverso le pratiche più disparate, che vanno dai riti satanici all’ingegneria sociale, dalle biotecnologie al controllo del clima. La faccenda ha avuto inizio almeno tre secoli fa, a partire dagli Illuminati di Baviera (ma volendo si trovano indizi molto più remoti). Tutte le rivoluzioni, da quella francese a quella russa e oltre, tutte le guerre, comprese la prima e la seconda mondiale, l’Olocausto, gli attentati, gli attacchi terroristici dell’11 settembre, fino agli tsunami e alla pandemia di COVID, sono eventi causati dal governo segreto. Naturalmente dietro ci sono gli ebrei, secondo i dettami dei Protocolli dei Savi di Sion: questo a dispetto di tutte le smentite di Icke, che ci tiene a precisare di non avercela con gli ebrei come popolo o razza, ma di considerare gli ebrei membri della classe dirigente non ebrei, ma lucertole.

Potrei continuare, ma mi sembra più che sufficiente. Giuro che non ho inventato nulla: si possono trovare notizie su Icke in qualsiasi motore di ricerca. D’altra parte, se lo avessi inventato, non mi sarei spinto così in là: non ho una fantasia così turbata, l’avrei senz’altro creato un po’ più sobrio. Tuttavia, non possiamo chiudere la faccenda con un sorrisetto, e limitarci a pensare che questi sono i frutti dell’apertura dei manicomi. Siamo di fronte ad un tizio che ha scritto decine di libri (e li ha anche venduti), che ha a disposizione diversi canali comunicativi, che è invitato in mezzo mondo a tener conferenze, persino in qualche università. Non so quanto Icke sia un mentecatto autentico e quanto ci marci, visto che la cosa rende benissimo: sta di fatto che milioni di altri mentecatti (questi sì, accertati) lo seguono e che decine di altri milioni, pur considerandolo un po’ strambo, ritengono che in fondo il succo delle sue rivelazioni risponda a verità.

La dimensione vera del problema è questa, ed è inutile obiettare che si tratta di una fenomenologia estrema: è invece un possibile, forse probabile, punto di approdo della deriva generale in corso. D’altro canto, non è casuale che nell’elenco dei rettiliani non compaia il nome di Donald Trump. Certo, capisco che sarebbe difficile associarlo ad un qualsivoglia “progetto intelligente”, e lui stesso d’altronde in più di un’occasione ha strizzato l’occhio ai complottisti, sia pure per mero opportunismo elettorale, perché dubito creda in qualcos’altro che in se stesso: ma il fatto davvero rilevante e allarmante è che una metà degli americani si identifica in lui, e lo vede come un baluardo contro il complotto. Parlo di centinaia di milioni di persone, e penso che la situazione non sia molto diversa in altre parti del mondo. Credo che Icke andrebbe preso, oltre che a calci, anche un po’ più sul serio.

Ho voluto chiarire questo punto perché davanti all’assurdo la tentazione di lasciar perdere è forte, ed in effetti mi sembra essere l’unica cosa che stiamo facendo. Ma l’assurdo non lo si combatte così: per quanto possibile è necessario conoscerlo, capire quali logiche non euclidee lo governano: non per vincerlo, ma almeno per difenderci.

Per questo, proseguo con le domande.

Esistono i complotti?

Certo che esistono. Parafrasando Anders, si potrebbe dire che “la storia è una tabella dei complotti”. Non si parla d’altro: da Catilina a Bruto, dagli Illuminati di Baviera fino alle congiure contro Hitler, ecc. Un libro attualmente in circolazione, Le cento grandi congiure, elenca appunto solo le più famose (e reali), magari facendo anche un po’ di confusione tra complotti veri e propri e omicidi premeditati in cerchie familiari.

Il “genere” letterario in realtà lo aveva inaugurato cinque secoli fa Machiavelli, inserendo nel terzo libro dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio una sezione intitolata appunto “Delle congiure”, che è stata in seguito spesso estrapolata e letta come un trattatello a parte. Machiavelli non usa mai, né qui né in altri riferimenti al tema, che si trovano copiosi nelle sue opere, il termine “complotto” (è stato introdotto solo un paio di secoli dopo); ma chiarisce subito cosa debba intendersi propriamente per congiura, rifacendosi alla etimologia latina (cum-iurare): è un atto collettivo, basato in genere, come dice il nome stesso, su un giuramento, da non confondersi con l’azione individuale o col tirannicidio classico (“Uno non si può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe”). Il suo mini-trattato consente comunque di cogliere le differenze rispetto all’idea di complotto di cui qui mi occupo, differenze che spiegano il perché le origini di quest’ultima debbano essere fatte risalire a tempi a noi più vicini.

Quando discute sugli aspetti tecnici, sulle condizioni necessarie per portare a buon fine una congiura, Machiavelli si sofferma soprattutto sulle difficoltà e sui rischi. Il rischio è legato alla possibilità di tradimento, tanto maggiore quanto più è estesa la rete dei partecipanti al complotto, ma anche all’evenienza che il segreto venga infranto per semplice imprudenza (“De’ fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi”) o per l’incapacità degli uomini di stare zitti. Quindi, la cosa migliore sarebbe che il progetto eversivo fosse conosciuto solo da pochissimi fidati, per non dare il tempo di essere denunciati e per non lasciare tracce compromettenti delle proprie intenzioni. Regole sacrosante, che comunque secondo Machiavelli non garantiscono la riuscita, tanti sono gli altri fattori imponderabili. “Per esperienza si vede molte essere state le congiure e poche avere avuto buono fine.

Ma come si è passati da una tipologia di congiura che possiamo definire “storica” all’idea di un complotto “sovrastorico”, di portata mondiale? Non è un caso che il termine complotto compaia solo nel XVIII secolo, e in Francia. Senza voler essere troppo sottili, sia che lo si voglia derivato dal latino complicare (avvolgere assieme), o dal francese comble (mucchio di persone), suggerisce non tanto il coinvolgimento spontaneo della congiura, sancito da giuramento e sentito dall’interno, ma piuttosto l’immagine percepita dall’esterno di una ammucchiata tenuta assieme da un progetto, in questo caso eversivo.

In effetti il tentativo di ampliare i perimetri delle congiure prende avvio nel Settecento, con gli Illuminati di Baviera e con Babeuf, per diventare poi norma nel XIX, con le varie carbonerie, le società mazziniane e altre conventicole più o meno segrete. Naturalmente i rischi paventati da Machiavelli si rivelano reali, perché nessuna di queste congiure ha esito positivo. A dispetto di ciò, contestualmente ai complotti crescono anche i complottisti. Un capostipite può essere indicato nell’abate Augustin Barruel , che scrisse i Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, una sorta di Bibbia nel settore, che fa nascere la Rivoluzione Francese da una cospirazione massonica e illuministica, la quale a sua volta avrebbe dato origine al giacobinismo. Tra gli scopi, oltre a quelli di abbattere la monarchia e di soffocare il cristianesimo, Barruel identifica l’obiettivo più ampio nel sovvertimento dell’intero ordine sociale (la “cospirazione anarchica”). Con Barruel viaggiamo ancora nel campo dei complotti reali, che l’abate documenta con dovizie di prove e collegamenti: ma al tempo stesso comincia a delinearsi il quadro di un sovra-complotto che sta alle spalle ed è il mandante di tutti gli altri. Stiamo entrando nel complottismo moderno.

Un secolo dopo la transizione è praticamente conclusa. Agli inizi del Novecento l’esoterista Rudolf Steiner denuncia l’esistenza di un complotto per controllare la politica mondiale e ne identifica i tratti e i protagonisti principali. Ad operare sono confraternite occulte, di matrice anglo-americana, che vogliono imporre una sorta di imperialismo economico planetario, attraverso il quale arrivare poi al predominio culturale e spirituale sull’umanità. È un vero regno del male, che per attuare le proprie strategie ricorre anche a pratiche esoteriche e stregonesche, ed è in grado di scatenare eventi come la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa. Come si vede, Icke non inventa nulla, introduce solo i lucertoloni. Il dato più significativo è però che dalla constatazione di complotti volti alla conquista del potere si è passati alla supposizione di un complotto per la sua conservazione e il suo consolidamento. Vedremo dopo come mai ciò avviene.

Quindi, mentre quando parlava di congiure Machiavelli si riferiva a piani che avevano obiettivi immediati e ristretti e che dovevano essere elaborati nella massima segretezza, queste due condizioni sono disattese dal “complottismo” attuale. Questo perché:

  1. non esistono “i complotti”, ma “un unico complotto”, gigantesco e globale, che ha per scopo non il rovesciamento o la conquista del potere (a complottare sono quelli che il potere già lo detengono) ma l’asservimento totale dell’umanità.
  2. Non c’è nulla di meno segreto e invisibile di questo complotto, visto che tutti ne parlano. Per Icke ad esempio esiste una matrioska di organizzazioni segrete, ma al tempo stesso sono conosciuti a tutti i loro componenti, il loro modus operandi, i loro scopi. Io stesso mi sono sentito rispondere da un conoscente, cui avevo chiesto dove avesse trovato le prove del complotto pandemico: “Basta cercare su Internet!”
  3. C’è poi il fatto che Machiavelli, avendo in mente soprattutto le vicende fiorentine, non pensava che dalle congiure potesse nascere un nuovo ordine politico, ma piuttosto una sempre maggiore disgregazione sociale e una costante instabilità. Mentre i complottisti ritengono che l’operazione di dominio e asservimento sia finalizzata a creare un nuovo modello sociale (anche se è piuttosto difficile capire quale)
  4. Coloro stessi che sono coinvolti nella grande congiura sembrano fare nulla per dissimulare le loro intenzioni. Ci troveremmo quindi di fronte ad una operazione di altro tipo, che per le sue stesse dimensioni non può fare conto sulla segretezza, ma sulla digeribilità, o quantomeno sulla ineluttabilità, del disegno che si prefigge. Manca l’elemento della sorpresa, sostituito invece da quello dell’assuefazione.

Il complottismo oggi in voga ha dunque ben poco a che vedere con i complotti tradizionali, anche se la sua narrazione si serve ancora di formule archetipiche, di modelli radicatisi nella cultura popolare attraverso la tradizione mitologica e quella religiosa. Ciò che denuncia è qualcosa di assolutamente inedito. È un disegno incredibilmente articolato e pervasivo, mirante ad assicurare il controllo totale ad una ristretta élite. E la novità della denuncia non è solo nel ricorso a scenari resi immaginabili solo dalla fantascienza, ma nella velocità e nell’ampiezza del contagio su scala planetaria, e nella assoluta impossibilità di contrastarne la diffusione attraverso il richiamo alla razionalità. Il “fatalismo” rassegnato col quale veniva accettato un tempo qualsiasi accadimento, fosse di carattere naturale o di origine umana (e la ribellione contro il quale è in sostanza il motore della nostra storia), non ha lasciato il posto come auspicavano gli illuministi ad una coscienza razionale, e quindi alla rivendicazione di diritti e di spiegazioni sensate, ma ad una indiscriminata ricerca di colpevoli. Di fronte a più possibilità di spiegazione, il complottista moderno sceglierà sempre e comunque, indipendentemente dalla verosimiglianza e dalla verificabilità, quella che gli consenta di identificare un responsabile.

Ricapitolando. I complotti esistono, sono sempre esistiti ed esisteranno in futuro. Ma quello di cui i complottisti oggi parlano è in realtà un’altra cosa, frutto di una psicosi collettiva, che porta a legare assieme avvenimenti, pratiche e situazioni che non hanno tra loro alcun legame: oppure ad attribuire a una precisa volontà e a un “disegno perversamente intelligente” ciò che accade spesso al di fuori di qualsiasi intenzionalità o piano preordinato.

Cerco di andare un po’ più nel dettaglio.

Chi guida il “grande complotto mondiale”?

Nei complotti tradizionali il responsabile veniva immancabilmente scoperto: in caso di riuscita, subito dopo il passaggio all’azione, in caso di fallimento, poco prima. Erano più persone, in genere non molte, che avevano agito, o cercavano di agire, con un piano comune e con uno scopo ben preciso (di solito, rovesciare un potere esistente e sostituirsi ad esso).

