di Paolo Repetto, 2014
In realtà non è affatto Gorkij a introdurre nella letteratura russa la figura del vagabondo. Già a partire dal Seicento nei testi devozionali o nelle raccolte di vite esemplari compaiono monaci erranti, pellegrini, Vecchi Credenti costretti a una diaspora costante. Un universo di emarginati, stanziali e non, vien fuori anche dalle pagine del Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Radiščev. Come in ogni altra epoca il tema del viaggio e degli incontri propiziati dal viaggio è una fonte inesauribile di ispirazione: e tanto più lo è, nel clima romantico, quella disposizione al viaggio che non contempla il perseguimento di una meta, per la quale importante è il percorso (peraltro non definito) anziché la destinazione, e che è propria appunto dei vagabondi.
La consacrazione letteraria di queste figure arriva nella prima metà dell’800, con Puskin. Il protagonista del poema Gli zingari, Aleko, va in cerca presso i nomadi di quel diverso senso della vita che non gli riesce di trovare in mezzo alla sua gente. Aleko è un po’ il simbolo degli intellettuali russi alla ricerca degli ideali universali o del riposo nel grembo della natura: quegli ideali, come dirà Dostoevskij, “che oggi non trovano più negli accampamenti degli zingari, ma nel socialismo, e lavorano in esso zelantemente con la fede che animava anche Aleko, di raggiungere i propri fini e la felicità non solo per sé ma per tutto il mondo”. Aleko non è uno zingaro, è un gağò: un “normale” che rinnega le sue origini, odia la cultura da cui proviene, è indignato nei confronti di un potere ipocrita e spietato, e per questo motivo si pone contro la legge. Ciò facendo diventa il prototipo di un nuovo protagonista della società di quel periodo; Aleko rappresenta cioè l’eterno viandante, l’eterno infelice russo destinato per necessità storica a staccarsi dal popolo. In realtà ne personifica, come sottolinea ancora Dostoevskij, anche il fallimento: finisce infatti per uccidere quella zingara libera e selvaggia di cui si è innamorato e che ha idealizzato, ma che proprio perché libera non ha alcuna intenzione di corrispondere alle sue aspettative. La vicenda sarà poi ripresa a fine secolo da Rachmaninov, in un’opera lirica che prende il titolo dal protagonista, ma nella quale si bada soprattutto alle suggestioni create dell’atmosfera e delle musiche tzigane: il che è significativo di quanto la Russia e il mondo siano nel frattempo cambiati.
Nella seconda metà dell’Ottocento il realismo positivista affolla di diseredati la ribalta letteraria europea, proponendoli di volta in volta come umili, come vinti, come miserabili, come prodotti di scarto della selezione naturale e sociale. Accade anche in Russia, dove però la letteratura non traspone per il grande pubblico i risultati di un’attenzione sociologica “scientificamente” fondata, ma ne fa le veci, e dà pertanto spazio soprattutto a quelli che si ribellano alla loro condizione e si mettono in cammino alla ricerca di una via d’uscita, spinti a muoversi da motivazioni sia religiose che sociali. Nel 1861 l’emancipazione dei servi, pur scuotendo una cappa secolare di schiavitù, ha in realtà provocato un peggioramento delle condizioni dei contadini. Molti di essi non sono in grado di riscattare la terra alla quale prima erano vincolati, possono solo rimanere come fittavoli o braccianti, senza neppure le garanzie minime della servitù: tanto vale per loro lasciarla e mettersi in cerca d’altro. Si crea pertanto una sacca enorme di forza lavoro irregolare, sottopagata, che si sposta in lungo e in largo per il paese, a rimorchio dei cantieri che preparano la strada alla nascente industrializzazione (strade, dighe, porti, ferrovie). Le condizioni dello sfruttamento sono terrificanti, ma è almeno consentita, ai più ribelli e ai più intraprendenti, una mobilità che è preludio alla conoscenza del mondo e alla conseguente coscienza dell’ingiustizia del proprio stato.
Proprio nell’anno della riforma Nikolaj Nekrasov pubblica Gli ambulanti, che contiene una Canzone del vagabondo destinata a diventare famosa nella trasposizione per coro di Musorgskij. Nekrasov mette a fuoco le sofferenze di un popolo costantemente sfruttato e umiliato dalle classi dominanti. L’intellettuale si fa da parte, abbandona l’egoismo romantico introspettivo che sarà stigmatizzato anche da Gorkij e diventa testimone della drammatica realtà sociale che lo circonda. Il romantico Aleko lascia la scena a prosaici braccianti che non hanno problemi esistenziali, ma lottano per sopravvivere, e sono tormentati dalla fame piuttosto che dalla noia.
La denuncia diventa ancora più esplicita in Chi è felice in Russia?, poema del 1877 dello stesso Nekrasov. Sette contadini vagabondano per tutto il paese cercando una spiegazione alla loro infelice condizione, e la trovano nell’inerzia di una nobiltà terriera arretrata, del tutto incapace di cogliere le dimensioni della tragedia che incombe sul popolo russo. “Ma se davvero abbiamo/ mal compreso il dovere che incombeva/ su di noi, e la nostra missione/non era di serbare il nome antico,/la dignità di nobile,/con l’uso della caccia,/i banchetti fastosi e ogn’altro lusso,/e di vivere col lavoro altrui,/perché non ce l’han detto in precedenza?” piagnucolano i latifondisti, che nemmeno conoscono il numero dei loro servi. Nekrasov diventa immediatamente il poeta sociale per eccellenza, per come sa esprimere la sofferenza collettiva e perché esclude ogni possibilità di riforma dall’alto (naturalmente è snobbato, in patria e fuori, proprio per la sua “facilità”). Il paradosso è che l’efficacia di questa rappresentazione nasce in realtà dall’espressione di un particolare disagio personale. Nekrasov non mette in scena un nuovo Aleko, ma nella vita gli somiglia molto. Gorkij farà dire a Romas, l’ucraino: “Da voi in città tutti leggono e recitano Nekrasov. Ebbene, sapete, con Nekrasov non si va lontano. Ai contadini bisogna dire: amico, tu non sei malvagio per natura, ma vivi male, e non sai affatto come rendere migliore la tua vita …”.
