I tanti motivi per andare (e ritornare) in Africa

Uganda e Ruanda

di Stefano Gandolfi, 1 dicembre 2019  – dall’Album “Mal d’Africa

Turistici, paesaggistici, naturalistici, umanitari. Anche i ricordi storici, seppure macabri, che pure hanno segnato la storia recente del nostro mondo, come Idi Amin in Uganda, uno dei più spietati, crudeli e sanguinari dittatori dell’epoca moderna; e il massacro etnico fra hutu e tutsi in Ruanda, ferita aperta nella coscienza anche e soprattutto di noi occidentali che siamo stati testimoni passivi se non addirittura parte in causa attiva in nome di interessi politici ed economici. Ma soprattutto situazioni uniche al mondo fragili e a rischio di scomparsa a breve termine così come la minacciata estinzione di tante straordinarie specie animali, i leoni, gli elefanti, i rinoceronti, nel nostro caso i gorilla di montagna. Animali bellissimi, insieme agli scimpanzé i nostri parenti più stretti, coi quali condividiamo il 98% del patrimonio genetico. Ne sono rimasti 700 circa, di gorilla di montagna. In una ristretta area geografica compresa in un triangolo al confine fra Uganda, Ruanda e Congo. Le prime due nazioni da molti anni hanno imparato a proteggerli e tutelarli, se non per bontà umana, quantomeno per il valore economico che la loro salvaguardia crea in termini di afflusso turistico. In Congo purtroppo, una nazione in preda al caos e alla guerra civile perenne, sono a rischio di estinzione perché li uccidono per crudeltà, per gioco, per fame o per interessi economici di bassissimo spessore, come la vendita delle zampe per farne dei portacenere per i salotti buoni di ricchi stravaganti e crudeli.
Si va in Uganda col desiderio di conoscere i nostri cugini più stretti, poi si scopre un paese meraviglioso, come sempre in Africa. Si scopre il Nilo bianco le cui sorgenti, dal lago Vittoria, hanno costituito una sfida per tanti esploratori che hanno impiegato anni e talvolta anche la vita nella loro scoperta, quel Nilo bianco che più a nord, nel Sudan, si unisce a formare il grande Nilo fondendosi con le acque del Nilo azzurro che abbiamo navigato in un precedente viaggio in Etiopia.
Si scopre un paese verde, fertile, nel solco della parte occidentale della Great Rift Valley, con laghi vulcanici e montagne ricoperte di vegetazione che sono già il preludio alla grande foresta equatoriale del Congo. Si lascia ad est il paesaggio idilliaco della savana, alla “mia Africa”, per addentrarsi ad ovest nel mistero inquietante delle grandi foreste rigogliose, umide, che oscurano la luce del sole e che per chi ama la letteratura rievocano gli scenari del “Cuore di tenebra” di Conrad. Si naviga, anche qui, sulle acque del Nilo, su barconi piatti che potrebbero essere ribaltati in pochi secondi dagli ippopotami che gli passano a fianco e sotto fortunatamente con poco interesse ad un contatto fisico che per noi sarebbe micidiale, si naviga a poche decine di metri dalle sponde del fiume ove sonnecchiano i maestosi coccodrilli del Nilo, immobili con le fauci sempre aperte, i più grandi del mondo, che arrivano a lunghezze di 6-7 metri e a 900kg di peso.
Si naviga fino al fronte delle maestose cascate di Murchison, ancora oggi raggiungibili solo a piedi. Si viaggia a lungo sui Toyota land cruiser per i consueti safari africani, sorpresi di una popolazione di animali non così numerosa come ci si aspetterebbe, perché gli animali autoctoni erano stati tutti sterminati dalla soldataglia del dittatore Idi Amin, per noia, per gioco, per mangiarli perché anche i soldati morivano di fame …e poi passo dopo passo le savane e le praterie sono state ripopolate con esemplari acquistati dalle nazioni vicine.