La caratteristica del “grande complotto mondiale” è invece una sorta di “spersonalizzazione” dei suoi autori, a dispetto del fatto che si faccia largo uso di nomi e cognomi. Intanto, perché coinvolge un numero enorme di congiurati, che partecipano a titolo diverso, senza neppure conoscersi tra loro, uniti sostanzialmente solo dallo stesso fine: ragion per cui è difficile distinguere gli uni dagli altri (tanto più poi se le loro immagini fisiche sono solo travestimenti dei rettiliani).

In secondo luogo perché il sospetto si allarga a intere classi politiche, categorie economiche, etnie, ecc. Investe cioè quelle che sono genericamente indicate come le élites. Nella fantasia complottista i banchieri, gli ebrei, le burocrazie delle istituzioni sovranazionali, come quelle europee, recitano la parte che un tempo era riservata ai Templari, agli Assassini o ai rosacrociani, con la differenza che quelli erano gruppi misteriosi ma circoscritti, mentre quello delle élites è un contenitore aperto, nel quale si può ficcare di volta in volta chiunque sia sospetto di esercitare un qualche potere.

In terzo luogo perché nelle teorie complottiste vengono ricondotti a responsabilità personali, o di gruppo, anche degli eventi di natura oggettiva. La responsabilità può essere attribuita direttamente, come nel caso di crisi economiche o vicende belliche, o ricadere per vie indirette, come in occasione di disastri naturali. Ad esempio, di fronte ad un terremoto, il meno prevedibile dei fenomeni, può riguardare le mancate allerte, o l’assenza di politiche preventive (edilizia antisismica), o i ritardi nei soccorsi: tutte cose di per sé reali, legate a inadeguatezza degli apparati, a corruzione dei sistemi di controllo, al menefreghismo istituzionale, quindi a responsabilità effettive e specifiche: che qui vengono però lette nel quadro di un superiore disegno di destabilizzazione sociale. Allo stesso modo l’inquinamento, sia quello atmosferico che quello di superfice, non viene spiegato dai complottisti con l’incapacità politica prestare attenzione al problema, di coglierne la gravità e, meno che mai, di risolverlo, ma come il prodotto di una precisa volontà di crearlo. Il risultato per il pianeta è lo stesso, ma la possibilità di affrontarlo seriamente cambia parecchio.

In questo modo infatti le responsabilità di qualsiasi catastrofe, anche laddove ce ne siano, vengono de-personalizzate, allontanate fino a farle svanire in una nebbia diffusa, e attribuite a forze e ad attori non definiti ma accreditati comunque di un enorme potere.

Nella versione moderna, quindi, a complottare è l’“establishment”, quello che nella immagine tradizionale doveva invece difendersi dai complotti. L’inversione dei ruoli avviene perché stavolta l’attacco non è portato all’Ordine storico, quello che appunto ha espresso le élites di potere, ma ad un supposto Ordine naturale, che comprende tutto ciò che attiene alla dimensione dei valori: la natura, la tradizione, la patria, la biologia, la morale comunitaria, la religione ecc.

Come agisce?

Le strategie attribuite ai complottanti coprono tutto l’intero spettro delle stupidaggini possibili, e non è il caso di spenderci troppo tempo. Mi limito quindi ad accennare alle più diffuse.

Da sempre la forma più subdola e più vile di attacco è considerata il veneficio. Nella letteratura sulle congiure gli avvelenamenti occupano un posto di primo piano: e d’altro canto, ne sono caduti realmente vittime re e imperatori (da Claudio a Commodo, ad Alboino, ecc.), una lunga serie di papi (l’ultimo sarebbe Giovanni Paolo I), traditori e trafficanti (da Pisciotta a Sindona), e persino artisti come Mozart. E questi sono solo pochi esempi di una consuetudine cospiratoria diffusissima.

Quelli che mandano in fibrillazione i complottisti sono però gli avvelenamenti collettivi, e nella fattispecie le congiure batteriologiche. Anche qui c’è solo da scegliere, perché è un plot classico, che si presenta magari meno frequentemente nella realtà ma nell’immaginario disturbato incontra invece un grande successo. A fare da protagoniste sono due tipi di minaccia: quella relativa all’avvelenamento vero e proprio, che di norma avviene attraverso le acque (le campagne francesi insorsero nel 1789 anche per la convinzione che gli aristocratici e i cittadini tramassero per avvelenare i contadini; ma anche oggi una buona percentuale degli americani crede che il governo aggiunga fluoruro all’acqua potabile per scopi “sinistri”), e quella di una offensiva batteriologica (imputata agli ebrei ai tempi della Peste Nera e poi ribadita a più riprese; attribuita agli “untori” nel seicento, ai cinesi oggi, ecc…)

Per i complottisti odierni però l’obiettivo non sarebbe, come imputato agli ebrei nel Trecento, la strage per vendetta, e la motivazione la pura malignità. Quando non si arriva a negarne l’esistenza (vedi, di seguito, Agamben & co), le pandemie sono considerate un’arma creata in laboratorio per medicalizzare l’umanità e renderla sempre più dipendente dal sistema. Questo valeva ieri per l’AIDS e vale tanto più oggi per il Covid. I vaccini e in genere tutti farmaci di contrasto sarebbero in questo progetto uno strumento di ricatto per ottenere il consenso ad una limitazione progressiva delle libertà fondamentali. Secondo una versione meno sofisticata del complotto, a gestire il tutto sarebbe invece l’industria farmaceutica, che dalle situazioni pandemiche ricava utili immensi e trae un enorme potere di condizionamento. Secondo poi quella più fantasiosa, si arriva anche oltre: i vaccini, e quindi tutta la faccenda che ad essi ha portato non sono che il tramite per l’inoculazione di microchips che garantiranno (a chi? ma a Bill Gates, naturalmente) il totale controllo sugli umani.

Non fossero sufficienti le pandemie, il complotto si sta portando avanti nel lavoro attraverso le “scie chimiche”, quelle irrorate nei cieli per contaminare la popolazione e favorire una manipolazione biologica. Per intanto, la manipolazione viaggia già a gonfie vele per altro tramite, attraverso l’immissione nella dieta alimentare di organismi geneticamente modificati. Insomma, da qualsiasi parte ci si giri, i lupi cattivi ci braccano.

Com’è allora che solo pochi (!) se ne rendono conto? Perché l’avvelenamento riguarda, prima ancora che i corpi, i cervelli. Passa attraverso le false credenze, che non sono solo le informazioni manipolate, la disinformazione sistematica (gli esempi più clamorosi della quale riguarderebbero l’attacco organizzato dall’interno alle Torri Gemelle, lo sbarco simulato sulla luna, il silenzio delle autorità sui contatti con gli Ufo, ecc…), ma le attese create da un battage quotidiano che induce la coazione al consumo, l’idolatria del denaro, la sudditanza al Capitale, l’etica unica della produttività.

L’aspetto più paradossale di questa fiera della stupidità è che testimonia di un disagio reale, e non solo di quello mentale (che pure esiste, eccome!): ma tale disagio, anziché essere affrontato con l’impegno a informarsi veramente, ad andare alle cause reali, a responsabilizzarsi singolarmente di fronte a ciò che si avverte o si scopre, viene affrontato scegliendo la via più semplice, quella che scarica nell’immediato e sul vicino ciò che ha cause remote. O peggio, si arriva a rifiutare, in nome di una demenziale coerenza con lo stereotipo complottista adottato, l’esistenza degli unici complotti genocidi storicamente comprovati. Col risultato che nel caso più documentato che esista, quello del progetto di sterminio degli ebrei, gli stessi creatori di congiure sono tra i primi negazionisti.

E a cosa mira?

Ma come mai l’establishment, che è sempre stato dalla parte opposta della barricata, si prende oggi la briga di sovvertire l’ordine esistente? Le motivazioni che gli sono imputate dai complottisti possono essere riassunte in tre livelli di obiettivo, da leggersi in ordine crescente di complessità: per soddisfare una sete insensata di ricchezza, per assicurarsi un dominio totale e definitivo sulle risorse del mondo, per attuare una trasformazione anche biologica del genere umano, al fine di renderlo completamente soggetto. Sembra di rivedere i tre livelli di consapevolezza degli scopi nei quali erano organizzati i Fidadelfi di Filippo Buonarroti.

Evidenziare l’obiettivo di primo livello non è difficile: è immediatamente visibile per chiunque, complottista o no. L’allargarsi della forbice della ricchezza è un dato oggettivo, perfettamente coerente con la logica del sistema capitalistico: e su questa c’è poco da indagare, la conosciamo sin troppo bene, e andrebbe semmai combattuta sulla base di questa evidenza. Il complottismo la legge invece piuttosto come una manifestazione di egoismi individuali sfrenati, e ciò da un lato consente di dare un nome e un volto ai congiurati, ma dall’altro riduce tutto il problema a uno scontro tra chi ha e chi no, per cui i volti e i nomi diventano intercambiabili, perdono senso e servono solo a catalizzare un risentimento astioso e semplificatorio, a offrire un bersaglio di facciata immediato. Suppone, tra l’altro, che all’interno delle élites non vi siano rivalità o tradimenti, che qualora ci siano si tratti solo di recite ad uso delle masse, e che tutti agiscano in realtà di concerto per lo scopo comune, che a questo punto non può essere che l’impoverimento progressivo della grande maggioranza degli umani.

Questa semplificazione legittima l’idea che il problema sia costituito dalla malvagità di poche persone accomunate da un patto infame, anziché da un modello produttivo e da uno stile di vita che ci coinvolgono tutti come protagonisti, e non semplicemente come vittime. E offre a ciascuno un alibi per non assumersi responsabilità rispetto all’esistente e per non sentirsi tenuto a vere scelte alternative rispetto al futuro.

Il “disvelamento” del primo obiettivo è quello che consente al complottismo un reclutamento di massa: l’idea che è sottesa alla denuncia, quella di una redistribuzione della ricchezza, sorride a tutti, almeno fino a quando i termini di confronto sono solo coloro che possiedono di più. Ma chi ha sviluppato una qualche “coscienza” politica, gli attivisti o i semplici simpatizzanti di movimenti di dissidenza (disobbedienti, eco-integralisti, animalisti, naturisti, ecc…) lo considera solo un primo passo per accedere al secondo livello di consapevolezza, quello relativo al piano sciagurato di sfruttamento e “snaturamento” del globo. Anche in questo caso le evidenze a supporto di un presunto progetto “globale” non mancano, è sufficiente volerle interpretare come tali. Deforestazione, inquinamento, cementificazione, pervicace insistenza sulle energie non rinnovabili, sono tutti attacchi alla natura che possono essere ascritti ad un difetto intrinseco al sistema, ad una tecnologia che si è autonomizzata, ad un modello produttivo che si è avvitato su se stesso in una costante coazione alla crescita: ma questo tipo di consapevolezza mette ancora una volta di fronte alla necessità di operare scelte individuali e collettive drastiche. Se invece leggiamo tutti questi fenomeni come facenti parte di un piano diabolico, ecco che portando allo scoperto i suoi esecutori si ha in tasca una soluzione che ci assolve da ogni responsabilità.

Chi svelerà il complotto?

Lo sguardo d’assieme sul terzo livello appartiene invece necessariamente a coloro che dispongono di conoscenze superiori. Che possono essere di due tipi. Da un lato stanno i profeti come Icke, che sostiene di aver ricevuto attraverso una medium la rivelazione di essere un guaritore mandato a sanare la Terra abusata dallo sfruttamento (da notare che Icke per un certo periodo è stato il portavoce ufficiale del partito britannico dei Verdi), che tutto il mondo è controllato da un governo segreto, finanziato naturalmente dai Rothschild e dai Rockefeller, e che l’attività dei cospiratori è volta a manipolare geneticamente e psicologicamente l’umanità. Negli anni più recenti, incoraggiati dal suo successo e dalla capacità pervasiva dei nuovissimi media, i suoi cloni si sono naturalmente moltiplicati, introducendo nel complotto ogni possibile variante esoterica, dal Sacro Graal all’Albero della Vita. E hanno anche iniziato a farsi concorrenza, accusandosi reciprocamente di essere dei falsi messia al servizio del complotto, per cui la cosa sta scadendo persino sotto il livello della farsa. Esemplare è il percorso di Michael Tsarion: nei suoi scritti, tra Olarchia versus Gerarchia e l’origine del nome Davide – che fa derivare da DiViDers, Coloro che separano – inserisce Il Dominio degli Psicopatici (un caso di resipiscienza?). Oggi è tacciato di essere uno dei fondatori del Nuovo Ordine Mondiale.