Nello stesso periodo è in atto, in Russia come in tutto l’occidente europeo, un risveglio religioso che mira al ritorno alla purezza originaria, al superamento di una devozione sclerotizzata e tutta formale, al rifiuto di un apparato compromesso col potere o addirittura ad esso asservito. Di questo clima è espressione un altro classico della letteratura russa, Il viaggiatore incantato (1873), nel quale un domatore di cavalli, soggetto ad una sorta di incantesimo per essere stato promesso in voto dalla madre a Dio, racconta le avventure più improbabili e sconcertanti. Da questo Mille e una notte della taigà Nicolaj Leskov fa scaturire una folla di vagabondi, prostitute, saltimbanchi, gente senza radici, che però si muove, o almeno brulica, all’interno di una società che rimane invece immobile nel tempo. Ivan, il protagonista, non è il cantore di questo mondo, ma uno strumento di connessione, nelle mani di Dio e in quelle dell’autore, per legare assieme le varie storie e dare ad esse un senso, farle alla fine cogliere nella loro unitarietà: che è data dal significato profondamente religioso del tutto, una sorta di disegno provvidenziale nel quale anche il dolore, il peccato, l’irregolarità hanno un loro ruolo.
In analoga direzione vanno i Racconti di un pellegrino russo, pubblicati anonimi nel 1881 ma scritti almeno vent’anni innanzi, prima della riforma (il titolo originale è Resoconto sincero di un pellegrino al suo padre spirituale). Il pellegrino che attraversa la Russia e l’Ucraina cerca una guida, e alla fine si rende conto che la guida gliela offrono proprio le persone che incontra lungo il cammino. Siamo già sulla strada della “costruzione di Dio” (tra l’altro, questo è il libro che mette in crisi la protagonista in Franny e Zooey di Salinger).
La lezione poetica di Nekrasov viene invece raccolta in prosa da Vladimir Korolenko, nei racconti de In cattiva compagnia, dove è presentata una strepitosa galleria di reietti, sbandati, perseguitati. Nei suoi personaggi non brucia però quel fuoco di ribellione radicale verso la società, quel rancore sordo che era presente in Puskin. Sono dei semplici, dei poveracci che trascinano una vita miserabile, vessati e sfruttati dalla nascita fino alla morte, e trovano consolazione solo nella vodka. Il contadino Makàr (ne Il sogno di Makàr), giunto al termine della sua esistenza, ha un moto di rivolta solo quando anche il giudice supremo sembra intenzionato a condannarlo: “Rivide la sua vita amara. Come aveva potuto sino allora sopportare quel peso spaventoso? Lo aveva portato perché dinanzi gli balenava sempre, come stella in mezzo alla nebbia, una speranza. Finché viveva, poteva darsi che avesse ancora da sperimentare la parte migliore … ora egli era alla fine, e quella speranza era spenta. Dimenticò dove era, davanti a chi stava, dimenticò tutto fuorché la sua collera”. Lo sguardo di Korolenko è compassionevole, ma non sembra scorgere indizi di una possibilità prossima di cambiamento. In compenso fa trapelare un’attenzione e una sensibilità per la natura che suonano talvolta persino consolatorie rispetto alla miserevole condizione umana, quasi a dire: non avete altro, non potete sperare altro, godetevi almeno quella.
Una categoria di erranti un po’ speciale, quella degli esuli e dei perseguitati politici, Korolenko la incontra invece durante il soggiorno obbligato in Siberia cui è costretto per le simpatie populiste, e la racconta negli Schizzi di un turista siberiano, del 1885. Tra costoro vi è proprio quel Romas presso il quale Gorkij vivrà a Krasnovidovo: e da essi Korolenko trae l’unico segnale di speranza.
Korolenko è l’ultimo degli scrittori propriamente “populisti”, ed è anche lo scopritore di Gorkij, oltre che un amico sincero: quando a quest’ultimo sarà revocata dallo zar la nomina all’Accademia delle Scienze si dimetterà per protesta, assieme a Čecov. Boccia senza mezzi termini le sue opere in versi, ma dopo aver letto i suoi primi racconti lo aiuta e lo incita a perseverare: “Questo è il mondo di cui dobbiamo parlare”, gli scrive.
