Voglio andarmene al Perù

di Paolo Repetto, 2011

Ah… A Iquitos c’è tanto da bere…
Con che piacere si deve vivere in un luogo come Iquitos,
dove uno si può ubriacare tutto il giorno!
Indio peruviano, citato da Antonio Raimondi in “El Perù

Ogni tanto, giusto per quel paio di giorni che vanno da un articolo di giornale a un approfondimento televisivo, si torna a parlare di fuga dei cervelli. Come fosse un fenomeno nuovo per questo paese (e come non bastasse guardarsi attorno per accorgersi che di troppi qui è rimasto solo il corpo).

Invece non è nuovo affatto. L’Italia è stata a lungo esportatrice di braccia, ma di cervelli lo è da sempre. Se volessimo fare una lista solo di quelli famosi, da Giordano Bruno fino a Fermi, e poi a Meneghello, Cipolla, Modigliani (entrambi, il pittore e l’economista) e a tutti gli altri che scopriamo italiani per un attimo quando ricevono il Nobel, ci vorrebbe un volume della Treccani. L’emigrazione intellettuale è una delle voci più attive del nostro interscambio con l’estero, segno che siamo bravissimi a creare condizioni di incompatibilità per chi usa la materia grigia.

Oggi si scappa dall’Italia per un sacco di motivi, ma evidentemente ce n’erano parecchi anche in passato, vista la continuità dell’esodo nel tempo. Non ci siamo fatti mancare nulla: persecuzioni religiose, prima, durante e dopo la Controriforma, dominazioni straniere sciagurate e rapaci, e quelle indigene anche peggio, discriminazioni politiche e leggi razziali. Sottolineerei però soprattutto una congenita malignità e trombonaggine dei nostri “ambienti culturali” che, unita a un nepotismo sfacciato, ha sempre indotto i migliori spiriti a cercare respiro e spazio altrove.

Quest’ultimo fattore è più che mai di attualità, anche se nessuno oggi deve fare le valigie per ragioni politiche (un esilio forzato – ma in genere dorato – è previsto solo per qualche grande evasore, o per qualche terrorista); c’è in compenso un’enorme migrazione semi-volontaria imposta dalla sclerosi e dalla povertà delle nostre istituzioni culturali e scientifiche, dallo scandalo delle saghe familiari nelle università, negli ospedali e in parlamento, e più in generale dal disgusto morale di vivere in un paese nel quale l’ignoranza viene esibita e coccolata senza il minimo ritegno.

Le cose stavano già così nell’Ottocento: avesse avuto un po’ di salute in più, Leopardi se la sarebbe filata a vent’anni in Germania o in Francia. Ma le motivazioni alla fuga erano allora prevalentemente politiche, ad andarsene erano soprattutto gli oppositori dei vari regimi, quello borbonico, quello papalino, quello asburgico, quello sabaudo.

Ad esempio, tutta una generazione mazziniana di medici, di ufficiali e di uomini di scienza, dopo i ripetuti insuccessi delle cospirazioni degli anni trenta e quaranta si trasferì in blocco a Londra, sulle orme del maestro, e non fece ritorno nemmeno al compimento dell’unità.

C’erano anche quelli, primo tra tutti Cattaneo, che dopo aver salutato con entusiasmo l’esplosione del quarantotto, essersi battuti sulle barricate e aver pagato le doppiezze della diplomazia piemontese o i velleitarismi dell’azione mazziniana, capirono dove si andava a parare e decisero di cambiare aria.

Tra questi ultimi spicca un uomo il cui nome agli italiani dice poco, o più probabilmente nulla, ma che in Sudamerica è annoverato tra i grandi della scienza e in Perù addirittura tra i padri della patria. Il nome è quello di Antonio Raimondi. Molti non lo avranno mai sentito prima, ed io stesso, pur avendo letto qualcosa di lui oltre trent’anni fa, l’ho riscoperto da poco. Cercherò di fare ammenda con questo breve ritratto.