Dall’altro lato (ed è qui che volevo arrivare) troviamo uno stuolo di fiancheggiatori del fenomeno, che magari hanno qualche dubbio sui rettiliani, ma senz’altro non sono meno convinti della cospirazione globale. Sono gli esponenti del complottismo “colto”, reclutati in quella fascia dell’intellighentjia che persegue come propria missione (e in genere come lasciapassare per una maggiore visibilità) il rifiuto radicale della “modernità”, con tutti i suoi portati, dalla tecnologia alla democrazia rappresentativa. Naturalmente, trattandosi di intellettuali, denunciano il complotto prendendo le distanze dagli aspetti più grotteschi del complottismo, fingendo di prenderle anche dalle tentazioni antisemite, gettando lì il seme del dubbio e ritraendosi davanti alle sue conseguenze. Lo stile è questo: “Il Grande Complotto, si può esserne (quasi) certi, non esiste; non c’è alcuna Tavola (né rotonda, né di altre forme geometriche) attorno alla quale seggano Superiori Sconosciuti. Ma disegni e programmi formulati per seguire interessi particolari di lobbies e di corporations da personaggi e da gruppi che contano al di fuori e al di sopra della legalità interna e internazionale: questi sì, ce ne sono parecchi; per quanto si cerchi in tutti i modi al livello di mass media di non farne trapelare esistenza ed attività”. Nel caso specifico a scrivere è Franco Cardini, ma il modello è diffuso. Se scrivo: “[…] non esiste, si può esserne (quasi) certi […]” è come dicessi: “non ci metterei la mano sul fuoco”. E se aggiungo poi “disegni e programmi per seguire interessi particolari”, sull’esistenza dei quali nessuno certamente ha dubbi, tramati però da «[…] personaggi e gruppi che contano al di fuori e al di sopra, ecc… e dei quali “non trapela l’esistenza”», chi “vuol capire” non ha bisogno d’altro.

Oppure si può essere ancora più espliciti (sempre Cardini, parlando del governo degli Stati Uniti): “Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là delle forme giuridiche preposte a legittimarlo? È sua la detenzione del potere imperiale? Oppure dietro ad esso come dietro ad altre forze, attualmente in presenza nel mondo, si cela un impero invisibile che in realtà è irresponsabile – nel senso etimologico del termine: che cioè non è responsabile, non deve rispondere delle sue azioni perché nessuno è in grado di chiamarlo a risponderne – dinanzi ai suoi sudditi, che neppure sanno (o, almeno, non con chiarezza) di esser tali?”. Non parla di rettiliani, ma dei loro avatar terrestri si.

Il dubbio sull’esistenza del grande complotto scompare del tutto quando, come fa ad esempio Giorgio Agamben, si riesce ad andare oltre la cortina di fumo della informazione asservita al potere e si leggono correttamente le trame. Intanto: “Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi”. E direi che fin qui ci arriva anche chi ha una familiarità con gli studi storici inferiore alla sua. Ma è dopo che la cosa si fa interessante: «Per quel che riguarda la pandemia, non è certo giunta inaspettata. l’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 2005, in occasione dell’influenza aviaria, aveva suggerito uno scenario come quello presente, proponendolo ai governi come un modo di assicurarsi l’incondizionato sostegno dei cittadini. Bill Gates, che è il principale finanziatore di quell’organizzazione, ha fatto in più occasioni conoscere le sue idee sui rischi di una pandemia, che, nelle sue previsioni, avrebbe provocato milioni di morti e contro la quale occorreva prepararsi. Così nel 2019, il centro americano Johns-Hopkins, in una ricerca finanziata dalla Bill and Melinda Gates Foundation, ha organizzato un esercizio di simulazione della pandemia di coronavirus, chiamata “Evento 201”, riunendo esperti ed epidemiologi, per preparare una risposta coordinata in caso di comparsa di un nuovo virus». Chiunque direbbe: Caspita! Ci avevano avvertiti. Agamben invece vede più lontano: lo scenario suggerito era un’occasione offerta (da Bill Gates, guarda caso) ai governi per assicurarsi il sostegno incondizionato, la rinuncia ad ogni libertà, da parte dei cittadini. Il complottismo colto non è necessariamente anche intelligente, e non soprattutto non spreca il suo tempo a leggere un libro come Spillover, nel quale un giornalista non filosofo spiega per filo e per segno la terribile ma chiarissima meccanica delle moderne pandemie.

Al contrario, quella svelata dal complottismo colto è una consapevole strategia, l’uso strumentale della sicurezza sanitaria per imporre (in maniera soft) una illegale e disumana limitazione delle libertà personali e corporali. Si spiega allora perché le pandemie vengano “inventate”, o addirittura create ad hoc. Quando la posta in gioco è il controllo “totale”, ogni mezzo è buono.

I Maestri del sospetto

A monte e a supporto di queste rivelazioni c’è tutto un filone di pensiero, anzi, i filoni sono più di uno, riconducibili comunque essenzialmente a due nomi: Michel Foucault e Carl Schmitt. Quelli che Agamben tiene a far sapere di aver letto. Il primo per il concetto di “biopolitica”, il secondo per quello dello “stato di eccezione”. I due stanno apparentemente agli antipodi: in realtà sono complementari, l’uno è lo specchio rovesciato dell’altro. Provo a sintetizzare i concetti principali di cui sono portatori.

Per Foucault è avvenuto nel XIX secolo un cambiamento fondamentale nella fenomenologia e nell’esercizio del potere. In precedenza il potere “sovrano”, da chiunque fosse esercitato, si fondava sulla facoltà di dare la morte. A partire dalla nascita del capitalismo il suo ruolo si è invece rapidamente trasformato, e oggi si fonda sulla capacità di garantire la vita, ovvero la salute dei corpi: non certo per ragioni “umanitarie”, semplicemente perché quei corpi sono funzionali alla produttività e lo sono soltanto se sani e docili. Per poter esercitare questa funzione il potere è quindi intervenuto in maniera sempre più invasiva nel privato dei corpi, imponendo obblighi (ad esempio le vaccinazioni, a partire da quella contro il vaiolo) e divieti (ad esempio, quello del fumo). Nel contempo:

  • ha creato organismi di inquadramento (esercito e scuole) e strutture di contenimento (ospedali, manicomi, luoghi di detenzione, campi di concentramento);
  • ha istituito forme di protezione: sistemi di previdenza, assicurazioni, pensioni. Il moderno welfare nascerebbe al solo scopo di creare sempre maggiore dipendenza;
  • ha favorito il sotterraneo filtrare di una visione diversa del corpo, attraverso l’igienismo, la cura di sé, i modelli proposti da mode, media e pubblicità. Ciò che induce anche una disposizione sempre più forte verso l’eugenetica;
  • ha creato nuove scienze come la sociologia e la psicologia, funzionali a definire la norma, e strumenti come la demografia e la statistica, per individuare i parametri ottimali;
  • ha sostituito l’imposizione delle leggi con l’adeguamento più o meno forzato alle norme, definendo un concetto di normalità, e di conseguenza di patologia e devianza;
  • ha infine spostato l’accento sul concetto di popolazione come corpo compatto governato da leggi precise. Questo significa che anche il “potere di morte”, (che non è affatto scomparso, anche se appare meno arbitrario), viene esercitato non più in nome e in difesa di un sovrano che è tale per diritto di sangue, ma in nome di un “corpo compatto” collettivo, che è la nazione. Nelle guerre moderne si è mandati a morire per garantire la vita.

In sostanza, per Foucault la società contemporanea è guidata da un governo che è “razionale”, nel senso che promette il massimo benessere per tutti (tanto da includere il diritto alla felicità nelle costituzioni. Beninteso, per tutti coloro che rientrano nei parametri della norma), ma è anche più dispotico del vecchio dispotismo assoluto, perché maschera il suo potere dietro la razionalità: vuole obbedienza, ma un’obbedienza convinta della bontà di quanto è richiesto. Opporre resistenza a un potere di questo tipo è quasi impossibile: si sottrae allo scontro e agisce in maniera avvolgente. Se segui le sue indicazioni, puoi godere delle sue garanzie. In caso contrario, sei fuori.

Quanto a Schmitt, ha provveduto ad anticipare la visione paventata da Foucault, proponendola però in una accezione positiva, inquadrata negli schemi del diritto. Ha cioè definito l’armamentario giuridico che avrebbe dovuto supportare la trasformazione politica e sociale. Definendo lo Stato come “un’istanza assoluta secolarizzata”, Schmitt teorizzava il modello politico verso il quale l’occidente si stava avviando nella prima metà del secolo scorso (ovvero quello fascista e nazista). A distanza di un secolo dalla formulazione schmittiana, e a seguito della sconfitta dei totalitarismi di varia matrice ad est e ad ovest, nonché della rapida obsolescenza dello Stato-nazione, questo modello sta prendendo oggi le sembianze di un sovra-stato, di un governo unico mondiale, nel quale, a livello globale, sotto le etichette di liberaldemocrazia o di socialdemocrazia si realizzano l’uguaglianza formale e l’uniformità sostanziale. Questa uniformità si ottiene attraverso l’esclusione o l’annientamento di qualsiasi elemento estraneo. Se ai tempi di Schmitt questi elementi erano identificabili su base etnica, politica o razziale, e venivano fisicamente liquidati senza tante storie, oggi i criteri di identificazione e le modalità della eliminazione sono cambiati, si basano sulla definizione di “normalità” e di attività/passività e sulle forme automatiche di inclusione/esclusione che ne conseguono. Ma lo schema rimane lo stesso.

L’aspetto più interessante della formulazione di Schmitt è che molto realisticamente fa rilevare come la normalità, nei rapporti politici e sociali, non sia l’ordine, ma l’assenza di ordine. Ovvero, se la politica è il tentativo di conciliare l’ideale e il reale, questo tentativo non riesce mai compiutamente. Qualcosa interviene sempre a rompere gli equilibri, si danno continue contingenze che frantumano l’ordine e di fronte ad esse quest’ultimo si rivela impotente. Si crea cioè quello che Schmitt definisce lo “stato di eccezione”. È necessario allora che intervenga qualcosa (Schmitt lo chiama: “un ponte”) in grado di unire idealità e realtà. Il ponte è un’azione che risolve la crisi e ricrea l’ordine, non attraverso una composizione razionale, ma sortendo dal nulla: questa azione è la decisione, e la decisione comporta l’esistenza di un forte potere decisionale. A sua volta però la decisione non contiene al suo interno un saldo fondamento, un’idea stabile: per cui la situazione di crisi è destinata a ripetersi. Lo stato di eccezione diventa quindi la normalità.

L’odierno ritorno di fiamma per Schmitt è pieno di ambiguità. Sembra che riferirsi a lui sia ormai d’obbligo, tanto a destra come a sinistra. Ma l’impressione è che venga praticato più che altro per saccheggiarne immagini-concetto dal forte impatto semantico. E quella dello “stato d’eccezione” è senz’altro la più abusata, perché si presta perfettamente a definire una politica che gioca sulle costanti emergenze. In pratica, poi, si fa di Schmitt l’uso che Foscolo faceva del Machiavelli: “quel grande,/ che temprando lo scettro a’ regnatori,/gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/di che lacrime grondi e di che sangue”. Sarebbe colui che ha meglio messo in chiaro, senza i bavagli del moralmente corretto, quali siano i reali meccanismi e i prevedibili esiti dell’azione politica del potere nel mondo contemporaneo. Che lo abbia fatta per dare loro legittimità sembra aver perso ogni importanza.