Si riferisce a quei reietti che Gorkij rende visibili con Bassifondi, ma che prima ancora popolano i suoi racconti e successivamente le narrazioni autobiografiche di Tra la gente e de Le mie università. Già negli Schizzi e racconti, la raccolta d’esordio, del 1898, Gorkij celebra un’epopea al contrario, quella di una umanità che tenta disperatamente non solo di sopravvivere, ma di accedere ad una vita degna di essere vissuta. Sono vagabondi divenuti tali in molti casi perché rifiutati dalla società, in altri per loro scelta, ma che si sono comunque mantenuti interiormente liberi. Sono inconsapevoli ribelli a quella noia cronica, a quello spleen tipicamente russo che ha radici antiche nel fatalismo e nell’apatia propri di questo popolo, e cause più recenti nella miseria e nell’ignoranza nelle quali l’autocrazia lo ha sprofondato. Gorkij ne rende una efficace percezione fisica: “Una noia fredda spira per ogni dove: dalla terra ricoperta di neve sudicia, dai grigi cumuli di neve sui tetti e dai mattoni rosso-carne degli edifici; si leva dai comignoli col fumo grigio e striscia sul cielo basso, vuoto e cinerino; noia fumigano i cavalli e respirano gli uomini. Essa ha il suo odore: un odore pesante e sordo di sudore, di grasso, di olio di canapa, di pasticcini e di fumo; quell’odore ti serra il capo, come un berrettone tiepido e stretto e, infilandosi nel petto, vi suscita una strana ebbrezza, un oscuro desiderio di chiudere gli occhi, di urlare disperatamente, di fuggire chissà dove e di sbattere il capo di corsa sul primo muro”.
Gli uomini che Gorkij racconta sono quelli che, pur confusamente, si riscuotono dall’inerzia, e cercano rimedio al loro male di vivere nell’autoaffermazione, in una tensione sia fisica che spirituale verso sempre nuovi orizzonti: ma vengono respinti dall’indifferenza di un sistema sclerotizzato e disumano, per il quale risultano quando va bene solo invisibili, ma in genere anche pericolosi, e che li ricaccia impietoso nella condizione miserabile dalla quale hanno cercato di evadere.
Il calzolaio Grishka Orlov trova per un attimo la sua ragione di vivere quando può prodigarsi per gli altri durante un’epidemia di colera (credo che Camus abbia amato molto questo racconto): smette di ubriacarsi ogni sera e di bastonare a sangue la povera moglie, scopre finalmente la gioia del sentirsi parte attiva del mondo. “Qui non c’entra il denaro, ma la pietà verso il prossimo: essi (i dottori) hanno pietà del prossimo, questo è il motivo per cui non risparmiano se stessi … tutti sanno chi è Mishka! Un ladro … eppure curano Mishka, e appena s’è potuto alzare dal letto, tutti ridevano contenti. Anch’io voglio provare questa gioia, perché quando ridono così m’entra una spina nel cuore, mi sento male, l’anima mi brucia …” Ma non regge, e alla fine, quando la moglie lo umilia dimostrandosi più forte di lui, sputa fuori, sia pure per una miserabile ripicca, quello che davvero lo rode e gli impedisce di credere in una resurrezione: “Siete sicuro, voi, di capire quello che fate? Curate i malati, e intanto le persone sane crepano di miseria”. E non solo di fame: “Io sono sano, ma ho l’anima malata. Non posso vivere così, non posso rassegnarmi. Valgo meno di quei malati?”. E quando incontra l’autore in una bettola, gli confida: “Il mio destino è di essere un vagabondo. C’è nel mondo miglior condizione di questa? Sei libero … e dappertutto soffochi”.
È la stessa conclusione cui arriva Konovalov, il gigante buono e tormentato che Gorkij conosce mentre lavora al forno: “Io, fratello, ho deciso di andarmene per il mondo in tutte le direzioni. Ci può essere qualcosa di meglio? Tu cammini, e vedi sempre cose nuove … non pensi a nulla! Il vento ti soffia in faccia: sembra che voglia scacciare via tutta la polvere dalla tua anima. E ti senti libero e leggero. Nulla ti disturba. Se hai fame, ti fermi, lavori qualche giorno per cinquanta copeche; se non trovi lavoro, chiedi del pane, e quello te lo danno”. E l’autore commenta: “Il tono con cui pronunciò quell’ultima frase, non poté altro che confermarmi che il mio amico era rimasto tale e quale come l’avevo conosciuto: un cercatore irrequieto, insaziabile. La ruggine del dubbio, il veleno dei sogni rodevano quell’uomo gagliardo, venuto al mondo, per sua disgrazia, con un cuore sensibile”.
Gorkij è solidale con questa umanità di reietti perché scorge in essi quella carica vitale, quel barlume di orgoglio e dignità che manca invece alla massa della popolazione contadina. Il contrasto è perfettamente esemplificato nel racconto Celkash, il cui omonimo protagonista appare come l’incarnazione del furfante: “Era noto tra la gente del porto come un ubriacone, audace e scaltrissimo ladro … Il volto da gufo, lungo, aguzzo … Lungo, ossuto, un po’ curvo, girava attorno il naso adunco e gettava intorno vive occhiate facendo brillare gli occhi freddi e grigi … I baffi, neri, folti e lunghi, apparivano mossi e inquieti come quelli di un gatto … Anche là, in mezzo a centinaia di esseri simili a lui, attirava l’attenzione per la sua somiglianza con lo sparviero della steppa”. Celkash è il tipo che non fa sconti a nessuno, ma è mosso da una istintiva simpatia per il giovane contadino Gavrilka, dai grandi occhi azzurri e innocenti, anche fisicamente ai suoi antipodi, un modello di robustezza sana, di proporzione, di solarità: forse perché crede di riconoscere in lui le occasioni perse di un’esistenza diversa, onesta e laboriosa. Non appena però si profila la possibilità di un grosso guadagno il contadino si rivela per quello che è: una mescolanza di avidità, perfidia, viltà, autocommiserazione. Alla chiusa del racconto Celkash si allontana, traballante per un colpo a tradimento ricevuto da Gavrilka, e anziché uccidere quest’ultimo, come potrebbe e come da lui ci attenderemmo, gli lascia con disgusto tutto il denaro ricavato dalla loro losca impresa. Col suo gesto Celkash assurge alla dignità di un eroe romantico, e lasciando in segno di disprezzo i suoi soldi al contadino in pratica lo marchia. Gavrilka diverrà un mugik, uno degli avidi contadini ricchi sui quali calerà pesante la mano di Stalin, con la benedizione di Gorkij stesso.