In effetti, Raimondi non può essere classificato tra i grandi incompresi o tra i perseguitati cui si faceva cenno più sopra, ma tra i dimenticati senz’altro sì (e anche questa è una forma d’incomprensione). Si presta comunque benissimo a esemplificare un modello umano decisamente raro nel nostro paese (per l’ovvia ragione che quando ci nasce se ne va) di persona seria, coerente, profondamente leale, che ha saputo coniugare la curiosità e le capacità intellettuali con la modestia e il disinteresse per i riconoscimenti ufficiali. Ma ha potuto farlo solo andandosene. Poiché non è possibile clonarlo, credo varrebbe la pena, soprattutto per i nostri giovani, almeno conoscerlo.

Raimondi nasce milanese doc, attorno al primo quarto dell’Ottocento (sulla data precisa c’è un po’ di confusione, comunque nel 1824 o nel 1826). Cresce in una città che anche nel periodo della Restaurazione mantiene una dimensione europea negli scambi e nel clima culturale, anche se il rapporto con l’amministrazione austriaca si è molto deteriorato rispetto a quello esistente all’epoca di Parini, di Beccaria e dei fratelli Verri. La famiglia è benestante e gli lascia molta libertà d’azione, assecondando la sua precocissima passione per ogni aspetto della natura. Antonio studia quindi chimica da autodidatta e pratica la ricerca naturalistica con frequenti escursioni in Valtellina: a casa dipinge ad acquerello centinaia di piante e attrezza un piccolo laboratorio nel quale analizza fiori, insetti, rocce, tutto ciò che suscita la sua curiosità. In più a Milano, come in tutti i maggiori centri europei, c’è un giardino botanico che ospita piante esotiche provenienti da tutti continenti, e questo diventa il suo santuario dei sogni:

In quella stagione non avevo altro conforto che rifugiarmi nella serra dell’Orto botanico. Lì, in mezzo a una verde e varia vegetazione, che contrastava vivamente col candore della neve da cui era ricoperto fuori il terreno […], lì, in presenza di quella vegetazione attiva e verdeggiante, quasi tutta oriunda delle regioni tropicali […]. L’immaginazione volava a quelle desiderate regioni, scorreva per le folte selve solitarie […].


Oltre all’Orto botanico di Brera frequenta il Museo di Storia Naturale, da poco fondato e da subito diventato un centro della “resistenza” antiaustriaca. Entra quindi molto presto in contatto con gli spiriti più vivaci e brillanti della Milano prequarantottesca, e nel contempo alimenta attraverso una sana conoscenza naturalistica le fantasie e i sogni che segneranno il suo futuro:

Nel vedere gli animali imbalsamati dei nostri musei, vivificavo nella mia fantasia tutti quegli esseri inanimati, mi trasportavo come in sogno nei paesi dove vivono e assistevo alle loro lotte sanguinose. Vedevo con orrore la tigre feroce abbrancare al collo l’umile daino e strozzarlo in un momento con gli aguzzi artigli. Vedevo il condor dominare con il volo maestoso le bianche cime della gigantesca Cordigliera delle Ande […].

Tutto quello che oggi un bambino dai tre mesi in poi può tranquillamente vedere in documentari, cartoni animati e film, Raimondi se lo ricostruisce partendo da una descrizione, da un’illustrazione o da un esemplare impagliato: invece di consumare come spettatore passivo e inerte delle storie preconfezionate, è produttore, regista e interprete delle sue fantasie.

Vive insomma una di quelle giovinezze possibili solo in altri tempi, quando la gioventù non era un target commerciale e una chimera pubblicitaria, un adolescente poteva ancora sognare un futuro e il suo consumo maggiore era quello degli occhi sui libri.

La passione per le scienze naturali, infatti, è tale che a tredici anni Raimondi si regala, con gli spiccioli del salvadanaio, il Sistema della natura di Georges-Louis Leclerc de Buffon. Ma non legge solo Buffon: legge anche il Viaggio alle regioni equinoziali di Humboldt, se ne innamora com’è già successo al suo quasi coetaneo Darwin, e poi un sacco di altri libri.