De rebus iuxta mea principia (ovvero: Come la penso io)

Allora. Dovrebbe esserci materia sufficiente per tirare un po’ di fila. Che non significa in realtà dare risposte, ma cercare almeno di mettere a fuoco quello che c’è davvero dietro le domande.

Premetto con molta presunzione che al quadro disegnato da Foucault ero arrivato anch’io, già diversi anni fa, molto prima di conoscere “La volontà di sapere” o “Sorvegliare e punire”. Non si tratta di millantare precocità o acutezze particolari, penso che lo stesso percorso abbiano fatto molti altri prima di me, era sufficiente aver letto Orwell e Huxley e persino Bradbury, e magari anche qualcosa della scuola di Francoforte. Voglio semplicemente dire che tale processo è abbastanza visibile, se appena si ha la volontà di analizzare la storia, anziché di rimuoverla.

Mentre scrivevo queste pagine ho fatto scorrere mentalmente il film della domesticazione dell’umanità. Proiettato ad una velocità accelerata permette di vedere comparire prima e serrarsi poi l’enorme rete di contenimento che la storia le ha steso sopra. E di scorgere sullo sfondo, dietro guerre e imperi e rivoluzioni che durano lo spazio di pochi fotogrammi, un percorso sempre più riconoscibile. Questo percorso racconta la dissoluzione degli antichi legami con la terra, a partire dai naturalisti ionici, ma prima ancora, dagli estensori della versione originale della Bibbia: lo scioglimento progressivo dei vincoli con i gruppi primitivi di appartenenza, la tribù, il clan, testimoniato già dai tragici greci; e il processo di atomizzazione sociale innescato moltissimi anni fa con la famiglia mononucleare, proseguito con la disgregazione della comunità agli inizi dell’età moderna, portato avanti in quella contemporanea sino alla banalizzazione degli ultimi valori superstiti (le “amicizie” sui social, ad esempio, le famiglie falsamente allargate, ecc…).

Tutte queste cose mi hanno affollato il cervello, ma in una sequenza abbastanza chiara e facilmente interpretabile. Mi sono reso conto che la frase di Matteo: “Chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna” (19, 29) non era destinata ai discepoli, o a coloro che avrebbero scelto di sacrificare tutto alla loro realizzazione spirituale. È il messaggio che ha continuato ad essere ripetuto nel mondo occidentale, e trasmesso poi da questo anche agli altri mondi, per secoli, variamente declinato e travestito, ma sempre quello: la salvezza, il senso, li trovate altrove: possono essere di volta in volta la patria, il progresso, la scienza, il partito, la rivoluzione. Lasciate ogni cosa e affidatevi a me. Abbracciate un Ordine che supplirà a tutto ciò che avete lasciato alle spalle, per darvi le cure materiali (salute, sopravvivenza economica) o morali (sicurezza, appartenenze, amicizie, sentimenti) di cui avete bisogno. Tutto in offerta speciale.

C’è differenza tra questa immagine e quella dipinta da Foucault (e condivisa da Cardini e da Agamben)? Quanto al soggetto, a quel che si vede, direi proprio di no. Ciò che sta accadendo, che è accaduto, è esattamente quanto raccontato anche da loro. Salvo il fatto che io parlo di cose che “accadono”, loro di cose che “vengono fatte accadere”. La differenza è in quel che non si vede. E che vorrei spiegare meglio.

  • Come premettevo, il percorso di “domesticazione” totalizzante dell’umanità sul quale i complottisti pretendono di aver alzato il velo, smascherando chissà quali trame, è in realtà manifesto da quel dì, e non erano necessarie le rivelazioni dei medium o dei Maestri per prenderne coscienza. La novità sta piuttosto nell’idea che sia stato consapevolmente guidato da un gruppo ristretto di potere: nella convinzione cioè che un processo storico di tale portata possa essere in qualche modo tenuto sotto controllo dalla volontà umana. È la secolarizzazione di quello che un tempo era considerato un attributo della volontà divina.
    Eppure, di questo percorso sono state date, prima ancora che diventasse una corsa all’accelerazione perenne, e che intraprendesse una direzione senza ritorno, delle letture estremamente lucide (da Vico, per citarne uno), senza tirare in ballo alcun complotto o alcun disegno. Il problema è che tali letture rimandavano a scelte, se così possiamo definire quelle che in realtà sono state le condizioni e le conseguenze della speciazione umane, talmente remote da non poter più essere rimesse in discussione (sempre che ciò fosse originariamente possibile, ripeto. È stata una scelta il passaggio all’agricoltura e alla stanzialità?): e quindi ponevano il problema di governare quello che Schmitt definisce un costante “stato di emergenza”.
    Lo stato di emergenza non è proprio della modernità, è proprio della nostra specie, è già testimoniato dall’accensione del primo fuoco e dalla scheggiatura della prima pietra, e risulta oggi solo più visibile perché di una emergenza esponenzialmente accelerata si tratta. Non siamo usciti dall’Eden tre o quattro secoli fa, ma quando siamo scesi dagli alberi. Ci siamo difesi dalla natura con la tecnica, ad un certo punto abbiamo trasformato un’arma di difesa in un’arma d’attacco, oggi non siamo più in grado di tenerla sotto controllo, quella che era una protesi si è autonomizzata, può addirittura fare a meno del supporto e si autoalimenta. Questa la storia. Il fatto poi che qualcuno riesca ad inserirsi in questo processo, a lucrarci sopra, non significa che lo stia governando, che ne detti i ritmi e la direzione. Al più cavalca le onde, non le suscita. In questo film siamo tutti attori, e si può esserne protagonisti in maniere diverse, o magari recitare solo da comparse: ma nessuno ha in mano la regia.
    Ipotizzare una rete occulta per spiegare quello che sta succedendo, scovare dei responsabili per qualcosa che nasce dalla nostra natura di organismi inadatti, e che le è intrinseco, vuol dire avere la memoria corta, e non porta ad alcuna comprensione, meno che mai a una qualsivoglia soluzione.
  • Questo significa che possiamo fare nulla per evitarci il destino di futuri lemming? No, significa che possiamo farci poco, ma anche che quel poco dovremmo farlo nella maniera più intelligente possibile: non raccontandoci favole con orchi e streghe cattive, ma sfruttando in positivo il dono prometeico della tecnica, che purtroppo ha anche un risvolto pericolosamente tossico. Anche la radice di manioca è tossica, eppure sbucciata e cotta costituisce la maggior risorsa alimentare per gran parte delle popolazioni del terzo mondo. La natura ci ha dato quella risorsa, ma non lo stomaco adatto a digerirla. La cultura la rende assimilabile. Che si fa? Si rinuncia? Per nutrirci poi di cosa?
    Fuor di metafora, il dibattito sul complottismo non fa che riportare in primo piano l’annoso problema della “razionalizzazione” del mondo e della nostra sopravvivenza in un ambiente che a quanto pare non ci contemplava (siamo “la specie inaspettata”). Torna il tema della “separazione”, che ricorre in tutte le mitologie ed è ripreso anche della filosofia (a partire almeno da Platone). In questo racconto in origine c’è l’Eden, c’è un ordine naturale che la comparsa della nostra specie viene a sconvolgere. C’è l’armonico equilibrio della natura, e ci siamo noi che lo violiamo introducendo la conflittuale disarmonia della storia.
    Ora, si tratta di stabilire se da quel paradiso siamo usciti o ne siamo stati cacciati (e prima ancora, che tipo di paradiso fosse quello: a quanto sembra, per i nostri progenitori più lontani non era esattamente un luogo di delizie: ma forse quelli di cui abbiamo traccia ne erano già fuori). Nel primo caso, la nostra cultura è il frutto di un naturale adattamento di sopravvivenza: nel secondo, è la mela avvelenata che una volontà maligna ci ha fatto assaggiare. Nel primo caso, dobbiamo prendere atto del presente (e quindi anche dei suoi guasti) per garantirci un futuro: nel secondo dobbiamo tornare al passato per rimediare all’errore commesso. Non fosse che la volontà maligna è ancora lì, vigile, e complotta per non consentirci di sanare la frattura.
    Quanto infatti allo “stato di eccezione” di cui parla Schmitt, ciò che i complottisti “colti” imputano ai poteri forti è di avere appreso sin troppo bene la lezione schmittiana e di averne fatto uno strumento per poter tenere più agevolmente sotto costante ricatto l’umanità intera. E il caso della pandemia ne sarebbe solo l’esempio ultimo e più eclatante. Ora, io credo che ciò che non viene inteso sia che noi viviamo realmente in un costante stato di eccezione, che la velocità e l’entità stessa delle trasformazioni in atto lo impone, e ne fa davvero la normalità. Che è quindi un difetto di sistema, non uno stratagemma di guida.