Questi personaggi anarcoidi sono i protagonisti della prima fase della produzione letteraria di Gorkij. Non sono mai eroi positivi, nel senso corrente del termine: la loro vita è tutt’altro che esemplare, ma è improntata ad una fondamentale coerenza. Se non si pretende da loro un comportamento “regolare”, sono molto più affidabili di qualsiasi persona normale. Ne Il ghiaccio si muove, parlando del caposquadra che guida i suoi operai e Maksim stesso ad attraversare il Volga all’inizio del disgelo, scrive: “Sto ad ascoltarlo, ma di quel discorso imbrogliato capisco poco. E non voglio capire. Non saprei dire se Ossìp mi piace o no; so questo: accanto a lui andrei dovunque: attraverserei ancora il fiume col ghiaccio che mi scivola sotto i piedi”. Sono eroi popolari, ma non populisti, perché agiscono e reagiscono a titolo individuale, senza alcun altro disegno che non sia la difesa strenua della loro scelta di anticonformismo. “Vedi, – dice Konovalov al giovane Maksim – talvolta l’angoscia mi afferra. Ti dirò, una tale angoscia che in quel momento è impossibile vivere, assolutamente impossibile. Come se fossi l’unico uomo al mondo e, tranne me stesso, nulla esistesse di vivo. Allora tutto mi sembra odioso, opprimente, e anche se tutti gli altri morissero non me ne importerebbe”.
Una scelta della quale, come si diceva, non sono affatto consapevoli, nel senso che non è loro dettata da una coscienza di classe, ma dall’istinto: ma non per questo ne sono meno convinti. “C’è qualcosa in me che non è bene – dice Gvodzev l’attaccabrighe –. Vuol dire che non sono nato come si deve nascere. Tu ora mi dici che tutti gli uomini sono uguali. Io vado per una strada diversa … E non soltanto io, molti altri della mia specie. Siamo gente fatta a modo nostro, non compresa in nessun ordine e rango”.
Queste cose Gorkij le scrive quando l’esperienza diretta del vagabondaggio è in lui ancora viva, l’atteggiamento è ancora improntato ad un individualismo che apprezza la ribellione per se stessa, finalizzata ad un riscatto individuale che prescinde dal risultato, che sta già nell’impazienza di agire e di reagire. Quando ancora l’irrequietudine di quel mondo è pienamente condivisa. “Bisogna essere nati in mezzo a una società di gente bene ordinata e istruita per avere la pazienza di durarla per tutta la vita e non provare mai il desiderio di lasciare un ambiente di noiose convenzioni, di piccole menzogne velenose che l’uso ha ormai consacrate, di ambizioni gracili, di angusto settarismo, di forme diverse d’ipocrisia, in una parola di tutte quelle vanità delle vanità che raffreddano il cuore, corrompono lo spirito. Ma io sono stato educato e sono cresciuto lontano da questa società, e per mia gioia e fortuna non posso accettare la cultura in dosi così forti senza poi provare immediatamente la necessità di uscire dai suoi ranghi e rinfrescarmi lo spirito ben lontano dalle raffinatezze morbose di quel genere d’esistenza. In campagna c’è tuttavia tristezza e noia come in mezzo alla gente istruita. C’è molto più gusto ad andarsene per le strade più miserabili delle città, dove potrai sì trovare del sudiciume, ma anche molta sincerità e semplicità; oppure proverai soddisfazione ad andartene per i campi e lungo le strade maestre: ciò è sempre interessante, ti bastano un paio di buone gambe, il tuo morale ne godrà”. È la voce dell’autore, sta parlando in prima persona.
Nei primi racconti anche l’impatto con la modernità è negativo. “Quegli uomini, sul fondo scuro della montagna, apparivano piccoli come vermi: e come vermi brulicavano tra i mucchi di pietre, di tavole di legno, di rottami d’ogni specie, sotto il sole ardente di mezzogiorno … L’aria era pesante; vi aleggiava come un rumore di gemiti; gli sterratori colpivano la terra, le ruote delle carriole cigolavano, un gran pilone di ferro batteva e batteva sulle palafitte … Echeggiavano colpi d’ascia, e a squarciagola tutti quegli uomini grigi urlavano, urlavano …”. Sembra un girone infernale; e lo è, a tutti gli effetti. Il Gorkij entusiasta dell’industrialismo, quello che scriverà “la riuscita dell’industria condiziona strettamente la salvezza del nostro paese, la sua europeizzazione …” è ancora lontano. Altrove scrive: “Ferro granito e legno uomini e navi, tutto vuole esprimere l’inno furioso e appassionato cantato al dio Mercurio. Ma le voci degli uomini, che appena si distinguono, sembrano deboli e ridicole; coperti di stracci sporchi, curvi sotto i loro pesanti fardelli, si agitano e si agitano in turbinii di polvere, in un’atmosfera di grande calore e di grande strepito: piccoli, miseri uomini rispetto ai colossi di ferro che li circondano, alle montagne di merci, ai rumoreggianti vagoni e a tutte quelle cose che essi hanno creato con le loro stesse mani. Sono servi della loro opera, privi ormai di ogni personalità”. E ancora: “I pesanti e giganteschi vapori all’ancora fischiano, profondamente sospirano: in ogni suono che emettono si sente come una nota di sprezzo verso gli uomini che si arrampicano sui loro ponti, piccoli esseri grigi e meschini che riempiono le stive con il prodotto di un lavoro da schiavi”.