Nato con una precisa inclinazione ai viaggi e allo studio delle scienze naturali, sognai dalla prima fanciullezza le splendide regioni della zona torrida. Più tardi, la lettura di varie opere di viaggiatori (Colombo, Cook, Bougainville, Humboldt, Dumont d’Urville e via dicendo) suscitò in me il più vivo desiderio di conoscere quei paesi privilegiati. Nelle mie letture seguivo sulla carta gli itinerari percorsi da quegli illustri viaggiatori, e mi pareva di visitare con essi le numerose isole dell’Oceania e le vaste selve dell’America tropicale […]. La lussureggiante esuberante vegetazione, l’infinita varietà di animali, le tribù selvagge che vagano per quelle cupe foreste, tutto si presentava alla mia immaginazione […].

Un ragazzino così, che gioca in casa al piccolo chimico, ama le escursioni naturalistiche, legge libri e sogna a occhi aperti, oggi sarebbe un sicuro candidato all’analisi psicoanalitica e al bullismo dei compagni. Nell’Ottocento ha altre prospettive, e questo dovrebbe indurci a riflettere sulle derive ultime della nostra società, ma soprattutto, se non gli manca l’animo, ha anche la possibilità concreta di realizzarne alcune. Antonio Raimondi riuscì, sommessamente e incredibilmente, a dare corpo a tutte le sue fantasie. Un suo omologo odierno dovrebbe accontentarsi dei videogiochi.

Le informazioni sulla giovinezza di Raimondi, e in generale su tutta la sua vita, le desumiamo dall’opera nella quale è raccolto e riassunto il frutto di un’intera esistenza dedicata alla ricerca: El Perù, opera che a suo tempo venne paragonata al Cosmos di Humboldt o alle Storie Naturali di Plinio, e che a tutt’oggi è considerata un classico della letteratura scientifica e antropologica, ma della quale non esiste naturalmente un’edizione italiana.

Nel primo volume (nell’edizione originale sono quattro, e tutti belli corposi) Raimondi abbozza una breve autobiografia, mirata più che altro a spiegare l’origine del suo impegno scientifico: racconta pertanto le sensazioni, le passioni, le aspettative della sua giovinezza, mentre è piuttosto stringato sui fatti e non si sbottona molto nemmeno al riguardo degli anni cruciali che a questa giovinezza mettono fine. Sappiamo solo che nel Quarantotto, a ventiquattro anni, Raimondi vive da protagonista tutta la stagione della rivoluzione politica e indipendentista.

È sulle barricate a combattere contro Radezky, nel momento esaltante della cacciata degli austriaci, ma è anche a Custoza, in quello umiliante che prelude al loro ritorno. Prende parte anche all’ultima, infamante battaglia di Novara, dove la tragedia si trasforma in farsa. Molla allora l’esercito piemontese e va ad arruolarsi con Garibaldi per la difesa di Roma, ma ancora una volta vede crollare a Mentana ogni sogno. In un anno e mezzo di lotte ha bevuto fino in fondo il calice della delusione, e si è bruciato parecchi ponti alle spalle: non può rientrare a Milano, meno che mai può andare a Roma, è considerato quasi alla stregua di un disertore dall’esercito piemontese. In più la scoperta dei molteplici e divergenti interessi che stanno dietro la lotta indipendentista, in qualche caso sfociati anche in aperto conflitto, lo ha decisamente sconfortato. È pronto per un altro mondo.

Alla fine del 1849 torna clandestinamente a Milano, il tempo di raccogliere poche cose, qualche libro e qualche attrezzo scientifico, e s’imbarca con alcuni amici su un brigantino in partenza da Genova per l’America. Vede per la prima volta le coste del Perù dopo sette lunghi mesi di navigazione. Non varcherà mai più l’oceano.