  • Tutto questo per dire che dietro il complottismo c’è il rifiuto della storia (salvo poi inventarne una tagliata su misura – l’invenzione della tradizione – per poter recriminare sulla sua scomparsa). E non parlo di una storia “necessaria”, di hegeliana memoria, di uno Spirito assoluto che si manifesta contestualmente alla propria realizzazione: parlo di quella storia il cui senso ci sfugge, perché forse non ne ha, che procede incurante delle grandezze e delle miserie umane e macina tutte assieme speranze e illusioni, che di tutte queste cose si nutre e ne fa la somma algebrica, ma poi la compara a quanto la natura (e di questa natura fa parte anche quella “umana”, in qualsiasi modo la si voglia intendere) e il caso ci concedono.
    Ho infatti sempre pensato che in tutti i possibili disegni intervenga pesantemente lo zampino del caso. In controtendenza rispetto alle mode attuali, sono rimasto un estimatore di Guicciardini: “Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmitá, di caso, di violenzia ed in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo; quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona; non è cosa di che io mi maravigli piú, che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile”. (Ricordi, 161)
    Il che non significa che siamo totalmente nelle mani di un Fato, comunque lo voglia intendere, o appunto del caso, ma che è già molto difficile tenere le fila di una singola esistenza o di un progetto apparentemente semplice come la coltivazione di un campo: figuriamoci quelle del mondo intero. Soprattutto considerando che in un’ottica naturalistica noi siamo degli intrusi: un prodotto venuto male.
    Nel pensiero dei complottisti vedo invece una grave presunzione antropocentrica, come se gli uomini potessero dirigere anche tutto ciò che è loro esterno, tutto ciò che attiene alla natura. Io sono solidale con Leopardi e Camus. La natura non ci ama, non perché sia matrigna, ma perché se anche pensasse, se anche avesse un disegno, noi saremmo solo una impercettibile macchiolina sul margine del foglio.
  • Dubito inoltre, e continuo a farlo a dispetto della bioingegneria e delle possibilità che sembra aprire, che sia controllabile anche la natura interna dell’uomo, la cosiddetta “natura umana”. La riflessione post-moderna si avvoltola nel paradosso per cui da un lato rivendica una libertà individuale illimitata e dall’altro considera poi invece gli uomini come se rispondessero ad un modello unico. Le differenze tra le varie confessioni del post-modernismo si basano solo sul considerare la “natura umana” positiva o negativa, più plastica o meno, ma pur sempre supponendo che esista e che sia la stessa per tutti. Cosa che non è, o almeno è vera solo in parte, perché il processo culturale ha scombinato i meccanismi evolutivi. Tutti gli animali possono essere più o meno intelligenti: solo gli umani possono essere stupidi.
    In tal senso, il ritornello populista (ma lo sento ripetere in continuazione anche da Cacciari) per cui “la gente non è stupida” è una solenne stupidaggine. Ed è anche contradditorio: postula che sia in atto una manipolazione delle coscienze a livello globale, operata da un gruppo ristretto di furbi a spese di una massa di allocchi, ma dice che gli allocchi non sono tali, perché capiscono benissimo che li stanno fregando. Ora, io credo invece che oggi più che mai sia verificata la legge enunciata da Carlo Maria Cipolla, per cui sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione (si pensi alle decine e decine di milioni di americani – metà della popolazione – che hanno votato Trump e che domani sarebbero pronti probabilmente a votare Icke). Ma se è giusto il parametro identificativo annesso, per cui Una persona stupida è quella che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita, non è nemmeno necessario spostarsi oltreoceano. È sufficiente uscire di casa e vedere come sono ridotti muri e marciapiedi delle nostre città.
    Cipolla aveva già preventivamente e indirettamente risposto ad Agamben: la vera lobby, più potente delle maggiori organizzazioni criminali o dei più influenti gruppi finanziari o cartelli industriali, che agisce senza alcuna organizzazione ma è sempre straordinariamente coordinata ed efficace, è quella degli idioti: e lo fa senza bisogno di celarsi dietro il segreto, alla luce del sole. La “gente” è stupida. Che poi lo sia perché con l’accelerazione impressa dalla modernità ha perso il contatto, non tiene il passo ed è indotta quindi a comportamenti apparentemente difensivi di rifiuto, di sospetto ecc.. è un altro discorso. Il dato di fatto è che dietro il rifiuto e il sospetto, quando si manifestano nei termini di un complottismo generalizzato, c’è ignoranza, c’è pigrizia mentale, c’è presunzione, e troppo spesso c’è anche un’arrogante malafede.
  • Tutti i complottisti, e tutto il sottobosco post-modernista, populista e new age nel quale fioriscono, sembrano vagheggiare il ritorno ad un mitico “mondo di prima” (anche se non si capisce bene a “prima quando”, quanto indietro occorrerebbe tornare). Avendo avuto la ventura di conoscere, almeno per un certo periodo della mia esistenza, quel mondo (a differenza di coloro che lo rimpiangono), so quanto la coercizione morale fosse presente anche in quel tipo di società, e come una “norma” fosse già in essa ben presente. Sono anche cosciente delle differenze, di quanto la presenza del potere fosse meno pervasiva e condizionante: ma ciò non toglie che il condizionamento, attraverso altre forme, fosse pesante. È possibile che io sia inconsciamente condizionato molto più di mio nonno: di certo però, fossi nato anch’io nel 1890, difficilmente avrei scritto queste cose. Ho potuto fare scelte che a lui non sarebbero state consentite, ma che soprattutto non sarebbe nemmeno arrivato ad affrontare, o a concepire.
    Qualcosa da eccepire ho anche sulla profezia di Foucault, secondo la quale le categorie escluse dalla “normalità” sono destinate ad una brutta fine. Vedi gli omosessuali, i “disturbati”, ecc. Per affermarlo si basa sul fatto che sono stati pensati nel corso degli ultimi tre secoli luoghi di concentramento e di esclusione per tali categorie, ma soprattutto che sono state formulate teorie razziste (il razzismo biologico), che offrono uno strumento alla biopolitica. Certamente, il razzismo non solo esclude di fatto una parte della popolazione, ma crea per estensione un timore di contagio, la paura che la parte “legittima” possa essere infettata dalla non-normalità. E di qui all’eugenetica il passo è breve.
    Sul fatto però che il razzismo biologico sia una “creazione” rientrante nel grande complotto della modernità, ho molti dubbi. Riesco a spiegarlo benissimo come un espediente per giustificare la schiavitù, da un lato, e come una reazione molto “naturale” al fatto che in un mondo globalizzato le varie etnie si incontrano e si mescolano sempre più, dall’altro. E anche altri aspetti di questa deriva sembrano essere smentiti: non mi pare ad esempio che il processo di esclusione si sia intensificato nei confronti dell’omosessualità. Direi piuttosto il contrario. A meno che nel suo riconoscimento sociale non si voglia vedere un’altra astuzia della congiura della ragione, mirante a risolvere il problema della sovrappopolazione.
  • Il problema è proprio questo: siamo davvero troppi, in rapporto al pianeta che ci ospita. C’è un dato (peraltro controverso) proposto dal biologo Edward O. Wilson, per cui la massa degli umani sarebbe un decimo di quella delle formiche: mentre il peso, inteso come sfruttamento delle risorse, che esercitano sulla terra è comunque migliaia di volte superiore. Ciò accade perché siamo padroni della tecnica, ma la tecnica è a sua volta ciò che ci definisce come umani. E che oggi, dopo averci consentito di crescere e moltiplicarci, rende una gran parte di noi obsoleti. Quindi siamo in esubero, sia come prodotti naturali che come prodotti culturali.
    Possiamo anche credere di essere chiamati a scegliere una via d’uscita, se vogliamo pensare che ancora esista: ma di fatto la scelta è già imposta. E non dai poteri forti, ma dalla natura stessa. Piuttosto, questa scelta può essere fatta in maniera ordinata, anche se non indolore, con le mascherine e i sedativi che il sistema sarà in grado di procurare ed imporre, oppure lasciando libero campo ai virus e alle pandemie, che arrivano da soli, non hanno bisogno di essere creati e diffusi artificialmente. E laddove non bastasse, potranno supplire i conflitti, quelli politici e quelli sociali, che si profilano già minacciosi (guerre per l’acqua, migrazioni, ecc…)

Certo, di fronte a tutto questo l’idea di un grande complotto appare comunque consolatoria. Se tutto accade perché qualcuno trama, è sufficiente smascherarne e impedirne le trame perché il problema sia risolto. Ma se a tramare sono tutti, per non raccontarsi la verità, allora nemmeno vale la pena risolverlo.

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​La morale e le favole

di Nico Parodi, 28 novembre 2020

In attesa di sviluppare in maniera un po’ più approfondita il discorso sui meccanismi che determinano i comportamenti umani, vorrei contribuire nell’immediato con qualche considerazione sui temi che mi sembrano maggiormente caratterizzare, soprattutto in quest’ultimo periodo, la “linea” degli interventi apparsi sul sito: ovvero, il fenomeno del complottismo, la religione laica, l’esistenza o meno di un sentimento morale condiviso. È una prima risposta all’invito lanciato da Paolo in “Acufeni?”: spero di averne bene interpretato il senso.

Siamo tutti complottisti?

Il classico detective dei libri gialli in presenza di un delitto cerca di scoprire l’arma e il movente, basandosi su una serie di indizi per crearsi un identikit mentale del colpevole. E fin qui non agisce in modo molto diverso dai complottisti che cercano dietro ogni accadimento difficilmente spiegabile (ma spesso anche dietro quelli spiegabilissimi) gli autori di una congiura. La differenza, oltre che nelle indubbie superiori qualità intellettive dell’investigatore, sta nel fatto che quest’ultimo deve fornire delle prove, mentre il complottista ne fa tranquillamente a meno, o al più se le inventa.

Quindi, diciamo che in comune c’è una disposizione, un atteggiamento di fondo: a fare la differenza è il modo nel quale viene condotta l’indagine. Sulla disposizione originaria agisce un meccanismo di risposta biologica. In presenza di un qualsiasi oggetto o fatto la mente umana cerca di capire a cosa serve, da chi o da cosa è causato e, se si tratta di esseri viventi, quali siano le intenzioni dell’ideatore. Il tentativo di mettere in connessione dei fatti tramite una relazione di causa-effetto, che è riscontrabile in qualche misura anche in altri animali, è indubbiamente utile dal punto di vista evolutivo: è quello che ci ha permesso di sviluppare le nostre conoscenze, nonché di progettare e realizzare sulla loro scorta gli strumenti che ci hanno portato all’attuale livello di competenze tecnologiche.

Ora, nell’analizzare il mondo la mente umana sembra servirsi di un modulo mentale specializzato in operazioni di “ingegneria inversa” (quella che dallo studio di un oggetto ne ricostruire il progetto). È un percorso che di norma funziona. Spesso però le urgenze legate alla sopravvivenza impongono al nostro cervello di trovare soluzioni rapide: e allora ricorriamo a scorciatoie “euristiche” che in molti casi portano a conclusioni sbagliate.

Se infatti la ricerca delle cause o delle intenzioni non offre spiegazioni logiche soddisfacenti (o ne offre di troppo complesse, magari al di fuori della nostra portata o del nostro livello di conoscenze) finiamo per tagliare corto, sconfinando dall’ambito del razionale e del dimostrabile, e immaginarne di fantasiose che ci fanno presumere di aver trovato una risposta senza eccessivo sforzo. Questo vale naturalmente tanto più per gli accadimenti: di fronte a fatti o situazioni, siano essi reali o presunti, rispetto ai quali non possediamo gli strumenti per individuare connessioni logiche, l’idea che ci sia qualcuno che congiura per fini poco chiari risolve a basso costo il problema e maschera a noi stessi la nostra ignoranza.

Questo è il vero discrimine. Il sospetto è infatti costituzionalmente e direttamente proporzionale all’ignoranza: ma ha una funzione positiva quando opera nella consapevolezza di questa ignoranza, quando cioè ci motiva a superarla facendo uno sforzo conoscitivo: mentre opera negativamente quando ci crea la presunzione di avere già tutte le spiegazioni in mano, magari con l’avallo di una condivisione diffusa (il famigerato: se lo pensano tanti, qualche motivo ci sarà).

Senza altri giri di parole, quando da metodo d’indagine (quindi da motivatore della domanda) il sospetto diventa una componente fissa della risposta, tutta la sua valenza conoscitiva va a farsi benedire: anzi, si traduce in zavorra, e spegne la nostra sete di verità con un surrogato velenoso e paralizzante.

Il complottismo è dunque il prodotto di scarto di una normale funzione della nostra mente: e non sarebbe di per sé eccessivamente preoccupante (in ogni processo produttivo ci sono disfunzioni), non fosse che l’errore sta diventando la norma, sta dilagando, e in una società pressapochista come la nostra comincia ad essere omologato per buono. In realtà, anche in un’ottica grettamente “economicistica” non andrebbe condannato solo perché è una “perversione” di un processo mentale corretto, ma anche perché in termini “evolutivi” non funziona affatto (se non per coloro che ci marciano). Offrendo spiegazioni scorrette dei problemi non consente di affrontarli in maniera efficace, e ne crea anzi di ulteriori.

Ne sanno qualcosa tutti quei poteri, più o meno occulti, che da sempre hanno usato le teorie del complotto per scaricare su gruppi sociali, etnici o religiosi, o su poveracci designati comunque come capri espiatori, le proprie responsabilità e nequizie. La cosa vale ancor più oggi, per quei complotti cosmici di cui è popolato Internet e che rimangono misteriosi e insondabili perché hanno la stessa caratteristica che Simmel attribuiva al segreto, il quale segreto è tanto più potente e seducente quanto più è vuoto. Un segreto vuoto si erge minaccioso e non può essere né svelato né contestato, e proprio per questo diventa strumento di potere.

La differenza sta semmai nel fatto che un tempo la sindrome complottista poteva trovare una parziale giustificazione nella difficoltà per la stragrande maggioranza di accedere a conoscenze e informazioni corrette. E che comunque viaggiava sotterranea, salvi sporadici momenti di esplosione, in genere creati ad arte da chi teneva le fila. Oggi non ha più diritto ad alcuna giustificazione del genere (ma nemmeno la cerca): oggi è solo frutto di una ignoranza presuntuosa e proterva, che ambisce a farsi massa e norma, che rivendica una sempre maggiore visibilità e che trasferisce su misteriose forze occulte la paura e il disprezzo che prova quando si guarda allo specchio.

Il Valium dei popoli

Da tempo vedo con crescente insofferenza ricorrere gli indizi della nascita di una “religione laica”. Mi disturba anche il fatto che siano poche le persone provviste di una certa cultura che manifestano apertamente la loro preoccupazione al riguardo. Eppure i segnali sono molti, e per coglierli è sufficiente sfogliare i giornali o assistere a qualche trasmissione televisiva con un po’ di spirito critico.

La biologia ci insegna che ogni nicchia ecologica libera viene invariabilmente colonizzata da qualche nuova specie. Allo stesso modo, evidentemente, anche nella società a tecnologia avanzata la perdita di consenso e di credito delle religioni tradizionali ha creato un vuoto, e questo vuoto viene occupato o da un edonismo sfrenato oppure, fra quelli che per indole o cultura cercano risposte meno insignificanti, da comportamenti che finiscono per assumere la forma e i contenuti di una “religione laica”.