All’alba del nuovo secolo, in Bassifondi, scompare anche l’ultimo residuo di romanticismo: lascia il posto ad uno sguardo obiettivo e realistico che avvolge tutti i reietti, gli sconfitti dalla vita. Gorkij racconta un microcosmo miserabile di ladri, ubriaconi, prostitute, intellettuali falliti, usurai, vecchi che hanno perso ogni radice, di esseri umani che la società respinge e che trovano un minimo di conforto solo nella condivisione dell’infelicità. “Un essere umano infelice – scrive – cerca sempre un altro essere umano infelice: è contento quando lo trova”. In questa gente il primo Gorkij non cercava Dio, e nemmeno un suo sostituto terreno. Erano davvero gli ultimi, i rassegnati. Ora invece questa rassegnazione non l’accetta più. Vuole che il popolo “diventi Dio”, vuole che il riscatto sia collettivo, e passi non più per la ribellione individuale, destinata comunque allo scacco, ma per la consapevolezza universalmente diffusa dell’ingiustizia e per la volontà condivisa di combatterla. Questa è la “costruzione di Dio”.
La descrizione che fa del mondo degli ultimi non è mai fine a se stessa: non mira a muovere a compassione, ma ad accendere una reazione. Avvicinandosi al socialismo democratico Gorkij comincia a pensare in termini di coscienza collettiva. Senza dimenticare che quest’ultima è la somma di tante coscienze individuali che vanno risvegliate: “Ma perché tu ragionavi male – diceva già Konovalov – Tu racconti come se la vita non dipendesse da te, ma da non si sa quale persona che deve farla. E tu dov’eri, allora? Perché non ti sei messo contro il destino? E perché mai ci lamentiamo sempre degli uomini, quasi che non fossimo uomini anche noi?… Bisogna costruire la vita in modo tale che tutti vi si trovino a loro agio, e nessuno sia sacrificato. Chi è che deve ricostruire l’esistenza? domandava con aria di trionfo; poi, come temendo che gli rubassero la risposta, subito rispondeva: Noi, soltanto noi!”.
Gorkij non arriva a credere di coinvolgere in questo Noi i contadini, che la sua amara esperienza induce a considerare una massa amorfa e pericolosamente reazionaria, divisa al più in animali inerti o bestie avide, come Gavrilka. ”Ogni contadino vede soltanto se stesso, considera il lavoro per la collettività una galera” gli dice Izut. E lui stesso osserva: “Si vedeva chiaramente che tutti gli abitanti del villaggio vivevano a tentoni come i ciechi, temevano sempre qualcosa, diffidavano l’uno dell’altro. C’era in loro qualcosa del lupo”. Come lupi se li troverà infatti attorno, pronti a sbranare lui e Romas, dopo aver spaccato il cranio a Izut e aver distrutto il magazzino. E la sua resistenza, con un’ascia in mano, schiena contro schiena con Romas, a fronteggiare quel branco assetato di sangue, ma interiormente vile, sarà raccontata con tutti i ricami del caso da un fantasioso bracciante loro amico e diverrà leggenda lungo le sponde del Volga.
Dati per persi i contadini, e in assenza ancora di una classe operaia capace di autocoscienza, Gorkij non può che sperare nell’energia cinetica positiva prodotta nei suoi bosjakì dall’istintivo senso della dignità: ritiene che essa non debba più essere dispersa nella ribellione individuale ma vada incanalata nell’azione rivoluzionaria, proprio per scongiurare il trionfo dell’“asiatismo”, di quello che considera il male oscuro del popolo russo. “Asiatici!” ripete disgustato il cuoco Smuri, quando i passeggeri del battello si accaniscono stolidamente a prendere in giro di un povero soldato morto di paura, e poi a loro volta si fanno vincere dal panico ad ogni sobbalzo dell’imbarcazione. “Asiatici! Cammelli!”.
Nelle opere posteriori al fallimento rivoluzionario del 1905 gli splendidi irregolari dei primi racconti sono scomparsi. I nuovi protagonisti sono rivoluzionari coscienti: è quella parte di popolo personificata da Pelageja Vlàsova, la protagonista de La madre, moglie maltrattata e schiavizzata di un fabbro ubriacone, ma madre di un operaio socialista, che dopo la morte del marito e l’imprigionamento del figlio si libera da ogni timore e diventa una propagandista dell’idea rivoluzionaria, fino a pagare la sua nuova fede con la vita. Pelageja diventa l’icona della nuova Russia rivoluzionaria. La sua trasformazione è la trasformazione, auspicata ma anche già in atto, e divenuta tangibile proprio nel movimento fallito, di un intero popolo. All’inizio timorosa, avvilita, rassegnata ad una vita senza alcuna prospettiva, né più né meno come tutto il villaggio in cui vive, annegato nel grigiore di una quotidianità resa ancor più squallida dagli eccessi alcoolici e dalla violenza insensata, e come tutto il paese cui il villaggio appartiene, soffocato dalla noia e dalla paura, Pelageja modifica poco alla volta il suo comportamento. Spinta dall’esempio del figlio impara ad esigere rispetto per la propria libertà e per la propria esistenza, ma soprattutto a rispettarsi, acquisendo con testarda fatica gli strumenti culturali che le consentiranno di emanciparsi psicologicamente da ogni sudditanza, familiare e politica.
