di Paolo Repetto, 17 maggio 2021
Per i pochi credenti ancora in circolazione Maggio è il mese mariano. Per me, da sessantacinque anni, da quando transitarono anche a Lerma, sulla provinciale appena asfaltata, le maglie verdoline della Legnano e quelle azzurro pallido della Bianchi, è il mese del Giro d’Italia. A mio modo sono un credente anch’io. Credo che lo sport, lo si pratichi attivamente o lo si segua dalla poltrona, da una gradinata o dal bordo di una strada, debba sempre suscitare emozioni positive e genuine. E che se c’è uno sport che queste emozioni è ancora in grado di offrirle, quello è il ciclismo.
Non mi importa del giro d’affari che sta dietro o del doping che circola dentro. Quella è la parte sporca e va messa in conto ovunque c’è di mezzo l’uomo: ma chi ha provato ad affrontare una salita di qualche chilometro con pendenza oltre il dieci per cento, o ha tenuto il sedere su una sella per quattro o cinque ore, sia pure ad andatura turistica, non può che commuoversi davanti alla fatica di gente che chilometri ne macina più di duecento tutti i giorni e supera dislivelli spropositati. Per questo non mi sono mai perso un Giro.
Negli ultimi anni però queste emozioni non sono più così positive. L’invadenza della televisione, che consente di seguire la gara metro per metro, dalla partenza allo striscione d’arrivo, come si fosse a fianco dei ciclisti, non ha aumentato il livello della partecipazione emotiva: ha scatenato piuttosto un circolo vizioso che è ormai fuori controllo. Se un tempo lungo le salite più dure trovavi i veri appassionati, quelli che magari erano arrivati sin lì in bicicletta (e non sempre anche loro si comportavano correttamente, ma per un malinteso senso dello spirito sportivo), oggi quelle rampe sono diventate la ribalta di mandrie di idioti cui dello sport, della fatica, della bellezza del gesto atletico non importa un accidente, ma sono lì solo per incrociare l’occhio della telecamera, per un irrefrenabile impulso a comparire, a mostrarsi, ad avere una prova visibile della loro pur inutile esistenza. Per avere un quadro della crescita esponenziale dell’imbecillità non servono indagini ISTAT: è sufficiente seguire una tappa di montagna del Giro, del Tour o della Vuelta. Anche l’imbecillità purtroppo è globale.
Si vedrà gente che corre nuda in mezzo a bufere di neve o sepolta in costumi da puffo o da carota sotto la canicola, solo per strappare un secondo di visibilità. E già questo è uno spettacolo degradante. Ma la cosa veramente grave è che questi mentecatti mettono costantemente a rischio l’incolumità dei corridori e la correttezza delle gare. Un paio d’anni fa un ciclista che non aveva mai vinto in vita sua e stava per aggiudicarsi una tappa durissima, con arrivo in salita, al Giro d’Italia, venne gettato a terra da un esagitato e perse probabilmente l’unica occasione per illuminare finalmente una lunga carriera da gregario. Non mi risulta che il responsabile sia stato arrestato, o multato, o meglio ancora malmenato pesantemente dagli altri tifosi. Ha rovinato il sogno di un ragazzo, ne ha vanificato anni e anni di sforzi e di sacrifici, e l’ha passata liscia. Queste cose mi mandano in bestia. Fossi stato presente alla scena lo avrei accompagnato sino in vetta a calci nel sedere, tenendolo per aria come un hovercraft.
Ad irritarmi ancora di più è però il modo in cui queste vicende vengono trattate dai commentatori televisivi. In quell’occasione il telecronista non andò oltre una patetica deplorazione: “eccesso di entusiasmo”, “gesto poco sportivo”, invito ai tifosi “pur nella comprensione per la loro passione” ad un comportamento più corretto. Non ha mai pronunciato la parola “idiota”.
Ora, è chiaro che la televisione ha nel DNA la consapevolezza di un’utenza di intelletti poveri (Berlusconi in tal senso era stato molto esplicito – almeno questo dobbiamo riconoscerglielo – e già quarant’anni fa di questa consapevolezza aveva fatto il principio fondante delle scelte editoriali di Mediaset), e che quindi i giudizi e le indicazioni etiche vanno parametrati su questo livello. Ma parlare di “eccesso di entusiasmo sportivo” per un deficiente che si piazza in mezzo alla strada per essere inquadrato dalla telecamera o per farsi un selfie con l’atleta che sta arrancando, e lo danneggia, non è più ipocrisia da politically correct, è vera e propria complicità.