Certo, può sembrare un ossimoro una religione senza divinità, ma in questo caso il ruolo di divinità è assunto dal concetto di “ciò che è bene/ciò che è giusto”. A ben guardare, nella nuova religione laica è presente, come nelle religioni classiche, il mito dell’evento che dà inizio al nuovo regno del “bene” (declinato poi in innumerevoli versioni), compaiono figure di martiri, santi, profeti, così come dogmi e catechismi: ma, soprattutto, si forma una classe di “amministratori” dell’idea di “bene” che giudicano e pronunciano anatemi contro gli eretici.

Ora, quelli di buono/cattivo, bene/male sono concetti legati allo stato di benessere del singolo vivente. In particolare negli esseri umani il giudizio di valore dipende da emozioni e sentimenti, e non dall’esame razionale e astratto di uno stato o di un avvenimento. Se esaminiamo razionalmente un fenomeno per giudicarlo, avremo come risultato il “funziona” o “non funziona” per un determinato scopo, e non “è bene” o “è male”.

La nuova religione laica invece, come le altre religioni, ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male basando i suoi giudizi non su una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma su parametri che sono frutto di emozioni e sentimenti. E per giunta i suoi adepti pretendono che tutti si adeguino ai “sacri valori” cosi identificati.

Per il momento i depositari della “verità laica” non lanciano fatwe contro gli infedeli (o perlomeno, non esplicite. Anche se non mancano gli esempi di fanatici che leggono nella denuncia un invito alla “guerra santa”): intanto però rinnovano la tradizione dei libri “proibiti” e arrivano anche a creare un “indice” dei buoni e dei cattivi. Nel caso riportato da Paolo in Acufeni? si attengono alla lettera della Bibbia, facendo ricadere su nipoti e pronipoti colpe degli avi che sembravano dimenticate. Ma ancora più grave è che si discuta di leggi che stabiliscono quali sono i modi giusti di pensare. Anzi, alcune di queste leggi esistono già, e sono ispirate ad una concezione molto ambigua di ciò che va considerato “politicamente corretto”.

Qui bisogna intenderci. La correttezza è senz’altro una gran bella cosa. Se fosse esercitata da tutti in tutte le funzioni e all’interno di ogni tipo di relazione risolverebbe d’incanto metà dei problemi dell’umanità. Sappiamo però, purtroppo, di non poterci contare, e infatti le cose vanno come vanno. È dunque giusto cercare là dove possibile di salvaguardarla. Ma sappiamo anche che imporla per legge è assurdo, è una attitudine che va educata (e spesso non basta nemmeno questo, prevalgono le disfunzioni caratteriali) e tutto in questo mondo liquido sembra congiurare invece a diseducarla.

Quindi, i problemi in questo caso sono due, e vanno affrontati in maniera diversa. Il primo è quello di chiarire che la correttezza non sta nel modo in cui si pensa, ma nel modo in cui si manifesta e si professa il proprio pensiero. Di stabilire cioè che ciascuno è libero di pensarla come vuole, purché poi, all’atto pratico, questo pensiero non si traduca in una prassi che offende o danneggia gli altri. Ma questo implica a sua volta reciprocità, e cioè che nessuno si senta offeso per il solo fatto che altri la pensino diversamente da lui. Che è invece proprio il caso dei “nuovi credenti”. L’altro problema, questo si necessitante di leggi e normative chiare e severe, è semmai quello di contenere le manifestazioni di scorrettezza davvero eclatanti, offensive e dannose, quelle che sono il pane quotidiano delle trasmissioni televisive, delle quali si nutre la stampa scandalistica, che costituiscono ormai la regola nei comportamenti diffusi, ad ogni livello, e delle quali pare invece non si scandalizzi più nessuno.

A tali comportamenti si aggiungono ora le liste di proscrizione, le statue abbattute, le teorie del complotto, i libri per il momento solo segnalati ma domani eventualmente destinati al rogo, magari assieme ai loro autori. Chissà perché, tutto questo mi suona come un “già visto”, se non da me personalmente senz’altro da chi è venuto appena prima di me, nemmeno troppo tempo fa. E penso che oggi sia più che mai necessario ribadire e difendere i principi dell’illuminismo, ricordando quanto diceva Kant: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.

Questa si chiama correttezza!

Il buono e il cattivo, l’utile e il dannoso

Sul tema della morale, così come sugli altri cui sopra ho accennato, mi riservo di tornare con calma in un’altra occasione. Voglio però anticipare alcune brevi considerazioni, che utilizzerò come fossero dei postulati per sviluppare il ragionamento successivo. Sono considerazioni che nascono da ricerche ormai consolidate, e possono quindi essere proficuamente adottate per analizzare la realtà complessa delle nostre società. In ottemperanza a quanto scritto sopra, non hanno la pretesa di costituire delle “verità” definitivamente conquistate. Le considero “strumenti affidabili di lavoro” per avvicinarmi ad una maggiore conoscenza (ed autocoscienza).

1. Credo possiamo tutti concordare nel definire l’uomo un animale social-culturale la cui sopravvivenza è legata alla convivenza collaborativa, alla cultura e alla sua trasmissione. Esperienze alla Thoreau (o alla Rambo) presuppongono il possesso di strumenti più o meno sofisticati, conoscenze e addestramento prodotti di una cultura che può essere frutto solo di una società complessa, quindi patrimonio di tutti e non del singolo individuo.

2. Un’altra considerazione da fare è che, in natura, bene/male giusto/ingiusto sono etichette soggettive di valore che applichiamo a qualcosa che funziona o non funziona. Il valore può essere misurato sul tornaconto immediato dell’individuo o su un vantaggio per il gruppo, più indiretto, ma di efficacia maggiore nel tempo. Rubare la cacciagione ad un membro del mio gruppo nell’immediato funziona, ma funziona meglio nel tempo la capacità di collaborare nella caccia per renderla più redditizia dividendo equamente le prede.

3. La morale è il risultato dell’evoluzione. Già i batteri mostrano un comportamento che, se non sapessimo di trovarci di fronte a unicellulari, quindi esseri privi di una mente e di un cervello, potremmo interpretare come regolato da principi morali1. Anche il nematode Caenorhabditis elegans mostra in alcuni casi un comportamento cooperativo, grazie a due neuroni che, eliminati, trasformano il nematode in un individuo non cooperativo (cfr. Steven Rose – Il cervello del XXI secolo).

4. Ovviamente, anche in organismi evoluti in tempi più recenti si manifesta il comportamento collaborativo, in particolare nell’uomo. La valutazione, automatica, di funzionalità per il singolo e per il gruppo che attribuiamo ai comportamenti cooperativi (un giudizio di valore in senso biologico, secondo Michael Tomasello), diventa il fondamento dei nostri giudizi morali2\. Anche Jonathan Haidt afferma che le intuizioni morali avvengono in modo automatico e inconscio: la ragione funziona poi come un “avvocato” che giustifica la scelta fatta. Fortunatamente a certe condizioni la ragione riesce a fare qualche revisione: “la natura umana non solo è intrinsecamente morale: è anche intrinsecamente moralistica”. Insomma, la morale è a un tempo stesso innata (un insieme di intuizioni evolute) e appresa (i bambini imparano ad applicare queste intuizioni all’interno di una particolare cultura).

5. Il processo che ci ha portato ad una morale tipicamente umana si ipotizza sia iniziato circa due milioni di anni fa, procedendo in una sorta di “autodomesticazione”. Sempre secondo Tomasello (in Storia naturale della morale umana), negli ultimi due milioni di anni gli appartenenti al genere Homo hanno sviluppato una “morale della simpatia” (o altruismo di parentela) che condividono con le altre grandi scimmie, mentre partendo da circa 400.000 anni fa hanno sviluppato la “morale della seconda persona” (o altruismo reciproco), che è già un gradino più complessa. Negli ultimi 150.000 poi, con la crescita della popolazione e il passaggio ad un’organizzazione tribale più ampia, fatta di diversi gruppi che dovevano estendere una qualche forma di collaborazione (ad esempio, a scopo di difesa), hanno sviluppato quella che è definita “morale oggettiva” (impersonale), che si applica in un ambito allargato, teoricamente a tutti i propri simili. Le relazioni non sono più limitate al piccolo gruppo di cacciatori (max 150 persone) regolato da rapporti interpersonali diretti: si rende necessario collaborare con altri gruppi con la stessa cultura, con cui si condividono regole di comportamento riconosciute come “il modo giusto di fare le cose”. Su questa strada, in una progressione geometrica a partire dalle società agricole, utilizzando sistemi di comunicazione evoluti, attraverso racconti, miti, religioni, istituzioni varie, l’umanità si è dotata di un insieme di norme che regolano i rapporti non solo tra gli appartenenti al gruppo ma tra tutti gli uomini.

6. La “morale della simpatia” e la “morale della seconda persona”, selezionate evolutivamente, hanno lasciato tracce genetiche che condizionano lo sviluppo del cervello, ciò che probabilmente fanno anche alcuni aspetti della “morale oggettiva”. Altri aspetti della morale dei nostri tempi sono costruzioni puramente culturali3. La nostra “mente della moralità” utilizza strumenti che definiamo “senso di equità, di obbligo, di colpa” “mantenimento della reputazione sociale”. La critica aperta e anche il pettegolezzo sono da sempre usati per censurare comportamenti scorretti: assolvono ad un ruolo educativo nei confronti di chi partecipa o assiste alla discussione.

7. Lo sviluppo del cervello è frutto della genetica e dell’ambiente e, nell’uomo, prosegue fin oltre i 20 anni; ma anche dopo le connessioni tra i vari neuroni continuano a modificarsi (il cervello umano è fatto di 1011 neuroni e 1015 connessioni). I neuroni, collegati da assoni e dendriti, si organizzano in circuiti e sistemi di diversa complessità, che non si modificano solo durante lo sviluppo. Grazie alla plasticità del cervello si verificano creazioni e demolizioni di sinapsi in relazione agli stimoli. Se, per semplificare, vogliamo utilizzare il raffronto con i computer, potremmo assimilare i circuiti formati da neuroni, assoni, dendriti e sinapsi ad una CPU (e a memorie EPROM) che si aggiornano in relazione alle esperienze di vita del “proprietario” del cervello.

8. Nessuna forma di convivenza cooperativa può reggere se all’interno non funziona un meccanismo di premio punizione. Il meccanismo di ricompensa e punizione funziona all’interno di ciascun organismo e funziona anche all’interno di gruppi o società complesse basate sulla cooperazione. I procedimenti della giustizia svolgono all’interno delle società evolute una funzione assimilabile al sistema immunitario di un organismo: cercano di bloccare i comportamenti dannosi (punizione). Le società che funzionano dovrebbero essere in grado di innescare meccanismi premiali per i comportamenti virtuosi, quali la reputazione sociale, l’aumento della “fitness riproduttiva”, ecc… Di valersi cioè, ai fini della coesione sociale, dell’appagamento delle tendenze morali istintive prodottesi nel corso dell’evoluzione.

Per il momento è tutto. Credo però sia già sufficiente ad offrire qualche elemento di riflessione. Per cominciare, a farci capire che dietro il complottismo o l’integralismo dei neo-convertiti non c’è un super-complotto. Ci sono solo cervelli in panne, o sottoalimentati. Purtroppo questa constatazione non ci consola. Le fonti energetiche per i cervelli si vanno prosciugando, e al di sotto un certo limite non sono rinnovabili. E forse quel limite lo abbiamo già superato. 

