Ancora su “Biografie e bibliografie”

Copertina per incontri tematici2di Carlo Prosperi, 27 gennaio 2023

La mostra “sentieri in utopia“ è tutt’altro che conclusa: prosegue semmai virtualmente. Continuiamo infatti a proporre le trascrizioni o le rielaborazioni degli interventi effettuati dagli amici in occasione dei tre “incontri” di conversazione.

È la volta ora di Carlo Prosperi, che con la consueta puntualità e acutezza allarga il campo d’indagine al rapporto vita-opere negli intellettuali di ogni epoca. Il tema in effetti è sempre “caldo”, ed è decisamente insidioso. Come scriveva in un precedente intervento Maurizio Castellaro, a proposito dei nostri eroi letterari: “[…] la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare”. Bene, ci provo anch’io, limitandomi però per il momento a rilanciare, anzi, a riformulare la domanda. Ovvero: dando per scontato che un rapporto tra come si vive e cosa si scrive esiste sempre, la linearità o la contraddittorietà di questo rapporto hanno una qualche rilevanza “oggettiva” come strumenti di interpretazione (e diciamolo pure, di valutazione) dell’opera? Detto più brutalmente: visto che l’autore scompare e l’opera rimane, devo leggere quest’ultima senza lasciarmi influenzare da eventuali incoerenze biografiche e dalle insofferenze che queste mi ingenerano? Personalmente ho dei dubbi in proposito, ma mi riservo di argomentarli in altra occasione: e lascio spazio a Carlo, che molti di quei dubbi me li ha già sciolti.
P.S. Non tutte le immagini che abbiamo inserite sono associabili a questo testo. Ma al tema, indubbiamente, si. (Paolo Repetto)

Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui. Il compianto Giorgio Barberi Squarotti soleva dire che, sì, la realtà storica, le milieu et le moment, e la stessa vita, la psicologia dell’autore valgono a spiegarne gli orientamenti ideali e ideologici, le idiosincrasie, a volte anche la mentalità, la preferenza per taluni argomenti, ma non sono decisivi. Al limite, i soggetti trattati sono indifferenti: quello che conta è come vengono trattati, la forma che assumono, i generi in cui si inseriscono (dialogicamente), lo stile. Senza contare che spesso lo scrittore si misura e fa i conti con l’immaginario collettivo, con il patrimonio di storie, di idee, di miti, di topoi e di suggestioni (anche figurative, musicali e cinematografiche) che lo alimentano. Tra questo – che costituisce il mondo delle forme – e la realtà c’è un continuo rimpallo, un assiduo rimbalzo, una contaminazione perenne: in altre parole, un rapporto dialettico permanente. Fondamentale, insomma, è l’intertestualità, perché la letteratura è un inesauribile gioco di specchi.

Di Omero, ma anche degli autori della Bibbia, de Le mille e una notte, di tante altre opere mitografiche, epiche o narrative, come, ad esempio, il Kalevala, La storia di Gilgamesh, i Veda, poco o nulla sappiamo, ma la contestualizzazione storica e geografica ci aiuta a comprenderne lo spirito: segno che lo Zeitgeist lascia sempre un’impronta notevole sulla produzione estetica. Nessuno sfugge al proprio tempo, alla realtà materiale e culturale che lo informa. Negli stessi classici è possibile cogliere la temperie dell’epoca, tracce di colore locale e temporale; se sono classici, però, è perché il loro respiro li trascende, perché più di altre opere sanno scavare a fondo nel cuore e nell’anima dell’uomo, cogliere e testimoniare quanto c’è in essi di perenne, oserei dire di eterno. Chi non crede nella “natura umana”, chi la nega, chi ritiene che l’uomo sia un animale come gli altri, vale a dire un prodotto della storia e dell’evoluzione, la penserà diversamente.

Ciò considerato, possiamo affrontare il problema della coerenza tra vita e opera. Che è anche il problema dell’identità. Ora, solo Dio – se esiste e se è fuori del tempo – può vantare un’identità perfetta, stabile e assoluta, non soggetta agli inconvenienti dell’esistenza. Ma per chi vive nel mondo sublunare l’identità deve scendere a patti col divenire, declinarsi come processo: è quindi un punto che si fa linea. E la coerenza coincide sostanzialmente con la rettitudine: concetto che potremmo spiegare come un accordo tra il prima e il poi, come un adeguamento non conflittuale o comunque in grado di riassorbire senza traumi ogni contrasto in una sintesi di vecchio e nuovo che si configuri come un arricchimento progressivo. Come una crescita della persona. Senza degenerare, senza tralignare, senza tradire. Ovviamente, dal momento che lo spirito è forte, ma la carne è debole, dinanzi agli infiniti bivi o trivi che la vita ci presenta sono sempre possibili dubbi, esitazioni, errori, smarrimenti. Tale evenienza era dagli antichi raffigurata nell’immagine di Ercole al bivio. L’importante è ravvedersi per tempo. Errare è umano, diabolico perseverare. La coerenza esige tempestivi aggiustamenti di rotta, al di là, appunto, dei possibili traviamenti. Solo all’intransigenza dei moralisti sfugge che l’uomo è un “legno storto”. Nel loro astratto rigore, essi non perdonano all’uomo le sue contraddizioni, ma il mondo in bianco e nero che essi vedono non è quello, ricco di infinite nuances (e di colori), che ci sta davanti agli occhi: è un mondo daltonico. O manicheo. La coerenza che essi pretendono alberga solamente nell’iperuranio. Questo per dire che, quando si parla di coerenza, non si deve esagerare. Noi ci accontentiamo di un’onesta rettitudine.

Ancora su Biografie e bibliografie (2)

Poi, anche qui, si può discettare di evoluzione e di involuzione. Ma non è detto che a distinguere la prima dalla seconda non concorra l’orientamento ideologico di chi giudica, guardando da fuori. Mettiamo che il punto di partenza, anzi il presupposto, alla luce dell’esperienza via via maturata si riveli sbagliato: sarà più onesto, allora, proseguire sulla via intrapresa in nome di una presunta coerenza o invertire marcia? O imboccare un’altra strada, anche a costo di rinnegare le scelte fatte in precedenza, in buona fede ma senza averne adeguata contezza? La coerenza nel perseguire la verità in questo caso fa aggio sull’ostinazione, che è coerenza ingiustificata e quindi solo apparente. Per spiegarmi meglio, voglio portare qualche esempio. Prendiamo Dante, passato dall’aristotelismo radicale del Convivio, incentrato su una fede assoluta nelle potenzialità della ragione, vista come unica bussola per chi voglia «seguir virtute e canoscenza», alla fede nella teologia incarnata da Beatrice, disdegnata invece dall’amico Guido Cavalcanti. La Divina commedia, sotto tale aspetto, si presenta come una palinodia del trattato, rimasto non a caso incompiuto. Nel Purgatorio il poeta taccia di follia la presunzione della ragione: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone»; e pertanto ammonisce i lettori: «State contenti, umana gente, al quia, / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, // e desiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto» (ed accenna ad Aristotele, a Platone e a “molti altri”). Invece di imitare Ulisse nel «folle volo»[1] che lo porta a perdersi senza risultato, ingannando con la sua splendida retorica[2] i pochi compagni superstiti, Dante si ravvede e alla hybris della ragione preferisce l’umiltà (ne è simbolo il giunco di cui lo cinge Catone sul lido del Purgatorio), la pietas di Enea che tanto contrasta con l’empietà di Ulisse (esemplificata non solo dall’aver trascurato i suoi doveri di padre, di marito e di figlio, sì anche dall’aver violato i limiti posti da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta»).

La fraudolenza che condanna il Laertiade all’inferno è nelle parole, anzi nell’«orazion picciola», con cui egli convince la «compagna / picciola» a seguirlo nell’impresa dissennata: le nobili motivazioni da lui addotte sono mistificanti. Quale “virtù” può infatti animare chi trasgredisce consapevolmente le leggi divine e umane? Non certo quella che deriva, a suo dire, dal «divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore», giacché sa bene di avventudi di avventurarsi in un «mondo sanza gente». Ed anche la sua profana curiositas rimarrà delusa: egli non avrà contezza alcuna né della montagna «bruna / per la distanza» che riuscirà solo a intravedere né della vera ragione del suo naufragio. Si renderà nondimeno conto – per dirla in termini zanzottiani – dell’“oltraggio” rappresentato dalla sua “oltranza”, ma non dell’identità del suo punitore, che resterà per lui un’oscura forza del destino: «come altrui piacque». La via scelta da Dante, all’insegna della humilitas, è per contro destinata al successo. E il poeta ne ha (e ne dà) un segno nel giunco che miracolosamente, proprio «come altrui piacque», spunta al posto di quello strappato da Catone per munirne Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Il viaggio ultraterreno del poeta – che sa benissimo di non essere né Enea né San Paolo – si realizza nel segno della grazia, non della sfida.

Ancora su Biografie e bibliografie (3)

Ancora su Biografie e bibliografie (5)Un altro esempio, piuttosto clamoroso, di apparente incoerenza o, se vogliamo, di involuzione è quello di Giosue Carducci: giacobino sfrenato (basti pensare ai sonetti del Ça ira) e anticlericale (fino a rasentare la blasfemia nell’Inno a Satana) in gioventù, nell’ultima fase della sua vita giungerà a riconoscere i meriti sia della monarchia sia del cristianesimo (cfr. La chiesa di Polenta) e in ogni caso i bollori rivoluzionari della giovinezza si stempereranno in una visione più pacata e pacificata della realtà. Vi contribuiranno pure le sventure familiari, come la morte del fratello e del figlioletto, ma anche l’incontro con la regina Margherita, dal cui fascino femminile resterà ammaliato. Parafrasando un detto famoso, mi verrebbe da dire: chi non è stato “rivoluzionario” a vent’anni non è mai stato giovane, chi continua ad esserlo in seguito non ha mai raggiunto la maturità. Ma a questo punto si può ancora parlare d’incoerenza o, peggio, di involuzione? Troppo facile per “gli storici del dopo” rinvenire nella storia una razionalità e un rapporto causa-effetto che a chi l’ha vissuta da dentro, nell’hic et nunc, di rado appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme che ne ha il singolo individuo è spesso “falsa” (nel senso spinoziano del termine, cioè parziale e incompleta), quando non anche viziata da egoismi o da ideologismi. Non voglio credere che quegli intellettuali e quegli scrittori che, dopo avere militato, alcuni per anni, nelle file del fascismo, all’indomani della sua caduta passarono armi e bagagli alla corte di Togliatti, fossero tutti opportunisti e in malafede, ma nel novero molti furono tali. E non esitarono a saltare sul carro del vincitore.

Ancora su Biografie e bibliografie (6)Ma il discorso non riguarda solo gli italiani. Se prendiamo in considerazione Wystan Hugh Auden, è facile accorgersi di come suoni a vuoto (per non dire falsa) la campana dell’”impegno” di cui negli anni Trenta fu il portabandiera.

Auden fu infatti l’incarnazione di quella Auden Generation, di cui il rosso ideologico fu il colore politico dominante. Fu lui nella poesia Spain a parlare di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario». Una frase simile – ebbe a notare George Orwell – avrebbe potuto scriverla «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto». Parole profetiche: non a caso, nel settembre 1938, mentre era in corso la Conferenza di Monaco, il poeta inglese si affrettò a preparare i bagagli per emigrare negli USA. Molti intellettuali del suo calibro, in effetti, al di là delle prese di posizione a favore dei più nobili ideali, trovano difficile aderire ad altro che a se stessi. Ma qui andiamo ben oltre l’umana incoerenza: qui c’è anche del cinismo e della malafede. Cose che invece non ravvisiamo, ad esempio, nella “conversione” del Manzoni, che pure lo portò a un profondo cambiamento di poetica, oltre che di vita. E tanto meno nel progressivo accentuarsi e affinarsi del pessimismo di Leopardi nel passare dalla fase “storica” a quella “cosmica”, a quella “agonistica” della Ginestra.

Ancora su Biografie e bibliografie (7)Un certo opportunismo è stato denunciato da taluni critici anche nel Segretario fiorentino, che, da tecnico della politica, dopo essersi speso al servizio della Repubblica, mise le sue indubbie competenze a disposizione dei Medici. In questo c’è indubbiamente qualcosa di vero, ma, a ben guardare, si può rilevare una profonda e sotterranea coerenza tra il Machiavelli dei Discorsi e quello del Principe, dal momento che per lui lo Stato è comunque il bene primario, anzi l’unico fine che davvero giustifichi i mezzi [«Faccia dunque uno principe di mantenere lo Stato, e i mezzi saranno ritenuti laudevoli e da ciascuno laudati»]. E questo perché egli ha una visione antropologica negativa: l’uomo è malvagio di natura, egoista, smanioso di potere e di piacere, avido di ricchezze, tanto che «sdimentica più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Senza la maestà dello Stato che tiene a freno la violenza, regnerebbe l’anarchia e con essa la legge del più forte. Come i pesci di cui parlava Sant’Ireneo di Lione, il più grande mangerebbe il più piccolo. Per questo la preservazione dello Stato può richiedere pure il ricorso a mezzi estremi: non si tratterebbe di immoralità, ma di sacrifici necessari. Come quello del giocatore di scacchi che per vincere la partita deve all’uopo saper rinunciare a qualche pezzo. Come quello del chirurgo, che per salvare una vita deve essere pronto, all’occorrenza, ad amputare qualche membro. La moralità della politica, se così si può dire, è garantita dall’augusto suo compito.

Qualcuno fa notare che, nello scrivere il Principe, Machiavelli abiura la sua fede repubblicana: in realtà così non è. Egli rimane pur sempre dell’idea che la forma repubblicana di governo sia migliore del principato, in quanto, dove a governare è un Consiglio, la morte di uno degli amministratori non comporta la crisi dello Stato, mentre, se muore un principe, può crearsi una vacanza di potere e non è detto che il successore sia all’altezza del ruolo. E resta comunque il fatto che i fondatori degli Stati sono, in genere, persone singole, dotate di carisma: una qualità che non è tuttavia trasmissibile ereditariamente.