Le ragioni della fuga non le spiega, quasi volesse rimuovere tutto. Motiva invece così la scelta della destinazione:

La sua proverbiale ricchezza, il suo vario territorio, che sembra riunire in sé gli arenili della costa, gli aridi deserti dell’Africa, i vasti altipiani, le monotone steppe dell’Asia, le alte vette della cordigliera, le fredde regioni polari, gli intricati boschi di montagna e la lussureggiante vegetazione, mi spinsero a preferire il Perù come campo di esplorazione e studio.

In realtà, quando Raimondi sbarca a Callao, la proverbiale ricchezza è un ricordo lontano. Ultimo paese sudamericano a essersi liberato degli spagnoli, il Perù è rimasto fermo a un’economia mineraria sempre più povera. L’agricoltura è pochissimo sviluppata e nel corso di tre secoli tutta la fascia costiera è stata disboscata e impoverita.

Raimondi ha sognato sin da bambino immense foreste, e da adolescente innamorato delle scienze naturali un paradiso di specie animali e botaniche da scoprire e da classificare: si trova ora davanti coste aride e grigiastre, che lo deludono. Ma non demorde. Prima di tutto deve trovare una sistemazione economica, un’occupazione che in qualche modo gli consenta di mettere a frutto le sue competenze. A Lima conosce il dottor Gaetano Heredia, uno degli scienziati più eminenti del paese, che ne ricava un’ottima impressione e gli affida prima il compito di sistemare il Museo del Collegio dell’Indipendenza – trasformatosi poi in Facoltà di Medicina – e l’anno dopo la cattedra di Zoologia e Botanica. Si segnala subito come ottimo insegnante e come infaticabile organizzatore culturale. Rinnova, infatti, l’insegnamento della storia naturale spronando gli studenti alla ricerca sul campo, e spinge perché l’Università completi lo spettro delle cattedre fondamentali (lui stesso fonderà in seguito quella di Chimica analitica)

Raimondi però scalpita. Lima e il circondario dopo un po’ gli vanno stretti. Sullo slancio dell’entusiasmo iniziale ha già visto e identificato tutto ciò che i dintorni della capitale gli offrivano, scoprendo anche qualcosa di nuovo. Ma non è questo che sognava. Non ha attraversato l’oceano per svolgere un lavoro di routine, per quanto prestigioso. Vuole lavorare sul territorio in grande scala, scoprire e descrivere ogni angolo del Perù. In questa direzione lo spingono la serietà del ricercatore, ma anche le suggestioni delle letture e delle illustrazioni viste nell’infanzia.

Pianifica allora un progetto a lunga scadenza, suddividendo il territorio in regioni da esplorare palmo a palmo, con un triplice obiettivo: in primo luogo, una ricognizione geografica che consenta di correggere tutti gli errori e le approssimazioni dei cartografi precedenti; poi un censimento delle ricchezze minerarie, vegetali e animali, delle potenzialità di coltura, delle forme di sfruttamento più congeniali e meno distruttive; infine la ricerca e l’esame critico delle fonti storiche di ogni tipo, per dare ordine e interpretare anche la geografia umana del paese. Il suo piano è accettato: le autorità accademiche gli concedono un’aspettativa a tempo indeterminato dall’insegnamento e da un certo momento in poi, quando cominciano a convincersi dell’importante ricaduta che l’impresa può avere per lo sviluppo economico del Perù, sovvenzionano, sia pure con scarsa regolarità e in misura ristrettissima, le sue esplorazioni.

L’immenso lavoro progettato si può fare solo viaggiando incessantemente, e Raimondi viaggerà addirittura per diciannove anni consecutivi, in un territorio dove esistono poche strade, pochissimi ponti, e i mezzi di trasporto sono cavalli e muli. Lo farà mettendo a repentaglio più volte la propria vita, affrontando i disagi di un’esplorazione compiuta in territori dove unici rifugi possono essere, qualche volta, le misere capanne degli indios. Si calcola che abbia percorso oltre 45.000 chilometri, non interrompendo le sue esplorazioni nemmeno quando è colpito dalla malaria, sopportando la fatica, la fame, le intemperie del clima e le punture degli insetti.