In compenso l’Uganda è un vero paradiso per i bird-watchers, con il maggior numero di specie di uccelli di tutto il continente. Si viaggia immersi nelle nebbie alle pendici del Rwenzori. la terza montagna più alta del continente, che me-riterebbe da sola un viaggio per una impegnativa meta alpinistica. Si viaggia sempre stupiti di una terra verde, fertile, un paese non certo ricco né particolarmente progredito rispetto ad altri, ma dove non abbiamo visto miseria estrema né problemi evidenti di fame o di sopravvivenza precaria; anzi talvolta ci sembrava di entrare nel mitico shangri-la, constatando condizioni di vita semplice, ma di autosufficienza e con il solito equivoco di noi turisti occidentali che faticavamo a capire che questa vita tranquilla, quasi primordiale che tanto ci affascina, è agli antipodi delle aspettative e delle speranze di tanti giovani e giovanissimi che tendono invece a riversarsi nella metropoli, la capitale Kampala. Là perseguono il miraggio di un maggior benessere economico e dei simboli universali di autogratificazione quali cellulari, motociclette, vestiti, musica, alcol, fumo, il tutto condito con quella caratteristica africana di caos, colori, suoni e rumori, di vita vissuta per strada, che rendono unica l’Africa così come tutto il mondo extra occidentale, dal Nepal al Sudamerica.

E poi … ci sono i nostri cugini, che erano un po’ la finalità principale del nostro viaggio. Si comincia con gli scimpanzè dal parco nazionale di Kibale, con un facile trekking di un’ora nella foresta, una camminata rilassante, in piano, per cominciare a sentire risuonare nell’aria rumori, grida, richiami di ogni genere, a 360 gradi, per terra e per aria. Poi, finalmente, li vediamo. Sono in assoluto i nostri parenti più stretti, con il 98,77% del patrimonio genetico condiviso. Sono incredibilmente simili a noi, negli atteggiamenti, negli sguardi, nei comportamenti sociali: sono rissosi, polemici, casinisti, territoriali, autoritari, gerarchici, gli piace risolvere ogni diatriba con uno scontro fisico e sonoro; si compiacciono quando vincono, con la coda tra le gambe se perdono, ma sembra quasi che accampino scuse per la sconfitta e già meditano la rivincita…. sembra di ricordare qualcuno, sembra una descrizione abbastanza familiare, non è vero? talora sono anche inquietanti, perché, esattamente come gli umani, possono essere estremamente violenti nei loro scontri, fino addirittura alla morte dell’avversario, soprattutto nelle contese tra maschi per il dominio del branco.

Ti guardano con uno sguardo tenebroso, quasi ostile da parte dei maschi capi-branco, e per un attimo ti viene in mente il film “Il pianeta delle scimmie”, perché sorge veramente spontaneo il quesito di quanto poco ci vorrebbe per arrivare al livello umano, ammesso che non siamo già sufficienti noi! Però, se si guardano con attenzione le foto, vedete lo sguardo, vedete la mano a 5 dita con il pollice in opposizione alle altre 4 dita, che significa la possibilità di maneggiare oggetti e di fabbricare utensili, e allora viene anche in mente un’altra scena memorabile, quella iniziale del film “2001 Odissea nello spazio”, quando il nostro cugino utilizza come arma un osso e poi lo lancia nello spazio, e diventa qualcos’ altro da ciò che era fino a prima …

Si esce quindi dalla riserva di Kibale con un mix di emozioni, inquietudine, incredulità per le straordinarie similitudini con il genere umano, e poi la consapevolezza di quanto noi occidentali siamo fortunati rispetto alla gente locale, quando veniamo a sapere da Rita, la ragazza che ci accompagna nel viaggio, che oltretutto all’epoca era studentessa in biologia, che lei non aveva mai potuto vedere gli scimpanzé perché il costo dell’ ingresso nella riserva per lei era proibitivo; e alla fine del viaggio la sostanziosa mancia che le abbiamo lasciato riponeva anche la speranza che potesse servire per coronare quel suo sogno.
Si proseguiva quindi il viaggio, stretti in 7 persone su un land cruiser con i bagagli, con la guida, una ragazza cattolica, ed il pilota, un ragazzo musulmano, fianco a fianco per ore e ore sui sedili della jeep, nelle pause a tavola con noi nelle locande lungo la strada, forse addirittura anche nelle camerate comuni per le guide di notte nei lodge e negli alberghetti di strada: un esempio di integrazione che vale mille parole, così come lo stupore di entrambi quando gli chiedevamo se non avevano problemi con le loro religioni: e ci rispondevano facendoci vedere, lungo le strade, chiese e moschee vicine a pochi metri le une dalle altre.
E tutto questo è pericolosissimo per l’ISIS ed è quanto l’integralismo sta cercando di distruggere nell’ Africa multietnica e multireligiosa, come testimonia l’attentato in un bar di Kampala un mese prima che noi partissimo, costato la vita a 130 persone che stavano guardando una partita dei mondiali di football su un megaschermo.