Ancora su Biografie e bibliografie (8)

Ma, a proposito di malafede, credo che la palma di primo della categoria, vada assegnata a Jean-Jacques Rousseau, il quale negli scritti si distinse sempre per il suo umanitarismo buonista e sempre inneggiò alla sacra triade liberté, égalité, fraternité, non esitando però ad abbandonare nei brefotrofi dell’epoca i figli nati dalle sue liaisons sentimentali. Ciò non significa che le sue opere non meritino di essere lette e tenute in considerazione; è tuttavia il caso di ricordare che molti predicano bene ma razzolano male. Per cui bisogna guardarsi da una identificazione troppo stretta tra biografia e bibliografia. Se l’arte – come abbiamo detto – è sempre un gioco di specchi, è fatale che la realtà ne riesca talora travisata. A volte redenta, a volte dannata, raramente qual essa è. Erano il Latini a dire: lasciva nobis pagina, sed vita proba. Né si può sempre presumere che un autore sia costantemente all’altezza della sua opera. Di conseguenza è lecito non provare alcuna simpatia per lui, senza per questo cessare di apprezzarne genio e talento. Almeno quando non manchino. E basterebbe, allora, fare un nome: Céline.

[1] La metafora del “folle volo”, con i remi della barca divenuti “ali”, rimanda chiaramente alla vicenda di Icaro, da tempo assunta come immagine o simbolo di hybris, d’intemperanza se non proprio di tracotanza, contro ogni classico ammonimento alla metriotes, all’est modus in rebus. La metafora s’inserisce perfettamente nell’atmosfera del canto, connotata appunto da tutta una serie di voli: da quello della trista nomea di Firenze che si spande nell’inferno a quelli delle lucciole che subentrano, a sera, alle zanzare, dal volo di Elia sul carro di fuoco alle fiammelle volitanti per la bolgia in cui ardono i fraudolenti.

[2] Si noti come Ulisse tenda artatamente ad attenuare la portata del suo discorso (quattro parole parenetiche ovvero – dice lui – una «orazion picciola») enfatizzandone però gli effetti (a fatica avrebbe potuto trattenere i suoi compagni – quattro gatti ormai, una «compagna / picciola») – dopo averli istigati). Poco resta loro da vivere (una «picciola vigilia» dei sensi e niente più): perché dunque non togliersi lo sfizio di andare ad  esperire il «mondo sanza gente»? Le motivazioni sono all’apparenza nobilissime, se l’impresa non fosse temeraria e non comportasse una sfida per certi versi prometeica e quindi sacrilega (Ercole era stato assunto fra gli Dèi). Senza contare che dove non ci sono uomini difficilmente sarà dato rinvenire «vizi umani» e umano «valore»: nel discorso c’è dunque un fondo di malafede. D’altra parte l’«orazion picciola» si apre con una captatio benevolentiae: Ulisse, il capo, apostrofa i compagni chiamandoli “fratelli” e prosegue con una iperbole («per cento miglia / perigli») ed una anfibologia («siete giunti all’occidente»: l’occidente qui non è solo un’indicazione geografica, ma sta pure a indicare il tramonto, la fase declinante della vita), con una perifrasi metaforica (appunto la «così picciola vigilia / de nostri sensi, ch’è del rimanente») e una litote («non vogliate negar»); tutto è infine suggellato dalla gnomica considerazione finale, che tanti critici hanno preso per oro colato, dimenticando che di nobili intenzioni è lastricata la strada dell’inferno. Sono i guasti della retorica. Ulisse riesce a guadagnarsi la solidarietà o, meglio, la complicità dei compagni ammannendo loro un piccolo capolavoro di mistificazione.

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Biografie e bibliografie

Copertina per incontri tematici2di Maurizio Castellato, 8 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Biografie e bibliografie”, nell’ambito della mostra “sentieri in utopia“.

Provo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie alla ricerca di qualche filo conduttore ci perdiamo nel labirinto. Scrivevano per essere notati dagli altri? Scrivevano per se stessi? E soprattutto, visto il tema di partenza, la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare. Forse alla base del bisogno di comunicare in forma artistica (scrittura, ma non solo) ci sono motivazioni profonde e personalissime, legate a ferite non curabili, a ossessioni segrete, ognuno alle proprie dà del tu. Quella è la lava incandescente che sempre ribolle nel profondo, e non dà mai pace. La cultura entra in gioco solo dopo, sotto forma di farmaco, e così per gli autori si aprono i cantieri infiniti della costruzione dello stile, del tono di voce, della musicalità interna, dei temi (cioè dei buchi che più amiamo scavare). Forse il segreto del rapporto tra biografie e bibliografie è proprio da cercare in quello squilibrio originario che sta alla base dei percorsi esistenziali di ciascuno, e che porta poi gli autori a scegliere il canale espressivo a loro più congeniale (parola, musica, immagini, ma anche semplicemente ricerca della bellezza, ecc.). È quello squilibrio originario il gran pentolone dentro il quale rimestare il mistero di quello che siamo. È una semplificazione, ma è interessante, perché consente di estendere la questione del rapporto tra biografia e bibliografia anche al campo dei lettori (e in fondo ogni autore è prima di tutto un lettore). La nostra biografia ha anch’essa una personale bibliografia segreta, che si evolve nel tempo e che cambia sulla base degli interessi, dei bisogni, dei dolori e delle gioie. Come le nostre letture ci hanno illuminato e ci hanno cambiato? Quali gli incontri che hanno dato una svolta ai nostri percorsi (“la vita, amico, è l’arte dell’incontro” diceva il poeta)? Anche al fondo della nostra storia di lettori c’è sempre lo stesso squilibrio originario, lo stesso ribollire profondo, che non trova mai pace. Ai nostri testi fondatori diamo del tu, come alle nostre ossessioni, e a questo livello originario autori e lettori non possono che sentirsi fratelli, a prescindere da quello che son riusciti a fare delle loro vite, brevi come i sogni che le hanno orientate, nutrite e significate.

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sentieri in utopia

catalogo della mostra in Ovada, dal 3 all’11 dicembre 2022

Perché una “vetrina”

sentieri in utopia copertinaDal 3 all’11 dicembre i Viandanti usciranno dalle nebbie (che sono state sino ad oggi il loro naturale habitat, e lo saranno ancora per il futuro) per proporre una testimonianza del loro operato in cinque lustri di esistenza. Non è una vetrina promozionale: non siamo depositari di verità, non imbandiamo sapienza, non cerchiamo adepti, non chiediamo finanziamenti. Semplicemente, dal momento che il sodalizio esiste da oltre un quarto di secolo, ci teniamo a far sapere a chi già ci conosce che è ancora vivo, e a chi ancora non ci conosce che ci siamo anche noi.

È una scelta che parrebbe contraddire quella che è stata sinora la nostra discrezione: ma essere discreti non significa agire nell’ombra come una società segreta. L’accesso ai nostri scritti e alle nostre immagini è sempre stato libero (e gratuito), le nuove collaborazioni sono sempre state ben accette: uniche pregiudiziali, l’uso del buon senso e la capacità di autoironia.

La mostra va letta quindi con questo spirito. Se dopo un giro completo della sala vi sarete incuriositi o divertiti, potrete già considerarvi viandanti ad honorem.

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Riproponiamo di seguito il vecchio biglietto da visita dei Viandanti. Sotto una patina di retorica che oggi può anche far sorridere, e a dispetto delle situazioni diverse che gli oltre venticinque anni trascorsi hanno creato, i propositi professati all’epoca non solo sono rimasti validi, ma hanno acquistato un’attualità ancora maggiore. Viandanti per sempre, dunque.

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Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo. E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra

Chi sono i Viandanti delle Nebbie?

Si fa prima a dire “cosa” non sono. I “Viandanti” non sono un partito politico, ma oppongono una resistenza politica ad ogni forma di omologazione istupidente; non sono un gruppo sportivo, ma praticano la disciplina sportiva più pura, quella che richiede solo buone gambe, volontà e fantasia; non sono un’agenzia di viaggi, ma promuovono una conoscenza non utilitaristica del territorio; non sono un’associazione ecologica, ma si battono da bravi indigeni per la difesa del “loro” ambiente; non sono un’accademia culturale, ma coltivano ogni manifestazione non istituzionalizzata del sapere; non sono un ordine mendicante, ma rifiutano la mercificazione di ogni idealità.

In breve, non rispondono ai requisiti di visibilità imposti dal dominio dell’insignificanza virtuale. Sono invece un’esperienza, anzi tante, diverse, continue esperienze di (r)esistenza extra-catodica e post-cellulare, cioè di vita degna di questo nome, di amicizie, di letture, di escursioni, di convivi, di scoperte, che non vogliono essere consumate in un arcadico distacco, ma vanno trasmesse nelle forme più semplici, dirette e genuine, attraverso le quali è possibile esprimere sogni, idee ed emozioni, ed invitare gli altri ad esserne partecipi (e non spettatori).

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Wanderers forever

cropped-tobbio4.jpgC’era una volta, tanti e tanti … beh, insomma, una ventina d’anni fa, un gruppo di amici, di quelli messi assieme dalle circostanze della vita e dalle passioni in comune anziché dall’anagrafe, che si ritrovavano sempre più spesso a frugare tra gli scaffali di una caotica libreria ovadese, a camminare lungo i sentieri del Parco di Marcarolo o a cenare in un capanno sperduto nella campagna. Era un’allegra brigata, a metà strada tra il cenacolo intellettuale e la compagnia del calcetto …

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Storia del logo

cropped-vianda-300-ppi-png.pngLa storia del logo dei Viandanti merita di essere raccontata. Dunque: siamo nel novembre del novantacinque e i Viandanti delle Nebbie hanno organizzato in Ovada una mostra su Il West nel fumetto italiano, che ospita tra le altre cose una sezione dedicata alle illustrazioni di Renzo Callegari. In occasione della chiusura provo a contattare, (senza molte aspettative ma nemmeno cerimonie, una semplice telefonata da uno sconosciuto) il maestro, che sembra incuriosito e si presenta in effetti puntuale, accompagnato da un paio di allievi della sua scuola di fumetto di Rapallo. Chiusa la mostra, li invitiamo a cenare con noi al Capanno, già all’epoca sede ufficiale dei Viandanti …

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Come è nato il Capanno

Capanno 2018 10 06 01 seppiaCredo che anche la storia del Capanno, come quella del logo, meriti di essere raccontata.
È andata così. Quando ancora erano in vita i miei genitori avevo l’abitudine di trascorrere tutte le sere, subito dopo cena, una mezzoretta con loro (abitavano al piano inferiore). Si commentava la giornata, si programmavano i lavori, a volte semplicemente seguivo assieme a loro il telegiornale. All’epoca (parlo di venticinque e passa anni fa) ero affetto da una sorta di compulsione a disegnare, cosa che mi portavo dietro sin dall’infanzia. Era probabilmente un modo per isolarmi dagli altri e per evadere nei miei mondi fantastici …

la foresta, paesaggio, 1901 01

Istruzioni per l’uso del sito, della mostra, della mappa

I materiali prodotti dai Viandanti in tutti questi anni sono ospitati nel sito https://viandantidellenebbie.org/. Ma è sufficiente digitare “Viandanti delle Nebbie” per trovarci. Una volta entrati nella home appaiono sulla destra del monitor una serie di voci che aprono altrettante sezioni. Sempre sulla destra, scendendo, trovate gli elenchi di quanto è stato pubblicato anche in formato cartaceo. Sulla sinistra potete aprire direttamente gli interventi più recenti. Nella parte bassa della home scorrono infine immagini tratte dagli album. Non troverete cookies o messaggi promozionali di alcun genere.
Tutti i materiali sono consultabili e scaricabili gratuitamente.
La mostra prevede alcuni pannelli iniziali di presentazione del sodalizio, per passare poi a proporre le copertine di tutti i volumetti editi dai Viandanti. I codici QR presenti su ciascuna copertina aprono direttamente alla consultazione integrale dei libretti. Sono esposte anche le locandine delle mostre curate dai Viandanti, oltre ad una serie di pannelli tratti dalle stesse. Gli esemplari delle pubblicazioni cartacee sono disponibili per una presa di visione, ma comprensibilmente non per l’asporto.

La mappa che potete consultare nelle pagine seguenti è stata costruita per suggerire ai visitatori del sito e della mostra una serie di itinerari percorribili attraverso le nostre pubblicazioni. In effetti i percorsi avrebbero potuto essere molti di più, o essere tracciati tenendo conto di direzioni diverse: ma preferiamo siano eventuali visitatori o estimatori del sito a riconoscerli e a costruirli. Le “stazioni” non rispettano un ordine cronologico di pubblicazione, ma un semplice gioco di rimandi. In alcuni casi sono poste all’incrocio di diverse linee, in quanto fruibili lungo più itinerari: ma in realtà la cosa potrebbe valere per quasi tutte le pubblicazioni. Come potrete constatare, nessuna linea prevede stazioni terminali. Il cammino di un Viandante è sempre aperto.

sentieri in utopia - mappa a mano 2la prima versione della mappa

Mappa dei sentieri in utopia

sentieri in utopia - mappa download

sentieri in utopia locandina con margini

Parole in cammino

Diable_à_Paris_fronstispice (2)Durante il periodo di apertura della mostra sono previsti tre incontri pubblici, mirati a presentare il lavoro del sodalizio dei Viandanti, a giustificarne per quanto possibile lo spirito e a suggerire ai visitatori alcune possibili modi per gustarlo e per trarne, se non briciole di sapere, almeno un po’ di piacere.
Con queste premesse è evidente (ma lo era già dai titoli) che gli argomenti proposti saranno solo dei pretesti per spaziare in lungo e in largo, come facciamo abitualmente nei nostri testi, tra natura e cultura, realtà e fantasia, quotidianità e storia.
Abbiamo immaginato questi incontri non come conferenze o, peggio ancora, come “dibattiti”, ma come amichevoli conversazioni dalle quali tutti i partecipanti escano possibilmente con la voglia di rivedersi ancora. Come uno scambio non pedantesco di esperienze, tale magari da indurre qualcuno ad andarsi a leggere ciò di cui ha sentito parlare, a riflettere sui temi che sono stati toccati, a rassicurarsi sul fatto che il regime dei social e dei talk show non ha ancora occupato tutti gli spazi.
Le titolazioni assegnate agli incontri riflettono naturalmente, sia pure in maniera molto sommaria, gli interessi comuni ai curatori e ai visitatori del sito. Ma chi appunto il sito già lo conosce sa che questi interessi non sono mai “specialistici” e vengono coltivati in campi aperti e con metodi tutt’altro che canonici. E chi non lo conosce potrà verificarlo integrando gli incontri con qualche incursione nel nostro catalogo. Sarà il benvenuto.