Viaggia con un barometro, un termometro e la bussola, e annota nei suoi diari ogni dato relativo a flora, fauna, geologia, clima, toponomastica, usi e costumi della gente, reperti archeologici, ecc., senza mancare di riferire anche delle peripezie, dei pericoli e dei fatti bizzarri di cui è testimone o protagonista. Produce anche un numero incredibile di acquerelli pregevolissimi, soprattutto di piante e animali, ma anche scorci architettonici.

Da cosa è motivato ce lo dice lui stesso, dopo aver raccontato di alcune sue paurose disavventure:

Ora domando: qual è il motivo che ha spinto il naturalista, in un luogo solitario, non visto da alcuno, a calarsi giù per una ripa con pericolo di vita per cogliere una meschina pianticella che non aveva mai visto altrove? Non certo l’interesse pecuniario, perché il naturalista è disposto ad arrischiare la vita per la più umile erba, sprovvista di fiori vistosi e che non avrebbe alcun valore in commercio. È forse ambizione di gloria? Ma che gloria può venire da un’azione ignorata da tutti, perché nessuno è presente alle sue angustie, ai suoi pericoli e alle sue vittorie? È vero che indirettamente gli può spettare la gloria di aver fatto progredire la scienza, ma non è la gloria il motivo delle sue azioni, poiché l’uomo fatto per l’investigazione della verità obbedisce quasi ciecamente a un innato desiderio e, se anche si trovasse del tutto segregato dal mondo e non fosse possibile trasmettere alla posterità il risultato dei suoi studi, lavorerebbe tuttavia e arrischierebbe cento volte la vita pur di strappare un segreto alla natura e scoprire la verità dovunque si trovi.

L’altro motivo è che Raimondi, persa una patria, ne ha trovata un’altra, una realtà completamente nuova e tutta da esplorare, capace di fargli provare continuamente l’emozione della scoperta, dimenticata in qualche modo dagli uomini e dai loro appetiti coloniali, che sembra tagliata su misura per la sua vocazione e alla quale sente di doversi dedicare anima e corpo, e per sempre. Quando da Roma gli arriveranno riconoscimenti e offerte di insegnamento, in un periodo buio della storia del Perù, risponderà: “Grazie, ma non posso abbandonare la mia seconda patria nel momento della sventura”.

Le sue non sono naturalmente ricerche fini a se stesse, al puro accrescimento del sapere scientifico: hanno una destinazione pratica conclamata. Gli studi mineralogici e geologici trovano sbocco ad esempio nella rilevazione di giacimenti minerari, quelli chimici nella determinazione della potabilità delle acque, quelli geografici nella stesura della prima carta geografica completa del Perù. Raimondi è capace di stupore, di rispetto, di gratitudine per le bellezze della natura, ma crede soprattutto nella necessità di conoscerla in profondità, se non per dominarla, senz’altro per volgerne le proprietà al servizio dell’uomo.

Con questi intenti vagabonda a zig zag tra la costa oceanica e le Ande, valica ripetutamente queste ultime (arrivando oltre i 5000 metri di altitudine) esplorandone anche il versante amazzonico, dove discende su una zattera gli affluenti meridionali del Rio delle Amazzoni, visita isole e scala vulcani.

Si è dato un programma preciso e lo rispetta integralmente, cartografando ogni singolo angolo di terra peruviana. Lungo il percorso studia l’origine dei depositi di guano, individua giacimenti di carbone e banchi di salnitro, saggia le rocce aurifere, scopre fonti termali. L’elenco delle località toccate e dei dipartimenti da lui visitati è impressionante, e la cosa singolare è che non cessa di stupirsi e di entusiasmarsi, lungo vent’anni, per quello che vede e che trova.