E allora il viaggio è proseguito fino alla frontiera con il Ruanda, una frontiera terrestre assolutamente non turistica, dove si ha netta la percezione che in certe parti del mondo puoi ritrovarti in qualsiasi momento alla mercé di persone con una divisa addosso e con una pistola in mano che diventano padrone della tua vita; noi eravamo con un viaggio organizzato e abbiamo passato solo un’ora di disagio e d inquietudine, ma da soli sarebbe stata tutta un’ altra storia, e sicura-mente una bella mazzetta di dollari che cambiavano di tasca alla luce del sole per poter uscire da quella terra di nessuna che è una dogana africana … e poi ancora via verso i monti Virunga, il parco nazionale dei vulcani, territorio condiviso con l’ Uganda a nordest e con il Congo a nordovest.
Ruanda, dove inevitabilmente e con una certa curiosità morbosa si cercavano negli occhi delle persone tracce psichiche, fisiche della tragedia di vent’ anni prima, e ricevendone solo sguardi imperscrutabili, che sicuramente nascondevano storie inenarrabili e inesplicabili. Ruanda, paese ad altissimo tasso di sviluppo, nonostante e forse anche in conseguenza della strage etnica.

Ruanda, dove i gorilla di montagna sono protetti e dove convergono visitatori da tutto il mondo per questo incontro emozionante. I nostri secondi cugini con-dividono con noi il 97,7% del materiale genetico. Ne sono rimasti all’incirca 700 esemplari. Vivono in alta montagna, immersi nell’umidità e nella nebbia alle pendici di queste montagne vulcaniche che superano i 4500 m di quota. Ci si sveglia all’alba, le jeep ci portano all’ingresso del parco a circa 2000 m, si selezionano i gruppi in base all’età e all’attitudine fisica alla marcia e allo sforzo perché alcuni gruppi di gorilla sono più vicini, altri più nascosti in alta quota. Noi 5, più due ragazzi spagnoli, veniamo stimati molto abili perché ci destinano al gruppo più lontano.
Camminiamo tre ore per circa 700 m di dislivello, lasciamo campi coltivati a terrazzamenti ben ordinati, accompagnati da guardie armate di kalashnikov, mentre camminiamo già fradici di sudore riceviamo le prime istruzioni ed un sommario esame medico perché se qualcuno avesse il raffreddore deve dirlo adesso e verrà riaccompagnato al lodge e avrà diritto al rimborso del costo del gorilla-traking. perché uno sternuto o un colpo di tosse può essere fatale con la trasmissione di virus o batteri per noi innocui ma per loro letali.

