di Gianni Repetto, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996
La calcina volava dalle carriole alla parete e, non s’era ancora spiaccicata sul muro che i fratassini la spargevano in un baleno. L’avevano preso a cottimo quel lavoro, e allora ci davano dentro per farci uscire una bella giornata. La betoniera muggiva in continuazione e Cosimo non faceva in tempo a prepararne una che già gliela chiedevano con insistenza. – Mizzica! Matti siete?! – aveva brontolato ripetutamente, ma non aveva perso una battuta, come se non volesse essere da meno. Franco e Gino ogni tanto gli tiravano dietro qualche accidente, ma così, senza cattiveria, come se fosse ormai più che altro un’abitudine. – Sbroite, terùn! –. – ‘nduma, tera da pippe! – Ma intanto il lavoro cresceva, sostenuto da tutta l’impresa.
Improvvisamente si udì il rumore di un camioncino. Franco si affacciò alla finestra. – È Piero, il lattoniere. Chissà cosa vuole.
– Che non venga a farci perdere del tempo – rispose Gino – Lo sai che se attacca…
Piero passò vicino a Cosimo senza salutarlo. Il ragazzo lo seguì con lo sguardo, poi scosse la testa come per compatirlo. Sapeva che quell’uomo ce l’aveva con i meridionali per cui non c’era da stupirsi del suo comportamento. Finì di scrollare un sacchetto di cemento nella betoniera.
– Ci sieteee? Qui vedo che i lavori vanno avanti.
– Vieni, vieni, che ce n’è anche per te.
Piero entrò nella stanza che stavano intonacando. Franco e Gino non si fermarono neppure un istante. Uno “slash” e via a fratassare. L’uomo stette un po’ a guardarli, poi, come se improvvisamente avesse cambiato voce, disse:
– Avrei da dirvi una cosa importante.
Gino si fermò: – E dilla! Cosa sarà bene?! – e riprese ad intonacare.
– Non avete saputo… niente?
Franco e Gino si guardarono stupiti. – E cosa avremmo dovuto sapere? – disse Gino, smettendo di lavorare.
Piero si guardò in giro sospettoso, come se temesse che qualcuno lo ascoltasse; poi, avvicinandosi, disse: – Non avete sentito il telegiornale? È tutta la mattina che lo fanno.
– Ma se è dalle sette che siamo qui, come potevamo! – rispose Franco, che già fremeva per quell’ interruzione.
– Ci siamo, – disse Piero tutto eccitato – ci siamo: La gente ha cominciato a ribellarsi. A Milano, a Torino e in tutto il Veneto hanno già preso in mano le prefetture.
– Ma cosa dici?! – replicò Gino incredulo.
– Ma sì, il Nord si è ribellato. E hanno già cominciato a far fuori qualche terrone.
– Vuoi dire che hanno anche sparato?!
– Oh, ragazzi, non stanno mica scherzando. Io l’avevo detto che prima o poi sarebbe successo. – Si zittì immediatamente, aveva sentito alle sue spalle il cigolìo della carriola.
Cosimo venne avanti a testa bassa. Posò la carriola con veemenza, poi fece l’atto di inforcare l’altra, ma quando si accorse che non era ancora vuota, esclamò: – Minchia, che facciamo qui, dormiamo?! – Alla vista di quelle facce scure il sorriso gli morì sulle labbra. Restò un istante lì, imbambolato, poi, come se stesse facendo uno sforzo, afferrò la carriola e se ne andò.
Piero attese che uscisse. – Non ho mai capito cosa vi è saltato in mente di prenderlo a lavorare. Io, piuttosto che prendere un terrone, farei il doppio di fatica – Indugiò un attimo a guardarli, come se volesse suscitare in loro un senso di colpa. – Io sto andando a Ovada. Mi ha telefonato Olivieri quello delle piastrelle, e ha detto che si stavano radunando tutti in piazza. Voi che fate, venite?
Quell’invito così a bruciapelo li lasciò interdetti. Franco guardava la calcina e il lavoro che c’era ancora da fare, e si sentiva montare il nervoso. Gino cercò di obiettare qualcosa: – Ma così, all’improvviso, sporchi come siamo…
– Meglio ancora, che lo vedano che stavolta è l’Italia che lavora a ribellarsi.
Quante volte avevano ragionato all’osteria di quella possibile rivolta, del fatto che il Nord non poteva più sopportare di averci sulle spalle il Meridione. E che, se fossero stati da soli, sarebbero stati come la Svizzera. Ma ora, trovarsi di fronte al fatto concreto, era tutta un’altra cosa, non bastava riempirsi la bocca di parole.
– E Cosimo? – accennò Franco di riflesso.
– Se date a mente a me, lo licenziate, prima che sia troppo tardi.
– Ma così, su due piedi…
– Ma allora non avete proprio capito! Qui sta succedendo davvero qualcosa di grosso, e allora conviene anche a lui andarsene a casa, ma a quella vera, stavolta – sibilò Piero tra i denti, con un’espressione di disprezzo. Dopodiché aggiunse: – Beh, io vado, era tanto che aspettavo di togliermi questa soddisfazione. Voi fate un po’ quello che volete. Ma sappiate che da domani le cose cambieranno per tutti.
