La zappa e il tiro con l’arco

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

Primo tiro, cinquemila lire. Tanto costa una freccia del modello più economico per il tiro con l’arco. Tanto ho speso, perdendo la freccia. Non c’è stato verso, è finita tra la sterpaglia del campo e non è più venuta fuori. Chi si esercita nel tiro campale conosce questa prerogativa delle frecce. Se non becchi il paglione non le trovi più, nemmeno col metal detector. Dunque l’inizio è stato scoraggiante, anche perché io della prerogativa della freccia non sapevo nulla, e ho perso mezza giornata a cercarla inutilmente. Adesso non ci provo neanche più. Certo, perché malgrado i primi deludenti risultati ho insistito a tirare, e ormai novantanove volte su cento colgo il paglione, se non altro per motivi economici.

Non ho mai tirato in un poligono (si chiamano così?), o comunque in un campo attrezzato, di quelli tutti in piano, con l’erbetta all’inglese (lì le troveranno, le frecce?), con le distanze misurate al centimetro. Ho sempre misurato le distanze a passi, tirando al risparmio su ogni singolo passo, dribblando con le traiettorie pali e filari, per andare ad impattare un paglione slabbrato poggiato su trespoli di fortuna (per chi non lo sapesse, il paglione è un supporto di paglia pressata, spesso circa dieci centimetri, quadrato o rotondo, di diverse misure di lato o di raggio, sul quale si fissa il bersaglio, o targa, e che dovrebbe assorbire l’impatto della freccia. Dico dovrebbe, perché dopo qualche centinaio di tiri tende a spappolarsi, e le frecce entrano ed escono che è un piacere): ma giuro che ne ho tratto le più impensate soddisfazioni. Perché l’arco è ruffiano: evoca suggestioni culturali, suggerisce un’esotica marzialità, rispetta la quiete e il paesaggio, non lascia alcun tipo di scoria, nemmeno psicologica, in quanto è sì un’arma, ma talmente obsoleta da non essere più considerata tale nemmeno dai nostri legislatori, che è tutto dire (infatti non necessita di alcun porto d’armi, e poi, avete mai sentito di serial-killers che prediligano l’arco? solo al cinema). Ti consente di giocare alla guerra, ma in una forma così simbolica e stilizzata che non hai nemmeno da vergognarti dei tuoi istinti. Ma c’è un aspetto, soprattutto, che mi affascina in questa pratica: è forse la più solitaria delle attività sportive. Può essere svolta in gruppo, ma viene esaltata dalla solitudine: una solitudine vera perché, diversamente da quanto accade nelle alte pratiche di tiro, è fasciata nel silenzio. Tutto il gioco è fra te e quel bersaglio concentrico, che già nel disegno ti ipnotizza, cattura il tuo sguardo, così che non lo vedi come un avversario, e lo trafiggi solo per congiungerti con lui, perché la freccia porta con se il tuo corpo e la tua mente. Hai tu in mano tutta la situazione: sono il tuo occhio, i muscoli tesi del tuo braccio di supporto e quelli contratti del braccio di tensione, i tuoi deltoidi irrigiditi, la sensibilità al rilascio delle tue dita, a determinare la traiettoria. Per una volta senti di poter avere il controllo totale. Soprattutto, di avere la possibilità di riprovarci, se non cogli alla prima il bersaglio. Sempre che non perda la freccia.

 

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