Questo è il nuovo modello; e non è privo di significato il fatto che si tratti di una figura femminile. Anche nei primi racconti, in fondo, erano donne come Matrena, la moglie del calzolaio Orlov, a rinascere a una nuova dignità in maniera più convinta e definitiva, mentre la ribellione dei loro compagni non andava oltre la scelta del vagabondaggio. La coscienza delle donne si allarga, quasi per necessità biologica, a comprendere i propri figli, la propria famiglia, la comunità di appartenenza, e si concretizza in un impegno sociale: questa è una prospettiva rivoluzionaria, della quale le donne diventano giustamente le avanguardie. Tanto più che per Gorkij la rivoluzione si attuerà attraverso l’educazione, prima e piuttosto che con i fucili: e in questo campo le vere protagoniste saranno loro.
A ben guardare, in tutte le sue opere il riferimento più saldo nel presente è costituito dalle figure femminili, mentre alle figure positive maschili è legata piuttosto la speranza per l’avvenire. Nonna Akulina rappresenta per tutta l’infanzia e l’adolescenza il porto nel quale Maksim si rifugia dopo ogni burrasca. Apparentemente rassegnata e sottomessa, è invece una vincente; attraversa una vita tempestosa e piena di dolori, di delusioni, di umiliazioni, che le vengono da marito, figli, sorella, forte di una superiorità conferitale dalla bontà di carattere che gli altri vedono, e soffrono, in primis il marito. Non giudica nessuno, ma capisce ed è sempre disponibile a comprendere tutti, anche quando le fanno del male, e proprio questo mette gli altri, volenti o nolenti, in rispetto. Trova un motivo in più di resistenza in quel nipote del quale intuisce l’intelligenza e l’animo, e che a sua volta, crescendo, si rende sempre più conto della forza insita in tanta bontà.
Ma ci sono anche molte altre figure che di volta in volta gli fanno intravvedere il potenziale di una vita femminile interpretata con rispetto di sé e non accettazione delle brutture del mondo: la signora della casa accanto, la “Regina Margot”, che gli fa conoscere i grandi poeti russi ed europei, la lavandaia Natascia, che sacrifica tutto per far vivere alla figlia una vita diversa dalla sua (Dio ci manda qui come stupidi ragazzini, ma ci vuole indietro intelligenti!), la piccola sfortunata Ljudmila, con la quale Maksim condivide magici ed innocenti momenti di comunione spirituale. Sono figure che si stagliano rispetto alla quotidianità delle piccolezze, delle meschinità, del pettegolezzo, delle invidie e delle liti familiari. Donne intelligenti e, ognuna a suo modo, colte; la nonna stessa, analfabeta, conosce a memoria una miriade di ballate, ed è una narratrice fantastica, che lascia stupefatti ed ammirati anche uomini di grande cultura e di profonda sensibilità.
Nell’Autobiografia ricompaiono anche i vagabondi: ma qui quel filo che nei racconti è sotterraneo diventa visibile, e crea una sottile ironia, nel significato letterale di distacco. Il distacco è nello sguardo diversamente consapevole col quale lo scrittore li coglie. Pur intagliando le figure con la stessa maestria Gorkij non le isola e non le incastona più nella sterile epica di un titanismo popolaresco. Gli irregolari e i ribelli non sono più fuochi d’artificio nella notte, belli quanto inutili: testimoniano come sotto la superficie piatta ribolla l’indignazione, e fanno presagire il ritorno del giorno. L’autobiografia ricompone tutto il tessuto narrativo in un ordito che segue la nascita e lo sviluppo di una doppia coscienza, quella dell’autore e quella del mondo attorno a lui. Le singole figure hanno rispetto ad un assieme più composito un rilievo individuale minore, le istantanee diventano sequenze. A dare unità alle vicende che scorrono in primo piano sono il fondale, la grande terra russa rappresentata di volta in volta dai diversi quartieri della città, dalla galleria del mercato, dal cantiere, dal fiume e dal battello, dal villaggio rurale, e soprattutto le due immagini familiari: quella della nonna che attraversa gli anni senza perdere nulla della sua dolcezza e della sua fermezza di fondo, e quella del nonno, che invece conosce la parabola totale della discesa, da padre padrone e artigiano con lavoranti a mendicante, una sconfitta dietro l’altra, senza mai imparare nulla, senza essere mai ammorbidito dalla compassione. I due diventano metafora del doppio volto della Russia: la bontà profonda, l’altruismo, la capacità di sopportazione, la conservazione di una dignità anche nelle situazioni peggiori da un lato, la crudeltà, l’avidità, il fariseismo, dall’altro. La ribellione di Maksim, che da sempre si è manifestata a livello istintivo, diventa cosciente proprio quando atterra il nonno che sta per batterlo un’ennesima volta.