Note

1 «Nella dinamica sociale complessa, se pure priva di mente, da essi creata i batteri possono cooperare con altri batteri, imparentati o meno dal punto di vista genomico. E nella loro esistenza priva di mente risulta che assumono addirittura quella che si può soltanto definire una sorta di «attitudine morale». I membri più stretti di un gruppo sociale – una famiglia, per così dire – si identificano reciprocamente grazie alle molecole di superficie che producono o alle sostanze che secernono, le quali sono a loro volta specificate dai loro genomi individuali. Ma i gruppi di batteri devono fronteggiare l’avversità dell’ambiente e devono spesso competere con altri gruppi per conquistare territorio e risorse. Affinché un gruppo abbia successo, i suoi membri devono cooperare. E ciò che può succedere durante lo sforzo di gruppo è affascinante. Quando individuano nel loro gruppo dei «disertori», vale a dire particolari membri che si sottraggono al compito della difesa, i batteri li emarginano, persino se sono imparentati dal punto di vista genomico e fanno quindi parte della loro famiglia. I batteri non coopereranno con batteri imparentati che non svolgono la propria parte e che non contribuiscono agli sforzi del gruppo; in parole povere, ignorano i batteri voltagabbana non cooperativi». (Antonio Damasio – Lo strano ordine delle cose – Adelphi ed.)

2 «I complicati meccanismi neurali in cui sono implicate le molecole associate al «valore» rappresentano un tema importante, su cui molti neuroscienziati sono oggi impegnati a far luce. Che cosa induce i nuclei a liberare quelle molecole? Dove sono liberate, precisamente, nel cervello e nel resto del corpo? Che cosa accade con la loro liberazione? In un modo o nell’altro, le discussioni sulle nuove affascinanti scoperte tradiscono le nostre aspettative proprio quando passiamo alla domanda fondamentale: Dove si trova il motore dei sistemi del valore? Qual è il primordio biologico del valore? In altre parole, che cosa mette in moto questo sofisticatissimo macchinario? Perché esso ebbe inizio? E perché è diventato quello che è diventato?
Senz’ombra di dubbio, le note molecole e i loro nuclei di origine sono componenti importanti del meccanismo del valore, ma non sono* la risposta alle nostre domande. Io considero il valore indissolubilmente legato al bisogno, e il bisogno alla vita. Nelle quotidiane attività sociali e culturali noi formuliamo valutazioni che hanno una connessione diretta o indiretta con l’omeostasi.
Quella connessione spiega perché i circuiti del cervello umano siano stati dedicati in modo tanto dispendioso non solo alla previsione e al rilevamento di perdite e guadagni, ma anche al timore delle prime e alla promozione dei secondi. Ciò spiega, in altre parole, perché gli esseri umani siano ossessionati dall’assegnazione di un valore.
Direttamente o indirettamente, il valore ha a che fare con la sopravvivenza; in particolare, nel caso degli esseri umani, ha a che fare anche con la qualità di quella sopravvivenza, nella forma di benessere. Il concetto di sopravvivenza – e, per estensione, il concetto di valore biologico – può essere applicato a diverse entità biologiche, a partire dalle molecole e dai geni fino a interi organismi.» (Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi ed.)

3 «Innanzi tutto, la selezione opera su migliaia di generazioni. Per il novanta per cento dell’esistenza umana, gli uomini hanno vissuto da cacciatori e raccoglitori in piccole bande nomadi. I nostri cervelli sono adattati a quel modo di vivere morto e sepolto, non alle nuove civiltà agricole e industriali. Non sono programmati per far fronte a folle anonime, alla scuola, alla lingua scritta, al governo, alla polizia, ai tribunali, agli eserciti, alla medicina moderna, alle istituzioni sociali ufficiali, all’alta tecnologia e altri nuovi venuti nell’esperienza umana. E poiché la mente moderna è adattata all’età della pietra, non a quella del computer, non c’è alcun bisogno di sforzarsi di trovare spiegazioni adattive di tutto quanto facciamo. Nel nostro ambiente ancestrale non c’erano le istituzioni che oggi ci spingono a scelte non-adattive, come gli ordini religiosi, le agenzie di adozione e le società farmaceutiche, quindi fino a tempi recentissimi non c’è mai stata una pressione della selezione a resistere a quegli stimoli.» (Steven Pinker – Come funziona la mente – Castelvecchi ed)

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Acufeni?

di Paolo Repetto, 25 novembre 2020

L’acufene non è una malattia, è un sintomo, come la febbre:
aspecifico. Può essere generato da diverse situazioni.
http://www.fondazioneveronesi.it

I domiciliari da Covid hanno almeno un lato positivo, che non è quello ottimisticamente pronosticato da molti all’inizio di tutta la faccenda, la favola delle ritrovate gioie del focolare domestico e del rinnovato rapporto tra genitori e figli o tra i coniugi (mai viste tante violenze tra le mura di casa come in questo periodo). No, sta molto più semplicemente nella forzata possibilità di perdere ogni tanto qualche ora in vagabondaggi nelle nebbie del web, e di misurare uno stato febbrile mentale collettivo che solo in parte è indotto dalla paura ossessiva e maligna ingenerata dal Covid; anzi, quest’ultima lo rende solo più immediatamente visibile.

Quando parlo di lato positivo non intendo quindi piacevole o divertente (oggi al “positivo” si associano ben altri significati); al contrario, è una esplorazione angosciante, ma che ci costringe quanto meno a prendere atto di una realtà che a dispetto del suo manifestarsi principalmente sul web è tutt’altro che virtuale. Non c’è alcuna scoperta, non rivelo niente di nuovo: è una realtà che tutti bene o male già conosciamo, e che all’occasione non manchiamo di deprecare. Ma poi la rimuoviamo immediatamente, con un moto di fastidio più che di preoccupazione, come fosse qualcosa che in fondo riguarda solo gli altri, per tanti che questi altri siano. È lo stesso atteggiamento, per intenderci, che manteniamo nei confronti dell’inquinamento ambientale: assistiamo alla crescita esponenziale del degrado, mutazioni climatiche repentine, ghiacciai che si sciolgono, acque che si acidificano o si plastificano, regioni enormi che si desertificano, come fossimo in trance, pensando tra noi e noi “non sono comunque io quello che può fare qualcosa”.

Ora, credo che fare il punto ogni tanto su questi fenomeni, che sono tra l’altro intimamente connessi, possa servire se non altro a scuoterci per un attimo dalla nostra apatia, a liquidare gli alibi che ci costruiamo e a metterci di fronte alle nostre singole responsabilità. Ciascuno potrà poi decidere se mutare qualcosa del suo comportamento, e nel caso, se farlo individualmente o cercare di agire in concerto con altri: ma se anche non deciderà nulla, non potrà almeno trincerarsi, davanti allo sguardo smarrito delle generazioni future, ma prima ancora di fronte a se stesso, dietro la scusante del “non sapevo, non mi rendevo conto”.

Dunque, parlavo di “febbre mentale”. Era un eufemismo, naturalmente. Quello di cui vado a scrivere è né più né meno che idiozia, cretinismo, stupidità, scegliete voi il termine. Ne ho già trattato ampiamente altrove (cfr. ad esempio Il mondo nelle mani degli stolti), direi addirittura che non ho fatto altro, ma sempre in termini molto generali, teorici, oppure stigmatizzando fenomeni singoli, quasi in forma di un divertissement preoccupato ma in fondo distaccato. Vorrei invece scendere un po’ più in profondità, perché anche il cretinismo, malgrado questo sembri un ossimoro, ha una sua ancestrale profondità, ha delle radici non solo sociali ma anche biologiche, e non va preso sottogamba, come un fenomeno di risulta, un effetto collaterale e solo un po’ fastidioso dell’evoluzione.  

Tra i collaboratori a questo sito c’è per fortuna chi ha conoscenze specifiche ben più ampie delle mie, e in futuri interventi proverà a spiegare in termini scientifici le origini e le motivazioni di questo tipo di comportamento.

Io per ora mi limito invece a produrre alcune pezze documentali ben precise, che ho pescato qua e là nel web. Le riporto seguendo un ordine “verticale” di rilevanza apparentemente decrescente, che induce un altro ordine “orizzontale” di collocazione, come si diceva una volta, da destra a sinistra. Posso garantire che sono frutto tutte della stessa escursione. Il percorso lungo il quale le ho attinte non era affatto preordinato, ma non può nemmeno essere considerato del tutto casuale: cercavo altro, ma se mi sono imbattuto in queste perle è appunto perché non c’è ambito al quale il cretinismo non si sia prepotentemente affacciato.

Sono notizie, ahimé, per nulla divertenti, che parlano di un istupidimento dilagante, trionfante, pericolosissimo, che andrà a toccare e già sta toccando le nostre vite in misura ben maggiore di quanto questa umana degenerazione abbia mai storicamente fatto. Sono il primo ad ammettere (e a scrivere) che da sempre, da Adamo in poi, sono state profetizzate da parte di ogni generazione sventure e apocalissi per quelle a venire: ma è pur vero che queste ultime nella maggior parte dei casi, almeno per i gruppi direttamente interessati, si sono poi verificate. E oggi però, di fronte ad un cretinismo che dispone di armi ben più potenti e incontra difese cerebrali disattivate dal bombardamento mediatico, il rischio si è davvero allargato a tutta l’umanità. È peraltro assodato che a fronte di questo tipo di contagio non si crea immunità di gregge: si crea solo il gregge.

Propongo queste cose nude e crude, così come le ho lette (citando anche la provenienza). Penso che ogni commento sia superfluo. Le lascio dunque alla vostra (spero sgomenta) riflessione, anche se già so che non potrò trattenermi dal tornarci sopra. Non sarebbe male se per una volta lo facesse anche qualcun altro.

QAnon, la teoria più amata dai complottisti americani
(Julia Carrie Wong, The Guardian, Regno Unito, 28 agosto 2020)

Per Donald Trump sono “persone che amano il nostro paese”. Per l’Fbi è una potenziale minaccia terroristica interna. E per chiunque altro abbia usato Facebook negli ultimi mesi potrebbe essere semplicemente un amico o un familiare che ha mostrato preoccupanti segnali d’interesse per il traffico di bambini messo in piedi da una “congrega” di devoti a satana o per teorie del complotto su Bill Gates e sul covid-19.

QAnon è una teoria del complotto basata sul nulla, cresciuta su internet e diventata popolare negli Stati Uniti ad agosto. Per anni i suoi adepti sono rimasti ai margini delle comunità di destra online, ma negli ultimi mesi – mentre negli Stati Uniti si diffondevano i disordini sociali e l’insicurezza dovuta alla pandemia – hanno trovato molta visibilità […].

Secondo questa teoria il mondo è governato da una congrega di celebrità di Hollywood, miliardari e democratici satanisti. Queste persone avrebbero messo in piedi un traffico di bambini e stanno cercando di allungarsi la vita usando un composto chimico preso dal sangue dei bambini vittime di abusi. I sostenitori di QAnon credono che Donald Trump stia conducendo una battaglia segreta contro questa congrega e i suoi collaboratori dello “stato profondo”, per rendere noti questi malfattori e mandarli tutti nella prigione della base statunitense di Guantanamo, a Cuba. Il presidente (che ha un ruolo fondamentale nella narrazione falsa di QAnon) si è naturalmente rifiutato di prendere le distanze: anzi, ha elogiato i sostenitori di QAnon, definendoli dei patrioti.

Esistono molte trame nella narrazione di QAnon, tutte improbabili e infondate: quella secondo cui John Kennedy, presidente assassinato nel 1963, sia in realtà ancora vivo; un’altra che accusa la famiglia Rothschild di controllare tutte le banche; oppure quella secondo cui i bambini rapiti sono venduti attraverso il sito web del rivenditore di mobili Wayfair (non è vero, ovviamente). Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, Oprah Winfrey, la modella Chrissy Teigen e papa Francesco sono solo alcune delle persone che i sostenitori di QAnon hanno scelto come i cattivi di questa realtà alternativa.

Se tutto questo suona familiare, è perché ne abbiamo già sentito parlare. QAnon ha le sue radici in teorie del complotto esistenti, in altre relativamente nuove, e altre ancora vecchie di un millennio.

L’antecedente più recente è il cosiddetto Pizzagate, la teoria del complotto che si è diffusa durante la campagna presidenziale del 2016, quando siti d’informazione e influencer di destra hanno promosso l’idea infondata che i riferimenti al cibo e a una famosa pizzeria di Washington apparsi nelle email rubate del direttore della campagna di Clinton, John Podesta, fossero in realtà un codice cifrato che si riferiva a un traffico di bambini. Gli attacchi online hanno scatenato violenza reale contro il ristorante e i suoi dipendenti, culminati nel dicembre 2016 in una sparatoria per mano di un uomo convinto che nel locale ci fossero bambini da salvare.

