I viaggi nel futuro del reverendo Swift

di Paolo Repetto, 1° novembre 2025

La falsità spicca il volo
e la verità la segue zoppicando.

Jonathan Swift

Ci voleva l’ennesima personalissima emergenza sanitaria per indurmi a rileggere I viaggi di Gulliver, In realtà non si è trattato di una rilettura, perché la prima volta, più di sessant’anni fa, avevo tra le mani una versione ridotta, tanto ridotta da farlo sembrare un libro di avventure. Mi sono trovato a leggere in effetti un libro completamente nuovo, e a rimpiangere di non averlo fatto prima.

Ci sarebbe molto da raccontare, e su cui meditare, ma ho scelto ad esemplificazione del tutto alcune pagine che trovo particolarmente gustose e attuali. Il resto, se volete e se ancora non lo avete fatto, potrete trovarlo in una delle almeno dieci traduzioni italiane attualmente circolanti. In quella di cui mi sono avvalso (nell’Economica Feltrinelli) sono circa trecentocinquanta pagine.

Nella terza parte del libro il protagonista racconta il viaggio che lo ha portato a Laputa, un’isola sospesa per aria. Laputa è una roccia volante, sul tipo di quella de Il castello dei Pirenei di Magritte, che poggia su una base piatta di diamante e che può essere manovrata dai suoi abitanti utilizzando un gigantesco e complicato magnete (la cosa fa presumere una passata altissima capacità tecnologica, che sembra però ormai del tutto svanita). Gli isolani sono tutti scienziati, astronomi e filosofi, che vivono perennemente (e letteralmente) con la testa fra le nuvole, dedicandosi a esperimenti e invenzioni assurdi e totalmente inutili, perché non hanno alcun rapporto con la vita reale. “Sembra che codesta gente sia tanto immersa nelle sue profonde meditazioni da trovarsi in uno stato di perpetua distrazione, dimodoché nessuno può parlare né udire i discorsi altrui se qualche impressione esterna non viene a scuotere i suoi organi vocali o uditivi”. L’“impressione esterna” è creata da un particolare servitore personale, il “batacchiario”, “munito di un bastoncello con una vescica gonfia fissata in cima, piena di piselli secchi o di sassolini […] ed è compito di questo famulo, quando due o più persone si radunano, batacchiare dolcemente la vescica sulla bocca di chi deve parlare, indi sull’orecchio destro della persona, o delle persone cui il discorso è rivolto”. E ancora, durante il passeggio “dare al padrone una lieve batacchiata sugli occhi”, per evitargli di capitombolare o di dare col capo in ogni palo, o di spingere gli altri o di essere spinto nella cunetta di scolo”.

La roccia volante domina dall’alto un’area di terraferma, il regno di Balnibarbi, un tempo fiorente e ora ridotto alla desolazione e alla miseria, proprio a causa delle innovazioni nei metodi di coltivazione dei campi e di costruzione degli edifici imposti dai laputiani.

Nella capitale di questo regno, Lagado, ha sede una celebratissima Accademia, alla cui visita Swift dedica il quinto capitolo. Il suo alter ego descrive il funzionamento dell’accademia ed elenca le “arti e scienze in cui si esercitavano quei dotti”. Nel corso della visita, che si protrae per più giorni, il viaggiatore incontra una serie di personaggi l’uno più strambo dell’altro, tutti accomunati dall’aspetto esaltato, dagli abiti sporchi e stracciati, dal fetore che emanano e dall’abitudine di scroccare mance e oboli, oltre che da una spiccata tendenza a trafficare con gli escrementi. Ci troviamo quello che si dedica da otto anni a estrarre dai cetrioli i raggi del sole, per stoccarli in fiale di vetro e usarli poi per riscaldare le estati inclementi; quello che vuole ricondurre gli escrementi umani al cibo originale che li componeva, separando i diversi elementi; quello che vuole trasformare il ghiaccio in polvere da sparo; l’architetto che ha inventato un metodo per costruire le case partendo dal tetto e il biologo che vuole sostituire la seta dei bachi con le ragnatele tessute da insetti; il medico che cura le coliche aspirando per via rettale con un mantice le ventosità intestinali, o viceversa, insufflando aria con lo stesso strumento. Insomma, un vero e proprio manicomio. Questo per la parte dell’istituto riservata alle invenzioni meccaniche. Ma ce n’è un’altra, assegnata agli studiosi delle scienze astratte, non meno allucinata: e inquietante.

In questa seconda sezione “lavorano” i progettisti del “sapere speculativo”. E qui l’incubo di Gulliver si proietta nel futuro. Il primo sapiente che incontra presiede, con quaranta allievi, a un gigantesco macchinario simile ad un enorme telaio: “Tutti sanno, disse, che i metodi comunemente adottati per arrivare alle diverse nozioni scientifiche e ideali sono faticosi e difficili; col suo nuovo sistema, invece, anche un ignorante poteva scrivere libri di filosofia o di poesia, trattati di politica e di matematica, senza bisogno di speciale vocazione né di studio: bastava una modesta spesa e un piccolo sforzo muscolare.

Nello spiegarmi ciò, egli mi fece vedere il meccanismo intorno a cui stavano i suoi scolari. Il professore mi avvertì che stava per mettere in moto la macchina: a un suo cenno, infatti, ciascun allievo prese in mano un manubrio di ferro (ve ne sono quaranta fissati lungo il telaio). Essi, facendolo girare, cambiarono totalmente la disposizione dei dadi, e perciò delle parole corrispondenti. Allora il professore ordinò a trentasei dei suoi scolari di leggere fra sé le frasi che ne risultavano, via via che le parole apparivano sul telaio; e quando trovassero tre o quattro parole che avessero l’apparenza d’una frase, di dettarle agli altri quattro giovinetti, che facevano da segretari. Questo esercizio fu ripetuto diverse volte, e col successivo capovolgersi dei cubi sempre nuove parole e frasi comparivano sulla macchina. Gli scolari si dedicavano a tale occupazione per sei ore del giorno.

[…] Il professore mi fece vedere diversi volumi in folio pieni di frasi sconnesse ch’egli aveva raccolto e di cui pensava fare un estratto, ripromettendosi di cavar fuori da codesto materiale, il più ricco del mondo, una vera enciclopedia scientifica e artistica. Egli sperava che codesto suo lavoro, spinto con energia, avrebbe toccata la massima perfezione, a patto che la popolazione consentisse a fornire il denaro necessario per impiantare cinquecento consimili macchine in tutto il regno, e che i sovrintendenti dei vari istituti mettessero in comune le loro personali osservazioni.”

Il bersaglio neppure troppo mascherato della satira di Swift è qui la Royal Society, fondata settant’anni prima sul modello prefigurato da Francesco Bacone; ma più in generale è l’ideologia del progresso che va affermandosi in tutta la cultura europea sotto le specie dell’Illuminismo. Swift non è un antiscientifico né un oscurantista. Rifiuta però ogni dogma, e quindi anche quello illuminista secondo cui la scienza e la ragione porteranno inevitabilmente al progresso umano. Quando queste diventano fini a sé stesse, – ci dice – slegate dall’etica e dalla realtà, si trasformano in un’altra forma di superstizione. La satira di Laputa anticipa quindi la critica alla tecnocrazia e all’alienazione dell’intelligenza che attraverserà la modernità.

Con la macchina per produrre poesia o trattati filosofici e scientifici, siamo in presenza dei primi vagiti dell’Intelligenza Artificiale. Mi sembra significativo che i testi nascano da combinazioni di lettere, e poi di paragrafi, e così via. Queste combinazioni non sono propriamente casuali, seguono da un certo punto in poi una loro logica quantitativa di ricorrenza, ma non quella della pregnanza o della consequenzialità di un concetto. Non molto diversamente da quanto accade per i discorsi dei nostri politici o per le recensioni dei nostri critici letterari.

Di per sé, la selezione e memorizzazione di combinazioni dotate di senso a partire da una base di dati casuali è teoricamente possibile, anche se del tutto improbabile. Presuppone un algoritmo in grado di sondare per un tempo infinito una massa di dati altrettanto infinita. Swift sembra qui anticipare l’idea del teorema della scimmia instancabile di Borel, per il quale una scimmia che prema a caso i tasti di una tastiera per un tempo infinitamente lungo quasi certamente riuscirà a comporre qualsiasi testo prefissato, compresa la Divina Commedia. Solo che oltre che instancabile la scimmia dovrebbe essere anche immortale.

Ma forse aveva in mente un’invenzione molto più vicina al suo tempo, la calcolatrice meccanica progettata sessant’anni prima da Leibnitz, che azionata con una manovella avrebbe dovuto realizzare attraverso un sistema di ruote dentate ogni tipo di operazione matematica elementare. E soprattutto aveva presente il fiasco della presentazione di questa macchina alla Royal Society, che portò all’abbandono del progetto.

Passammo poi alla scuola delle lingue, dove tre professori discutevano insieme sul modo di perfezionare l’idioma del paese.

Il loro primo disegno era di rendere più conciso il discorso, riducendo tutti i polisillabi a monosillabi e sopprimendo i verbi e ogni altra parte del discorso, tranne i sostantivi: perché in realtà tutti gli oggetti di questo mondo si possono rappresentare con sostantivi.