I vagabondi, si diceva, non mancano in questa narrazione: ma o sono di una tempra diversa, persone che non si chiamano volontariamente fuori, e vengono piuttosto tenute fuori dalla meschinità dominante (il mite e misterioso Buona Cosa, deriso perché si è entusiasmato e commosso per una poesia della nonna, il fuochista Iakov Schumov, ecc.), o sono gli stessi dei racconti, letti però in una chiave più prosaica (Ossip). Ci sono anche altri occasionali maestri (il dogmatico Piotr Vasiliev), che quanto meno esprimono insofferenza per la vita che fanno. E infine i giganti: il cuoco Smuri, e poi soprattutto l’Ucraino, e Izuv, coloro che hanno ormai una coscienza piena della situazione.
Allo stesso modo, nelle opere mature è mutata radicalmente anche la considerazione della modernità. In mezzo c’è l’avvento dell’industria, che a cavallo del secolo è stata forzosamente introdotta anche in Russia, che sta modificando la realtà e la percezione dei rapporti sociali e che Gorkij vede come uno strumento di riscatto, l’occasione di rompere quella cappa di immobilismo che ha paralizzato e istupidito il popolo russo per secoli. Quando arriva a New York scrive: “Il socialismo dovrebbe essere realizzato prima qui. È la prima cosa che pensi quando vedi le sorprendenti macchine, case, ecc…”. Salvo poi, ne “Le città del diavolo giallo”, darne un’immagine completamente diversa: “Tutto – il ferro, le pietre, l’acqua, il legno – sembra protestare con energia contro questa esistenza che non ha sole, canzoni, felicità, contro questa vita prigioniera di un lavoro gravoso … Tutto geme, stride, ulula, piegandosi al volere di una forza misteriosa e ostile all’uomo … una forza fredda, malvagia e invisibile … l’uomo è una piccola vite, un punto invisibile nella sudicia e orribile trama di ferro e legno …”. Ma non è la modernità quella rifiutata da Gorkij: è il suo stravolgimento in una tirannia della finanza, degli interessi economici. È l’assenza totale di una “religiosità” della vita che non sia il culto del dio denaro. In una società di questo tipo il riscatto dall’istupidimento della miseria non avviene: c’è solo la sostituzione con un altro istupidimento, quello prodotto dall’avidità e dal consumo: “Si notano molti visi energici, ma su ogni volto vi colpiscono anzitutto i denti. La libertà interiore, la libertà dello spirito non risplende negli occhi di nessuno”. Il modello capitalistico occidentale è per Gorkij degradante: ne L’affare degli Artamanov ne dà un quadro spietato, attraverso la storia dell’ascesa e del crollo di una dinastia industriale; ma già prima, in Foma Gordeev (1899) e ne I tre (1900) ne aveva preso le distanze, attraverso le ribellioni di Foma e Gracev al “Moloch”, alla brutalità delle guardie e dei capi-reparto, alla disumanità dei turni di sedici ore. La modernizzazione che invoca passa invece per una scienza e una tecnica poste direttamente al servizio dei lavoratori, e non usate per schiavizzarli. Gorkij tiene conto del “bisogno di credere” della popolazione russa, della sua profonda e radicata religiosità: la liberazione spirituale cui fa costante riferimento consiste nello spostamento dell’oggetto di questa fede da Dio all’umanità, ed è resa possibile solo da un sapere scientifico capace di asservire la natura, di trasferire all’uomo quelle che erano prerogative divine e di emanciparlo dal bisogno. “A fianco di questa lotta inevitabile (la lotta di classe) si sviluppa sempre più una forma di lotta per una esistenza diversa, superiore, la lotta dell’uomo contro la natura, e solo in questa l’uomo svilupperà fino alla perfezione le sue forze spirituali”. Un mondo più libero, più giusto, più uguale può nascere solo da una trasformazione che non si limiti a modificare le modalità produttive, ma investa i rapporti, il valore e il senso dell’esistenza stessa.
In cento anni, da Aleko ad Alesa, sono cambiati radicalmente sia gli obiettivi che della posizione dell’intellettuale: il vagabondo di Puskin voleva sottrarsi all’ipocrisia delle convenzioni ritrovando il contatto con la natura, tornando all’innocenza naturale di Rousseau. Per Gorkij invece la natura, intesa tanto come ambiente che come indole, è selvaggia, talvolta anche bestiale, e va addomesticata. Il compito di domarla e sottometterla spetta appunto agli intellettuali, a coloro che hanno avuto a qualsiasi titolo, per merito, per ceto o per censo, accesso alla cultura: ed è una loro responsabilità fare di quest’ultima un uso non egoistico. La soluzione non può essere quindi la fuga da una società corrotta, ma l’impegno a risanare quella società dalla corruzione, cominciando col ridare dignità a coloro che ne sono stati troppo a lungo privati, rendendoli visibili, rispondendo alla loro domanda di senso.
È quanto fa dire a Konovalov, che si chiede: “Io, per esempio. Cosa sono io? un vagabondo, uno scalzacane, un ubriacone, uno toccato al cervello. La mia vita è priva di significato. A pensarci bene, perché sono sulla terra e a chi sono necessario?” ma che nello stesso tempo è affascinato dalle storie che parlano di persone come lui, e indica quindi la strada: “Gli scrittori. È gente che vive, che guarda la vita; soffrono tutto il dolore degli altri. Guardano la vita, ne provano tristezza e versano la tristezza nei loro libri”.