Franco e Gino lo guardarono andar via frastornati. Lo conoscevano fin da bambini e sapevano che ce l’aveva sempre avuta a morte con i terroni. Ma non c’avevano mai dato troppo peso, come se si trattasse di un’esagerazione del suo carattere. Ora però che i fatti sembravano dargli ragione, provavano un senso d’angoscia all’idea che anche loro non potevano più tirarsi indietro e dovevano scegliere da che parte stare.
Ripresero a lavorare. Ma la calcina non volava più come prima, sembrava appesantita.
Cosimo tornò con la carriola. Vedendo che l’altra era ancora piena, si fermò e lasciò le stanghe di botto. – Ora si vede chi è che batte la fiacca! – gridò come per canzonarli. Nessuno gli rispose. – Ohè, muti siete?! – insistette quasi risentito. Franco gli diede un’occhiata torva e riprese ad attaccare calcina. – Miinchia! Sto parlando a voi. Che vi prese? – disse Cosimo tirando un calcio alla carriola.
Gino non resistette più: buttò lontano la cazzuola e il fratassino e s’incamminò verso la porta. Cosimo lo guardò sbalordito, non riusciva a capire la ragione di quel gesto. Poi, mettendosi le mani nei capelli, cominciò ad imprecare: – Botta de sangu! Che siete, tutti matti?! Ma se abbiamo scherzato fino ad un minuto fa… E ora, che vi succede? – Tutt’ad un tratto si fermò, come se si rinvenisse. Poi, con una smorfia di compiacimento, disse: – Ah, ora capisco. Che stupido sono! Potevo anche pensarci prima. È stato il lattoniere a dirvi qualcosa, sarei pronto a giurarci. Iddu è ‘nu fetusu!
– Sta zitto! – gli urlò Franco dall’impalcatura. E continuava ad attaccare calcina.
– E no eh, zitto non ci sto. C’avete da spiegarmi che succede. Che credete, non sono mica un minchione.
In quel momento rientrò Gino. Aveva la faccia livida, allucinata, come se si sentisse male. Si avvicinò a Cosimo e, senza alzare gli occhi da terra, gli disse con voce sommessa: – Da domani sei licenziato – Poi stette lì, immobile.
Cosimo stentava a crederci: deglutì alcune volte, guardò ripetutamente i due muratori, poi, con la voce asciutta, rotta solo dal magone, disse: – Tre anni sono che lavoro con voi, e credo di aver fatto sempre il mio dovere. Quando c’è stato da lavorare non mi sono mai tirato indietro, fosse sabato, domenica o anche nelle feste. Perché allora mi fate questo? Forse che non vi mantenevo la calcina? Oppure siete così poco uomini che sono bastate le quattro minchiate che vi ha detto quel fetente per farvi cambiare idea?!
Cosimo era fuori di sè e si piegava tutto in avanti a gridare in faccia a Gino quelle parole. – Sta zitto! – urlò nuovamente Franco dall’impalcatura. E, dopo aver gettato gli arnesi nel bogliolo, saltò giù con un balzo sul pavimento. – Sta zitto! – ripeté furente.
Cosimo tacque qualche istante, come se avesse ubbidito. Poi un ghigno beffardo gli si stampò sulla bocca. – Eh già, io sono un terrone. Io non ho il diritto di parlare. Io servo soltanto se c’è da lavorare. Tanto sono come le bestie, lo dite sempre voi. – Fece una pausa, come per riprendere fiato. – Ma ricordatevi – disse agitando il pugno minaccioso davanti agli occhi di Franco – che c’ho due coglioni anch’io, e se ci provate a scassarmeli qui finisce male per qualcuno.
Franco trasalì, come se quel gesto avesse evocato in lui qualcosa di ancestrale. Improvvisamente gli si annebbiò la vista e cominciò a tremare da capo a piedi: un istinto primordiale gli saliva su dal profondo e lo pervadeva con tanta forza che era impossibile controllarlo. Di fronte non aveva più il suo manovale, ma un invasore che stava minacciando la sua terra. Quasi senza rendersene, conto allungò un braccio, afferrò il badile appoggiato all’impalcatura e, lesto come un fulmine, colpì Cosimo sulla testa. Il giovane siciliano fu così sorpreso che non tentò nemmeno di schivare il colpo.
Il badile rimbalzò lontano e Cosimo, con la testa tutta insanguinata, rimase qualche istante ancora in piedi con un’espressione di terrore sul viso. Poi, di colpo, crollò su se stesso.
Gino, come se si svegliasse allora da un incantesimo, guardò Franco sbigottito, poi gridò: – Disgraziato, cos’hai fatto! – e si gettò su Cosimo che a terra stava spasimando. – Cosimo, Cosimo, Madonna santa, parla! – Ma Cosimo ormai rantolava e aveva continui sbocchi di sangue. Finchè il sangue gli uscì anche dalle orecchie, il corpo sussultò alcune volte e s’irrigidì.
– Cristo, è morto. Morto, capisci?! E ora che facciamo, siamo bell’e rovinati! – Gino piangeva disperato, inginocchiato sul corpo esanime di Cosimo.
Franco, che fino ad allora era rimasto come di sasso, cominciò a scrollarsi la calcina dai pantaloni. Gino lo guardava, aspettando che dicesse qualcosa.
Franco prese il giacchetto dall’impalcatura, se lo infilò e si tirò su la cerniera; poi, quando ebbe finito, disse. – Io vado giù ad Ovada – Gino lo guardò incredulo: – Ma… Cosimo? – Franco stette un attimo in silenzio. – Io vado giù ad Ovada – ripeté – ormai siamo in guerra.