I futuristi non hanno inventato nulla. Anzi, erano già stati ampiamente superati dal progetto di riforma laputiano.

Infatti: “Ma il sistema di riforma più radicale doveva consistere, secondo loro, nel fare a meno addirittura delle parole, con grande risparmio di tempo e beneficio per la salute; perché è chiaro che ogni parola da noi pronunziata corrode i nostri polmoni e li danneggia, accorciando così la nostra esistenza. Ora, siccome le parole sono in conclusione i nomi delle cose, costoro proponevano semplicemente che ognuno portasse seco tutti gli oggetti corrispondenti all’argomento delle varie discussioni. E la riforma sarebbe certamente stata adottata, con notevole vantaggio della salute e del comodo generale, se il popolaccio, e specialmente le donne, non avessero minacciato di fare addirittura la rivoluzione qualora fosse loro vietato di parlare nella solita lingua, come i loro antenati avevano fatto fin lì: tanto il volgo è costante e irreconciliabile nemico della scienza!

Tuttavia, il nuovo metodo era adoperato da alcuni dei più illuminati e dotti personaggi, i quali se ne trovavano benissimo. Il solo inconveniente s’affacciava quando costoro dovevano trattare di parecchi e complicati argomenti, perché in tal caso erano costretti a portare addosso dei pesi enormi; a meno che non potessero permettersi il lusso di mantenere un paio di robusti facchini per codesto ufficio. Più d’una volta ho osservato due di codesti scienziati, curvi sotto il peso del loro fardello, fermarsi in mezzo alla strada per conversare, posare in terra il sacco e slegarlo; poi, dopo un’ora di colloquio, aiutarsi reciprocamente a ripigliare il carico sulle spalle e riprendere il cammino.

S’intende che, mentre per i discorsi più comuni ciascuno portava indosso tutti gli oggetti necessari per farsi capire, in ogni casa v’era poi una provvista di molti altri oggetti; e nei locali dove si doveva tenere qualche adunanza di adepti della nuova lingua, si trovava ogni sorta di cose capaci di sopperire alla più complessa conversazione artificiale. E si noti che questo nuovo sistema aveva anche il sommo pregio d’essere universale, cioé di fornire un idioma comune a tutti i popoli civili, come sono loro comuni, press’a poco, tutti gli utensili e gli oggetti d’uso; né gli ambasciatori avrebbero avuto più bisogno, così, di studiare le lingue straniere per trattare coi principi e coi ministri degli altri paesi.”

Fantastico! Questa si chiama concretezza del linguaggio. Certo, funziona solo per la denotazione, e immagino che Heidegger per tenere le sue lezioni o conferenze avrebbe dovuto viaggiare con una carovana di muli. Ma a pensarci bene ci stiamo già avviando, a dispetto delle apparenze, proprio verso un uso essenzialmente denotativo (che è in fondo la condizione comunicativa e relazionale da cui siamo partiti). Il che potrebbe essere un bene per la sopravvivenza della specie, ci si capirebbe meglio, ma non lo è certo per la sua evoluzione.

E infine, Gulliver approda dove viene “concretamente” impartito il sapere sommo:

Visitai finalmente la scuola di matematica, in cui trovai un professore che adoperava, per l’istruzione dei suoi scolari, un metodo che in Europa nessuno sarebbe mai stato capace d’inventare. Ogni dimostrazione, proposizione o teorema veniva scritto sopra una piccola ostia, con uno speciale inchiostro di succo cefalico.

Lo studente inghiottiva l’ostia e stava digiuno tre giorni, nutrendosi solo d’un po’ di pane e acqua. Durante la digestione dell’ostia, il succo cefalico saliva al cervello e vi recava l’esercizio o il teorema desiderato.

Questo sistema non aveva dato, a quanto sentii riferire, risultati molto brillanti; ma ciò era dovuto solo al fatto d’essersi ingannati nel quantum, cioè nella dose del succo cerebrale; oppure anche al contegno maligno e ribelle degli scolari, i quali trovando nauseante il sapore dell’ostia, invece d’inghiottirla la sputavano da una parte, o dopo averla inghiottita la rivomitavano prima che potesse compiere il suo effetto, oppure anche non avevano la costanza di mantenere per tre giorni il regime d’astinenza necessario.”

Non sarà efficace, ma temo sia l’ultima possibilità che ci rimane. Magari aggiornando un po’ il sistema alle più recenti e sofisticate tecnologie: che so, inoculando ai nostri studenti per via endovena dei chips carichi di informazioni e di formule. Rimarrebbero degli asini comunque, ma almeno ci risparmieremmo i trucchi e le sceneggiate per copiare durante i compiti in classe e gli esami.

A questo punto sarà chiaro che Swift è tutto tranne un utopista. Semmai lo è al contrario. I quattro mondi in cui spedisce Gulliver sono il condensato di tutte le storture della società del suo tempo (e del nostro), e vengono esplorati seguendo lo schema perfettamente calibrato dei “mondi alla rovescia” (i lillipuziani sono un dodicesimo di Gulliver, i brobdingnaggiani sono dodici volte più grandi, in ossequio al modello duodecimale inglese: gli abitanti di Laputa sono tutto sommato degli asini irrazionali, mentre i cavalli che governano la Houyhnhnmland sono virtuosi e razionali, ma rigorosi sino alla crudeltà; e così via).

Alla fine I viaggi si rivelano essere un libello contro ogni fanatismo, che indica la via del buon senso comune non per fiducia nella natura umana ma anzi, per l’estrema sfiducia in una sua futura perfettibilità. Swift non crede nelle riforme né nelle rivoluzioni, e tantomeno in un nostalgico ritorno al passato. È un reazionario sui generis, che attacca tutti i pilastri della civiltà occidentale settecentesca, l’idea che la storia proceda verso il meglio, che la scienza porti verità, che la politica miri al bene comune; e ne ha ben donde: Come irlandese, sia pure protestante, e quindi appartenente alla classe dei dominatori, non può ignorare quanto è accaduto e quanto sta accadendo nella sua sfortunatissima isola, la miseria in cui vivono i suoi connazionali, il criminale disinteresse dell’amministrazione inglese, la corruzione che impera nelle istituzioni. Il suo pessimismo pesca però ancor più dal profondo, non nasce dalla situazione contingente in cui è immerso. Pensa che l’uomo sia intrinsecamente corrotto, ciò che in fondo pensava anche Kant, ma al contrario di quest’ultimo ritiene che ogni tentativo di riformarlo conduca al disastro o alla disumanizzazione. E qualche dubbio in proposito, se ci guardiamo attorno, riesce a sollevarlo.

Per quanto concerne poi le proiezioni sul futuro, occorre dire che malgrado il suo intento fosse di mettere alla berlina le fobie che angustiano i lapuziani (ad esempio, che la terra possa essere distrutta dalla coda di una cometa, o che il sole vada gradualmente esaurendo la sua energia) o l’assurdità dei loro progetti, paradossalmente in molti casi il nostro reverendo ci ha azzeccato. E non per un uso sfrenato della fantasia, ma perché evidentemente, a dispetto del suo sprezzo per le scienze e le tecnologie moderne, era anche molto informato. Ad esempio, attribuisce agli astronomi di Laputa la scoperta di due satelliti orbitanti attorno a Marte, scoperta che arrivò nella realtà solo un secolo e mezzo dopo la pubblicazione dei Viaggi. È molto probabile che Swift si rifacesse a una ipotesi già avanzata da Keplero, che a sua volta l’aveva formulata in base alla sua teoria che il numero dei satelliti del sistema solare segua una progressione geometrica. E addirittura, nell’indicarne le dimensioni e i tempi di percorrenza dell’orbita, applica proprio la terza legge di Keplero.

Persino quando satireggia i progetti più assurdi degli accademici di Lagado, quelli ad esempio del riciclo degli escrementi o dell’uso delle ragnatele in luogo della seta, non finisce molto lontano da quanto sta accadendo oggi. Per i primi al momento siamo ancora all’utilizzo per produrre non solo fertilizzanti, ma biometano, una fonte di energia rinnovabile: ma è presumibile che nei laboratori cinesi si stia già andando oltre. Quanto alle seconde, la seta di ragno, stanti le sue caratteristiche di eccezionale resistenza viene studiata per sviluppare materiali innovativi e ultrarobusti, da impiegare addirittura per i giubbotti antiproiettile. Solo l’esiguità della materia prima e la difficoltà di coltivare i ragni in allevamento impedisce oggi una produzione su larga scala, per cui si sta studiando di modificare geneticamente i bachi da seta, ibridandoli.

Questo significa che l’intenzione satirica non ha impedito a Swift di guardare avanti, sia pure con lucida e profonda angoscia. Non si è limitato a trattare come fantasie deliranti le promesse della tecnica, ma ha subodorato dove avrebbe potuto condurre il fanatismo che si stava sviluppando nei confronti di quest’ultima.

Del resto, una cosa simile ha fatto anche nella descrizione dei regimi politici e rapporti sociali vigenti negli altri stati che Gulliver visita. Ma lo scenario futurologico che più mi pare azzeccato rimane quello che vede i lapuziani ciondolare completamente rimbambiti per le strade dell’isola, seguiti dai “batacchiari”. È uno scenario che conosciamo benissimo: solo che anziché risucchiati dalle loro “profonde meditazioni” i moderni lapuziani lo sono dai monitor dei loro cellulari. E purtroppo non hanno batacchiatori a risvegliarli.