E trova in effetti, oltre alle meraviglie naturali, anche dei veri tesori archeologici. Dopo aver visitato tutti i principali centri inca (tranne Machu Pichu, che rasenta lungo l’esplorazione del Riobamba, ma che sarà scoperto solo cinquant’anni più tardi) e aver tracciato le piante di Huánuco Pampa o della fortezza di Paramonga, arriva alle rovine di Chavín de Huántar, e si convince che la città abbia ben poco a che vedere con la cultura incarica. Ha ragione, perché la cultura di cui Chavín è testimone risale a quasi tremila anni fa. Nel suo diario scrive:

Arrivai al villaggio di Chavín per osservare le importanti rovine denominate El Castillo; penetrai nei suoi oscuri sotterranei, percorsi in tutti i sensi, sin dove mi fu possibile, questo intricato labirinto, vidi la pietra scolpita con simbolici disegni che, come una colonna, sostiene i grandi massi che formano il soffitto, nel punto dove s’incontrano le gallerie e disegnai una piccola mappa della zona che ero riuscito a visitare.

Ma il bello viene dopo. Dopo aver fatto il giro delle rovine Antonio è invitato a bere un bicchiere di birra di mais da un contadino della zona. Mentre si disseta nota il contrasto tra la povertà della casa del contadino, costruita con mattoni di paglia e fango, e il lungo tavolo di pietra scura che sta al centro. Passa le dita sulla parte inferiore di quest’ultimo e si rende conto che è piena di fini incisioni. Appena riavutosi dal mezzo infarto che gli è preso, tratta l’acquisto della pietra. Il contadino perde un pezzo del mobilio, ma l’umanità acquista una straordinaria testimonianza di una cultura scomparsa: la Stele Raimondi, oggi conservata a Lima, nel Museo Nazionale di Archeologia e Storia del Perù, è una lastra di pietra vulcanica di quasi due metri per ottanta centimetri, spessa circa venti, su una faccia della quale è rappresentato in bassorilievo il giaguaro dorato, la più importante divinità dell’epoca di Chavín.

Il viaggio nel bacino alto del Rio delle Amazzoni, nel corso del quale arriva sino al Brasile, è l’ultimo della “grande esplorazione”. Nel 1870 torna a Lima e comincia a riordinare l’enorme messe di appunti o di esemplari che ha raccolto nei suoi vagabondaggi. Non senza ripensare, con gratitudine verso la sorte e con una punta di nostalgia (anche perché nel frattempo si è sposato, e sa che il tempo dell’avventura è finito), agli incredibili anni vissuti tra cordigliere, foreste e deserti.

Quando penso a tutti gli ostacoli superati per portare a termine i miei lunghi viaggi; quando rifletto sui pericoli che da tutte le parti mi assediavano, trovandomi continuamente esposto a perdermi e a perire di sete negli sterminati e aridi deserti della Costa, a essere travolto dall’impetuosa corrente nel guado di qualche torrentoso fiume, a essere sgominato dalla terziana o vittima delle febbri maligne che regnano in alte regione; a sprofondare o rotolare in un precipizio lungo le insidiose scorciato della Sierra; a morire in pochi istanti dal morso di qualche serpente velenoso; o a essere assassinato a frecciate dai selvaggi; quando ricordo tutto questo, e che ho realizzato il sogno di percorrere tutta la Repubblica senza dovere lamentare nessuna disgrazia, congratulo me stesso, considerando che a pochissimi viaggiatori è toccata una così grande fortuna.

Anche il lavoro di riordino e di stesura, come le esplorazioni, è svolto in solitaria. Malgrado sia tornato a insegnare all’Università, infatti, Raimondi non si avvale di assistenti: per disporre il tutto all’interno del quadro che vuole costruire è necessario avere la visione d’insieme, e questa la possiede solo chi ha visto ogni cosa, ogni minerale, ogni pianta, nel suo contesto naturale. È consapevole della difficoltà del suo assunto e del rischio che corre di non arrivarne a capo, ma quando scrive:

Attualmente, una sola idea mi tormenta, ed è il dubbio che non mi basti la vita per porre termine alla mia audace impresa. Giovani peruviani! Fidando nel mio entusiasmo ho intrapreso un arduo lavoro, molto superiore alle mie forze. Vi chiedo, quindi, il vostro concorso. Aiutatemi.

Non chiede soccorso per sé, quanto per la scienza. “Aiutatemi” significa: proseguite e completate la mia ricerca, io la mia parte l’ho fatta.

