di Antonio Cammarota, da Sottotiro review n. 5, novembre 1996
In genere sulle alte montagne, quelle più famose, si arriva in due maniere: a piedi o con la funivia. Sono due modi completamente diversi di salire.
Una volta sulla vetta, certo, lo scenario che ci si presenta è lo stesso. Una distesa splendida di cime innevate, l’aria tersa, un paesaggio da favola che nella sua maestosità ci affascina e ci da una stretta al cuore.
Ma – e questo è solo il primo ma del nostro breve ragionamento – a seconda di come si è saliti lo sguardo col quale lo si abbraccia, lo spirito col quale lo si contempla sono diversi.
Credo sia chi ha faticato di più, lo scalatore, a godere maggiormente del panorama. Egli è arrivato lassù con fatica, a volte correndo pericoli, salendo sentieri tortuosi, tagliandone alcuni e percorrendone anche di sbagliati. Ma è arrivato contando solamente sulle sue gambe e sulla sua volontà. Sul suo modo di vedere e godere la montagna influisce il cumulo delle emozioni della salita.
Chi ha usato la funivia invece appare più riposato, non è stravolto dalla fatica, non si è sforzato per nulla ed ha raggiunto la vetta semplicemente in virtù dei quattro soldi del biglietto. Di lassù vede le stesse cose, certo, ma non sono sicuro che le apprezzi fino in fondo. Non ha conquistato, non si è guadagnato nulla, e il panorama è quasi un dono immeritato.
A pensarci bene la stessa cosa vale per la lettura e per la cultura in generale. Se vogliamo, anche in questo caso si è realizzata una piccola utopia: due persone, l’una figlia di contadini o operai, l’altra proveniente da una famiglia di dottori, di professori, comunque di intellettuali, possono oggi parlare infatti nella stessa lingua e delle stesse cose. Ma non illudiamoci: in realtà non è mai la “stessa” cosa, non saranno mai due persone “eguali”.
Mettiamo che queste persone con origini diverse possano avere entrambe una ricca biblioteca ed essere lettori modello: non credo affatto che apprezzino alla stessa maniera il piacere della lettura e della conoscenza. Non sono sicuro che concetti come cultura, conoscenza dei fatti e opinioni politiche abbiano per esse lo stesso significato.
Chi trova tutto già pronto, tutto realizzato, non deve fare altro che andare nello studio e prelevare dai ricchi scaffali della biblioteca di famiglia un libro; ma con “quale” piacere lo leggerà? E soprattutto, cosa ne trarrà?
Io credo infatti che la ricerca di un testo particolare debba essere un itinerario personale, faticoso, tortuoso, difficile, in definitiva splendido, e che assuma un valore che travalica quello del libro stesso. Chi non possiede già una biblioteca arriva necessariamente ad ogni libro attraverso altri libri, ad uno scrittore attraverso altri scrittori, ad una idea grazie a mille piccole idee sparse qua e là.
Anche la mia biblioteca è cresciuta lentamente (e sottolineo che la mia è una storia come tante altre) ed ogni libro in essa accolto è il risultato di un percorso e, a volte ha costituito anche un traguardo. Altro che biblioteche di famiglia più o meno ricche, altro che padri e madri che ti invitano alla lettura e ti conducono per mano nel labirinto delle mille biblioteche possibili. Questa esperienza mi porta a pensare che le persone “bibliodotate” dall’infanzia, malgrado conoscano più libri, li abbiano più a portata di mano, leggono con uno sguardo diverso le cose del mondo rispetto al lettore selfmade. Quel mondo, infatti, lo hanno conosciuto solamente attraverso i libri. Questo è vero soprattutto quando si parla del mondo del lavoro.
Il lavoro, e quando parlo di lavoro intendo quello nero e maledetto, quello subordinato, quello che esige la testa chinata di fronte agli ordini dei superiori e per il peso della fatica, è la cosa più materiale che ci sia, la più lontana dal pensiero “puro”. Per chi nasce in famiglie che non conoscono o non vivono il lavoro, come supplizio
quotidiano, è difficile concepire quanta umiliazione, frustrazione, abbruttente ripetitività esso comporti. Costoro hanno letto sui libri che esiste il lavoro, hanno visto con i loro occhi il lavoro (cioè, gente che lavorava), ma non hanno mai lavorato. Né per costruirsi una biblioteca, né per sopravvivere. Si può dire che in genere chi ha vissuto a contatto sin dall’infanzia coi libri e con ambiente culturalmente stimolanti non ha mai bisogno di lavorare (e mi riferisco sempre al lavoro inteso in un’unica accezione: quella manuale). Le famiglie di questo tipo si riproducono di gene-razione in generazione, e i figli occupano sempre (salvo ribellioni o incidenti) le posizioni dei padri. Nel loro DNA viene inscritto un codice culturale di-verso da quello della gente “normale”, ed essi partono quindi già con un notevole margine di vantaggio.
È difficilissimo, di conseguenza, per un figlio di operaio o di contadini assurgere all’olimpo della cultura, diventare un intellettuale. Il DNA di questi ultimi è povero e vuoto, e quando accade a chi ha origini “modeste” di arricchirlo, di acculturarsi, non gli è comunque facile godere serenamente di questo patrimonio. O fa della cultura un’arma di riscatto economico-sociale, e ne tradisce pertanto tutte le più genuine valenze, o subisce un’ulteriore discrimina-zione, quella creata dall’urgenza di mettere a frutto bene o male, in genere più male che bene, le competenze acquisite. Sempre che almeno questo gli sia consentito: basterebbe infatti una piccola indagine statistica sulla provenienza sociale dei ricercatori universitari (non parliamo dei docenti!), di coloro cioè che possono permettersi il lusso pluriennale di un’attività sottopagata in attesa del “posto”, per farci dubitare anche di quest’ultima possibilità.
E allora godiamoci almeno la soddisfazione di aver sollevato la fronte, di aver rialzati gli occhi affaticati per posarli – magari – su un libro, su qualcosa che si sceglie per crescere e migliorare, di aver tentato di inverare la piccola utopia della parità tra persone di origini diverse e con storie diverse, della parità tra persone più o meno fortunate. Una parità, un’eguaglianza di diritti che si rivela solo teorica, che si realizza sulla carta ma scompare quando si verifica la solidità delle basi di partenza di ognuno. Da un lato stanno coloro che hanno avuto ogni tipo di faci-litazione (economica, intellettuale, di frequentazio-ne) e dall’altro color che hanno dovuto costruirsi con fatica ogni minima possibilità. E in fondo non è che la parità mi interessi poi molto. Preferisco rimanere ciò che sono, un selfmade man nel campo della cultura (e della lettura), con un padre dalle mani grandi e nere, scavate da anni di lavoro duro, mani ormai insensibili al freddo e al caldo, incapaci di sfogliare un libro o di fare una carezza.
Ma che importa: il libro lo leggerò io (e per mio padre sarà un po’ come se lo leggesse lui) e le carezze, beh, quelle non le farebbe mai, anche se avesse mani di fata, per pudore.
C’è troppo pudore in chi lavora duramente per lasciarsi andare ad una carezza, si pensa quasi di non averne il diritto.
Mio padre, ad esempio, non ha mai letto da nessuna parte la parola pudore, non sa neppure che esista, ma – dovreste vedere – sa cos’è il pudore.