Ci sarebbe moltissimo altro da dire e da scoprire sul Gulliver: non vi si parla solo dei lillipuziani. Ma io non sono una scimmia instancabile, e il tempo che ho davanti è tutt’altro che infinito.

Per cui lascio a voi il piacere di farlo. Esistono ancora cose che possono riempirci intelligentemente la vita, e che spesso diamo troppo per scontate, mentre in realtà non le conosciamo affatto. Forse avremmo bisogno tutti quanti di “batacchiari” che ci facessero aprire ogni tanto gli occhi e rimettere in moto il cervello.

Esserci

(dalla Rappresentanza alla Rappresentazione)

di Paolo Repetto, 15 febbraio 2025

Ho avuto la percezione netta dello smottamento alla fine degli anni Settanta. Non che prima le cose andassero meglio, le tivù private erano nate a metà decennio e stavano già imponendo un nuovo “stile”, al quale la Rai era corsa immediatamente ad adeguarsi: ma tutto sommato la novità erano ancora i comici demenziali usciti del Bagaglino e un po’ di tette che davano fastidio a nessuno. Qualche avvisaglia c’era certamente già stata, ma all’epoca non avevo tempo da dedicare alla televisione, se non per gli incontri di boxe: quindi fui colto quasi alla sprovvista, e posso quasi citare anche la data della rivelazione.

Dell’accelerazione rovinosa mi accorsi assistendo a una delle prime puntate de Il processo del lunedì della gestione Biscardi, tra l’altro trasmessa su Rai3, l’emittente in forza alla sinistra. Ero allibito. Aldo Biscardi, che già di suo parlava un italiano a dir poco approssimativo e capiva una mazza di qualsivoglia argomento, aveva messo assieme una vera corte dei miracoli, nella quale tra pseudo-giornalisti ed ex-calciatori in bolletta gigioneggiavano personaggi assurdi come Maurizio Mosca, uno che su un campo di calcio non avrebbe avuto un ruolo nemmeno come raccattapalle. Non mi scandalizzava l’incompetenza, perché avendoci giocato sino a cinquant’anni sapevo benissimo che sul calcio non c’è nulla da sapere, da capire o da discutere, si tratta solo di mettere un pallone in rete o di non lasciarcelo finire, ma ero disgustato dalla beceraggine di tutto l’assieme, dai toni, dagli argomenti e dalle atmosfere da bettola d’angiporto, proposti su un medium nel quale un attimo primo erano passate notizie di guerre o di catastrofi, oppure rubriche di arte o di letteratura, o anche semplicemente qualche bel film o qualche documentario a tema storico. La cosa peggiore era che in quella trasmissione non circolava un filo di ironia, si prendevano tutti sul serio (come sogliono fare notoriamente gli imbecilli) e, ma questo l’ho scoperto dopo, venivano presi sul serio anche dalla sinistra più accorta, quella sempre un po’ più avanti, che plaudiva al fatto che finalmente si desse voce anche al più genuino “sentire popolare”, confondendo l’idiozia e la sguaiataggine con l’autenticità e la freschezza. In fondo, pensava, quei quattro bagonghi rompevano gli schemi seriosi e ingessati della televisione di regime, erano una ventata d’aria, magari puzzolente ma nuova.

Fu un tutt’uno: compresi allora che l’elogio di Franti tessuto da Umberto Eco e Fantozzi e il gossip confidenziale di Maurizio Costanzo non erano passati invano, c’era una logica che li legava, erano tanti cunei ribattuti nelle crepe della cultura occidentale aperte da due guerre e da tutto quel che c’era stato in mezzo. E compresi anche che quelle martellate non preludevano a una ripulitura e a un restauro (che non è una “restaurazione”, ma il riportare in vita quei motivi, quei colori, in definitiva quei valori originari che il tempo e le nequizie della storia hanno sporcato e deturpato), ma annunciavano la demolizione.

Da allora il degrado dell’etica, del gusto, del semplice buon senso non ha più avuto sosta: ogni volta che ho pensato si fosse toccato il fondo ho dovuto immediatamente ricredermi. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto di tutto: gabibbi chiamati a raddrizzare i torti e inviati “sul campo” bardati come mentecatti: filosofi di grido e indagatori della psiche ridotti a cumulare marchette nei talk show, senza il minimo pudore; intellettuali, artisti, politici, magistrati, sportivi, persino religiosi, in corsa a mendicare un passaggio televisivo per promuovere “eventi” o paccottiglia “d’ingegno”; uomini e donne di ogni età e condizione ansiosi di sputtanarsi in trasmissioni per cerebrolesi, in cambio di trenta secondi di visibilità.

I risultati li abbiamo di fronte: non è nemmeno più il caso di accendere la tivù per farsi un’idea del degrado. Basta girare per strada, origliare le conversazioni, quelle dal vivo e peggio quelle telefoniche, che vengono fatte condividere per un raggio di cinquanta metri, entrare in una scuola, sfogliare un quotidiano. Certamente però i media di massa rimangono il sensore più attendibile, non nel senso che ci raccontino il vero, ma, al contrario, perché del degrado sono il principale veicolo. Una trasmissione radiofonica come La Zanzara, ad esempio, giusto per fare riferimento alla manifestazione più recente di idiozia perversa nella quale mi sono imbattuto, dovrebbe essere usata come argomento di studio nelle facoltà di psicologia, di antropologia, di sociologia, per dare un taglio all’eterno dibattito sulla natura umana. Io non so se allo stato brado questa sia buona o cattiva, ma per certo è facilmente plasmabile da ogni input negativo, mentre non lo è altrettanto da quelli positivi. Se siamo stati modellati con la polvere, c’era qualcosa che non funzionava nell’impasto.

Comunque sia, credo valga la pena cercare di capire come milioni di anni di evoluzione ci abbiano regalato uno che si chiama come Paperino e ne ha la stessa consistenza cerebrale, ma si trova tra le mani le sorti del mondo. E che non ci è arrivato per via ereditaria, come accadeva un tempo, ma attraverso una ufficialmente libera competizione elettorale. È dura da spiegare, ma voglio provarci lo stesso, almeno a grandi linee e almeno per quanto riguarda la parte di cui sono stato un sempre più sconcertato spettatore.

Per parlare dell’oggi prendo spunto da un libro scritto sessanta anni fa, che fotografava la realtà sociale dell’epoca col teleobiettivo, ne coglieva gli sviluppi futuri e la incorniciava in una efficacissima definizione. Lo rispolvero non tanto per verificarne i riscontri, quanto piuttosto per constatare come nel frattempo l’interpretazione di quella (e quindi anche dell’attuale) realtà sia andata radicalmente cambiando. Devo dunque partire di lontano, sperando di non perdermi per strada.

Come è stata raccontata – Nel 1967 Guy Debord pubblicava La société du spectacle, (in italiano: La società dello spettacolo, De Donato, 1968, successivamente ritradotto e ristampato da Vallecchi, 1979, e ultimamente da Massari, 2002 e da Baldini-Castoldi, 2017). Debord era stato uno dei fondatori, dieci anni prima, dell’Internazionale Situazionista. (Per chi non conoscesse la vicenda del situazionismo, fornirò qualche riferimento in calce a questo intervento, allegando anche uno dei documenti di fondazione. Comunque anticipo che il situazionismo come inteso da Debord, da Asgen Jorn e da Raul Vaneigem aveva nulla a che vedere con i patetici sciamannati che da allora hanno nascosto dietro quella fortunata etichetta la propria presuntuosa inconsistenza).

Il libro arrivava al momento giusto – si era alla vigilia del Sessantotto. Conobbe anche una qualche notorietà (sia pure di seconda mano, perché era molto citato ma molto meno letto – in effetti era piuttosto noioso) e in particolare esercitò un forte influsso sul linguaggio immaginifico della contestazione. Debord vi sviluppava un’analisi della trasformazione che era in atto all’epoca nei rapporti sociali e nelle forme del dominio, ovvero della loro sempre più accentuata “spettacolarizzazione”: uno slittamento che aveva conosciuto un’accelerazione esponenziale con la comparsa della televisione, ma aveva preso avvio già nella prima metà del Novecento, con il cinema e con la radio. Non si limitava però a scandagliare il passato e il presente, profetizzava per questa trasformazione uno sbocco rivoluzionario: e lì la lucidità dell’analisi veniva meno, anche se non si può negare che in parte, almeno per quanto concerneva la deriva più immediata, quella precedente la rivoluzione informatica degli anni Novanta, i suoi pronostici fossero azzeccati.

Il testo di Debord si articola in una lunghissima sequenza di “tesi” (addirittura 221), e ha come modello formale quello del Manifesto del 1848. Esordisce così: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Enunciazione che rimane quanto mai vera oggi, anche se io farei risalire la tendenza a tradurre la vita in spettacolo molto più addietro, a tempi precedenti la cosiddetta “modernità”: direi piuttosto che il moderno “modo di produzione” l’ha solo spinta alle estreme conseguenze, ad un esito per il quale Debord può scrivere che “le necessità della produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come l’inversione della vita”.