Comunque, per fingere un minimo in più di informazione, negli incontri saranno (grosso modo) trattati i seguenti temi:

  • Viaggi e peregrinazioni | Perché si viaggia. Storia dei viaggi e storie di viaggio. Pensare con i piedi. Tipologie della letteratura di viaggio.
    • Le motivazioni di un viaggio

      Le motivazioni di un viaggio (1)Perché viaggiare? Bruce Chatwin, autore di un libro il cui titolo era già esaustivo (“Anatomia dell’irrequietezza”) si chiedeva, con una domanda ovviamente retorica: “perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due [mesi]?”. In questa domanda, e nelle sue mille risposte possibili, vi è già tutto il succo della questione. Al netto di ogni considerazione collaterale …

  • Biografie e bibliografie | L’importante è non nascere adatti. Vizi privati e pubbliche virtù.  Confessioni di un bibliopatico. Perché si mente dicendo di aver riletto un libro.
    • Biografie e bibliografie

      Biografie e bibliografieProvo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie …

    • Ancora su “Biografie e bibliografie”

      Ancora su Biografie e bibliografie (1)Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui …

  • Natura e cultura | Siamo un tragico errore della selezione naturale? Le storie che ci siamo raccontati. La memoria e il piagnisteo. Quattro salti nella cultura (in offerta).
    • Natura e letteratura per cammini di viandanza

      Natura e letteratura per cammini di viandanza1 Marlon-Brando-in-Apocalypse-Now-1979Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina …

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I Quaderni dei Viandanti

sentieri in utopia Uomo x Quaderni (2)I Quaderni sono nati con l’intento di raccogliere in volumetti e rendere disponi-bili per eventuali estimatori (?)i materiali pubblicati su Sottotiro review. E così è stato, almeno per i primi due o tre libretti. Poi la cosa ha ci preso la mano, e si è tra-sformata in una vera e propria impresa editoriale …

Quaderni logo

Gli Album dei Viandanti

sentieri in utopia x Album Viandante - Pietro Morando2Un viandante non è un viaggiatore. Non si limita a superare occasionalmente delle distanze, ma percorre degli itinerari, connota degli spazi. E dal momento che nemmeno è un pendolare, questi spazi, questi itinerari sono sempre diversi. Il viaggio è la sua vita, lo spostamento è la sua meta …

Album logo

Gli sguardistorti

UNASOS~1È il proseguo di Sottotiro review in modalità digitale, per quel che possiamo fare noi restii al digitale. Ci autorizziamo a lanciare degli sguardi nella rete che hanno la presunzione di proiettare delle occhiate “ostinate e contrarie” verso ciò che il quotidiano ci offre. Sono sguardistorti verso un mondo di cui dichiariamo la nostra difficoltà a comprenderne i meccanismi autodistruttivi, ma che ci stupiamo a scrutare per indagarne le distopie …

Nuovi sguardistorti2 - Bottone

La sottotiro review

sentieri in utopia x sottotiroSottotiro è una rivista nata nei primi anni novanta dello scorso secolo in Toscana. Dopo un paio di numeri e un lungo letargo è rinata in Piemonte, nelle colline ovadesi. L’intento era quello di costituire, nel suo piccolo, un tramite e un luogo di contatti, di scambi culturali, di amicizie e (magari!) anche di discussioni. Per un certo periodo lo è anche stata, e non solo a livello strettamente locale: non avrà inciso sull’opinione pubblica, ma ha senz’altro contribuito, tramite il comune impegno, le discussioni redazionali, gli incontri necessari per costruirla materialmente, a creare o a rinsaldare amicizie …

Sottotiro review

La Biblioteca del Viandante

Senza titolo-1

La Biblioteca raccoglie diverse opere attinte dalle fonti più disparate, che potrebbero riuscire interessanti per altri frequentatori del nostro sito. Avremmo potuto fornire semplicemente le indicazioni per rintracciarle, ma ci sembra di offrire un servizio utile proponendole in PDF, che consente di scaricarle direttamente in formato stampa. Si tratta in genere di testi di pensatori pochissimo conosciuti, o sconosciuti del tutto, difficilmente reperibili in commercio, oppure di antologie …

Biblioteca logo6

Amici

La mostra è dedicata agli amici che in questi venticinque anni hanno percorso coi Viandanti un ultimo tratto della loro strada. Poi si sono congedati, ma il loro cammino non si è interrotto. Gli amici ci lasciano, ma non scompaiono: e oggi sono presenti con noi in questa sala.
Non vogliamo raccontarli, l’hanno già fatto loro stessi, ciascuno a modo suo. Chi volesse conoscerli meglio può trovarli sul sito (per Mario Mantelli, oltre ai suoi libri – Di cosa ci siamo nutriti e Viaggio nelle terre di Santa Marta e San Rocco – e ai quattro Quaderni di prose e di poesie pubblicati dai Viandanti, si possono leggere: Una raccolta di silenzi; Arrivederci, maestro!; Visite guidate nei giardini della memoria; Che belle figure!. Per Armando Cremonini, Il collezionista. Per Gianmaria Olivieri Un viandante parte in sordina. A Piero Jannon è dedicato l’Albo A spasso con Piero, Per Gianni Martinelli parlano le immagini de Il West nel fumetto italiano: sono quasi tutte tratte dalle sue raccolte).

Quelli che dormono sulla montagna

Quelli che dormono sulla montagnaQuando i Viandanti delle Nebbie si misero alla ricerca di riferimenti ideali si imbatterono quasi per caso negli Yamabushi. I riferimenti ideali sono importanti, soprattutto se sono abbastanza lontani nel tempo e nello spazio da rimanere ideali. Per noi gli Yamabushi erano perfetti: stavano dall’altra parte del globo ed erano praticamente spariti dalla circolazione da almeno un secolo e mezzo. In più, anche in piena New Age li conosceva nessuno (tanto che per un attimo l’idea di riesumarli ci ha sfiorato, e resto convinto che avremmo trovato adepti) e i loro rituali erano impegnativi solo sul piano fisico. Adoravano come noi le montagne, le salivano come noi, come noi le rispettavano, senza provare alcun bisogno di domarle e di sconfiggerle. Non c’era da cambiare una virgola nel nostro atteggiamento e nei nostri comportamenti. Gli Yamabushi sono quindi …

Quei cretini di Dunning e Kruger

Ariette 2 01I Viandanti delle Nebbie sono da sempre consapevoli della prevalenza del cretino, tanto da auspicare emendanti spedizioni di massa alla chiesa francese che ospita il sarcofago di San Menulfo, antico miglioratore delle sinapsi di chiunque introduca il capo nel suo apposito orifizio (rimando all’articolo “Il decretinatore”). Dò il mio piccolo contributo al dibattito presentando l’“effetto Dunning e Kruger”, scoperto nel 1999. Dunning e Kruger sono due simpatici psicologi che hanno dimostrato scientificamente il motivo per cui individui incompetenti in un campo tendano a sopravvalutare le proprie abilità …

Tracce e impronte

sentieri in utopia 11Il mondo lo si può “camminare” in vari modi, da soli o in compagnia, di fretta o in tutta calma, motivati da una scelta o spinti da una necessità; così come sono svariati i mezzi, oltre ai piedi, grazie ai quali si può viaggiare. Ma gli atteggiamenti fondamentali che inducono a incamminarsi per il mondo sono riconducibili in linea di massima a due: la semplice voglia di scoprirlo, magari in cerca di rifugio, e viverlo, oppure il desiderio di raccontarlo, studiarlo o conquistarlo.  Nel primo caso sulla polvere o sul fango della strada percorsa si lasciano soltanto delle tracce, che vengono prima o poi spazzate via dal vento del tempo o dilavate dalle acque, mentre rimangono fortemente impresse nell’animo; negli altri casi si marcano invece delle impronte, a volte talmente profonde e durature che quel mondo vanno anche a modificarlo. E qualche volta accade anche che le orme involontarie diventino letteralmente impronte rivelatrici, come nei casi di Laetoli, dell’isola di Calvert o del deserto del Nefud.

Le pagine qui raccolte sono dedicate a uomini che il mondo lo hanno percorso nell’una e nell’altra maniera, in piccolo o in grande, con differenti intenti e nei contesti temporali più lontani, accomunati comunque dal desiderio di conoscerlo e di lasciare una traccia, almeno scritta, del loro passaggio. Si va dai grandi esploratori e dai camminatori instancabili a personaggi semisconosciuti, ai dilettanti del camminare, dell’arrampicare o del viaggiare, in una varietà che spiega, anche se forse non giustifica, il “vario stile” delle trattazioni. La continuità tra costoro è assicurata non da ciò che hanno fatto, hanno visto o hanno descritto, ma dallo spirito col quale hanno esaltato una naturale disposizione biologica traducendola in una scelta culturale.

Quanto poi tale scelta sia stata positiva o meno per l’umanità lo lasciamo discutere agli osservanti del “politically correct”: per quanto ci riguarda, crediamo si tratti di una diatriba stupida, o perlomeno inconcludente, perché quello di ampliare e allontanare sempre più il proprio orizzonte è per l’uomo un istinto, dettato dalla necessità di sopravvivenza, sin dal momento in cui ha assunto la postura eretta. Forse non ha ottemperato appieno all’imperativo di Ulisse, e nel suo peregrinare ha perseguito più “canoscenza” che “virtute”: ma questa è un’altra storia, e l’affronteremo altrove.

Mutazioni

mutazioniLe vespe sono tornate a nidificare nella mia libreria. Accade da cinque o sei estati, prima non si era mai verificato. Probabilmente ne è entrata una per caso, ha apprezzato l’ambiente e lo ha comunicato alle altre. Le vespe, a differenza dei cristiani, comunicano molto e hanno una formidabile memoria della specie. Magari si tratta delle discendenti di quella prima esploratrice, immigrate di terza, quarta o quinta generazione, che ormai considerano casa mia anche la loro …

Questione di gusti

di Paolo Repetto, 30 aprile 2021, introduzione a Estetica per palati ordinari, vol. VII di Opera omnia ed altri scritti, 2022

Il modo migliore per introdurre questo volume è chiarire il senso del titolo: ovvero, cosa intendo per estetica e, prima ancora, per “palati ordinari”. Quale ne è l’oggetto, e quale la destinazione.

Parto da quest’ultima perché il sostantivato Estetica, proposto con l’iniziale maiuscola, parrebbe rimandare immediatamente ad una particolare “dignità” degli argomenti trattati, mentre l’aggettivo che connota l’utenza, ma anche una veloce scorsa all’indice, sembrerebbero escluderla. Devo giustificarne allora l’uso, e credo sia possibile farlo solo precisando a chi ho scelto di rivolgermi. Non ho usato infatti “ordinari” per rispettare equilibri metrici o perché mi suonava bene. L’ho scelto a ragion veduta.

Ordinario è il contrario di raffinato, elegante, ma nell’accezione che ne dò io non è affatto sinonimo di volgare. Potrebbe semmai essere apparentato a rude, che a sua volta non è sinonimo di rozzo o triviale. E ancora, indica qualcosa che non è fuori del comune, eccezionale, extra-ordinario appunto, ma rientra tranquillamente nell’ordine, nella norma, se vogliamo anche nella banalità.

Il palato ordinario cui mi riferisco è quello educato a un regime alimentare di sopravvivenza, che non prevede raffinatezze o preziosità, ma è sufficiente a tenerti in piedi e può essere insaporito dalla fame e dalla fantasia. Questa è stata, letteralmente, la mia dieta nell’infanzia e nell’adolescenza, con una madre che ricombinando in mille modi quattro ingredienti essenziali, provenienti tutti dall’orto, dalla stalla o dal pollaio, è riuscita a sfamare e a soddisfare per anni un marito e tre figli con stomaci da lupo.

Ma è stata anche la mia dieta culturale: non potendo fare conto su una biblioteca domestica e nemmeno su una pubblica, o su parenti che fossero andati oltre la quinta elementare, ho imparato subito a integrare il rancio passato dalla scuola con quello che potevo raccattare da vecchie riviste, dai pochi libri strausati che approdavano a casa mia, dalle immagini che scorrevano sullo schermo del cinema parrocchiale (la televisione è arrivata molto dopo, almeno in casa mia).

Con questo non rivendico alcuna eccezionalità: non ho la sindrome del genio cui la vita ha negate le condizioni e le occasioni per esprimersi. La condizione di cui parlo era comune alla gran parte dei miei coetanei ancora negli anni cinquanta dello scorso secolo, fatta salva forse la passione per i libri. E di occasioni ne ho poi avute, sufficienti a farmi capire che non sprizzavo scintille di genialità, ma soprattutto che mi andava bene anche così. Parlo invece di una gavetta della quale vado fiero, e rispetto alla quale non ho recriminazioni o rimpianti: in realtà non potevo desiderare di meglio, anche se all’epoca non lo sapevo (ma nemmeno mi sembrava una gavetta). Ne sono uscito con un fisico a prova di montagne, di studenti e di macchine agricole, ma soprattutto non ho mai sofferto di inappetenza, di noia da sazietà, né fisica né culturale, e certe caratteristiche del gusto giocoforza acquisite non le ho più dismesse. Fuor di metafora, sono rimasto onnivoro, con qualche giustificata eccezione, in tutte le direzioni: e non nel senso che mi faccio piacere tutto, ma che tutto continua a incuriosirmi e a sorprendermi (non sempre in positivo, naturalmente).

Questo preludio potrebbe far supporre un’attitudine particolarmente rilassata e indulgente con gli interlocutori (in questo caso, con i lettori). Non è affatto così. In realtà, proprio perché conosco tanto i costi quanto le gioie di una cultura conquistata con i denti, sono molto esigente. Scrivere mi diverte, e vorrei che anche gli altri leggendomi potessero divertirsi; ma non lo considero un risultato sufficiente, non scrivo per strappare un sorriso o un complimento, scrivo per pensare, e come Diderot (fatte le debite proporzioni) ho anche l’ambizione di indurre qualcun altro a farlo. Questo dunque esigo: che mi si legga non per nutrirsi delle mie idee (ci mancherebbe altro), ma per trarre lo stimolo a produrne in proprio. E non avendo granché da offrire a palati già avvezzi alle raffinatezze, mi rivolgo a quelli ordinari, a chi riesce a trovare sapore e nutrimento anche in una cucina “povera”. I requisiti essenziali di un palato ordinario sono semplici e solidi: un sano appetito e un buon apparato digerente. Su questa base si può già costruire una convivialità genuina, divertita e reciprocamente appagante.