Ma QAnon affonda le sue radici anche in teorie del complotto antisemite molto più antiche. L’idea di una congrega onnipotente che comanda il mondo viene direttamente dal Protocollo dei savi di Sion, un documento falso in cui viene descritto un piano segreto degli ebrei per controllare il mondo, e che è stato usato per tutto il Novecento per giustificare l’antisemitismo. Un’altra affermazione falsa dei seguaci di QAnon – l’idea che i membri della congrega estraggano dal sangue dei bambini l’adrenocromo, un composto chimico, e lo ingeriscano per allungarsi la vita – è una variante moderna di un’idea antisemitica calunniosa e vecchia di secoli relativa al sangue.

(L’articolo prosegue raccontando come è cominciata tutta questa vicenda, come funzionano le piattaforme di diffusione e a chi arrivano: “I più importanti gruppi Facebook dedicati a QAnon avevano circa duecentomila membri prima che la piattaforma li mettesse al bando, a metà agosto. Quando Twitter ha preso provvedimenti simili contro gli account QAnon a luglio, la misura ha colpito circa 150mila account […] In generale QAnon sembra essere popolare soprattutto tra gli elettori repubblicani più anziani e tra i cristiani evangelici.”,

quali strategie usano: “realizzare ‘documentari’ infarciti di disinformazione, prendere il controllo di hashtag popolari online per trasformarli in strumenti per diffondere le teorie QAnon; partecipare a comizi di Trump esibendo cartelli con su scritto Q; candidarsi alle elezioni. Una dimostrazione dell’efficacia di queste tattiche è arrivata quest’estate con la campagna #SaveTheChildren o #SaveOurChildren. Questo hashtag all’apparenza innocuo, usato in passato da ONG che lottano contro la violenza sui bambini, è stato inondato di argomenti dal forte contenuto emotivo da parte di seguaci di QAnon, con riferimenti alla più ampia narrativa del movimento”,

quanta  influenza stanno esercitando: “Media matters for America, associazione che monitora i mezzi d’informazione, ha compilato una lista di 77 candidati a seggi al congresso degli Stati Uniti che hanno dichiarato di sostenere QAnon. Una di loro, Marjorie Taylor Greene della Georgia, ha vinto le primarie repubblicane e a novembre con ogni probabilità entrerà al Congresso.”

Chi è Attila Hildmann, lo chef vegano dietro gli sfregi al museo di Berlino
(da  http://www.scattidigusto.it, 22 ottobre 2020)

Attila Hildmann, 39 anni, già star vegana dei masterchef tedeschi, è il principale indiziato per l’attacco che ha danneggiato 70 opere in tre musei di Berlino. Lo scorso 3 ottobre, qualcuno ha spruzzato una sostanza oleosa su decine di capolavori conservati nei musei. Sono stati macchiati e rovinati per sempre sarcofagi egizi, sculture, immagini di divinità greche e quadri dell’Ottocento.

Ieri, la Bild e altri mezzi d’informazione tedeschi hanno adombrato sospetti proprio su Hildmann, ricostruendo l’incredibile parabola che ha cambiato la vita del cuoco berlinese di origini turche. L’ex telechef è passato dal ruolo di amato vip dei fornelli mediatici, con una seconda carriera ben avviata da autore di bestseller culinari, a essere una bandiera dell’ultradestra.

Da quando preferisce agli show per la tv (anche americana) le piazze, da dove tenta, a suo dire, di aprire gli occhi a tutti i poveri stolti alle prese con l’epidemia globale, lo chef xenofobo, complottista, nonché negazionista del Covid-19, si è trasformato in un propagandista della spazzatura complottista sul Coronavirus. È stato lui a diffondere ai 100 mila follower del suo canale Telegram, il messaggio secondo cui il Pergamon Musem non sarebbe stato chiuso per la pandemia. Il vero motivo sarebbe la presenza all’interno del museo del “Trono di Satana”, essendo di fatto il Pergamom il “centro dei satanisti e dei criminali del Coronavirus”.

Martedì Attila Hildmann ha condiviso un link sui social che rimandava a un articolo sull’attacco ai musei. Il suo commento? “Fatto! È il trono di Baal (Satana)”.

Avevano fatto scalpore nel settembre scorso i messaggi pubblicati dal cuoco vegano ancora una volta sul suo canale Telegram. Protagonista la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in realtà sarebbe ebrea e a capo di “un regime sionista” che all’interno del Pergamom Museum consuma “sacrifici umani”.

Ted Huges, il poeta nella black list della British Library
(da http://www.leggo.it 22 novembre 2020)

Il celebre poeta Ted Hughes è stato aggiunto a un dossier che lo collega alla schiavitù e al colonialismo dalla British Library. Il poeta, nato in una famiglia di umili origini nello Yorkshire, è risultato essere un discendente di Nicholas Ferrar, che era coinvolto nella tratta degli schiavi circa 300 anni prima della nascita di Hughes.

Ferrar, nato nel 1592, e la sua famiglia erano “profondamente coinvolti” con la London Virginia Company, che cercava di stabilire colonie nel Nord America. La ricerca, ha riferito The Telegraph, è stata condotta per trovare prove di “connessioni con la schiavitù, profitti dalla schiavitù o dal colonialismo”.

Hughes è nato nel 1930 nel villaggio di Mytholmroyd nel West Yorkshire, dove suo padre ha lavorato come falegname prima di gestire un’edicola e una tabaccheria. Ha frequentato l’Università di Cambridge con una borsa di studio, e lì ha incontrato la sua futura moglie Sylvia Plath.

Quello di Hughes, che morì nel 1998, non è l’unico nome illustre della letteratura inglese identificato dalla British Library come beneficiario dei proventi della schiavitù attraverso parenti lontani: nella lista ci sono anche Lord Byron, Oscar Wilde e George Orwell. Tra gli intenti dell’istituzione, diventare “attivamente antirazzisti” fornendo un contesto alla memoria di personaggi storici sulla scia del movimento Black Lives Matter.

Ma il tenue legame tra Hughes e Ferrar, al quale è imparentato per parte di madre, ha suscitato l’ira tra gli esperti del grande scrittore. Il suo biografo, Sir Jonathan Bate, ha dichiarato: «È ridicolo incastrare Hughes con un legame con la tratta degli schiavi. E non è un modo utile per pensare agli scrittori. Perché diavolo giudichi la qualità del lavoro di un artista sulla base di antenati lontani?». Bate ha aggiunto che Ferrar era meglio conosciuto come sacerdote e studioso che ha fondato la comunità religiosa Little Gidding.

Il poeta romantico Lord Byron è stato aggiunto a questa lista perché il suo bisnonno era un commerciante che possedeva una tenuta a Grenada. Suo zio, attraverso il matrimonio, possedeva anche una piantagione a St Kitts.

Oscar Wilde è stato incluso a causa dell’interesse di suo zio per la tratta degli schiavi, anche se la ricerca ha rilevato che non c’erano prove che l’acclamato scrittore irlandese abbia ereditato alcun denaro attraverso la pratica.

George Orwell, che era nato Eric Blair in India, aveva un bisnonno che era un ricco proprietario di schiavi in Giamaica. Ma la Orwell Society ha specificato che il denaro era già scomparso tempo prima che Orwell nascesse.

Cosa ha detto J.K. Rowling sulle persone transgender e le donne
(www.ilpost.it 11 giugno 2020)

Mercoledì sera J.K. Rowling, notissima autrice dei libri su Harry Potter, ha pubblicato un lungo post sul suo sito per rispondere alle critiche e alle accuse di transfobia ricevute dopo alcuni suoi recenti commenti sull’identità di genere e su quello che lei definisce il “nuovo attivismo trans”, e per spiegare perché si è espressa pubblicamente su questi temi.

«Non mi piegherò di fronte a un movimento che ritengo stia facendo danni dimostrabili nel tentativo di erodere il concetto di “donna” come classe politica e biologica, offrendo protezione ai molestatori come pochi nella storia».

Ha inoltre rivelato di aver subito violenze domestiche e abusi sessuali durante il suo primo matrimonio, citando questa esperienza – insieme al suo passato di insegnante e alla sua convinzione dell’importanza della libertà di parola – come una delle ragioni a sostegno delle sue idee rispetto all’identità di genere e ai diritti delle persone trans.

Negli ultimi anni, Rowling ha più volte espresso opinioni controverse sul concetto di sesso e di identità di genere e sui diritti delle persone trans. Nel suo post ha commentato e cercato di spiegare le volte in cui era successo e ha fatto riferimento più approfonditamente all’episodio più recente, avvenuto lo scorso weekend. Sabato scorso Rowling aveva ironizzato sull’utilizzo dell’espressione “persone che hanno le mestruazioni” nel titolo di un articolo del sito Devex, che usava l’espressione per includere esplicitamente persone trans e non binarie: «Sono sicura che esistesse una parola per queste persone» ha scritto Rowling, «Aiutatemi… Danne? Done? Dumne?».

Il commento implicava una corrispondenza automatica tra le persone che hanno le mestruazioni e le donne: negando così la possibilità che esistano persone che le hanno ma non si identificano come donne (alcuni uomini trans, o persone che non si identificano in alcun genere, ad esempio), e ha generato critiche e discussioni.

Domenica Rowling ha risposto con tre nuovi tweet, affermando di «conoscere e sostenere persone transgender», ma opponendosi a «cancellare il concetto di “sesso”».

Anche questi tweet hanno ricevuto molte critiche e risposte, anche da famosi attori e attrici che avevano lavorato a film tratti dalla sua saga. Lunedì, ad esempio, l’attore Daniel Radcliffe – interprete del personaggio di Harry Potter nella serie di film tratti dai libri di Rowling – ha pubblicato una lettera in cui prendeva le distanze dalle parole di Rowling, evitando di attaccarla personalmente, e in cui esprimeva solidarietà verso le persone transgender e la volontà di “diventare un migliore alleato” (come vengono definite le persone che non appartengono alla comunità LGBTQIA+, ma condividono e sostengono le sue ragioni). Commenti simili sono stati fatti anche dagli attori Eddie Redmayne ed Emma Watson.

L’identità sessuale, oggi, viene definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Il primo corrisponde al corpo sessuato (maschio-femmina), il secondo al senso di sé (al sentimento di appartenenza, all’identificarsi come uomo o donna a seconda di ciò che il mondo intorno riconosce come proprio dell’uomo e della donna), mentre il terzo riguarda la direzione dei propri desideri (eterosessuali-omosessuali-bisessuali, e altre categorie).

Il sistema sesso-genere-orientamento sessuale (usato oggi in tutto il mondo dalla maggior parte degli psichiatri, degli psicologi, dei sessuologi e dei sistemi giuridici) è però solo una griglia interpretativa e imperfetta della realtà, basata su rigide alternative binarie: la realtà stessa è ben più complessa e ricca di esperienze in cui i tre parametri non sono necessariamente “coerenti” tra loro. Un articolo del National Geographic riporta le esperienze di alcune persone che non rientrano perfettamente nella binarità, alcune dal punto di vista biologico, altre psicologico, più spesso un misto dei due.

La posizione di Rowling rifiuta queste posizioni e si può riassumere come segue: secondo lei esistono due sessi (maschio e femmina), che dipendono da fattori anatomici e fisici (come le mestruazioni); secondo lei, però, l’inclusione nella categoria di “donna” richiesta dalle donne trans rischierebbe di danneggiare le persone biologicamente donne.

(A scanso di equivoci, non sono un fan di Harry Potter, ma alla signora Rowling vanno naturalmente in questo caso tutta la mia stima e la mia solidarietà. Non aveva necessità di tirare in ballo gli abusi per giustificare la sua posizione. Decisamente meno, lo confesso, apprezzo l’opportunismo ipocrita di Daniel Radcliffe.

Mi si potrà inoltre obiettare che la rilevanza, in termini di pericolosità, tra i primi due casi e gli altri due che ho riportato sia molto diversa. Non ne sarei così convinto.)

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