Il nuovo manifesto prende l’avvio da dove Marx era arrivato, ovvero dall’alienazione prodotta dal capitalismo classico, che aveva indotto un passaggio di senso dell’esistenza “dall’essere all’avere”, e descrive l’ulteriore transizione ad un “capitalismo spettacolare”, quello che produce il passaggio “dall’avere all’apparire”. “La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”.

È accaduto insomma che la progressiva razionalizzazione dello sfruttamento, quella che il capitalismo moderno ha operato per esercitare un sempre maggiore controllo e mantenere gli sfruttati a margine del processo produttivo, nel ruolo di pura forza-lavoro, ha determinato una sovrabbondanza di beni (almeno nel mondo occidentale): ma questo non ha liberato né i popoli né gli individui dalla necessità, perché la sovrabbondanza è finalizzata al nuovo modello di accumulazione capitalistica, e non certo a venire incontro ai loro bisogni. Ha creato al contrario una necessità apparentemente meno immediata, ma più subdola, perché non potrà mai essere pienamente soddisfatta: la coazione al consumo. Il ciclo del controllo è stato quindi portato a compimento dal capitalismo contemporaneo sfruttando le masse non solo nella fase della produzione ma anche in quella del consumo, determinandone e falsificandone bisogni, aspettative, rapporti: penetrando insomma ogni aspetto dell’esistenza. (Come poi funzioni questa faccenda, perché insomma il capitale per accrescersi debba operare una sia pur molto contenuta redistribuzione, è apparentemente ovvio, ma i modi sono poi complessi da spiegare: ci hanno provato moltissimi economisti, arrivando a conclusioni diametralmente diverse. Io credo dipenda soprattutto da due fenomeni: la finanziarizzazione sempre più spinta – il prevalere del capitale finanziario su quello produttivo – e l’autonomizzazione della tecnica: cose di cui su questo sito si è già parlato, e sulle quali avrò ancora qui modo di tornare).

La totale dipendenza del produttore-consumatore è indotta dalla rappresentazione spettacolare che il capitale elabora di se stesso. I progressi tecnologici nel campo della produzione vanno infatti di conserva con quelli nella comunicazione – ma in questo caso sarebbe forse più corretto dire nella “persuasione”. Tanto meno un prodotto risponde ad una reale necessità, tanto più avrà bisogno di essere caricato di significati esterni che lo rendano desiderabile. I costi della sua promozione vengono naturalmente scaricati a valle, entrano quindi a far parte integrante del costo totale di produzione, mentre il marchio, la certificazione di qualità, promette al consumatore una ostentazione di esclusività e di capacità economiche. La comunicazione a questo punto non è più solo un mezzo, diventa un fine, e avviene in base a codici che sono elaborati tutti dall’offerente, e che vanno a ridisegnare le modalità dei rapporti tra gli individui. Nei paesi capitalisti si sta dunque configurando un modello sociale all’interno del quale gli individui sono ridotti a meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere. Queste immagini giustificano l’assetto di potere istituito e si sostituiscono completamente alla realtà. “Le nuove tecnologie della comunicazione spingono all’estremo il feticismo delle merci, la coazione al consumo, e soprattutto rimodulano il rapporto sociale fra gli individui, mediato dalle immagini”.

Il nuovo rapporto sociale è in realtà, secondo Debord, un non-rapporto. La messa in scena dello spettacolo presuppone, infatti, l’assenza di dialogo tra gli spettatori. Al consumatore non resta altro che ammirare, rimanendo nella passività assoluta, le immagini che altri hanno scelto per lui. L’individuo ha dunque esclusivamente il ruolo di “pubblico”, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. A parlare deve essere solo il potere. Gli individui risultano sempre più isolati nella folla atomizzata. “Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”.

In questo isolamento lo spettatore finisce per essere dominato dal flusso delle immagini, immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. O meglio: nel quale è vero ciò che chi governa lo spettacolo ha interesse a mostrare, mentre tutto ciò che non è stato creato o selezionato dal potere è falso, o non esiste.

Pertanto, nella misura in cui l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. Il consumatore non vive più esperienze dirette, ma si accontenta dei surrogati che lo spettacolo gli offre, e cerca di soddisfare quei bisogni, sia materiali che emozionali, che gli vengono artificialmente indotti. Diventa un consumatore di illusioni. Lo spettacolo è dunque il contrario della vita. Debord scrive “Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.

Molto all’ingrosso, questo è il succo della prima parte del saggio, quella dell’analisi: e direi che sin qui il discorso non fa una piega. D’altro canto, questa chiave di lettura della modernità e dei suoi esiti ultimi non arrivava del tutto nuova, e Debord stesso riconosce i suoi debiti. Si pone infatti come abbiamo visto in diretta continuità col marxismo (sia pure con un Marx liberato dai dogmatismi delle letture “ortodosse”, a partire da quella di Lenin), ma tra i suoi riferimenti vi sono anche Max Stirner, George Lucàks e i francofortesi (e io includerei Thornstein Weblen e Vance Packard, che tuttavia nel Sessantotto erano considerati “organici” al pensiero borghese, quindi poco spendibili – infatti non li cita mai). Il merito del libretto sta nell’aver raccolto e sistemato in una trama coerente tutti questi spunti, di averli attualizzati. E magari anche di avere intravisto le origini più remote del fenomeno, le cui prime avvisaglie fa risalire sino a Cervantes (e anche su questo tornerò).

Ciò che Debord metteva a fuoco sessant’anni fa oggi lo diamo per scontato, perché nella spettacolarizzazione viviamo immersi, è la nostra quotidianità: sul suo libro si è già depositata la patina del tempo, senza peraltro farne un piccolo classico del pensiero, ma al più un reperto documentale da esibire in occasione di future celebrazioni anniversarie o di festival del situazionismo. All’epoca invece l’analisi appariva, oltre che estremamente lucida, anche tempestiva, sviluppata in tempo utile per immaginare delle contromosse, per esorcizzare in qualche modo il fenomeno. Ed è proprio qui che Debord risulta datato: nell’idea che da questa coscienza potesse scaturire una qualche positiva reazione.

La seconda parte del nuovo manifesto è infatti dedicata alle strategie che Debord suggerisce per sottrarsi agli allettamenti della spettacolarizzazione. Non è il caso di elencarle tutte, ma direi che possono essere riassunte ed esemplificate nella pratica del détournement: ovvero del cambiamento di senso di tutto ciò che è espressione del potere, dell’inversione dei meccanismi della ricezione culturale, specialmente se legati alla comunicazione di massa, come la pubblicità o il fumetto, ma anche della modifica e della dissacrazione di oggetti estetici che da sempre orientano o dettano i canoni del gusto: “La libertà per esempio di trasformare la cattedrale di Chartres in luna-park, in labirinto, in campo di tiro, ecc.”.

Di primo acchito verrebbe da pensare che il suo invito sia stato raccolto. In fondo lo stravolgimento dei canoni estetici e dei messaggi, lo snaturamento di luoghi sacri o edifici storici, l’irrisione dei rituali, la falsificazione delle tradizioni, gli sberleffi alle istituzioni, tutto questo è già in atto da tempo. Il problema è che, appunto, lo “spiazzamento”, la “decostruzione”, il “disincanto” sono diventati la nuova normalità. Questa presunta “rivoluzione” continua ad essere gestita dal sistema stesso. Si può discutere se l’abbia anche innescata, senz’altro comunque se ne è appropriato, come è accaduto del resto per tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella inglese a quella francese, da quelle “nazionali” dell’Ottocento a quelle “sociali” del primo Novecento. È accaduto nel Sessantotto, quando la contestazione giovanile è stata pilotata a svecchiare il sistema e a reclutare nuove fasce di utenti al consumo; è accaduto l’altro ieri, col femminismo, continua ad accadere oggi coi vari movimenti di rivendicazione di identità sessuale.

Insomma, il rinnovato protagonismo auspicato da Debord si risolve in una provocazione sterile, totalmente autoreferenziale, quando non addirittura funzionale al sistema che professa di voler combattere. In linea con la presunzione di épater les bourgeois che dal Romanticismo in poi ha sempre animato ogni “avanguardia” intellettuale. D’altro canto il situazionismo nasce proprio nell’ambiente delle avanguardie artistiche, che con la prosa della realtà hanno in genere un rapporto piuttosto conflittuale, e alla spettacolarizzazione sono predisposte già di per sé. Debord non fa che riproporre in chiave più esplicitamente politica il “sabotaggio” predicato mezzo secolo prima dai surrealisti, da operarsi con gli spostamenti di senso e gli accostamenti paradossali. Ma un orinatoio esposto in un museo o i baffi sul volto della Gioconda non smuovono le coscienze: semmai le anestetizzano, irridono dei valori, decostruiscono dei codici, ma non ne propongono di alternativi. Debord sembra non aver capito che il sistema è un muro di spugna. Fagocita tutto quello che gli butti contro e te lo rigetta in forma di merce. Non a caso i surrealisti più famosi sono Magritte e Dalì, quelli che hanno disatteso i dettami “internazionalisti” di André Breton, mentre nessuno legge più le poesie di quest’ultimo. E non a caso le “avanguardie” del secolo scorso, dai futuristi appunto ai surrealisti, rivelano poi una inquietante consonanza coi totalitarismi.