E veniamo finalmente all’oggetto. A ciò che viene offerto in questo volume. Il titolo è indubbiamente ambizioso. Pretendere di definire Estetica i frutti di una bulimia culturale tanto disordinata può sembrare eccessivo. Ma proprio perché educato a non andare troppo per il sottile lo trovo appropriato. E poi, è vero, sono ammassate qui dentro cose molto diverse tra loro, ma tutte in fondo attengono alla sfera del gusto. Volevo offrire un repertorio delle immagini che hanno impressionato la mia mente, così come in altri volumi ho raccolto le storie, le parole, le vicende di uomini e di popoli, i pensieri, ecc…, : e lasciare poi che fossero quelle a disporsi autonomamente lungo una linea di coerenza, o che fosse il lettore a rintracciarla. A rigor di termini è un’estetica monca, perché mancano quasi completamente i suoni, ed è un’assenza imperdonabile. Ma non avendo alcuna preparazione musicale di base mi riesce molto difficile raccontare, tradurre in parole quelle impressioni. Che ho accumulato, e sono state importanti, ma meriterebbero di essere trattate con un minimo di competenza. Così le tengo per me.

Per chiarire meglio le mie scelte di campo sono però obbligato a questo punto ad alzare un po’ il tiro: non ho la pretesa di impartire lezioni di filosofia, ma voglio evitare che il tono dell’aneddotica precedente faccia apparire del tutto arbitrario l’uso del termine estetica. Per questo, un accenno alle etimologie e ai significati diversi che a quel termine possono essere conferiti devo farlo.

Άἴσθησις in greco significa “sensazione”, e il verbo αἰσθάνομαι indica “percepire attraverso i sensi”. Col tempo l’Estetica è diventata una branca della filosofia, ma originariamente non era così: il termine stava semplicemente a designare quell’aspetto della conoscenza che passa attraverso i sensi. Verrebbe spontaneo dire che ogni tassello del nostro sapere arriva di lì, ma in proposito i greci (e tutto o quasi il mondo antico) la pensavano diversamente. Nell’ambito dell’idealismo platonico, ad esempio, questa conoscenza godeva di una considerazione scarsa, a tutto favore di quella che si riteneva discendere direttamente dal regno delle idee (ovvero da modelli conoscitivi che si supponevano presenti a priori nella nostra mente). Il rapporto che la conoscenza sensibile aveva con la produzione artistica, poi, non era del tutto chiaro. Per Aristotele, ad esempio, dalla contemplazione della natura e dal tentativo di imitarla che sta alla base dell’opera d’arte l’uomo trae sia sapere che piacere: questa attività consente inoltre alle idee, che scaturiscono esclusivamente dalla mente dell’artista, di manifestarsi tradotte in materia. Platone andava giù molto più duro nel rifiuto di ogni tipo di conoscenza di origine sensoriale: per lui l’arte è imitazione non della realtà, ma solo di quella copia confusa e sbiadita della realtà che i sensi consentono di cogliere. La esclude persino dal progetto educativo, perché a suo parere può corrompere gli animi, distoglierli dalla vera ricerca.

Tutto questo riguarda però un processo creativo che i greci chiamavano poiesis, all’interno del quale erano accolte tutte quelle forme espressive non direttamente dettate dalle nostre esigenze quotidiane, e concernenti le cosiddette arti visive (quali architettura, scultura, pittura), quelle letterarie e quelle dello spettacolo. Per questo la teoria greca dell’arte si chiama poetica, e non estetica. In sostanza, per i greci estetico è rimasto sempre un aggettivo neutro, indicante semplicemente una modalità di percezione, e non un parametro valutativo.

L’uso di estetico a designare sia il rapporto di creazione che quello di fruizione dell’opera d’arte è invece piuttosto recente, risale in pratica al Settecento (lo si può attribuire al filosofo tedesco Alexander GottliebBaumgarten, che nel 1750 pubblica un trattato intitolato appunto “Aesthetica”) . Questa nuova accezione è stata poi sviluppata in profondità da Denis Diderot nel TraitéduBeau. Il senso estetico (e quindi l’idea del bello) è per Diderot il frutto della relazione tra l’oggetto artistico e chi lo percepisce in base alla propria sensibilità individuale. “Estetico” è il “rapporto” soggetto-oggetto: non c’è uno schema codificato, un parametro unico per la bellezza. Questo rapporto può cambiare infatti nel tempo e nello spazio, ed è condizionato da innumerevoli fattori, ambientali, culturali, caratteriali dei singoli. Non siamo all’“è bello ciò che piace”, perché del motivo per cui una cosa piace si danno poi articolate spiegazioni, ma insomma: quel che importa però è che Diderot liquida l’idea di un “bello” che deve valere allo stesso modo per tutti perché rispondente ad una norma “esterna” universale.

Il tema è affrontato poi in maniera decisiva da Kant, espressamente nella “Critica del giudizio”, ma già prima nella “Critica della ragion pura”: e proprio qui si trova quel che a me interessa. Dicendo che noi percepiamo attraverso i sensi e filtriamo e assembliamo queste percezioni attraverso le “categorie”, ovvero attraverso una grammatica del gusto già iscritta nel nostro cervello, Kant da un lato si riallaccia a Platone e ad Aristotele, dall’altro anticipa tutte le più moderne teorie cognitive. Teorizza in fondo quel che oggi le neuroscienze asseverano, e cioè che noi possediamo delle facoltà innate di riconoscimento di determinate forme o colori o azioni, che ci portano ad apprezzare o meno particolari oggetti o particolari comportamenti. La “relatività” dei gusti ipotizzata da Diderot esiste anche per lui, ma solo sino ad un certo punto: oltre quello, intervengono criteri di valutazione sui quali ancora oggi si discute, ma solo per stabilire se siano frutto di una lenta evoluzione o di transizioni repentine determinate da mutazioni genetiche. Voglio dire che ad esempio noi riconosciamo in natura il ricorrere di forme, di colori, di combinazioni delle une o degli altri, che ci suggeriscono un certo ordine naturale, un equilibrio, un’armonia, e ne siamo in qualche modo tranquillizzati. Altre cose invece ci lasciano sgomenti, perché non riusciamo ad inquadrarle correttamente, e altre ancora addirittura ci ripugnano, perché avvertiamo delle evidenti distonie, che fanno scattare i nostri campanelli d’allarme. Con tutte le differenze che si possono trovare tra le varie culture, e che sono spiegabili con fattori ambientali e storici, è comunque evidente negli umani una identica disposizione “recettiva” di base.

Kant fa dunque riconfluire nell’estetica i due filoni di pensiero sull’arte e sul bello, fondendo assieme la semplice dottrina della sensibilità antica e il più complesso discorso settecentesco sul rapporto soggetto-oggetto e sulle nostre capacità di “comprensione” sensoriale e di catalogazione mentale. Di fatto, introducendo il concetto di giudizio riflettente getta le basi dell’estetica moderna.

Sarà poi Friedrich Schelling a superare le premesse kantiane, facendo dell’Estetica una vera e propria filosofia dell’arte. Ma qui mi fermo, un po’ perché la faccenda rischia di diventare noiosa, ma soprattutto perché sarebbe inutile, dal momento che quando parlo di Estetica io non restringo affatto l’applicazione del termine al campo di quella che a vario titolo viene considerata arte.

Quella di cui propongo qualche esempio in questo volume è infatti una estetica del quotidiano, che si fonda sulla convinzione che ogni cosa, ogni gesto, possono essere esteticamente valutati, e che il criterio primo di valutazione sia capire se chi crea o chi agisce lo fa nel modo migliore possibile. Il che ci conduce in sostanza dritti dritti all’Etica, ma non sacrifica a quest’ultima, in nome di valori più alti, dettati dalla nostra autonoma volontà razionale (l’imperativo categorico kantiano), la dimensione del piacere. Tradotto, significa che ciò che è eticamente buono non può riuscire che esteticamente bello, e viceversa (καλὸςκαὶἀγαθός era la definizione greca).

Il che è meno semplicistico e scontato di quanto possa apparire: o almeno, esige che si abbia chiaro cosa intendiamo per buono e per bello. Per me è buono ciò che giova agli altri, o quantomeno non arreca loro danno, e offre a me una gratificazione estetica. Rispetto ad un gesto, ad una azione, il criterio prescinde da quanto quest’ultima possa essere faticosa, pericolosa, o addirittura apparentemente inutile: rispetto ad un oggetto, o a una situazione, prescinde dalla sua immediata utilità. Il muratore che al termine della sua opera si sofferma a considerare criticamente l’appiombo o la compattezza di una parete, il contadino che si compiace del parallelismo perfetto dei solchi appena tracciati, l’insegnante che vede attorno a se volti attenti e curiosi in attesa che la spiegazione prosegua (so che sembrano immagini da libro Cuore, ma io sto parlando di una situazione ideale, quella cui si dovrebbe almeno tendere) traggono da una sensazione estetica, da una gratificazione sensoriale, una conferma etica: hanno fatto un buon lavoro, indipendentemente da quelli che potranno esserne col tempo gli esiti (che comunque, con questa premessa, hanno maggiori probabilità di riuscire positivi). Tutto qui, e non mi pare poco.

In sintesi:

a) Sto parlando di una Estetica del concreto, dell’essenziale. Amo il romanico, il barocco mi riesce indigesto. Nelle persone, come nelle cose, bado alla sostanza. Questo fa sì che sia anche molto diffidente nei confronti delle sperimentazioni, dell’innovazione, e segnatamente di quelle contemporanee, che il più delle volte si risolvono in pacchianate fini a se stesse o al mercato. So che l’evoluzione, dei costumi, delle tecniche, e di conseguenza anche del gusto, è nell’ordine delle cose e della natura umana in particolare, ma non credo che il nuovo rappresenti in automatico un valore positivo. Le novità, laddove finiscano per imporsi, vanno semmai valutate quando non sono più tali, quando (e se) diventano appunto prassi ordinarie.

b) Dire che bado alla sostanza implica che non riesco a tenere distinta l’opera dall’autore, al contrario di quanto il canone critico moderno imporrebbe. Sono consapevole del fatto che questo atteggiamento costituisce un limite, perché con tali premesse diventa poi difficile spiegare come possa piacermi Thomas Mann, ma io tendo a considerarlo invece uno scandaglio di profondità: consente in molti casi di scoprire quali deserti spirituali si stendono come nei western all’italiana dietro le facciate di cartapesta delle parole (vedi alla voce: Sartre): oppure, al contrario, aiuta a cogliere la bellezza non immediatamente evidente di un percorso genuino (questo mi pare fondamentale, ad esempio, nei confronti dell’arte contemporanea).

c) La mia è dunque anche un’estetica dell’esemplarità. Pretendo coerenza tra ciò che si predica e ciò che si fa. Posso apprezzare l’intelligenza di Rousseau e di Voltaire, posso in qualche caso condividerne le idee, ma è una condivisione “fredda”, che rimane molto in superfice, non accomunante. Il mio modello illuministico è invece Diderot, che opera concretamente, e si assume la responsabilità piena delle sue azioni, pagandone anche pesantemente il prezzo. Ogni sua parola mi riesce credibile perché so che ha il corrispettivo in un comportamento conseguente. Non mi accade lo stesso con i suoi due contemporanei. E non è questione di integralismo: condivido ad esempio quasi nulla dell’immagine che Cèline dà degli uomini e del mondo, ma gli riconosco la coerenza, e questo mi permette di confrontarmi antagonisticamente con lui: lo riconosco almeno come un interlocutore.

d) È pertanto un’estetica della responsabilità. Ritengo che chiunque agisce a qualsiasi livello, e tanto più se opera in un ambito “culturalmente” rilevante, nel senso che ha o presume una particolare visibilità e una ricaduta significativa sulla sensibilità collettiva, abbia la responsabilità di fronte a se stesso e agli altri di farlo al meglio. Nei confronti di se stesso perché le cose fatte bene, almeno in ragione delle singole possibilità, danno di per sé una gratificazione che giustifica e allevia ogni sforzo e ogni sacrificio (che nel momento in cui si entra in quest’ottica non sono nemmeno più tali). Di fronte agli altri perché trasmettono l’esemplarità di cui parlavo sopra, e in essa risiede il loro reale valore, indipendentemente persino dal risultato.
L’estetica dell’esemplarità non impone naturalmente di essere esemplari, o di proporsi come tali, in ogni attimo della propria vita. Non è l’imitazione di Cristo. Va intesa semmai come il risultato a posteriori di scelte comportamentali compiute di volta in volta “responsabilmente”. Consegue all’assunzione di responsabilità, non la detta. Voglio dire che queste scelte dovrebbe essere tali, perché “belle e buone” in sé, e darmi la stessa gratificazione, anche se vivessi su un’isola deserta.

e) È infine anche un’estetica universale. Credo in regole universali del gusto. Non pretendo che agli altri piaccia quel che piace a me, ma ritengo esista un minimo comun denominatore la cui soglia tutti, lo vogliano o meno, sono in grado di riconoscere. Se il mondo ci appare pieno di brutture non è perché ognuno ha ricevuto un imprinting morale ed estetico diverso e adotta differenti criteri, ma perché la gran parte degli umani non ne segue alcuno. Ovvero, non si assume alcuna responsabilità.

Forse ogni ragionamento sull’estetica dovrebbe partire da questo dato.