Lo stesso chiedono altri personaggi, già nei primi racconti. Gvodzev, l’attaccabrighe, ne fa una sintesi perfetta: “E intanto la vita mi opprime, non c’è per me via d’uscita. Perché? Perché non sono abbastanza istruito? Ma voi, voi che siete istruiti, voi non dovreste trascurarmi: io sono un frutto del vostro stesso campo: mi dovreste sollevare dal basso verso di voi, dal basso in cui marcisco nell’ignoranza e nell’amarezza”.
All’intellettuale spetta dunque, e abbiamo già visto che questa concezione rimarrà invariata attraverso gli sviluppi della rivoluzione, il doppio compito di indicare la strada e di educare i mezzi per percorrerla, risvegliando coscienze da secoli assopite e intorpidite. Ma prima ancora che quella altrui, è la coscienza dell’intellettuale stesso a dover essere risvegliata: ed educata a zavorrarsi col realismo. Romas gli dice: “Avete bisogno di studiare, è vero, ma in modo che il libro non crei una barriera tra voi e gli uomini. Gli uomini insegnano in modo più doloroso, più rozzo dei libri, ma la loro scienza rimane molto più impressa nell’animo”. Già nei primi rapporti con i populisti ha la percezione che in realtà si continui a giocare su un equivoco: “Quando discutevamo del popolo, io con stupore e sfiducia verso di me sentivo che su questo tema non potevo pensarla come loro. Per loro il polo era l’incarnazione della saggezza, della bellezza spirituale e della bontà d0’animo, un essere quasi simile a dio e a lui consustanziale, depositario dei principi di tutto ciò che è bello, giusto e grande. Non conoscevo tale popolo”. E Romas glielo conferma: “Là, da voi, gli studenti ciarlano molto di amore per il popolo, ma io dico loro: non è possibile amare il popolo. Sono parole: l’amore per il popolo …”. Parlare del popolo, più in generale degli uomini, senza conoscerli, conduce a ciò che gli prospetta un suo amico operaio: “Voi ragionate come un intellettuale, ormai, non siete dei nostri, ma un uomo intossicato per il quale l’idea è più alta dei piccoli uomini. Come gli ebrei, voi pensate che l’uomo esiste per il sabato”. È un rischio del quale Gorkij è perfettamente consapevole, e attorno al quale continua ad interrogarsi: fino a decidere ad un certo punto che vale la pena correrlo, che senza un’idea, pur sapendo che gli uomini sono così, non si può vivere. È una responsabilità che ci si deve assumere, anche dopo aver raggiunto la consapevolezza del reale livello umano. Il problema a quel punto non è più se ha senso o meno intervenire: esiste sempre qualcuno per il quale vale la pena battersi, occorre decidere semmai come farlo. È un ruolo strategico sul quale Gorkij insiste, come si è visto nella introduzione a Pensieri intempestivi, anche nel corso della polemica con Lenin e con i bolscevichi, ricavandone l’accusa di voler difendere la categoria. Ci crede sul serio: l’educazione al bello dal suo punto di vista è anche una educazione alla modernità, ed è l’imprescindibile presupposto del civismo.
Questo ruolo Gorkij se lo attribuisce, o meglio lo scopre, fin dall’adolescenza. Riceve l’investitura dai poeti che lo affascinano a quindici anni, dai Canti di Béranger: “Ma perché non mi avete insegnato/ non avete dato un fine alla forza selvaggia?/ sarei morto abbracciando dei fratelli:/ora morendo, vecchio vagabondo, / vado invocando vendetta sugli uomini!” e la sperimenta precocemente nella magia dei rapporti che riesce ad instaurare proprio attraverso la magia dei libri. Prima ancora di Konovalov sono i suoi compagni di scorribande, la “banda del cimitero”, a cadere affascinati dalla sua lettura e dai suoi racconti; e poi le reclute, i lavoratori del cantiere, il fuochista, il gruppo dei pittori di icone. “Sitanov guardò il libro, depose il pennello sul tavolo e, cacciate le lunghe braccia tra le ginocchia, si mise a dondolarsi sorridendo. Sotto di lui la sedia scricchiolava.
–Silenzio, fratelli, disse Larionyc e, anche lui lasciando il lavoro, si avvicinò alla tavola accanto alla quale io leggevo. Il poema mi agitava tormentosamente e dolcemente, la voce mi si spezzava, vedevo male le righe dei versi e mi venivano le lacrime agli occhi. Ma ancora di più mi commuoveva il sordo, cauto movimento di tutto il laboratorio, che si voltava pesantemente come se una calamita volgesse tutti quegli uomini verso di me. Quando finì la prima parte, quasi tutti mi stavano accanto, addossandosi l’uno all’altro e abbracciandosi, accigliati e sorridenti.
–Leggi, leggi – diceva Gichariev, curvandomi la testa sul libro”.
Il giovane Maksim assiste al miracolo di persone che vengono ammaliate dalla conoscenza, senz’altro dalle storie, ma anche dai modi della narrazione: perché attraverso queste storie intravvedono la possibilità di altre esistenze, mai immaginate, assolutamente non pensabili nel grigiore della loro rassegnata e trascinata vita quotidiana. E le loro reazioni, che a volte possono sembrarci esagerate, pianto, commozione, ira, sono invece estremamente verosimili in chi si rende conto di essere defraudato di un’esistenza con un senso, o meglio del senso dell’esistenza, e prima ancora della conoscenza della sua possibilità.