Com’era –Il discorso a questo punto potrebbe sembrare chiuso: liquidati ormai tutti i sogni di una palingenesi che passi per la presa di coscienza collettiva, rimane solo l’illusione di un protagonismo individuale, sia pure effimero. E invece, proprio di qui potrebbe partire una riflessione non oziosa. Non so infatti se Debord fosse del tutto inconsapevole di quanto onnivoro sia il sistema: di quanto cioè egli stesso, con la fondazione del movimento situazionista, e tanto più con la pubblicazione del libro, si prestasse ad essere risucchiato nei meccanismi di quella rappresentazione sociale che voleva smascherare. Forse consapevole lo era, dal momento che già immediatamente dopo la contestazione sessantottina, durante la quale il movimento aveva conosciuto una particolare popolarità, disgustato dalla massa di aspiranti che professavano la loro adesione all’Internazionale senza averne minimamente capito il senso, dichiarò quest’ultima disciolta (definiva sprezzantemente i neo-adepti “i pro-situ”: lascio immaginare cosa potrebbe pensare degli odierni “post-situ”): ma rifiutava di accettarne le conseguenze, e si trastullava con l’idea che portando scompiglio nei modi della trasmissione culturale, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue” e di che trucchi e menzogne si nutra, si sarebbe aperta la strada ad un ribaltamento dell’assetto sociale.

Lungo tutto il saggio è fortissima la critica alla contemplazione: “Solo nell’attività l’uomo realizza se stesso, nel caso contrario non può esserci che alienazione”. Ma non è ben chiaro di quale attività si stia parlando: “Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di scuole, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente, ma simultaneamente.” Appunto, un gran casino. Ma non del tipo che Debord si sforzava di immaginare.

Se infatti l’analisi era centrata, non lo erano le prospettive future che l’autore ne inferiva. Certo, come abbiamo visto la “spettacolarizzazione” si è realizzata compiutamente, addirittura al di là di quanto ci si potesse attendere. Tutti sono diventati “produttori-consumatori”, in una filiera nella quale sotto molteplici spoglie il capitale tecno-finanziario gestisce i luoghi, i tempi e i mezzi di produzione delle merci, gli apparati per il loro spostamento, le cattedrali del loro consumo e i rituali per la loro consacrazione. E all’individuo continua ad essere riservato un ruolo passivo di contemplazione (quello dal quale il situazionismo avrebbe voluto riscattarlo), di consumatore delle merci e di una cultura e di una politica “spettacolarizzate”, ridotte a merce anch’esse.

Ma è accaduto anche qualcosa che Debord non aveva messo in conto. Non solo non c’è stata affatto quella reazione liberatoria che secondo il filosofo belga le masse e i singoli individui, una volta acquistata consapevolezza, avrebbero prodotto, ma al contrario le une e gli altri si sono totalmente integrati nella messa in scena, e hanno accolto l’invito all’azione e al ritorno al protagonismo in un senso esattamente contrario a quello da lui atteso. Hanno scelto di essere, ma non di essere consapevoli, quanto piuttosto di essere visibili. Di esserci, di essere riconosciuti (che è cosa ben diversa dall’essere conosciuti), e quindi di rappresentarsi. Si sono arresi ad un surrogato di protagonismo, ad una smodata e malata coazione ad apparire che rientra perfettamente nel disegno del sistema spettacolare.

Va detto onestamente che un detournement di questo tipo non era prevedibile. Nel ‘67 internet e gli smartphone e i social network erano di là da venire, la frontiera tecnologica più avanzata della comunicazione scritta erano la Lettera 22 e il ciclostile. Ma ora che abbiamo imparato a conoscere i media di ultima generazione, a usarli, ad avvertirne le dipendenze, dobbiamo prendere atto che hanno completamente stravolto il quadro. Con le nuove tecnologie l’inflazione multidimensionale di cui Debord parla si è tradotta in una polluzione multimediale, entro la quale tendenze, esperienze, “scuole” non si esprimono, ma si appiattiscono, si svuotano di senso e si perdono dentro un rumore di fondo indistinto.

Provo a riassumere. Nelle aspettative della sinistra movimentista la rete telematica avrebbe dovuto fornire a ciascuno un megafono, essere lo strumento di una partecipazione attiva all’esercizio della democrazia diretta, del controllo dal basso, della trasparenza, e consentire un libero accesso alla conoscenza. Nella realtà si è rivelata un ulteriore formidabile strumento di manipolazione e ha dato la stura al manifestarsi di un individualismo narcisistico e presuntuoso, che si nutre di like e dell’illusione di protagonismo, Se nella fase precedente non c’era alcun dialogo e gli occhi degli spettatori-consumatori erano puntati solo sul cinema messo in piedi dal sistema, ora l’isolamento è ancor più totale, perché il dialogo è in realtà solo un chiacchiericcio unidirezionale e l’attenzione si concentra soprattutto sulle immagini autoprodotte e su una patetica ricerca di “consenso”, che dia l’illusione di una qualche eco e di una qualche visibilità. Tutto ciò che transita sulla rete viene banalizzato, e anche i messaggi e gli inviti al risveglio lanciati in buona fede, persino quelli che sembrano momentaneamente conoscere un certo successo, sono risucchiati velocemente nel vuoto. Ne è riprova il caso delle proteste di massa dello scorso decennio, degli indignati e dei girotondini, delle primavere arabe e non, delle rivolte popolari che non si sono non mai tradotte in rivoluzioni durature, nonché dei passaggi nostrani di banchi di Sardine: milioni di persone hanno risposto simultaneamente, come si augurava Debord, agli appelli al cambiamento diffusi attraverso i network, ma una volta in piazza non sapevano più cosa dire e cosa fare, e nei casi più seri hanno finito per scatenare risposte ferocemente reazionarie.

Per capire come si sia arrivati a questa situazione è necessario comunque fare un passo indietro. Non è liquidabile come un rincoglionimento generalizzato (anche se ha tutte le caratteristiche), frutto di un qualche avvelenamento da piombo come si ipotizzava un tempo per la fine dell’impero romano, o dell’inquinamento atmosferico. Il fatto è che i nuovi media sono stati colonizzati immediatamente dal sistema, così come del resto era accaduto per quelli del passato, ma con effetti più diluiti e meno traumatici. Negli anni Novanta l’alleanza tra il neo-capitalismo digitale e quello finanziario ha prodotto un vero sconvolgimento, in primo luogo nell’economia, accelerando la globalizzazione e la concentrazione monopolistica. Le innovazioni portate dall’ industria high tech sono state sospinte ed enfatizzate con enormi iniezioni di capitali da una finanza in cerca costante di nuove opportunità di investimento. A loro volta le nuove tecnologie hanno velocizzato in maniera esponenziale le transazioni, creando di fatto un mercato finanziario unico, legittimandone le operazioni speculative più ardite e cancellando le regole e i contrappesi che sino a ieri lo avevano regolamentato. E soprattutto hanno “smaterializzato” il concetto stesso di capitale, un tempo legato ai frutti di imprese produttive, oggi a quelli di una attività puramente speculativa. La gran parte dei dirigenti delle grandi multinazionali non ha la minima idea di cosa producano le aziende di cui hanno il controllo, mentre è sintonizzata costantemente sugli algoritmi che ne monitorano le fluttuazioni di valore.

Gli effetti di questa trasformazione sono stati immediati. Intanto il ridimensionamento, in termini di occupati, degli apparati produttivi. In un mercato aperto e senza regole la competitività può essere mantenuta soltanto abbattendo i costi fissi di produzione: e dal momento che sulle altre componenti, materie prime ed energia, non ha il pieno controllo, il capitale interviene comprimendo l’occupazione, esternalizzando il più possibile le attività, spostandole in paesi nei quali il costo del lavoro è più basso o appaltandole ad aziende più piccole, nelle quali la forza contrattuale dei lavoratori è minima; o addirittura individualizzandole, tramite l’affidamento a lavoratori “indipendenti” che operano in regime di “libero mercato”. In quest’ultimo caso soprattutto, ma anche negli altri, sono appunto le tecnologie digitali a consentire un controllo costante e istantaneo.

Ma questa è una storia risaputa. Mi interessano piuttosto gli affetti sociali più eclatanti che questo terremoto economico ha prodotto.

Intanto la precarizzazione del lavoro, quindi il venir meno di quel riferimento fisso che nel bene o nel male informava le esistenze delle generazioni precedenti. Con conseguente insicurezza e perdita di ogni stimolo a progettarsi un futuro. Poi la dissoluzione di quei legami di solidarietà che il lavoro dipendente creava, e che diventavano anche occasioni di amicizie, di rapporti interpersonali effettivi, concreti. Quindi il progressivo isolamento dei singoli nel guscio individuale e il disinteresse nei confronti dei problemi collettivi.

Nel mentre procedeva a questa azione distruttiva l’alleanza tecno-finanziaria si premurava anche di fornirne una giustificazione. Il lavoro precarizzato e individualizzato è stato presentato come un’opportunità di democratizzazione dei nuovi modelli produttivi. In sostanza, il lavoratore verrebbe a godere di margini di libertà più ampi di quelli di cui godevano coloro che operavano nelle imprese fordiste.