Premessa / promessa

di Paolo Repetto, 30 marzo 2021, prefazione a Resistenze e Riabilitazioni, vol. III di Opera omnia ed altri scritti, 2021

Nel realizzare questi volumi miscellanei mi sono reso conto di aver portato avanti per anni, senza avere in mente un preciso disegno (lo testimoniano gli spazi molto diseguali riservati ai diversi protagonisti), un progetto che ha una sua intima coerenza. Ho continuato a proporre delle mini-biografie di sconosciuti illustri, un po’ sulla scorta dei ritratti in miniatura di Lytton Strachey, e un po’ su quella dei propositi di Charles Peguy, oggi sconosciuto illustre pure lui, che scriveva: “Sui grandi padroni, sui capi, la storia ci informerà sempre, bene o male, più male che bene, è il suo mestiere […] Quello che vogliamo sapere, quello che non possiamo inventare, quello che vogliamo imparare non sono i personaggi principali, i grandi attori, le grandi parti, le parti di rilievo, […] ma chi erano e come vivevano quegli uomini che furono i nostri avi e che riconosciamo come nostri maestri”.

Appunto. Al contrario degli illustri sconosciuti, gli sconosciuti illustri sono coloro dei quali varrebbe la pena conservare memoria. In effetti il progetto si è delineato da solo: riguarda memorie da riscattare, e per queste non manca certo il materiale. Sono le vite di gente non comune, sia pure in un senso un po’ diverso da quello utilizzato da Hobsbawm. Oppure gli aspetti meno comuni, spesso sottaciuti, di vite per altri versi sin troppo raccontate.

Ma non solo quelle. Péguy parla di un intero popolo (nel suo caso, naturalmente, quello francese): “[…] come viveva, come lavorava questo popolo, che amava il lavoro, unanime, tutto il lavoro, un popolo che era laborioso e ancor più lavoratore, che si dilettava lavorando, che aveva un vero e proprio culto del lavoro: un culto, una religione del lavoro ben fatto”. Bene, in qualche modo, prima ancora di leggere Pèguy, questa cosa l’avevo già praticata (vedi in questo volume Mazze e silenzi) e addirittura teorizzata (vedi Storia della filosofia e filosofia della storia): “Ogni singola esistenza, svincolata dalla necessità o dalla casualità storica, è importante per sé, e ogni singola azione lascia comunque un segno, incide sulla vita dell’universo, di chi ci sta attorno e di chi verrà nel futuro. Le tracce del nostro passaggio non si esauriscono e non si perdono in ciò che viene narrato e ufficialmente documentato: esiste una sorta di memoria dell’acqua, per cui il piccolo cerchio creato dalla nostra immersione nell’esistere si espande, sia pure impercettibilmente. Dopo, la superfice non è più la stessa. La nostra esistenza imprime comunque un suo segno nelle cose e nelle persone. Un segno che ci può sembrare impercettibile, o irrilevante: ma non è così”.

Se nei precedenti volumi ho raccontato in genere di personaggi semisconosciuti che hanno comunque lasciato forti impronte, a volte anche fisiche, nella storia, in questo ho volutamente mescolato figure la cui caratura storica, almeno quella ufficiale, è assai diversa: proprio per sottolineare come sulla nostra vicenda personale, sul nostro modo di pensare e di vivere, e per contagio su quelle di chi ci sta attorno, agiscano con egual rilievo le influenze più disparate. E come a volte a darci l’impronta siano proprio quelle che arrivano sotterranee, che non passano per i ruoli codificati o per i luoghi deputati o per i maestri universalmente riconosciuti.

Siamo figli, come dicevo sopra, di una infinità di piccoli segni. E questi segni possiamo rintracciarli direttamente nella nostra memoria, o possono giungerci indirettamente da fonti documentarie “minori”. Una vecchia fotografia, una lettera, un oggetto particolare. E i ricordi e le immagini e gli insegnamenti che ne sortiscono possono evocare non solo vite, ma interi mondi che sono ormai scomparsi. Mi è sembrato quindi importante raccoglierli e fissarli. Perché, e insisto con Péguy: “Siamo gli ultimi. Quasi quelli che vengono dopo gli ultimi. Subito dopo di noi ha inizio un’altra epoca, un altro mondo, il mondo di chi non crede più a niente, di chi se ne vanta e se ne inorgoglisce”.

Pèguy dice che questa consapevolezza ci investe di una enorme responsabilità. Molto altro ancora andrebbe riscattato: la storia ad esempio di nazioni o di interi popoli che per pura ignoranza o per pervicace e invidiosa malafede sono stati ostracizzati, perseguitati e sterminati, e ancora lo sono, o continuano ad essere associati ad una immagine negativa. Oppure quella di idee (e non di “ideologie”) che hanno guidato la formazione politica di più generazioni, e che oggi vengono svendute sul banco della retorica o della banalizzazione. Ho provato a fare la mia parte con le “riabilitazioni” raccolte nel presente volume. Forse, anzi, senz’altro, non è abbastanza: ma penso mi si possa riconoscere almeno la buona volontà.

Con il fuoco nei polpacci

di Paolo Repetto, 28 febbraio 2021, prefazione a Sulle vette e negli abissi, vol. II di Opera omnia ed altri scritti, 2021

Come il primo volume (Uomini, tracce e impronte) col quale ho inaugurato la raccolta delle mie più recenti attività di scrittura, anche questo ospita storie e mini-biografie di viaggiatori che hanno calpestato la polvere e il fango di tutto il mondo. Là accanto agli spiriti irrequieti dei grandi camminatori comparivano quelli di scienziati ed esploratori, mossi, gli uni e gli altri, sia pure con diverse finalità, dalla voglia di conoscenza. La parte iniziale di questo secondo è invece più genericamente rivolta agli errabondi che la strada l’hanno conosciuta e battuta sin dalla giovanissima età, non per scelta ma per la necessità di lasciarsi alle spalle un’esistenza grama, e la cui vita, le scelte relazionali, politiche e culturali e, in alcuni casi, anche quelle letterarie, sono state profondamente segnate dalla condizione giovanile.

Ai vagabondi ho affiancato poi i “conquistatori dell’inutile”, gli alpinisti che hanno vissuto l’età eroica di questa pratica sportiva col semplice e genuino scopo di lasciare le loro impronte su ghiacciai impervi e vette ritenute impossibili. Una terza sezione, anche questa connessa in qualche modo al camminare, al viaggiare e all’andare per monti, rientra in quell’ autobiografia spirituale che sto scrivendo e aggiornando da sempre. L’ultima, infine, riprende e approfondisce alcuni argomenti, legati alla storia delle scoperte geografiche e della colonizzazione, che avevo affrontato tempo fa ne In capo al mondo.

Non sono materiali omogenei, malgrado abbia cercato di impostare per temi il disegno della raccolta: d’altro canto non potevano esserlo, proprio per la disordinata molteplicità degli interessi che la mia scrittura rivela. Se qualcosa tiene assieme il tutto, credo possa essere identificata nella curiosità partecipe: non ho seguito il cammino di questi personaggi con il distacco di un entomologo, ma li ho accompagnati passo dopo passo, ho rivissuto le loro avventure e ho patito le loro disavventure. A furia di leggerli e rileggerli li sento ormai come vecchi e sinceri amici. Sono davvero entrati nella mia vita, e questo dovrebbe almeno parzialmente giustificare il fatto che spesso, quando ne racconto, la mia vita entra nella loro.

Tracce e impronte

di Paolo Repetto, 28 febbraio 2021, prefazione a Uomini, tracce e impronte, vol. I di Opera omnia ed altri scritti, 2021

Il mondo lo si può “camminare” in vari modi, da soli o in compagnia, di fretta o in tutta calma, motivati da una scelta o spinti da una necessità; così come sono svariati i mezzi, oltre ai piedi, grazie ai quali si può viaggiare. Ma gli atteggiamenti fondamentali che inducono a incamminarsi per il mondo sono riconducibili in linea di massima a due: la semplice voglia di scoprirlo, magari in cerca di rifugio, e viverlo, oppure il desiderio di raccontarlo, studiarlo o conquistarlo. Nel primo caso sulla polvere o sul fango della strada percorsa si lasciano soltanto delle tracce, che vengono prima o poi spazzate via dal vento del tempo o dilavate dalle acque, mentre rimangono fortemente impresse nell’animo; negli altri casi si marcano invece delle impronte, a volte talmente profonde e durature che quel mondo vanno anche a modificarlo. E qualche volta accade anche che le orme involontarie diventino letteralmente impronte rivelatrici, come nei casi di Laetoli, dell’isola di Calvert o del deserto del Nefud.

Le pagine che ho raccolto in questi due primi volumi sono dedicate a uomini che il mondo lo hanno percorso nell’una e nell’altra maniera, in piccolo o in grande, con differenti intenti e nei contesti temporali più lontani, accomunati comunque dal desiderio di conoscerlo e di lasciare una traccia, almeno scritta, del loro passaggio. Si va dai grandi esploratori e dai camminatori instancabili a personaggi semisconosciuti, ai dilettanti del camminare, dell’arrampicare o del viaggiare, in una varietà che spiega, anche se forse non giustifica, il “vario stile” delle trattazioni. La continuità tra costoro è assicurata non da ciò che hanno fatto, hanno visto o hanno descritto, ma dallo spirito col quale hanno esaltato una naturale disposizione biologica traducendola in una scelta culturale.

Quanto poi tale scelta sia stata positiva o meno per l’umanità lo lascio discutere agli osservanti del “politically correct”: personalmente credo si tratti di una diatriba stupida, o perlomeno inconcludente, perché quello di ampliare e allontanare sempre più il proprio orizzonte è per l’uomo un istinto, dettato dalla necessità di sopravvivenza, sin dal momento in cui ha assunto la postura eretta. Forse non ha ottemperato appieno all’imperativo di Ulisse, e nel suo peregrinare ha perseguito più “canoscenza” che “virtute”: ma questa è un’altra storia, e l’affronteremo altrove.

Camminatori leggendari

Appendice 2

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2015

Non voglio stilare una graduatoria dei più forti camminatori di ogni tempo. Al di là dell’impossibilità di farlo, non avrebbe senso nemmeno pensarlo. Voglio soltanto rievocare un paio di personaggi formidabili, ai quali ho accennato nelle pagine precedenti e le cui imprese hanno dell’incredibile, sia per le distanze coperte che per le condizioni in cui si sono svolte. Ma anche per lo spirito col quale sono state affrontate.

Il primo è John Dundas Cochrane, un ufficiale della marina inglese, figlio illegittimo dell’avventuriero scozzese Andrew Cochrane-Johnstone e membro di una famiglia che con l’avventura aveva una lunga consuetudine. Rimasto come molti altri a spasso dopo la fine delle guerre napoleoniche, Cochrane chiese all’Ammiragliato di guidare una spedizione sulle orme di Mungo Park, per scoprire le sorgenti del fiume Niger, ma la sua richiesta fu respinta.

Decise allora di muoversi in proprio in direzione opposta e nel febbraio del 1820 partì da Dieppe e passando per Parigi, Berlino e la Lituania si diresse verso Mosca. A piedi. Di lì, valicati gli Urali, attraversò la Siberia sino a varcare il confine della Cina e arrivò a Irkutsk. Poi risalì verso la Kolyma, al di là del Circolo Polare Artico, toccò Ochotsk e raggiunse la Kamchatka dopo un anno e mezzo dalla partenza.

A questo punto aveva maturato un progetto grandioso: esplorare questa remota penisola a nord del Giappone, poi guadagnare il continente americano attraversando i ghiacci sul mare di Bering e proseguire la camminata sino a fare il giro del mondo. A scombussolare questi piani giunse però l’imprevisto, e l’imprevisto si chiamava amore. Cochrane si innamorò infatti della bella figlia di un capo locale, adottata dal governatore russo della provincia. Trascorse ancora undici mesi in Kamchatka, esplorando tutta la penisola, cincischiò in amoreggiamenti, poi decise di tornare a Londra portandosi appresso la sposa. Via mare, questa volta.

Rientrato in patria pubblicò il racconto dei suoi viaggi in Narrative of a Pedestrian Journey through Russia and Siberian Tartary, From the Frontiers of China to the Frozen Sea and Kamchatka (2 vols., London, 1824), che oltre a raccogliere i diari spiegava anche le motivazioni che lo avevano spinto a viaggiare a piedi su distanze così lunghe in terreni difficilissimi. Il libro riscosse un immediato successo (come peraltro accade da tre secoli in Inghilterra per quasi tutte le opere di narrativa di viaggio), e gli valse l’appellativo di pedestrian traveller per eccellenza.

Il titolo era ampiamente giustificato. Cochrane aveva percorso oltre cinquemila chilometri, la maggior parte dei quali su terreno ghiacciato e in zone mai toccate da un occidentale. Ma non è tutto. Aveva vissuto le avventure più straordinarie, cose degne del miglior Salgari o di Verne, o persino di Münchhausen (i primi due hanno entrambi tratto ispirazione dal suo racconto, al terzo parrebbe egli stesso essersi talvolta ispirato).

Già prima di arrivare a Mosca era stato aggredito, derubato e spogliato da due malviventi, che lo avevano lasciato seminudo al gelo, legato a un albero. Si era salvato per la potenza della sua voce, riuscendo a richiamare l’attenzione di un contadino. Dopo una lunga passeggiata a piedi nudi era arrivato a un villaggio, dove lo avevano scongelato e rivestito, e di lì era ripartito per raggiungere Mosca in una sola tirata: in trentadue ore aveva percorso centosessanta chilometri nella neve.

In Siberia gli accadde di tutto: venne quasi massacrato in un villaggio di Vecchi Credenti per aver chiesto di accendere la pipa; la sfangò a fatica dopo aver preparato per un “uomo di medicina” un thè pescando dal sacco sbagliato, quello del tabacco, e quasi avvelenandolo; dovette sfuggire per cinque giorni a un branco di lupi affamati, nutrendosi solo di bacche; attraversò fiumi in piena per il disgelo, in mezzo ai blocchi di ghiaccio; assieme ad alcuni compagni costruì una zattera per attraversare un altro fiume, ma la zattera si era rovesciata, erano finiti tutti in acqua, avevano acceso un fuoco per asciugarsi e incendiano la foresta, rischiando di finire arrostiti. E via di questo passo.

Si capisce l’entusiasmo dei lettori, ma si capisce anche perché, dopo due anni di appassionata e sedentaria vita coniugale con la sua bella principessa, Cochrane abbia sentito il richiamo dell’avventura e sia partito per l’America del sud, dove sfortunatamente morì di peste nel 1825, a trentadue anni. La giovane vedova tornò in Russia, dove sposò un esploratore artico, Pyotr Anjou. Anche lei, evidentemente, non poteva stare lontana dall’avventura.