Il suo momento magico è davvero finito. Ha sposato una donna che gli dà tre figli, ma che presto manifesterà segni di squilibrio e alla fine diverrà ingestibile.

In alternativa alle esplorazioni ha gli amici e il caffè. Ai primi, nonostante la sua scelta di viaggiatore solitario, non ha mai rinunciato: «Vi supplico di inondarmi con un diluvio di lettere perché un uomo che viaggia solo riceve molta consolazione dalle lettere degli amici e gli sembra di stare fra loro, anche se sono lontani», scriveva alla fine degli anni cinquanta. Del secondo fa un vero abuso, tanto da procurarsi una quasi cronica insonnia.

E poi la scienza. Il suo lavoro è conosciuto nel mondo, perché Raimondi mantiene un’attiva corrispondenza con i principali istituti scientifici, ma ciò non toglie che debba faticare per far pubblicare dal governo peruviano, al quale le ha generosamente cedute, le sue opere. Gli ultimi volumi di El Perù vedranno la luce solo dopo la sua morte. I politici peruviani non sono diversi dagli altri, e pensano piuttosto a finanziare gli eserciti. Così, durante la Guerra del Pacifico, quando il Perù subisce l’invasione cilena, deve salvare a casa propria le collezioni di fossili, di minerali, di piante, di crani umani e di insetti che aveva donate all’Università, ma nell’occasione perde anche quelle poche sostanze che gli garantivano una sopravvivenza decorosa. Va a morire infine a casa di un amico, uno di quelli che avevano lasciata l’Italia con lui. Ha solo sessantasei anni, ma la vita, e non certo quella del vagabondaggio, lo ha spossato.

Per molti aspetti, primo tra tutti l’enciclopedismo, e fatta salva una ben diversa attitudine alla modestia, Raimondi ricorda Alexander von Humboldt. Con una fondamentale differenza di assunto, però: il secondo ancora sperava di trovare la chiave di interpretazione del cosmo, il primo si accontenta di conoscerne a fondo e raccontarne una piccola porzione. Nel farlo gli capita magari di avere intuizioni geniali, rispetto ad esempio alla natura e alla composizione dei suoli, o alla storia dei popoli, ma non azzarda teorie, si limita a proporre i fatti e a lasciare loro la parola.

È una questione di carattere, senza dubbio, ma anche di epoca. Raimondi viene dopo Darwin, e paradossalmente con Darwin la scienza fa un enorme passo avanti, ma per un certo verso viene azzerata. Tutte le sue passate acquisizioni rimangono, ma devono essere riconsiderate; ogni singola conoscenza deve essere ricollocata. Raimondi ha la giusta umiltà di farlo partendo dal piccolo, cuocendo i mattoni che serviranno poi ad altri per innalzare il nuovo edificio. Il tipo di conoscenza cui mira ha da essere prima di tutto esaustivo e preciso nei particolari, per consentire sintesi semplici e corrette. Lo si potrebbe definire un manovale del lavoro scientifico, di quelli che si accollano il lavoro duro e sporco e sono soddisfatti di essere utili agli altri.

Questo è il carattere distintivo di Raimondi. La sua scienza vuole essere innanzitutto una scienza “utile”, lo ripete senza stancarsi, nello sforzo quasi commovente di sgomberare le teste dei suoi studenti dalle paturnie nazionalistiche e di indurre i governanti a fare scelte per una valorizzazione concreta del paese. «Date tregua alla politica e consacratevi a far conoscere il vostro paese e le immense risorse che possiede». Naturalmente, è come parlare al muro, ma lui quel paese lo ama davvero, perché a differenza degli studenti e dei politici lo ha percorso, lo ha visto e lo conosce tutto, nelle sue contraddizioni stridenti e nelle sue enormi potenzialità: è ormai diventato per lui la patria vera, sentita più ancora che se ne fosse nativo. E quindi lavora per far conoscere la realtà peruviana al resto del mondo, ma anche e prima ancora per dare al Perù la piena coscienza del suo potenziale culturale ed economico. Offre la sua disinteressata collaborazione alle autorità per sfruttare le ricchezze del paese, ma soprattutto per preservarle. Visto come sono andate poi le cose, temo che si rivolterà nella tomba: le ricchezze sono state sfruttate da altri, la natura che tanto amava è stata violentata in ogni maniera, i suoi connazionali elettivi sono tra i più poveri al mondo. Del suo Perù, e di quello che sperava diventasse, è rimasto poco o nulla: ma questo nulla toglie all’importanza e all’onestà della sua azione. Soprattutto, nulla toglie alla limpidezza dei suoi intenti.