A sostituire i rapporti sociali concreti maturati lavorando in azienda provvederebbe la stessa rete, ampliando a dismisura la possibilità di contatto con interlocutori sparsi in tutto il mondo, e consentendo di scegliere e selezionare entro uno spetto molto più ampio.

A questo tipo di rappresentazione fornito dal sistema corrisponde però una realtà molto diversa. L’autonomia di cui dovrebbero godere i nuovi produttori è smentita proprio dal controllo più stretto che le tecnologie digitali consentono, oltre che dalla dipendenza costante dai flussi verso i quali il capitale dirige i consumi. D’altra parte, l’isolamento degli individui non è affatto superabile attraverso un surrogato tecnologico di rapporto che di per sé, per quelli che sono gli aspetti essenziali della sua natura (velocità, appiattimento dei livelli, la modalità stessa della fruizione), prescinde da ogni effetto emozionale e al tempo stesso non si presta affatto a reggere un discorso ponderato e organizzato.

Ciò che effettivamente vediamo scaricato e circolante in rete sono piuttosto sfoghi insensati, urlati, patetici, quando va bene solo sterili; ed è tutto materiale funzionale allo spettacolo. Creano da un lato l’illusione di una appartenenza identitaria, di far parte di una comunità che sia pure solo virtualmente ti riconosce e sia pure solo attraverso gli emoji ti prende in considerazione, dall’altro quella di affermare una autonomia di pensiero e di giudizio all’interno del delirio di voci collettivo. Tutti si influenzano vicendevolmente, tutti parlano e straparlano, ma nessuno in realtà ascolta l’altro. Un brevissimo tour nell’inferno dei social ci offre una fotografia allucinante e allarmante della solitudine, del livore e dell’avvilimento che regnano in platea.

Ma non è tutto: utilizzando i dati forniti dalla coazione ad autorappresentarsi, il sistema è ormai in grado di andare oltre le proposte di consumo generalizzate, di elaborare per ciascuno delle risposte mirate. Non si fa a tempo ad esprimere un’opinione, una preferenza, un interesse o un dubbio che si è immediatamente inondati di offerte e proposte da parte del mercato (e di risposte o di insulti da parte degli altri utenti). È in fondo il modello Toyota, applicato ad ogni forma di produzione di merce.

Questo ci si doveva attendere. Il fatto che Debord non l’abbia previsto è comprensibile, mentre lo è molto meno l’ostinazione odierna della sinistra superstite a non prenderne atto.

Vorrei precisare che il difetto stava comunque già a monte, ben prima della comparsa dei social. Stava intanto nel continuare da parte della sinistra ad adottare criteri di analisi obsoleti; nel fare riferimento a categorie sociali, il proletariato in primis, assunte come se nulla fosse cambiato dai tempi della redazione del Capitale; nel continuare a leggere Marx come un profeta, e non come un economista che ragionava sui dati e sulla realtà del suo tempo; nel credere infine che il sistema sarebbe comunque rimasto ancorato al modello fordista. Debord almeno questo ultimo cambiamento lo aveva intuito.

C’era naturalmente anche l’abbaglio di fondo che ha condizionato tutti i messianismi, religiosi o secolari che fossero, e le utopie: il postulare una natura umana originariamente positiva, corrotta poi ed espulsa dall’Eden per la sua presunzione di dominio sulla natura, bisognosa soltanto di essere riscoperta e redenta. Paradossalmente, questa riappropriazione del sé dovrebbe passare attraverso un contradditorio iter di “rieducazione” alla libertà, di rifiuto di ogni condizionamento politico e sociale (che in occidente si esprime innanzitutto attraverso la critica della democrazia). Di fatto, si risolve nello scivolamento progressivo verso una centralità dei diritti individuali rispetto a quelli collettivi.

Com’è – È ora però di arrivare al dunque. Che non significa tirare delle conclusioni, perché la trasformazione sociale è velocissima e imprevedibile, e riserva ogni giorno nuove sorprese: si possono però fare almeno un paio di considerazioni.

Intanto penso di dover chiarire ulteriormente a cosa mi riferisco quando uso il termine “sistema”, perché dal significato che gli si dà dipende l’interpretazione di tutto quanto ho scritto finora. Io lo intendo come il risultato di un processo, sempre in divenire, messo in moto sin dai primordi dell’evoluzione della specie umana, quando quest’ultima si è trovata nella necessità di ricorrere al soccorso di tecniche per garantirsi la sopravvivenza (e per “tecniche” intendo tutto, secondo l’originale valenza etimologica, dall’uso di protesi e di strumenti materiali – per la difesa, per gli spostamenti, per la domesticazione della natura, ecc. – a quello di un pensiero e di un linguaggio complesso, e dei supporti – scrittura, stampa, ecc. – destinati a trasmetterlo). Col tempo quel supporto che era nato in funzione difensiva si è sviluppato in una direzione offensiva, ed è stato monopolizzato o comunque posto al proprio servizio da una piccola parte dell’umanità per soggiogare e sfruttare non solo la natura, ma la restante maggioranza di una popolazione o di intere altre popolazioni. Di qui la formazione delle classi sociali (sacerdoti, cavalieri, scribi, ecc.) e la sua cristallizzazione in dominanti e dominati, secondo un modello che ha continuato a funzionare così, pur con tutte le possibili varianti, per millenni. Poi sono arrivate la rivoluzione scientifica, e appresso quella industriale, e al seguito di questa quelle sociali, che hanno aperto in quel modello delle crepe.

Ma la rivoluzione profonda, quella che ha sparigliato del tutto le carte, è stata indotta dall’autonomizzazione della tecnica. Voglio dire che ad un certo punto il controllo di quest’ultima è sfuggito dalle mani delle stesse classi dominanti, perché si è innescato un meccanismo in base al quale l’innovazione tecnologica non è più governata in funzione della produzione o dell’accumulazione di capitale, ma è forzata da un processo “necessario” e autoreferenziale di accrescimento. Lo sviluppo della tecnica non è più finalizzato a scopi esterni, ma ad alimentare la capacità tecnica stessa. Un po’ quello che sembra destinato ad accadere in maniera eclatante con l’intelligenza artificiale, ma che già è accaduto ad esempio quasi tacitamente con la progressiva finanziarizzazione del capitale. Il sistema a questo punto non è più rappresentato dai colossi dell’industria o della finanza o del network, tutti protagonisti intercambiabili, e meno che mai dagli apparati politici al loro servizio: è come un enorme e complesso quadro elettrico dove si sono cumulati e intrecciati nel corso della storia innumerevoli fili di colore e diametro diverso, e interruttori e relè e inverter e altre apparecchiature e pulsantiere, che assorbe e distribuisce energia, ma del quale nessuno più è in grado né di individuare i dispositivi di accensione o di spegnimento né di ricordare le finalità del funzionamento.

Tutto questo ha potuto accadere per via della parcellizzazione e della specializzazione delle competenze e dei ruoli tecnici, a sua volta indotta dalle esigenze di strumenti e di modalità produttive (o accumulative) sempre più performanti. Per costruire una carriola erano sufficienti le competenze di mio nonno, per un’auto elettrica si assemblano quelle di migliaia di operatori, nessuno dei quali possiede un’idea complessiva del prodotto finale e a ciascuno dei quali si chiede solo di garantire e aumentare l’efficienza del proprio segmento. Ciascuno aggiunge un filo o un interruttore, e si preoccupa che all’interno di quello passi o si interrompa la corrente. La finalità unica del quadro pare ormai essere proprio quella di funzionare.

Il termine più adatto per definire questa situazione potrebbe essere “tecnocrazia”: ma anche qui, occorre intenderci sull’accezione in cui viene usato. Nel mio caso non mi riferisco a un “governo dei tecnici”, perché questa accezione suppone una “autonomia” di questi ultimi che di fatto non esiste, in quanto al momento è ancora il capitale finanziario a orientare e decidere le direzioni della ricerca e dello sviluppo, e i tecnici semmai rappresentano la componentistica più avanzata, ma sono essi stessi dei cavi o degli strumenti di trasmissione. Penso invece ad un “governo della tecnica”. Sono due cose decisamente diverse: un governo dei tecnici ha una dimensione ancora “umana”, è comunque uno strumento, che può essere piegato a finalità di sfruttamento o di egemonia, ma teoricamente potrebbe anche perseguire altre strade; un governo della tecnica, come dicevo sopra, prescinde da qualsiasi altra finalità che non sia la propria perpetuazione e il proprio sviluppo.

Può sembrare quindi prematuro definire quella attuale una “tecnocrazia”, perché ancora il processo non si è compiuto: ma siamo già molto avanti su questa strada, sulla via della totale autoreferenzialità tecnologica.