Per questi casi (ma per tantissimi altri analoghi, in occasioni e situazioni diverse) vale solo la tolleranza zero. Personalmente applicherei alle ruote delle auto che precedono la corsa lame rotanti come quelle dei carri da guerra assiri. Ho goduto come un riccio quando, quarant’anni fa, durante una prova a cronometro che vedeva impegnato Hinault, di fronte al tentativo di infastidirlo da parte di alcuni pseudo-tifosi che invadevano la sede stradale l’auto che lo precedeva spalancò la portiera di destra, abbattendo quei mentecatti come birilli. La voce dell’accaduto si diffuse all’istante lungo il percorso e la gara terminò regolarmente.
Mi rendo conto che questa strada è purtroppo impossibile da seguire (non che non si dovrebbe fare, ma non è consentito: la salvaguardia dei persecutori e degli scemi è l’imperativo categorico della società buonista, con tanti saluti alle vittime): ma almeno si dovrebbe pretendere che la televisione, che il fenomeno lo ha creato, collabori in qualche modo ora a tenerlo a freno. Se ad esempio nell’occasione ricordata più sopra fosse stato mandato in onda un fermo immagine, con il cretino perfettamente riconoscibile e con la scritta: questo è un cretino; e se quella immagine la si fosse riproposta per tutti i giorni successivi, in apertura di telecronaca, facendo sì che quella fisionomia e quella scritta si imprimessero nella mente dei telespettatori, e soprattutto dei compaesani e dei parenti del demente; e se la stessa cosa si fosse fatta per altri comportamenti analoghi, fino a comporre una vera e propria galleria degli idioti; ebbene, sono convinto che un qualche effetto lo avrebbe sortito. Invece no: un delitto contro lo sport rubricato come “intemperanza” o “eccesso di entusiasmo”.
Lo stesso linguaggio l’ho sentito usare recentemente nei confronti delle torme di insensati che in pieno lockdown e in barba ad ogni divieto di assembramento hanno festeggiato nelle piazze milanesi lo scudetto (e già una settimana prima il derby). Fioccavano i “deplorevole” e “intollerabile”, ma nessuno ha parlato di dementi o di criminali, che nel caso, aggravato dall’assalto finale ai cordoni di polizia, erano gli unici epiteti appropriati. Nessuno che abbia detto “questo con lo sport non ha nulla a che vedere”, “si tratta di una manifestazione di pura idiozia collettiva, di mentecatti a piede libero”: tanta attenzione per la “comprensibile gioia”, per il diritto a festeggiare la vittoria, e qualche timido rimbrotto: ragazzi, via, non fate così.
La cosa non vale solo per il ciclismo o per il calcio. Un degrado analogo si manifesta rispetto ad altri sport che amo, ad esempio nel tennis, sia pure per il momento in forma meno violenta. Chiunque abbia calcato un rettangolo di terra rossa sa benissimo che nel corso di una partita il livello di concentrazione deve rimanere costantemente altissimo, più che in qualsiasi altro sport, e che ogni rumore, persino gli applausi, rischia di farlo precipitare. Sentir oggi ripetere al termine di ogni giocata le urla dei burini che assiepano le gradinate del Foro Italico (ma ormai anche del Roland Garros, e di Wimbledon) è snervante persino per lo spettatore. Ma non ho mai visto cacciare fuori qualcuno per manifesta imbecillità, e dubito capiti per il futuro. Tutto finisce per essere prima tollerato e poi accettato come normale.
Con tutto ciò non scopro e non voglio denunciare nulla che non stia quotidianamente sotto gli occhi di tutti, e non solo nello sport, ma in ogni aspetto della vita sociale. Mi chiedo soltanto se non sia io ad aver maturato con la vecchiaia una sensibilità esasperata e distorta, ad essere diventato intollerante a tutto; se la piega onnivora che nostra cultura sta prendendo sia solo una naturale evoluzione, o non sia invece il sintomo dell’ineluttabile degrado cui ogni civiltà è destinata. E comunque, quand’anche così fosse non potrei farci nulla. Ma vorrei almeno aggrapparmi alla ricchezza del poco che rimane, di quel linguaggio che ci fa diversi dagli altri animali, alle forme, alle idee e alle sfumature che sa esprimere. Le parole giuste per bollare questi comportamenti esistono, al momento non le hanno ancora cancellate dal vocabolario in nome della correttezza. Esistono gli stupidi, esistono gli scemi, esistono gli idioti: non limitiamoci ad ammutolire di fronte a loro. Il fatto che siano legione, che siano in odore di maggioranza, non deve dare loro una patente di legittimità, una garanzia di impunità, il lasciapassare per fare danni senza pagare dazio.
Possiamo farci poco, ma almeno chiamiamoli col loro nome.