di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998
La poesia di Ferruccio Benzoni è una poesia in bianco e nero, il diario-canzoniere di uno sguardo laterale sul mondo, attento però ai più piccoli indizi, ai più minuti enigmi, alle più brevi ombre della quotidianità e della memoria.
Sovrapposizione di elementi simbolisti e di ironico crepuscolarismo – attraverso celate citazioni, arcaismi e colloquialismi – la sua poesia possiede la complicità della malinconia, di uno spleen apparentemente pacato, avvinghiato ai ricordi come le ferite al dolore, incollato a piccole cose e a piccoli amori, ma privo di quel riscatto che unisce il presente, pur esile, a un futuro, pur caliginoso e indecifrabile. In Benzoni qualcosa di irrimediabile si è compiuto: il legame tra memoria e promessa, tra l’oggi e l’attesa è franato; i morti sono indefinibilmente prossimi, i vivi lamentano un’indicibile distanza.
Per questo la sua voce viene da un perenne passato, anche se recente, si muove tra conosciute e care ombre e un marginale sentire, tra una sospirata guarigione e una luce sempre malata, poiché il poeta, da Catullo a Baudelaire, non vuole guarire dalla passione della poesia.
Ferruccio Benzoni, nato a Cesenatico nel 1949, è morto nel 1997. È stato tra i promotori di una delle riviste più defilate e, allo stesso tempo centrali degli anni settanta: “Sul porto”. Ha pubblicato La casa sul porto (Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1980), Notizie dalla solitudine (S. Marco dei Giustiniani, 1986), Fedi nuziali (All’insegna del Pesce d’Oro, 1991) e Numi di un lessico figliale (Marsilio, 1995).
Appendice a
“un tu non ipotetico e caro”
Devo dirti che non l’acqua mi manca
o il pane o il letto dove sfinirsi.
Neppure una donna a seni e alghe.
Non la strada rivoltosa mi manca
o il caffè delle chiacchiere intonate.
Né il privilegio di oziare in contemplazione
mentre fuori la stagione trascolora
e l’edera attecchisce con astuzia senile.
Ho voglia di cose disamorate e vive
– non sogni tastiere evocative – poiché
l’amore, l’imponderabile non vivono
che in te, trasfugati e spenti.
È dentro il tuo viso che nasce la devozione
della mia solitudine. Non m’assolvesti
quando un’esenzione chiedevo da quel grumo
d’angoscia cui sono innestato.
Non è l’amore un ragazzo cieco, violentato:
c’è una logica del profitto anche in amore.
Così per amore torno a contraddirmi.
Confessioni per un autoritratto
Sui muri in fuga delle vecchie case
il vento perlustra i rovinosi crepi,
la calce viva, la muffa vile infradicita.
Qui ho vissuto e un male d’ombre ha attecchito
qui devo finire con la mia sete intatta.
A ingigantire è una segreta ombra che avanza
defilandomi: io vivo di profilo.
Dell’amore
amore la mancanza di libertà l’infinito
possesso, l’oscura cecità soave. M’angoscia
il viscido muschio che gli amanti schiumano
quando il riso muore con la carne ed è carie
la dolcezza, una sbadata bava. Così
la pelle tua franta a febbraio al muro di una
casa dalle marcite gronde.
(Intenerire era sapere più a fondo di più
l’effimera ferocia della mia verità