Su questo discorso si innesta quello della spettacolarizzazione. Il quadro-sistema è il teatro in cui tutti recitano una parte, alcuni da protagonisti, la maggioranza come semplici comparse, ma nessuno è insostituibile e nessuno ha davvero in mano la regia. A decidere su chi o su cosa puntare o spegnere i riflettori è il tecnico delle luci, come in questo caso potremmo definire la tecnica autoconsapevole, quello che fa sì che il tutto continui a funzionare, che le spie rimangano accese. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che oggi la scienza (e quindi la tecnica, che ne è l’applicazione) non guarda più a ciò che è utile fare, ma a tutto ciò che è possibile fare: che non è dunque più al servizio dell’uomo, ma di se stessa. Sembra stia parlando della saga di Terminator, ma se sostituiamo l’intelligenza artificiale guerriera che lì prende possesso del mondo in maniera violenta e crudele, e la sostituiamo con un’invadenza tecnologica strisciante, apparentemente ancora strumento e in realtà altrettanto determinata a diventare il fine, ci siamo già dentro. Fisicamente (io stesso ho già dovuto ricorrere a “ricambi” artificiali), ma soprattutto intellettualmente (la rete è già diventata un’indispensabile protesi della nostra memoria).

Non è un’immagine confortante, soprattutto se connessa a quella abusatissima (anche da me) di Kierkegaard, del teatro che sta andando in fiamme e degli spettatori che applaudono e se la ridono, ma è forse quella che meglio fotografa la realtà attuale.

Come se ne esce? Sinceramente, non ne ho la minima idea. Altri le idee le hanno, ma mi sembrano piuttosto confuse e contraddittorie, Per alcuni la soluzione verrà dalla tecnica stessa, che ad un certo punto, a sua stessa salvaguardia, attiverà un riduttore o un salvavita e rimetterà in ordine i fili. Altri prevedono un’operazione di autodifesa del capitale, che ha sensori acutissimi, e che davanti alla prospettiva di un generale collasso vorrà riformarsi secondo modalità più “sostenibili”. I nostalgici del marxismo continuano a sperare in un risveglio collettivo degli ultimi, che è improbabile quanto quello del capitale ed apre a scenari altrettanto foschi, e comunque nebulosi. Altri ancora, al contrario dei primi, ritengono che l’incombere della catastrofe ambientale stia già facendo maturare un rifiuto integrale della tecnica, e dunque del consumismo, e propugnano il ritorno ad una economia “a misura d’uomo”. Magari auspicando anche una drastica riduzione numerica della nostra specie, operata in questo caso dalla natura stessa coi suoi mezzi (dagli asteroidi alle epidemie). Insomma, l’impressione è che chi si pone il problema in termini realistici non possa augurarsi altro che un rallentamento della corsa al disastro, anziché una sospensione, e che negli animi si stia sottilmente insinuando la rassegnazione di fronte a ciò che appare ineluttabile. Non in tutti, per fortuna.

Non rassegnarsi non significa per me progettare migrazioni su Marte o continuare a vagheggiare rivolgimenti sociali sulla Terra, oppure ritirarsi a pascolar capre in montagna: significa molto più semplicemente continuare a fare quello che bene o male ho cercato di fare fino ad oggi: pensare, indagare, capire almeno come siamo arrivati alla condizione attuale, per vedere casomai una delle strade non scelte in passato potesse offrire qualche via di fuga. E lo scritto presente, nel suo piccolo, imponendomi di riflettere risponde a questo assunto.

Come sarà? – Cerco dunque di venirne a una, tornando finalmente al tema che avrebbe dovuto essere centrale. Ho parlato sin qui di due modalità di autorappresentazione, quella proposta dal sistema sul grande schermo del mondo e quella concessa nel formato selfie ai rimanenti otto miliardi di individui umani. Ora vorrei cercare di chiarire qual è il rapporto tra il trionfo della rappresentazione e il crescente rifiuto dell’istituto della rappresentanza. Che a questo punto mi sembra scontato. Ma andiamo con ordine.

La rappresentanza è uno dei cardini della democrazia occidentale, e di fronte all’attuale crisi di credibilità del sistema democratico è il primo ad essere messo in discussione. Lo si elenca tra i trucchi illusionistici imputati alla “modernità” per mascherare l’azione sempre più pervasiva del potere, anche se a ben vedere non è affatto un portato dell’età moderna. Delle modalità di delega erano già presenti infatti, per i ruoli più diversi e in ambiti di partecipazione più o meno ristretti, sin dalla nascita delle comunità umane (a dispetto di quanto sostenuto dai nostalgici dell’eden paleolitico, delle società “orizzontali” dei cacciatori-raccoglitori). E duemilacinquecento anni fa ad Atene erano già regolamentate secondo il modello vigente ancora oggi. Col tempo, con la crescita di istituzioni politiche di grandi dimensioni (per intenderci, con lo stato moderno), e soprattutto con i rivolgimenti sociali prodotti dal modo di produzione industriale, le forme della rappresentanza sono state più o meno uniformemente definite e universalmente accettate. Questo soprattutto in Occidente, e almeno fino a ieri.

Oggi non è più così. Nei confronti della democrazia rappresentativa crescono i dubbi e la disaffezione. E dal momento che non si conoscono modelli alternativi che abbiano funzionato meglio, la critica investe tutto il sistema di princìpi, valori, regole e procedure che caratterizzano le istituzioni democratiche nel loro complesso. Anche questi attacchi non sono una novità: nei secoli scorsi erano uno sport praticato principalmente dalle destre, legittimiste, populiste o tradizionaliste che fossero, e questo è comprensibile. Ma non meno ostile era l’atteggiamento delle sinistre più radicali, nelle loro svariate sfumature, ortodossamente marxiste, operaiste, consigliari, leniniste, anarchiche, che nel mirino hanno sempre avuto la “democrazia borghese”

La differenza sta nel fatto che quelle proponevano bene o male delle alternative, (anche se dove hanno potuto sperimentarle sono andate incontro a risultati tragici), dei progetti sociali definiti e strutturati, mentre il rifiuto espresso dal nuovo corso “movimentista” è tutto all’insegna dello spontaneismo, del culturalismo (le appartenenze identitarie non sono più quelle di classe, ma quelle di cultura o di genere), dell’“orizzontalismo” (quello che avrebbe dovuto passare per Internet). Ciò spiega l’incapacità di questi movimenti di coordinarsi e di adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Si tratta in sostanza di un velleitario miscuglio di ideologie ferocemente antigerarchiche e antistataliste, genericamente antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali o di gruppi specifici, che finisce poi paradossalmente per essere espressione più o meno cosciente della globalizzazione e per aggregare masse disorientate, il “volgo disperso che nome non ha”, attorno a leader carismatici.

Tutto questo meriterebbe però una trattazione specifica, che rimando a una prossima volta. Qui mi interessa invece mettere in luce come la narrazione in negativo della politica che prevale oggi non sia solo trasversale ai due vecchi schieramenti, ma li superi, perché è orchestrata appunto da quel “sistema post-politico” che ho identificato sopra. I temi, le argomentazioni e i modi della critica tradizionale sono ripresi e riproposti in una confezione patinata, che sfrutta la potenza e la duttilità dei nuovi strumenti mediatici lasciando parlare, per così dire, le evidenze. Quelle, naturalmente, che si prestano a screditare il modello democratico. Cosa ci raccontano infatti i notiziari, i talk show, le inchieste scandalistiche, ma anche i film, le serie televisive, gli spettacoli di satira, se non che il mondo della politica è un letamaio, che quello politico è uno sporco lavoro, che non c’è verso a giocare puliti e che occorre averci il minor contatto possibile se non vogliamo a nostra volta insozzarci?

Questa narrazione ha senz’altro buon gioco, perché per un funzionamento corretto della rappresentanza la delega dovrebbe essere conferita ad individui in possesso dei giusti requisiti, e nella realtà politica queste condizioni ideali non si verificano quasi mai – non è un problema di oggi, è sempre stato così. Sulle scelte influiscono infatti logiche di partito, condizionamenti economici, interessi più o meno occulti, che alla lunga falsano completamente le regole del gioco. Basti pensare ad esempio a ciò che accade negli Stati Uniti, dove l’enorme aumento dei costi delle campagne elettorali ha finito per riservare ai ricchi la competizione elettorale, tagliando fuori dalla possibilità di vedere rappresentati i propri interessi non solo le classi lavoratrici, ma anche le classi medie (per cui a questo punto è praticamente indifferente che vinca l’uno o l’altro candidato). Lì la cosa è più eclatante per le cifre spropositate che entrano in gioco, ma anche in Europa, pur senza arrivare a questi eccessi, la democrazia non sta molto meglio.  Ciò parrebbe in parte spiegare la disaffezione nei confronti della rappresentanza: in realtà spiega però solo quella nei confronti di coloro che deputiamo a rappresentarci, mentre oggi ad essere messo sotto accusa è proprio l’istituto politico.

Va altresì aggiunto che anche laddove una parvenza di senso le elezioni sembrano mantenerla, coloro che per onestà e competenza potrebbero essere più adeguati tendono a sottrarsi alla responsabilità, e non sempre per una scelta di comodo. In molti casi questo atteggiamento nasce dalle delusioni maturate nelle esperienze dirette, che inducono i più sensibili a ritirarsi nel loro guicciardiniano “particolare”.

Tutto, insomma, congiura a far prevalere l’idea che chi vuole preservare la sua dignità dovrà limitarsi alla resistenza passiva, alla difesa delle sue private libertà. E lasciare libero campo all’azione del sistema, rassegnandosi a vivere in una società post-democratica.