A conclusione del suo racconto Cochrane ha scritto:

Il viaggiatore più saggio è quello che parte senza indugi e senza pianificare, confidando nell’ospitalità e nell’aiuto che gli daranno le persone più povere e meno colte, non quello che si affida a una borsa ben piena. Io ho ricevuto cibo da una famiglia che stava quasi morendo di fame, e posso a pieno titolo affermare per esperienza e con gratitudine che coloro che vengono considerati più ignoranti e incivili sono i più ospitali e cordiali con i loro simili.

Sono le stesse parole usate un secolo dopo da Jack London a conclusione de La strada. Diari di un vagabondo e due secoli dopo da George Meegan ne La grande camminata, e sono la conclusione cui arriva la maggior parte dei camminatori “classici”. Non so quanto possano valere ancora oggi, e mi riferisco all’ultimo quarto di secolo, per almeno due motivi: sono diversi i camminatori ed è diverso il mondo in cui camminano.

Fortunatamente ho fatto a tempo a sperimentarne di persona la verità. Ancora quarant’anni fa viaggiare a piedi faceva scattare una immediata empatia nelle persone più umili. Forse è motivo di conforto sapere che, per quanto povera sia la tua condizione, qualcuno può guardare a te con gratitudine.

Diversi anni prima che Cochrane nascesse, un altro inglese, John “Walking” Stewart, si era guadagnato il titolo che entrerà a far parte integrante del suo nome, quello di “camminatore”. Stewart non è stato solo un viaggiatore ma anche un pensatore, sia pure controverso, che ha esercitato notevole influenza sulla filosofia e soprattutto sulla letteratura inglese (era amico di De Quincey e di Wordsworth, che lo definì «l’uomo più eloquente in fatto di natura che io abbia mai conosciuto»). Se tutto ciò che si è scritto su di lui fosse vero, Stewart sarebbe indubbiamente il più grande camminatore mai esistito e quanto ad avventure, poi, non sarebbe secondo a nessuno.

Dopo essere stato cacciato da diverse scuole, Stewart finisce quindicenne a Madras, a lavorare come impiegato per la Compagnia delle Indie. I luoghi gli piacciono, ma non gli piace lo sfruttamento che la Compagnia opera degli indigeni, infliggendo loro maltrattamenti e umiliazioni. Comincia quindi a scrivere lettere di protesta, che non gli procurano certamente grandi simpatie tra gli amministratori.

Riesce comunque a farsi incaricare di una lunghissima ricognizione lungo tutto il Deccan (quasi due anni) allo scopo di imparare i principali dialetti nativi, per fungere poi da interprete e farsi aggregare a una spedizione militare in Tibet e nel Bhutan. Non è certo, ma pare che arrivi anche a toccare la penisola malese.

La conoscenza della cultura indiana e il disgusto per la politica della Compagnia lo portano a un certo punto a saltare lo staccato, a lasciare l’impiego e ad arruolarsi (come interprete, dice lui, come ufficiale, e quindi traditore, dicevano i suoi nemici) presso Hyder Alì, raja di Seringapatam, che della compagnia era un nemico acerrimo. Non deve essersi comunque trattato di una mansione molto pacifica, perché chi lo conobbe riferisce che portava le cicatrici di numerose ferite su tutto il corpo.

Riesce a sfuggire a diversi attentati e dopo aver prestato servizio addirittura come primo ministro presso il nababbo di Arcot, nell’India centro-meridionale, decide di rimpatriare, ma il rientro è rocambolesco. Durante l’attraversamento del golfo Persico i marinai musulmani del legno sul quale è imbarcato lo appendono per i piedi a un pennone, ritenendolo causa di una violenta tempesta, e ce lo lasciano per giorni, fino a quando la tempesta non si placa. Lo sbarcano quindi in Etiopia, e di qui Stewart attraversa tutta l’Africa del nord, trova un imbarco per Marsiglia, percorre la Francia e la Spagna per arrivare in Portogallo e di lì tornare in Inghilterra1.

Ma non si ferma: riparte quasi subito per la Svezia, risale sino in Lapponia e ridiscende attraversando la Russia, valicando gli Urali e spingendosi sino ai confini della Cina, dove peraltro non lo lasciano entrare. Nemmeno un anno dopo è a Costantinopoli, con un viaggio da Calais attraverso la Francia, il Nord Italia e i Balcani. Poi è la volta dell’America: un lungo tour nel 1790 negli Stati Uniti, dove già è famoso come “Walking” Stewart, e nelle foreste canadesi. Non ha un soldo in tasca, perché nel frattempo la piccola fortuna che si era costruito in India e aveva investita in Francia è congelata per via dalla rivoluzione, ma come scriverà De Quincey «percorre le solitarie foreste del Canada […] la zona torrida brulicante di vita, […] i grandi deserti» barattando cibo e ospitalità con lezioni di filosofia.

È ancora in giro per l’Europa negli anni successivi, e a Parigi durante i grandi rivolgimenti del 1792: ma verso il finire del secolo le ristrettezze finanziarie gli impongono di limitare le sue scorribande a piedi alle isole britanniche. Alla fine si stabilisce a Londra, dove tiene corsi filosofici e viene considerato, secondo i punti di vista, un eccentrico geniale o un pazzo, alimentando anche una sorta di leggenda attorno alla sua presunta ubiquità.

Nel saggio Walking Stewart, celebrazione dell’uomo e del pensatore, De Quincey racconta di averlo salutato un giorno e di essersi diretto velocemente (era un ottimo camminatore) per la via più breve verso l’uscita dalla città: salvo dopo qualche chilometro ritrovarsi a superarlo lungo la strada, come si fosse materializzato dal nulla. Sempre De Quincey testimonia della grande importanza rivestita da Stewart nella nascita dei primi circoli romantici inglesi e dell’influenza da lui esercita su Wordsworth e Coleridge, ma anche su pensatori libertari come William Goodwin.

Il racconto delle sue avventure, comparso nel 1790 col titolo Viaggi nelle parti più interessanti del globo, appartiene piuttosto alla saggistica filosofica che alla narrativa di viaggio. In esso e ne L’apocalisse della Natura, pubblicato lo stesso anno, sviluppa una teoria della natura piuttosto sconclusionata, rousseauiana e materialistica al tempo stesso. Sulla scorta di queste stramberie, soprattutto di quelle contenute nelle opere della vecchiaia, alcuni hanno messo in dubbio la gran parte delle vicende da lui narrate, ma esistono testimonianze indubbie e diverse che egli si trovasse nei luoghi che ha citato (e qualche volta in più luoghi contemporaneamente).

Stewart si vantava di essere un “uomo di natura”, e tuonava contro la “mollizie” dell’uomo contemporaneo, compresi i letti. Praticava bagni di fango, faceva esercizi all’aria aperta, camminava incessantemente e amava respirare “l’aria balsamica” dei prati concimati dalle mucche. In effetti, rimase sino all’ultimo, a settantatré anni, un bell’uomo, alto, dritto e straordinariamente robusto. Appena la sua salute iniziò a declinare non ebbe dubbi: si tolse la vita con un veleno che portava con sé da oltre mezzo secolo. Camminò con le sue gambe anche l’ultimo viaggio.

1 Quella di tornare dall’India a piedi sembra essere stata quasi una moda tra gli ufficiali britannici dell’Indian Service. Anche l’attivista radicale, animalista e vegetariano e poi giacobino John Oswald, quello che voleva esportare la rivoluzione francese in Gran Bretagna e morì combattendo i controrivoluzionari vandeani, fece a piedi tutta la via del ritorno, attraverso il Medio Oriente e la Russia.

 

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Altre passeggiate

Appendice 1

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2015

Non ho notizia di altri che abbiano percorso a piedi l’intera penisola prima di Johann Gottfried Seume, né italiani né stranieri. Qualcuno l’avrà senz’altro fatto, ma con uno spirito diverso da quello che in queste pagine stiamo cercando di cogliere (penso a soldati, pellegrini, mercanti, ecc.), e proprio per questo non ne ha scritto.

A partire dalla fine del XVIII secolo sono invece diversi i viaggiatori che raccontano le loro camminate sul suolo italiano. Di Déodat de Dolomieu, che esplorò pietra per pietra l’intero arco alpino pochi anni prima del viaggio di Seume (e lo raccontò nei Viaggi sulle Alpi) si parlerà altrove. Ma il suo era un camminare da scienziato, e come lui uno stuolo di altri geologi o naturalisti o alpinisti nella prima metà del secolo successivo passò al setaccio buona parte del nostro territorio, vulcani e isole comprese, muovendosi esclusivamente a piedi. Non è di loro che intendo occuparmi in questa sede. Ho invece scelto di fare almeno un cenno ad alcuni viaggiatori non molto conosciuti, o poco ricordati, che ritennero come Seume di poter meglio conoscere il nostro paese coprendosi della polvere delle sue strade.

Per trovare un camminatore che si muova con spirito analogo a quello di Seume occorre comunque attendere almeno trent’anni. Nel 1833 il medico inglese George Hume Weatherhead, autore di studi fondamentali sulle febbri puerperali e sulle malattie infantili, percorre quasi per intero la via Francigena, attraversando la Francia e giungendo sino a Roma. Lo racconta l’anno successivo in A Pedestrian Tour Through France and Italy.

Weatherhead è indubbiamente influenzato dalle esperienze di William Wordsworth e della sua cerchia, e anche dal saggio di William Hazlitt sul viaggiare a piedi: ma non è affatto un wanderer nell’accezione romantica. È prima di tutto un uomo di scienza, accurato nella preparazione e nell’organizzazione del viaggio, e guarda alle cose con l’occhio clinico dello studioso, si tratti della realtà sociale o di quella naturale.

I suoi referenti non sono Goethe o Winckelmann e neppure Teocrito, semmai gli scienziati e i naturalisti dell’antichità. Scrive della Liguria:

In primavera, e a volte anche in estate, un vento freddo soffia dall’Appennino e refrigera improvvisamente l’aria. Questa era già un’osservazione di Plinio. – e più oltre – È mia convinzione, che molti pazienti, che potrebbero avviarsi con calma alla tomba altrove, corrano al galoppo verso il loro obiettivo recandosi in pellegrinaggio a Roma: il loro languore, infatti, aumenta sotto l’influsso deprimente di un’atmosfera così rilassante e così umida; la loro respirazione notturna diventa più frequente e affannosa, la loro espettorazione più faticosamente copiosa […].

Oppure, di fronte al mare di Nizza:

Eppure, questa è una residenza consigliata a quelli nei cui polmoni vuoti già risuona l’eco della morte! Se non fosse per queste improvvise variazioni di temperatura, Nizza sarebbe un rifugio desiderabile per gli ammalati: la situazione sulla riva del mare è deliziosa; la sua passeggiata unica; la brezza che soffia dal mare tempera il caldo eccessivo dei mesi più caldi […].

Coglie naturalmente anche quegli aspetti che tanto disturbavano tutti i visitatori, e non solo quelli inglesi, un refrain che si ripete da Montaigne in avanti:

Gli abitanti di una città avrebbero promesso a un Santo che se avesse allontanata la peste avrebbero espulso tutti gli ebrei. Questo è accaduto, per esempio, a Pavia nel 1527. In alcuni distretti perirono nove persone su dieci. Ma chi è schiavo della superstizione in molti casi non impara nulla. Gli ebrei furono comunque espulsi. D’altra parte, il miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro è ancora oggi oggetto di credenza a Napoli.

Malgrado abbia potuto educare il proprio gusto sugli acquerelli di William Turner (che era stato in Italia due volte, un decennio prima, riportandone un eccezionale diario iconografico), Weatherhead non sembra particolarmente sensibile alle suggestioni del paesaggio.

Si confronti ad esempio la descrizione delle cascate del Velino fatta da Seume: «Mi misi seduto di contro, su una roccia, e per alcuni minuti dimenticai tutto quello che il mondo può avere di più bello e di più grande: difficilmente la mano dell’uomo avrebbe potuto creare qualcosa di più imponente, di più affascinante di quella cascata», con quella di Weatherhead (sembra stralciata da una delle tante guide turistiche che avevano cominciato a proliferare fin dagli inizi del Settecento, inaugurando un nuovo genere letterario):

Il miglior punto per godere la visita della cascata in tutta la sua sublimità è una grotta fatta di rami intrecciati, posta in basso di fronte alla massa d’acqua. Ma il visitatore non può provare piena soddisfazione osservando la caduta solo da una posizione, per quanto bella essa appaia. Rischiando di bagnarsi si faccia accompagnare da una guida fin sul balcone naturale da dove può osservare le caverne rocciose adornate di stalattiti, sedimenti inconsueti che si protendono fuori dai blocchi di tufo di cui le rocce sono formate; si fermi in una grande grotta in alto, il suo tetto è sostenuto da colossali colonne formate da stalattiti e guardi il Velino che si tuffa dal precipizio.

Pochi anni dopo è il turno di un altro inglese, Arthur John Strutt, archeologo, pittore e scrittore, che dopo essersi trasferito giovanissimo col padre, anche lui artista, a Roma, ha dato inizio a uno studio sistematico del paesaggio e delle tradizioni popolari dell’Italia Meridionale. Per documentarsi e trovare scenari sempre nuovi e diversi Strutt intraprende nel 1841 un viaggio a piedi verso il sud dell’Italia in compagnia di un amico, partendo da Roma alla fine di aprile e giungendo a Palermo a metà dicembre, dopo aver attraversato la Campania e la Calabria.

Le sue osservazioni e i suoi numerosissimi schizzi sono raccolti in un libro, A Pedestrian Tour in Calabria & Sicily (Un viaggio a piedi in Calabria e in Sicilia) che incontrerà in Inghilterra un notevole successo e che ancor oggi è considerato un’interessante fonte documentaria sui costumi del popolino e della nobiltà borbonica nel Regno delle Due Sicilie.

In questo caso lospirito è davvero nuovo, perché i due compari poco alla volta entrano nell’ordine d’idee di un allegro anche se faticoso vagabondare, nel quale gli scopi del viaggio finiscono in secondo piano, per lasciar posto al piacere di vivere giorno per giorno situazioni ed emozioni nuove:

Eccoci finalmente qui. Un proverbio italiano dice: – Vedi Napoli e poi muori!, ma io dico: – Vedi Napoli e vivi – perché c’è molto qui degno di essere vissuto.