Senza che quasi ce ne accorgiamo il paesaggio cambia, si suda ancora di più e all’improvviso ci si trova nel cuore della foresta equatoriale; vegetazione esuberante, ad altezza d’uomo, liane, alberi alti 10-15 metri che oscurano il cielo, torbiere, marcia nel fango fino a 2700 m. Il primo gorilla ti guarda di soppiatto da dietro un cespuglio di foglie, assolutamente non spaventato, abbastanza abituato alla presenza umana; un silverback non ci degna di uno sguardo entrando in una foresta di bamboo, il dorso ha il pelo argentato in segno di anzianità e di autorità. Sono alti fino a 220 cm e pesano fino a 200-230kg. I cuccioli sono curiosissimi, verrebbero vicino a toccarci e a giocare se non fosse che da una parte le loro mamme, dall’altra le nostre guide ci impediscono ogni contatto fisico, per evitare contagi pericolosi di microorganismi e reazioni aggressive dei genitori per proteggere i piccoli. Si osserva la loro vita, sono ancora più umani, se possibile, degli scimpanzé. Hanno una socialità elevatissima, scandita da tempi, rituali, norme fatte rispettare dai maschi alfa, i capibranco. C’è il tempo del risveglio, della colazione, della pulizia e dell’igiene, del gioco per i cuccioli, del pranzo, del riposo, della ricerca del posto migliore per dormire e per cercare cibo il giorno successivo.
Ognuno ha il suo ruolo, il capobranco, i giovani maschi subordinati, le femmine con i cuccioli, ognuno rispetta la gerarchia. Guardi i loro occhi, osservi il loro sguardo, poi noti le mani, anche loro, come gli scimpanzé, hanno il pollice che si oppone alle altre dita, solo loro, gli altri primati e noi umani.
Sono momenti da vivere secondo per secondo perché si rimane tassativa-mente un’ora e non un minuto di più, l’abitudine dei gorilla alla presenza umana non può sorpassare questi limiti di tempo. Li guardi, li fotografi, li filmi, ti sembra che fotografarli sia sprecare tempo, che sarebbe più giusto guardare tutto senza l’intermediazione dell’obiettivo della reflex, ma tutti cedono all’impulso quasi frenetico di catturare immagini. Forse è un errore, ma è quasi inevitabile. Alla fine ci si chiede se siamo noi a guardare loro o viceversa, ti chiedi cosa pensano, non se pensano, perché su questo non può esserci nessun dubbio, e anche in questo caso, come per gli scimpanzé, ti chiedi quale infinitesima percentuale di ulteriore sviluppo neuropsichico sarebbe sufficiente affinché venga totalmente pareggiata ogni differenza fra noi e loro, proprio come nel famoso film di fantascienza … ti chiedi anche se, in un ipotetico salto in avanti di sviluppo, diventerebbero esattamente come noi, con tutte le capacità distruttive del genere umano, o se invece manterrebbero una differenziazione virtuosa nei confronti dello sfruttamento della tecnologia e nell’uso perverso di essa, come facciamo noi.
Ovviamente sono domande, almeno per il momento, senza risposta. Si spera solo che noi umani gli concediamo la possibilità di sopravvivere, non fosse altro che per il grande potenziale economico del turismo finalizzato alla loro osservazione; e sperando anche che il loro mondo non diventi uno zoo, magari grande, ma con recinzioni e limiti invalicabili. Quello che praticamente sta già accadendo per la maggior parte degli animali selvatici d’ Africa, costretti in spazi sempre più ristretti dall’ urbanizzazione e dall’ aumento della popolazione umana, laddove non vengono uccisi per speculazione, come i leoni, gli elefanti, i rinoceronti.
Un pensiero sorge spontaneo, magari cinico, egoistico, ma inevitabile: che ogni esperienza di questo genere potrebbe essere l’ultima, e allora ci si tiene dentro l’emozione ed il ricordo come un enorme privilegio che ci è stato concesso. Magari sperando di avere le parole giuste, efficaci, e delle immagini sufficientemente belle per poter condividere queste emozioni con gli amici e con chiunque abbia a cuore questi animali, ammesso che si possa chiamarli così.
Si torna in Uganda e si ritrova l’Africa degli uomini, dei colori, dei mercati lungo le strade con bellissime architetture di frutta e di verdure di ogni genere, disposte ad arte su improvvisati banchetti di legno; si ritrova il piacere di fermarsi per una sosta a comprare banane, a salutare bambini curiosi e cordialissimi, non ancora spaventati dal turista bianco, a fotografare i colori della vita di tutti i giorni, che sprigionano allegria e vitalità per ribadire il concetto che basta pochissimo per vivere in armonia con quanto ti circonda.
Si ritorna verso il caos della capitale, ci si impiega tre ore per attraversarla e dirigersi verso le sorgenti del Nilo Bianco, sulle sponde del lago Vittoria. Adesso sono in mezzo alla civiltà, vicino a dighe e ad impianti idroelettrici, ma per decenni hanno costituito uno dei misteri più ostinati ed inestricabili per i migliori esploratori dell’epoca.
A sorpresa vediamo una statua di Gandhi, che nel suo testamento aveva chiesto di spargere le sue ceneri divise in quattro parti, alle sorgenti dei quattro fiumi più importanti del mondo. Un piccolo richiamo all’India che avremmo visitato un po’ di anni dopo. Pochi chilometri dopo, le rapide di Bujale, santuario di discese in rafting fra le più impegnative del mondo, una specie di Himalaya per gli appassionati del genere, un must sportivo che non ci aspetterebbe in queste terre.
E poi ancora per l’ultima volta a Kampala, capitale africana come Nairobi, Addis Abeba e tante altre, enorme, caotica, inquinata, vitale, sempre in movi-mento, con la vita sempre vissuta in strada, nei mercati, sui marciapiedi, perennemente in coda sui suoi viali, ma tanto non importa a nessuno perché la concezione del tempo è radicalmente diversa dalla nostra, non siamo noi ad influenzare il tempo, ma semplicemente ci si adegua ad esso: non è male come filosofia di vita, ci si stressa di meno, con più fatalismo e meno rabbia.
Poi la corsa all’aeroporto di Entebbe, con tre posti di blocco in 1 chilometro, con soldati armati che ci fanno scendere dalla jeep e ci obbligano a percorrere a piedi, trascinando i bagagli, per l’ultimo chilometro, a causa dei controlli dopo il recente attentato. Tutto ciò a ricordarci che non siamo noi turisti a dettare le leggi, ma le circostanze, e che un giorno potremmo essere obbligati a scordarci di poterci muovere liberamente, forse anche a pochi chilometri da casa nostra. Ma questa è un’altra storia.

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