Cacciatori di nuvole

di Fabio Marchelli, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

Sotto la voce “Nómade” leggo sullo Zingarelli le seguenti parole: “Detto di popolazione che esercita specialmente la caccia e la pastorizia e non ha dimora stabile”.

I nomadi sono ormai ridotti a dieci – dodici milioni di individui; cinquant’anni fa erano quasi il doppio. Il nomadismo, in senso lato, inizia il suo lungo viaggio addirittura circa 1,7 milioni di anni fa con un nostro protoantenato, l’homo erectus, irradiatosi a colonizzare, partendo dalla culla africana, buona parte dell’Asia e dell’Europa; continua poi con i cacciatori-raccoglitori neolitici, con i pastori di stirpe kurgan, raffigurati come nomadi guerrieri a cavallo che imposero la loro lingua, una sorta di proto-indoeuropeo, dalle zone a nord del Mar Nero fino all’Europa meridionale; e si rinnova con le grandi espansioni-invasioni di popolazioni celte e poi via via scite, ungare, alane, gote, mongole e infine arabe.

I movimenti di intere popolazioni stravolsero logicamente la storia e i costumi di vastissime aree, segnarono mutamenti epocali. Ma non è questo che mi interessa: mi piace invece cogliere il nomadismo nella sua essenza, come forma di disobbedienza. Sin dalle origini, infatti, i pastori evadono dagli obblighi delle organizzazioni sedentarie, rispetto alle quali essi si comportano come ribelli e contestatori. La Bibbia stessa lo testimonia nella cacciata di Ismaele da parte di Abramo, o addirittura nell’uccisione del pastore nomade Abele da parte dell’agricoltore sedentario Caino. In chiave politica questa fuga può essere vista come una riluttanza a farsi sudditi di un potere vessatorio, proprio di società autocratiche e oligarchiche, e il nomadismo come una strategia politica per sfuggire a questo controllo. In seguito la situazione si ribalta, e l’uomo nomade riesce, tramite l’invenzione della cosiddetta “macchina da guerra”, a impaurire questo potere, e canta se stesso come l’uomo forte, coraggioso, l’eroe che rifiuta le lusinghe della vita sedentaria.

In effetti, già nel mondo arabo preislamico vi è tutta un’epica che canta la vita libera e fuggitiva. La stessa parola “arabi” deriva dal termine ebraico “arave” che significa deserto, e quindi figlie del deserto erano chiamate le popolazioni che, appunto, venivano da fuori. In Afganistan Kuchi è il termine generico col quale sono appellati i nomadi da parte dei cittadini, e significa “coloro che vanno” o gli “errabondi”; in turco gli yuruk sono “quelli che camminano”. Il nomade quindi è per definizione un diverso, un emarginato, un inadeguato rispetto ai canoni della vita urbanizzata. Ne sono un esempio le varie tribù Rom che stazionano nelle periferie delle città italiane, in preda ormai ad un graduale processo di disgregazione, ad una rinuncia al nomadismo causata dalle tentazioni della forma di produzione industriale, dalle politiche del soccorso, dall’assistenzialismo, dalle lusinghe della condizione urbana. Anche le politiche di assimilazione, perseguite con intento progressista, tendono a considerare le antiche società nomadi come residuali e anacronistiche, e mirano in fondo a trasformare il nomade in un produttore inserito nel sistema, offrendogli la sedentarizzazione come unica soluzione al suo problema di “diverso”.

Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l’aria azzurrà diventi casa
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa correntente di ali.
(poesia rom – khorekhere)

Per il nomade lo spazio è un luogo naturale, non segnato dall’azione trasformatrice dell’uomo; ma mentre per il sedentario esso è vuoto, per il nomade è subordinato al tragitto da percorrere, come se la vita stessa fosse un intermezzo. Quindi importante non è il punto di arrivo e/o di partenza, ma il percorso stesso, che si svolge in un luogo aperto, non vincolato da reti stradali o da muri di recinzione. Si può parlare di uno “spazio liscio”, disomogeneo, che si contrappone ad uno “spazio striato”, costituito da strade, tracciati obbligati, e che l’autorità statuale può controllare tramite organismi di polizia, sbarramenti o filtri; lo stato ha infatti bisogno che il movimento sia soggetto a regole, onde limitare strettamente, controllare, localizzare ogni flusso di popolazione che potrebbe costituire un potenziale pericolo per la sua stessa stabilità.

Il nomade ha estreme difficoltà ad adeguarsi a qualsiasi regola prefissata; nucleo fondamentale della sua vita sono il clan e la tribù, ed attorno a essi vive, riconoscendo un capo solo come primus inter pares, come figura rappresentativa, mediatrice e non autoritaria, a cui la tribù delega limitate funzioni di comando. Il ruolo degli individui è paritario, la struttura sociale è caratterizzata da comunitarismo e da rapporti di cooperazione resi possibili dal fatto che non esiste una effettiva divisione del lavoro: infatti gli artigiani si sentono allevatori, e viceversa, e nessuno è assoggetato a leggi che limitino la libertà individuale, anzi, questa viene esaltata come portatrice di creatività. E ancora, il nomade è l’uomo ecologico per eccellenza, e quella nomadica è la società della sufficienza, della frugalità e della parsimonia, nella quale i bisogni essenziali precedono il confort e il lusso. Beduini, tuaregh e kuchi sono tutti uomini sottili, che consumano pasti esigui e leggeri: nel Sahara si usa dire che un tuaregh può vivere tre giorni con un dattero, il primo mangiando la buccia, il secondo la polpa e il terzo succhiando il nocciolo. I nomadi sono allenati a resistere a tutte le difficoltà ambientali proprio grazie ad una sorta di compressione dei bisogni; infatti da sempre sono tra i consumantori meno esigenti (nel 1970 il reddito medio annuo dei nomadi del Sahel era di centomila lire, contro i quattro milioni di un cittadino statunitense), e non ambiscono a beni materiali, che sarebbero comunque di impaccio al loro incessante cammino. Gengis Kan si compiaceva di possedere un solo vestito e di nutrirsi una sola volta al giorno, come l’ultimo dei suoi pastori.

Ma il nomade è anche chi percorre territori e culture diverse, non accettando di collegarsi ai cosiddetti “poteri forti”, non cercando legittimazione in un’ideologia o infine in una patria. Si può infatti essere nomadi anche in una città dei nostri giorni, perché lo si è pensando e praticando uno stile di vita diverso che eluda gli obblighi di tutto ciò che rappresenta il potere costituito, che si contrapponga alla massificazione, alla omologazione, sia sotto il punto di vista strettamente culturale che sotto quello quotidiano, per non farci omogenizzare in tutte le nostre scelte.

… il deserto non è solo dietro l’angolo / il deserto è compresso nel vagone della metropolitana, è accanto a te, / il deserto è nel cuore del tuo fratello” (T. S. Eliot)

 

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