Infatti si deve a Strutt e alle sue descrizioni buona parte dell’interesse che i britannici maturano verso la metà del secolo per l’Italia meridionale, ma anche dell’immagine da cartolina che ne ricavano. Raccontando la campagna sotto Roma scrive:

I pastori hanno un aspetto non meno ispido delle loro bestie: portano indumenti fatti di pelli di pecore o di capre con all’esterno la lana o il pelo. Raramente essi sono occupati in qualche lavoro […] Essi avevano un’idea favolosa delle pecore inglesi: le immaginavano grandi almeno quanto un asino! Così avevano sentito dire.

Ma le immagini di pastori che ci ha lasciato, e che corredano il libro, pur essendo realistiche evocano un clima arcadico piuttosto che una realtà di miseria e di ignoranza.

I due amici sono anche tra i primi a osare l’ingresso in quel mondo misterioso e pauroso che all’epoca era ancora la Calabria:

È qui la frontiera della Calabria e quindi l’ultima località della provincia della Basilicata. La padrona di casa ci avverte che domani non saremo più in grado di comprendere la lingua del luogo, tanto è difficile il dialetto calabrese. “Non parlano italiano come noi” – ci dice con sufficienza – pur non essendo, certamente, il suo italiano il più puro toscano. È bene, dopo tutto, aspettarsi il peggio, ed ella ci ha preparato per ogni evento, dicendoci che troveremo “brutta lingua e brutta gente”.

Strutt non si limita però a cogliere il lato folklorico o pittoresco: lascia intendere di aver ben compreso come funzionino le cose sul piano sociale e cerca di spiegarlo anche al lettore.

Temendo che non comprendiate la parola “Galantuomo” debbo informarvi che qui è usata per designare una certa classe di uomini che non sono assolutamente obbligati a lavorare per vivere. Disponendo, forse, di un carlino al giorno di rendita, essi sono in grado di vivere in ozio, per farla da padrone nel villaggio ed essere, come sono, “Galantuomini”.

Un altro pittore inglese, Edward Lear, più celebre in realtà come scrittore di limericks (una forma poetica mista di versi e disegni, che ha origine nella tradizione orale delle filastrocche ed è codificata in una struttura formale ben precisa, abbastanza simile a quella dei tanka giapponesi: cinque versi, tre di tre piedi e due di due), ha cominciato a frequentare l’Italia già dal 1837, per motivi di salute. A partire dal 1842 intraprende però una campagna di ricognizione a piedi delle regioni italiane meno conosciute, dettata da una vero e proprio innamoramento per il nostro territorio. Percorre inizialmente, per quattro estati consecutive, tutto l’agro laziale, la Ciociaria, l’Abruzzo e il Molise, riempiendosi gli occhi con i selvaggi paesaggi appenninici e il cuore con l’ospitalità degli abitanti e la persistenza delle tradizioni più antiche. Poi, nel 1847 e nel 1848, si dedica alla Calabria e alla Basilicata, calcando le orme di Strutt (del quale ha letto il Pedestrian Tour). Nel primo anno i disordini scoppiati a Reggio Calabria non gli consentono di portare a termine il suo progetto di esplorazione, che non viene abbandonato, ma semplicemente spostato in Sicilia. Tornerà l’anno successivo per percorrere gli impervi sentieri dell’area melfitana e dell’Irpinia.

Quello che vede (ma anche ciò che ascolta) è più che sufficiente a rinnovare il suo entusiasmo. Come il connazionale che lo ha preceduto, documenta iconograficamente il viaggio con numerosissimi schizzi, che diverranno in buona parte quadri dopo il rientro a Londra. Nel frattempo ha pubblicato (1846) l’opera che gli darà la fama, Il libro dei nonsense, una raccolta di limericks che anticipa i giochi di parole di Lewis Carrol e diventa da subito un classico per l’infanzia.

Terminata la campagna d’Italia, Lear continuerà ad essere animato dalla passione per il viaggio: visiterà ancora la Grecia, la Corsica, l’Albania, lasciandone dei succosissimi e illustratissimi resoconti.

Che viaggiatore (e che narratore) è Lear? È un camminatore decisamente tranquillo: del resto lo scopo delle sue peregrinazioni è quello di trovare degli scorci panoramici da dipingere, e la natura aspra dei luoghi che percorre non glieli fa certo mancare. A volte dà persino l’impressione di essere sopraffatto da tanta bellezza.

A notte la luna era piena; la grande vallata era silenziosa, a parte il cricchettio di miriadi di cavallette; una regione solitaria ma maestosamente bella.

Le frasi più ricorrenti nella sua narrazione sono “ci siamo fermati a disegnare una maestosa veduta”, e “davvero magnifica era la vista guardando da …”. Con questa disposizione non si cura molto delle distanze o di medie di percorrenza da rispettare. Ciò che gli preme è trovare alla fine della giornata di cammino un luogo confortevole dove riposare: e non ha difficoltà, munito com’è di innumerevoli lettere di raccomandazione per i notabili locali, che lo accolgono con entusiasmo, a volte anche troppo, nelle loro dimore.

La più grande penitenza di questa vita errante è lo stato di esaurimento e stanchezza in cui uno arriva la sera al suo rifugio; e siccome ci si sente obbligati a dimostrare cortesia per un certo tempo con chi ci intrattiene, la lotta tra il senso di dovere e un’opprimente inclinazione al sonno è molto penosa.

Le rare volte in cui ciò non accade, e deve adattarsi alla sistemazione in locande peggio che fatiscenti, racconta il disagio con albionica ironia.

La misera baracca dove eravamo alloggiati era per più della metà ingombrata dal letto di un uomo ammalato, con barili, con otri pieni di vino […]; in più c’era un buio infernale; e così, nell’oscurità, palpando mi sono seduto su un grande maiale vivo, che è sdrucciolato via, con mio disgusto, sotto di me, dando un portentoso grugnito, e portando l’agitazione ad un’orda di galline appollaiate in ogni posto, sopra e sotto.

In Calabria viaggia in compagnia di un amico, Proby, anche lui pittore, di una simpaticissima guida, che definisce “Turchi” tutti gli abitanti della costiera ionica, e di un asino. Incontra persone squisite, come i componenti della famiglia Scaglione, e personaggi grotteschi, come l’incontenibile conte Garrolo e la sua consorte, abati convinti che l’Inghilterra sia grande un terzo di Roma e divisa in due da un mare (sotto il quale corre però un tunnel) e baroni paranoici che temono spie ovunque: ma non avvalora alcuno degli stereotipi che facevano considerare ai suoi contemporanei la Calabria come una terra di nessuno. Non si imbatte in briganti, né subisce furti. Il pericolo maggiore è costituito semmai dalle cimici che infestano a migliaia i giacigli nelle locande:

Il numero di parassiti era così grande ed opprimente nelle camere da letto, che siamo rimasti svegli tutta la notte in attesa dell’alba, alla meno peggio, sui gradini dell’orribile spelonca.

La sua vocazione estetica non gli impedisce di cogliere, sia pure in brevi annotazioni, la situazione economica e sociale dei luoghi che attraversa, e non può fare a meno, per quanto cerchi di ignorarla, di avvertire i fermenti di quella politica. Tutto sommato ne ricava l’impressione di un equilibrio poverissimo, fondato su un immobilismo secolare e sulla distanza dalla “civiltà” che sta facendo capolino anche a Napoli: un equilibrio che appare in procinto di rompersi, con conseguenze probabilmente disastrose.

Lascio le sponde dalla Calabria con un sentimento takle di tristezza che non posso descrivere. Non è piacevole pensare l’incertezza del destino di tante gentili e gradevoli famiglie.

Ciò che lo colpisce maggiormente, e che avverte a rischio, è l’incredibile senso dell’ospitalità, che porta tutti, dai nobili ai contadini più poveri, a sentirsi in obbligo di condividere con i viaggiatori anche il loro nulla. Lo contraccambia con una simpatia schietta nei confronti della popolazione calabrese, espressa a volte, come accadeva per Seume, con una maliziosa galanteria:

Per quanto non fossimo molto attratti dalla bellezza delle donne calabresi dell’alta società, molte giovani contadine erano invece davvero belle.

E, a dispetto del suo spirito nomade e curioso, comprende perfettamente ciò che intende dire il buon vecchio Don Giovanni Rosa, che in vita sua non è mai andato oltre il paese vicino:

Perché dovrei andare? Se, quando morirò, come dovrò ben presto, troverò il Paradiso come Canolo, sarò molto felice. Per me “Canolo mio” è sempre stato come un Paradiso; mi sembra sempre un Paradiso, non mi manca nulla.

Nel 1844 è invece un giovanissimo poeta e giornalista americano (ha solo diciannove anni), Bayard Taylor, a essere inviato al di qua dell’oceano dal New York Tribune, per una serie di reportage da vari paesi europei (Inghilterra, Francia, Germania, Italia). Taylor assolve al suo compito muovendosi quasi sempre a piedi per due anni, durante i quali vive con sei centesimi di dollaro al giorno (e non manca di farlo presente ai lettori dei suoi articoli, e implicitamente all’editore).

Al ritorno in patria gli articoli sono raccolti nei due volumi di Views A-foot: or, Europe seen with Knapsack and Staff (Visto a piedi, o l’Europa vista con zaino e bastone, 1846), che lo rendono popolare presso un vasto pubblico. Da questo momento Taylor non si ferma più. Entra a lavorare stabilmente per il Tribune, che lo invia in California a seguire la febbre dell’oro, e approfitta dell’occasione per una puntata in Messico. Altro libro, altro successo. Il tour successivo si svolge nuovamente nel vecchio mondo, in Egitto e in Palestina. Poi è la volta dell’Estremo Oriente, India, Cina e Giappone, quindi ancora l’Europa, quella baltica e scandinava.

Nel frattempo conosce e fa pubblicare Henry David Thoreau e si afferma anche come poeta. Taylor naturalmente non viaggia più soltanto a piedi, ma appena gli è possibile rispolvera gli scarponi: ad esempio, per tenere una conferenza a San Francisco, nel 1859, riattraversa a piedi la Sierra. La sua carriera di camminatore lascia però a un certo punto il posto a quella di diplomatico (sarà anche ambasciatore a Berlino) e il suo nome, già legato agli innumerevoli libri di viaggio che ha tratto dalle esperienze fatte in mezzo mondo, si lega piuttosto, verso la fine dell’esistenza, a un’ottima traduzione del Faust di Goethe e al romanzo Joseph and His Friend: A Story of Pennsylvania, considerato il primo romanzo gay della letteratura americana.

Le impressioni che Taylor ricava dell’Italia (dove tornerà in più occasioni) non differiscono molto da quelle riportate da Seume, e prima ancora da Montesquieu e da quasi tutti gli altri viaggiatori stranieri. Riguardano lo spettacolo di un popolo oppresso in nome della religione, mantenuto nella povertà e nell’ignoranza da coloro che si professano intermediari tra l’uomo e Dio.

Ci sono anche aspetti legati alla sua ambiguità sessuale (a dispetto di due matrimoni, coltiva amicizie maschili molto strette e durature). A Milano, ad esempio, è toccato dalla visione di un bellissimo adolescente già infagottato nella “lugubre zimarra” del noviziato, e destinato quindi

[…] a una vita solitaria, senza gioie, in cui ogni affetto deve essere schiacciato come peccaminoso, e ogni piacere negato come un delitto! Eppure traspariva dal bel volto e dal tenero labbro di quel ragazzo che egli aveva un cuore caldo e desideroso di amore.

Nel complesso è comunque già un giornalista, molto bravo a sottolineare gli elementi di forte impatto emozionale e ad assecondare le aspettative di un grosso pubblico, ma senza alcun interesse ad approfondire i contatti e la conoscenza.

Di tempra molto diversa è un altro instancabile calpestatore delle strade italiane, lo scrittore, critico d’arte e traduttore di classici Samuel Butler. Butler è un personaggio a dir poco eccentrico: si diletta con competenza di tutto, dalla musica all’arte, dalle scienze naturali alla filologia e alla teologia, ed è soprattutto un bastian contrario per carattere e per vocazione.

Sostiene ad esempio, col supporto di un serissimo apparato filologico, che l’Odissea sia stata scritta da una donna (The Authoress of the Odyssey) e che le vicende narrate nel poema siano da ubicare non nell’Egeo ma nel Mediterraneo (ha personalmente identificato sulle coste o nelle isole siciliane tutti gli approdi di Ulisse).

Attratto dalla teoria evoluzionistica, polemizza però con Charles Darwin accusandolo di aver semplicemente divulgato idee che erano già del nonno Erasmus. Omosessuale abbastanza disinvolto per l’epoca, finirà implicato in una serie di vicende surreali e quasi farsesche, in seguito alle quali rinnegherà la sua identità sessuale per non fare la fine di Oscar Wilde.

Insomma, un tipo da romanzo, che a ventitrè anni ha lasciato la famiglia (lo volevano pastore anglicano) e l’Inghilterra per andare a fare l’allevatore di pecore in Nuova Zelanda, e che dopo cinque anni di vita bucolica è tornato in patria, dove ha conosciuto il successo con Erewhon, ovvero Dall’altra parte della Montagna, una “distopia” fantascientifica che attacca l’ottimismo tecnologico dei suoi contemporanei.

Negli ultimi due decenni dell’800 Butler frequenta assiduamente l’Italia, innamorandosene al punto da farsene entusiasta propagandista presso i suoi connazionali. Gira un po’ per tutto il paese, dalle Alpi alla Sicilia (dove a tutt’oggi è amato per le tesi sull’Odissea), ma si dedica infine particolarmente all’escursione dei Sacri Monti delle vallate alpine occidentali, sorbendosi a piedi tutti gli itinerari e raccontandoli poi in Alpi e santuari del Piemonte e del canton Ticino, illustrato dai suoi disegni. La riconoscenza che i valligiani gli tributano per aver fatto conoscere al mondo un fenomeno artistico sino ad allora ignorato, o declassato a curiosità folkloristica, è espressa nel ritratto dello stesso Butler che si trova all’interno della Cappella dell’Ecce Homo, al sacro Monte di Varallo.