Disgraziatamente pochi capiscano che uno possa spendere tutta la vita nella contemplazione della natura e nell’investigazione de’ suo segreti, senza fare il minimo conto dell’interesse e della gloria.

Mi chiedo perché, alla fin fine, al di là dell’oggettivo ed eccezionale valore dello scienziato, la figura di Raimondi mi abbia tanto colpito, e in maniera così diversa rispetto ad altri che pure gli fanno compagnia in questa personalissima campagna di riabilitazioni. Forse è proprio per la sua apparente “normalità”.

Uno che scrive: «La vera felicità la faccio consistere nella tranquillità d’animo, nella vita pacifica in famiglia, nel rispetto e nell’affetto reciproco e in tutta l’indipendenza possibile dai fastidi che impone la società di pura etichetta» e che poi nella vita dà corpo a tante avventure e realizza tante cose che Indiana Jones gli fa un baffo, non può lasciarti indifferente. È il modo a colpirti, prima ancora dell’intensità.

Raimondi sembra fare tutto come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, non nasconde di aver provato paura trovandosi un serpente a sonagli tra le coperte, ma sembra dirti: com’è normale che sia, spegnendoti sulle labbra la domanda: ma è normale andare a dormire in mezzo a un deserto? Tutto pare capitargli per caso, anche quando sarebbe piuttosto un caso se non gli capitasse: rovinare giù per un precipizio per andare a raccogliere una piantina strana, essere travolto dalla corrente cercando di forzare un guado, fare da bersaglio per gli indios andando a ficcanasare nel cuore della foresta. Cos’altro avrei potuto fare?, sembra chiederti. E allora ti convinci che tanta letteratura e troppo cinema hanno falsato la figura dell’eroe, vincolandoci all’idea dell’impresa eccezionale e subitanea, e facendoci dimenticare quelle realizzate giorno per giorno, con passione, con curiosità e determinazione inossidabili, con modestia e senza spettacolarizzazione, da uomini come Antonio Raimondi.

Raimondi non fece mai ritorno in Italia, anche quando la sua fama cominciò a procurargli inviti e promesse di onorificenze. Evidentemente sapeva sin troppo bene cosa vi avrebbe trovato. Se ho capito qualcosa del personaggio non ce lo vedo proprio a mischiarsi con gli scienziati dell’epoca e a farsi coinvolgersi nelle faide baronali delle nostre università. Nel suo comportamento non è però da leggere alcun disprezzo o risentimento nei confronti del paese originario, anzi non perse occasione di rivendicare le sue origini e si prestò a presiedere il Comitato Italiano quando gli interessi dei suoi vecchi connazionali erano in pericolo. Soltanto aveva capito che l’unico modo per amare questo paese e provarne un po’ di nostalgia, è stargli lontano. E quando gli tornavano in mente l’orto botanico di Brera e i sogni della sua giovinezza, non aveva che da alzare lo sguardo e «gli occhi sembrava non bastassero per guardare tutto».

Per conoscere meglio Antonio Raimondi:
BONFIGLIO, Giovanni – Antonio Raimondi. L’italiano che esplorò il Perù –Ed. Fondazione G. Agnelli, 2008
MONTI, Mario – Gli Esploratori – Longanesi, 1981
GERBI, Antonello – Romanticismo e peruanesimo di Antonio Raimondi, in Le Americhe. Storie di viaggiatori italiani – Electa, 1987

 

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