di Paolo Repetto, 31 ottobre 2018, da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018
Vivere “ad venturam” significa buttarsi a capofitto nel futuro. Non aspettare che le cose arrivino, ma andare a stanarle. Anche perché, se non si fa così, hanno la tendenza a non arrivare mai. Simbolo della “non-avventura” è il capitano Drogo del Deserto dei Tartari. Aspetta per una vita che siano le cose a decidersi, non osa mai superare quelle montagne, il confine che lo separa da ciò che desidera.
Si può obiettare che questa è una visione esasperatamente vitalistica dell’esistenza, e dell’avventura stessa. È vero, forse è troppo legata ad una funzione narrativa. L’avventura non può essere identificata solo con la lotta contro la tigre, o contro i Thug o i pellerossa. Un matrimonio può essere un’avventura, con tutte le emozioni, le delusioni, i rischi e i dolori di una spedizione in mezzo agli Irochesi. E può esserlo anche una vita trascorsa tra le mura di una scuola, con le vittorie, le sconfitte, le delusioni. O un percorso di studio e di letture, con le scoperte, le sorprese, le emozioni, ecc … Probabilmente è solo una questione di intensità. Chi ha vissuto anni di guerra ti dirà che, con tutto il dolore di cui è stato testimone, sono quelli che hanno maggiormente segnato la sua vita, qualche volta anche quelli che le hanno dato un senso. Era una sensazione comune tra i reduci della guerra partigiana, ad esempio (vedi l’Ettore de La paga del sabato). In piccolo questo si ripete per ogni situazione nella quale si esca dalle righe delle sicurezze quotidiane, si producano scariche adrenaliniche particolarmente intense. Sono i momenti e le vicende di cui ci si ricorda perché incidono delle cicatrici nella nostra memoria. Ma, ripeto, l’intensità non va necessariamente misurata a picchi. Nella vita non può esistere l’alto continuo, ma un basso continuo si. L’intensità non è quella della percezione, ma quella dell’intenzione.
Il vero significato dell’avventura sta infatti nell’intenzionalità. L’avventura è tale in quanto la scegli: anche quando, come appunto nel caso della guerra partigiana, sei quasi costretto a scegliere: oppure quando sembra che sia l’avventura a scegliere te, magari sotto forma di sventura. Sei tu, comunque, a decidere se e come viverla. Il senso glielo dai a posteriori.
Non sto parlando a caso. Quando gli amputarono una gamba, a tredici anni, mio padre aveva davanti due possibilità: fare il mutilato a vita, vivendo della compassione altrui (all’epoca non esistevano né un’assistenza pubblica né una particolare sensibilità per gli sfortunati, un disabile era considerato solo una zavorra), oppure trasferire sull’unica gamba che gli era rimasta tutta la voglia di una vita indipendente e libera. Scelse la seconda, e ne venne fuori l’uomo più libero ed eccezionale che abbia mai conosciuto.
Ora, si potrebbe sollevare una seconda obiezione. Uno dei maggiori antropologi culturali italiani, Alessandro Manzoni (l’altro è Leopardi), in un suo saggio in forma di romanzo fa dire ad un intervistato: “Il coraggio, uno, non se lo può dare”, aggiungendo tra l’altro che l’intervistatore parla bene, dall’altezza della sua condizione “ma bisognerebbe essere nei panni di un povero prete, e trovarsi al punto!”. Questa è la sintesi di una concezione fatalistica della vita, o se vogliamo tradurla in linguaggio odierno, deterministica: Manzoni anticipava la teoria del gene egoista. È evidente che da questa concezione l’ipotesi dell’avventura è totalmente esclusa. Del resto, anche tutti gli altri intervistati sembrano concordare sul fatto che la vita è piuttosto una serie di sventure, e sopravvive chi meglio sa fare lo slalom tra di esse. Ma appunto, sopravvive.
L’altro antropologo (segnalo il suo attualissimo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani) la mette un po’ diversamente. Il passante che compra un almanacco per l’anno ‘venturo’ chiede al venditore il più bello, il più ottimista: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce. È consapevole che si tratta di un puro gioco di credulità, ma volendo darsi un parametro ideale sceglie il più positivo: sa che credere in qualcosa è già un modo per cominciare ad avverarla. E quando si poi tratta non di un destino individuale, ma di quello collettivo, dell’umanità, dopo aver fotografato impietosamente il presente l’autore trova ancora la forza di invitare ad opporre a qualcosa che è peggio del destino, all’insignificanza assoluta, il senso di solidarietà.
Ciò non garantirà all’umanità la sopravvivenza, ma un’esistenza dignitosa, quella si.