La passione di Butler per l’Italia è indiscutibile, ma è forse meno genuina di quanto parrebbe. Proprio il suo carattere induce a pensare che sulla scelta di celebrare il nostro paese pesi anche, e molto, la volontà di contrapporsi al proprio, o almeno alle convenzioni vittoriane che lo gelano. Lo dimostra il fatto che pur tornando ripetutamente non pensa a stabilire qui la sua dimora.

Anche per quanto riguarda il Sud, il suo entusiasmo appare molto epidermico. Credo tuttavia che l’attivismo promozionale di Butler e il suo ambiguo fascino abbiano influenzato molti “irregolari” della generazione immediatamente successiva.

Solo qualche anno dopo altri “liberi viaggiatori” come George Gissing (Sulle rive dello Jonio. Appunti da un viaggio nell’Italia meridionale) e Norman Douglas (Vecchia Calabria e Alone. In viaggio per l’Italia), accomunati a Butler dall’amore per l’Italia e per gli individui del loro sesso, sceglieranno di eleggere proprio le aree più arretrate del paese a Eden ritrovato.

Nella primavera del 1901 ancora un inglese (ma di origini francesi), Hilaire Belloc, parte a piedi dalla Francia, attraversa la Svizzera e punta su Roma.

«Partirò dal luogo dove feci il soldato a sconto dei miei peccati» scrive all’inizio di La via di Roma, il diario di viaggio nel quale racconta l’impresa.

Si propone di non usare mai altro mezzo che le proprie gambe e di dormire all’addiaccio, per essere nella città santa entro il 29 giugno, percorrendo almeno quarantacinque chilometri al giorno.

Belloc è un formidabile polemista cattolico, poeta, scrittore di biografie e sostenitore, contro i modelli capitalistico e socialista, del distributismo (che prevede l’incentivazione della piccola proprietà e della piccola industria col ricavato della divisione e della redistribuzione dei grandi latifondi: in pratica un ritorno all’economia dell’Europa cristiana medioevale).

È legato da forte amicizia a Gilbert Keith Chesterton (quello di Padre Brown), col quale collabora per tutta la vita e a fianco del quale sostiene infuocate polemiche (e qui la sua componente francese lascia trapelare più che un’ombra di antisemitismo).

La motivazione del viaggio lo farebbe rientrare nel novero dei pellegrinaggi. Ma Belloc non lo interpreta come un percorso penitenziale di redenzione. Pensa, filosofeggia, qualche volta prega e ogni mattina, prima di mettersi in cammino, ascolta la messa ma si diverte anche un mondo, tanto che invoca a nume tutelare della sua scrittura François Rabelais «uno che sapeva vivere».

Pertanto ironizza, si guarda attorno, interroga la gente, ammira i paesaggi (come Butler, disegna lui stesso le illustrazioni) e mantiene un ritmo di scrittura vivace e brillante quanto doveva esserlo la sua camminata.

È un osservatore attento ma benevolo e alla fine, tutto sommato, l’Italia gli piace, paradossalmente proprio per i motivi che spiacevano a Taylor e a Seume, perché ritrova in essa il cuore profondamente cristiano di tutta la civiltà europea.

L’amore di Belloc per le camminate si manifesta anche, sul piano letterario, in una compilazione che cura dieci anni dopo il viaggio a Roma nel 1911, The Footpath Way: An Anthology for Walkers, nella quale raccoglie gli scritti teorici o i racconti di grandi camminatori, da Thoreau a De Quincey, da Stevenson a Borrow e a Stephen, e per la quale scrive un’appassionata introduzione, un vero epinicio all’andare a piedi. Perché:

Il camminatore diventa cugino o fratello di ogni cosa attorno a sé.

È interessante confrontare il viaggio di Belloc con quello compiuto poco prima della seconda guerra mondiale dal poeta olandese Bertus Aafjes, e narrato poi in versi nel 1946 nel poemetto Een voetreis naar Rome (Un pellegrinaggio a Roma).

Aafjes lascia il convento nel quale aveva pensato di prendere i voti perché vi respira un’aria troppo medioevale, una religiosità cupa, mentre lui è appassionato di classicità (all’inizio del poema chiama in aiuto tutte le Muse) e prova turbamenti che lo fanno dubitare della sua vocazione.

Da Amsterdam prende la via per Roma, senza avere in testa alcun itinerario preciso né piani di viaggio, confidando nel fatto che tutte le strade portano là. C’è meno energia nella sua camminata, e una spiritualità più sofferta e delicata, rispetto a quella sicura e spavalda di Belloc.

Scende lungo il Reno, passa per Colonia e Aquisgrana e arriva nel Tirolo (è lo stesso itinerario percorso da Patrick Leigh Fermor cinque anni prima). In un monastero sulle Dolomiti un abate provvede al suo bagaglio culturale regalandogli quattro libri: la Vita Nuova, le Bucoliche, l’Ars Amandi e l’Odissea.

In Italia i suoi dubbi sulla fermezza della vocazione trovano conferma: ospitato da una famiglia, le attenzioni della fanciulla di casa lo spingono a fuggire, e a Firenze respira a pieni polmoni un’aria di sensualità, dettata anche dal paesaggio (immagina ninfe e satiri in amore). Perde la sua verginità dopo una serata trascorsa con una cameriera a guardare le stelle, mentre attraversa gli Appennini.

A Roma non trova le messe pasquali, ma ha altri incontri con ragazze che lo turbano: i suoi sogni nella calura meridiana sono frequentati dalle Muse, che gli chiedono di non mortificare il proprio corpo se vuole essere al loro servizio.

È insomma esattamente l’opposto del pellegrinaggio di Belloc: là era una vera e propria marcia su Roma alla ricerca di un consolidamento della fede, qui è un vagabondaggio che la fede la mina del tutto. Non ci sono indicazioni sui tempi, sulle percorrenze, sulle tappe ed eventuali inconvenienti di viaggio. La scrittura poetica filtra e dissolve tutto questo.

Riservo da ultimo un po’ di spazio, saltando tutta la sfilza di pedestrian walkers che hanno esercitato nel secolo scorso la loro passione sulle strade italiane, a un contemporaneo: uno scrittore che potrebbe essere mio figlio, sia anagraficamente sia perché italiano. Enrico Brizzi è balzato alla notorietà giovanissimo, non ancora ventenne, con un “romanzo di formazione” in stile punk, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, ed è poi transitato, con l’avvento della prima maturità, alla letteratura di viaggio.

Del viaggio a piedi Brizzi ha fatto una vera e propria religione, che non a caso lo ha portato a percorrere la via Francigena, da Canterbury a Roma, e l’itinerario medioevale per Gerusalemme, partendo da Roma. Si tratta di una religione laica, che ha i suoi rituali e le sue omelie tramite blog e nella quale il passo si traduce immediatamente in verbo.

Brizzi è indubbiamente figlio di una moda che ha in Chatwin l’ispiratore, ma è un professionista (nel senso che a questo punto del camminare ha fatto una professione) serio e fa le cose con metodo. Ha percorso infatti totalmente a piedi l’Italia in lungo, dall’Alto Adige alla Sicilia (Gli Psicoatleti) e in largo, dall’Argentario al Conero (Nessuno lo saprà), con uno spirito che non è certamente quello di Seume, né potrebbe esserlo, ma in sostanza per il piacere di farlo (anche se qualche volta sembra mutarsi in dovere). Allo stesso modo in cui è piacevole leggere i suoi libri, se non si ha la pretesa che dicano qualcosa sull’Italia di oggi.

Non è un problema di sensibilità o di capacità di racconto del viaggiatore: è proprio il camminare, e mi riferisco agli impegni su lunghe distanze che difficilmente potrebbero essere oggi definiti “passeggiate”, ad aver conosciuto una trasformazione, a essere diversamente inteso da chi lo pratica e percepito da chi, direttamente o attraverso la lettura, lo incrocia. Ma questo sarà l’argomento di una prossima puntata.

Per ora mi fermo qui, anche perché questa rassegna rischia di diventare un arido e noioso elenco di nomi e di libri. Inoltre i ripetuti accenni ai viaggi italiani di Goethe, di Montesquieu e di molti altri mi hanno tentato per un attimo ad allargarmi in un excursus sul Gran Tour, mentre quelli all’omosessualità di Taylor, Butler, Gissing e Douglas mi stuzzicano in merito al risvolto del turismo sessuale, tutt’altro che secondario in questa storia di viaggi e di viaggiatori. Ma credo che non se ne farà nulla. Per fortuna l’esistenza su entrambi gli argomenti di opere eccellenti, uscite recentemente e citate nella bibliografia, mi permette di indirizzare a esse chi volesse approfondire.

Una Bibliografia minima

AAFJES, B. – Een voetreis naar Rome – DE CEDER, AMSTERDAM 1947
AAFJES, B. – Capriccio italiano – MEULENHOFF, AMST. 2013
BELLOC, H. – La via di Roma – CANTAGALLI, 2012
BELLOC, H. – The Footpath Way: An Anthology for Walkers – NABU PRESS 2013 (ed. italiana: La Via del sentiero, a.c. di WuMing 2)
BRIZZI, E. – Nessuno lo saprà – MONDADORI, 2005
BRIZZI, E. – Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro – MONDADORI, 2007
BRIZZI, E. – Gli Psicoatleti – BALDINI e CASTOLDI, 2011
BUTLER, S – Alpi e santuari – PIEMME, 2004
LEAR, E. – Diario di un viaggio a piedi – RUBETTINO, 2009
LEAR, E. – Viaggio in Basilicata – OSANNA, 1984
SEUME, J. G. – L’Italia a piedi (1802) – LONGANESI, 1973
STRUTT, A. J. – Calabria Sicilia 1840. Avventure di un inglese nel Mezzogiorno borbonico – ED SCIENTIFICHE ITALIANE, 1970
STRUTT, A. J. – Un viaggio a piedi in Calabria – RUBETTINO, 2011
TAYLOR, B.– Views a-Foot: Or, Europe Seen With Knapsack and Staff – CORNELL UNIVERSITY LIBRARY, 2009
WEATHERHEAD, G. H. – A Pedestrian Tour Through France and Italy –BRITISH LIBRARY, 2015
WU MING 2 – La via del sentiero. Un’antologia per camminatori – EDIZIONI DEI CAMMINI, 2015

 

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Incamminarsi

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2015

Io viaggio non per andare da qualche parte,
ma per andare. Io viaggio per amor del viaggio.
Il tutto è solo muoversi.
R. L. Stevenson

Non sono stato affetto sempre da determinismo ambulatorio; credo di non esserlo neppure oggi, sebbene approfitti di ogni occasione per mettere in moto le gambe. In compenso ho attraversato tutte le fasi di cui si parlerà nelle pagine che seguono: un’infanzia piuttosto pigra, nella quale lo spostamento a piedi era dettato solo dalla necessità e considerato al più un fastidio, un’adolescenza irrequieta ed esibizionista, con la scoperta del piacere di camminare e di correre risolta in una costante manìa di prestazione, una maturità nella quale quel piacere è diventato un’abitudine consapevole. Per la vecchiaia, la cui soglia è ormai alle spalle, spero solo che l’abitudine possa trovare il più a lungo possibile conforto nella salute e nell’integrità fisica, e misura nell’intelligenza.

Se di una forma di determinismo si può invece parlare, riguarda tutto ciò che tratta di letteratura di viaggio, e particolarmente del racconto di viaggi a piedi. In questo caso l’occhio del bibliomane e quello del camminatore convergono (in effetti sono leggermente strabico) e si coalizzano per scovare, soprattutto nei mercatini e sugli scaffali dell’usato, qualsiasi resoconto, diario, relazione di soggetto odeporico. Non solo: ho anche scritto prevalentemente di viaggiatori, esploratori ed alpinisti. Quasi una monomania.

Il presente studio è l’ultimo di una quadrilogia che già comprende una storia dell’alpinismo, una delle esplorazioni e un excursus su vagabondi più o meno eccellenti, e si colloca accanto a una serie di minibiografie di personaggi accomunati dal non avere terraferma. Teoricamente dovrei aver chiuso il cerchio, ma i piedi trasmettono in continuazione nuovi stimoli al cervello: quindi non garantisco nulla.

Non ho la presunzione di delineare una qualsivoglia filosofia, sociologia o psicologia del camminare. Sono state scritte ultimamente sin troppe cose in proposito. Io racconto semplicemente di uomini e di strade. Non credo che il piacere intrinseco ad un gesto venga esaltato dalla conoscenza approfondita delle sue possibili motivazioni: per gustare un gelato alla crema non è indispensabile sapere come funzionano le papille gustative. Ogni camminata ha motivazioni diverse, si svolge in uno stato d’animo diverso, sollecita parti diverse del corpo e della mente. Ciò che conta è che la somma finale non sia guastata da un eccesso di consapevolezza e di autocompiacimento.

Per quanto mi riguarda, però, una motivazione inconscia credo abbia accomunato tutte le mie scarpinate. Mio padre fece menzione una volta di un suo sogno ricorrente, quello di correre o di camminare normalmente, e dello sconforto che lo coglieva al risveglio, quando tornava a confrontarsi con la sua menomazione. Non l’ho mai scordato, e credo di aver camminato in tutti questi anni anche per lui. Spero che in qualche modo lo abbia avvertito. Se così fosse, ogni mio passo avrebbe avuto un senso.

In coerenza col tema trattato, questo libretto è stato concepito camminando. E camminando in modi e in luoghi diversi: sugli argini del Tanaro, lungo le rive del Gorzente, per le vie della città. Questo spiega (anche se non giustifica) le discontinuità e i cambiamenti di tono. La pesantezza è invece motivata dal mio stesso modo di camminare. Come in tutte le altre attività (e persino negli affetti) anche nel passo ho un’attitudine piuttosto ruvida: il mio non è un leggero movimento di danza, ma un pesante calpestare la terra. E se le teorie di Nietzsche sono giuste, questo si riflette nel modo di pensare, e di scrivere.

A differenza di Nietzsche, invece, non riesco a scarabocchiare appunti mentre cammino. Quindi molte delle intuizioni nate camminando sono state smarrite poi lungo la via. Oppure, anche quando mi è riuscito di trascinarle davanti alla pagina bianca, hanno perso molta della loro chiarezza o della loro rilevanza. Non sarà un gran danno per gli improbabili lettori, ma a me rimane il rammarico per quei lampi di luce che ho intravisto e che la memoria non ha fotografato.

 

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