Questo avviene infatti mentre dietro le quinte dello spettacolo, nel mondo reale, aumenta in maniera esponenziale la distanza tra l’esigua minoranza dominante e il resto della popolazione, mentre è in atto lo smantellamento dello stato sociale, con la privatizzazione di una quota crescente di attività di assistenza, di cura, di controllo dell’ordine, di gestione del territorio e delle infrastrutture, tutte cose che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie. Quelle che erano le competenze degli stati sono trasferite ad agenzie transnazionali o a grandi aziende private che operano su scala planetaria, e le vecchie istituzioni politiche sopravvivono solo come facciate della gestione locale del capitale globale. E tutto ciò accade nella quasi totale indifferenza dei “sudditi”, la cui attenzione è stata frammentata e dirottata sui diritti individuali e sulle rivendicazioni identitarie, che sono impegnati a rappresentarsi e a gratificarsi reciprocamente sui social, e ai quali, disponendo di una tribuna teoricamente aperta sul mondo intero, di avere dei portavoce non importa più per niente. D’altro canto, che istanze dovrebbero rappresentare i delegati? quelle femministe, quelle ambientaliste, quelle pacifiste, quelle delle identità di genere o di cultura, e con quale tipo di mandato, e soprattutto, di fronte a chi?

Qui volevo arrivare. Il nuovo assetto sociale fa sì che venga meno anche la necessità di una finzione democratica, di un’ammortizzazione politica: democrazia e mercato, che bene o male avevano convissuto sino al secolo scorso, non viaggiano più di concerto. La prima non funziona nemmeno più da paravento, ha ceduto campo totalmente al secondo. Gli interessi del tecno-capitalismo globale, la sua nuova configurazione e gli strumenti di persuasione di cui dispone, gli consentono di governare direttamente le nostre vite, senza più bisogno di mediazioni politiche.

Questo, lo si voglia o no, è lo stato delle cose. Come si sarà capito, mi è difficile stabilire quanto sia frutto di un ben preciso progetto e quanto invece di un effetto a valanga, prodotto come dicevo sopra dall’autonomizzazione della tecnica, da una corsa di quest’ultima all’autorealizzazione che riesce per il momento perfettamente funzionale al capitale. Nel primo caso un’azione di contrasto dovrebbe essere eminentemente politica, e forse può essere ancora pensabile, nel secondo si tratta di mettere in discussione tutto un modello esistenziale, e qui davvero temo che le probabilità di sovvertire i pronostici infausti siano nulle. Rimanendo comunque al primo caso, sono convinto che l’azione politica non possa prescindere da una difesa e da una rivitalizzazione della democrazia. E che questa sia attuabile solo attraverso l’istituto della rappresentanza, senz’altro rivisto, purgato delle tante criticità, ridisegnato nei modi e nelle finalità: ma non ci sono alternative. Per come gli stati moderni sono configurati non si può pensare di saltare la rappresentanza per attuare una democrazia diretta: lo hanno dimostrato le recenti esperienze politiche dei “nuovi movimenti” che avevano come unico collante “l’indignazione”, l’insofferenza per i doveri, lo sprezzo per ogni tipo di istituzione – segnatamente di quelli che hanno avuto momentaneamente accesso al potere, come è accaduto in Italia per i grillini. Il rifiuto di un’organizzazione politica strutturata, la partecipazione digitale praticata con un click, ha creato in alcuni l’illusione che la democrazia potesse essere rivitalizzata semplicemente cambiandone le regole, in molti la presunzione di essere finalmente protagonisti e di farsi interpreti dei problemi del “paese reale”. Col risultato di consegnare il paese nelle mani di una combriccola incompetente e inconcludente, rissaiola, altrettanto disonesta e compromessa di quelle che avrebbe dovuto spazzare via, e di disamorare ulteriormente dalla partecipazione gli incerti e i delusi. Ha fatto cioè esattamente il gioco del sistema, ha recitato nel suo spettacolo.

Preferirei non assistere alle repliche.

Due postille

1)   Non vorrei che il mio approccio al tema della tecnica fosse confuso con quello dei vari Severino, Galimberti e, giù per li rami, Heidegger e Nietzsche. La differenza sta nel fatto che da costoro la tecnica è intesa come un male assoluto, il peccato originale che ha strappato l’umanità dal suo edenico rapporto con la natura, e ha indotto la nostra specie a contrapporsi alla natura stessa e a volerla dominare.

Ora, non c’è dubbio che la risposta adattiva della nostra specie alla propria particolare condizione di debolezza biologica sia finita sopra le righe, ma a mio giudizio questo rientra pienamente nella sua particolare natura. Si può anche pensare che l’uomo sia un tragico errore dell’evoluzione, ma è pur sempre frutto di un processo evolutivo, che nel suo caso ne è la continuazione “con altri mezzi”. La tecnica non è “innaturale” in sé, lo diventa semmai quando il suo controllo è volto a finalità che secondo il nostro metro morale risultano sbagliate. Non è espressione della pura “volontà di potenza” come pensa Heidegger, sulla scia di Nietzsche, o una fuga di fronte angoscia del divenire, del destino della mortalità, come la considera Severino. È una “necessità” evolutiva.

Insomma, dobbiamo capirci. L’uomo per sopravvivere ha bisogno della tecnica: su questo non ci piove. È una scimmia nuda: non ha una pelliccia né una corazza, non ha dentature potenti come le tigri o i coccodrilli, non ha zanne né artigli, non si difende e non attacca coi veleni. Non è attrezzato come tutti gli altri animali alla vita di natura, almeno a partire dal momento in cui lo consideriamo una specie separata dalle sue più affini. Quando questa separazione sia avvenuta più o meno l’abbiamo stabilito, ma non sappiamo né come né perché. Probabilmente i cambiamenti climatici hanno costretto una parte dei nostri cugini scimpanzé a uscire dalle foreste e li hanno gettati allo sbaraglio nelle savane. Comunque sia, per non sopravvivere precariamente solo come prede, gli esuli da quel momento hanno dovuto riadattare il loro fisico alla nuova situazione, e là dove la selezione non provvedeva hanno dovuto ingegnarsi con quello che l’ambiente offriva, pietre, ossa, bastoni, pelli degli animali uccisi. Farne delle protesi dei loro corpi. Sono diventati “umani”, e hanno cominciato a modificare con le loro attività l’ambiente stesso (caccia, raccolta, agricoltura, allevamento) e a plasmarlo progressivamente in un crescendo inarrestabile, a creare nuove forme di società e di rapporti, moltiplicandosi fino ad arrivare a coprire con la loro presenza ogni angolo della terra.

Tutto questo ad un certo punto ha travalicato la pura volontà di sopravvivenza. E qui sposo completamente la tesi esposta da Ortega y Gasset nella Meditación de la técnica (1939): “Senza la tecnica l’uomo non esisterebbe e non sarebbe mai esistito”. L’uomo, dice Ortega, sviluppa, proprio per le circostanze che deve affrontare, una “intelligenza tecnica”, idonea a individuare le relazioni tra i fenomeni che lo circondano. Oltre a fornirgli la basilare possibilità di sopravvivere, questa gli permette di immaginare molteplici possibilità esistenziali e di scegliere tra esse per costruirsi un programma di vita. La sua condotta non è quindi più casuale, ma intenzionale. Per poter realizzare questo programma, per poter “essere insomma quello che vorrebbe essere”, e quindi vivere bene, usa la sua ingegnosità tecnica per creare artifici e procurarsi strumenti che gli consentano di superare le difficoltà e gli allevino le fatiche. Compie delle azioni “tecniche” volte a modificare e a migliorare la natura che lo circonda, generando in tal modo una sovranatura, e adattando l’ambiente a se stesso. La tecnica non è infatti soltanto adeguamento dell’uomo alla Natura ma, viceversa, tende progressivamente a diventare adattamento del secondo termine al primo. “L’esistenza dell’uomo, il suo stare al mondo, non è uno stare passivo ma egli deve, necessariamente e costantemente, lottare contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere abiti nel mondo.

Bene. Anzi, male. Perché tutto questo funziona fino a quando l’uomo ha chiaro l’essere che vuole diventare: ma in caso contrario non può che maturare angoscia e disorientamento. E questa è la sua condizione attuale.

Cos’è accaduto allora (cosa è accaduto soprattutto nel frattempo, da quando quasi un secolo fa Ortega esponeva le sue Meditaciones: ma va ammesso che ciò che ancora non era così evidente il filosofo spagnolo ha saputo presagirlo)? È accaduto che gli sviluppi tecnologici hanno creato nell’uomo la sensazione di poter “essere tutto”: hanno moltiplicato esponenzialmente le sue possibili esistenze, ma proprio questa potenziale mancanza di limiti ha generato smarrimento, ha complicato sia l’individuazione che l’attuazione di un proprio progetto di vita, sino ad indurre all’assenza del desiderio o a perdersi dietro “pseudo-desideri, spettri di appetiti privi di sincerità e vigore”. L’uomo ha cominciato a riporre fiducia esclusivamente nella tecnica in quanto tale, addossandole anche la responsabilità creargli un senso. Dal canto suo il dominio della tecnica e della strumentazione scientifica, che orienta le nostre vite, quel senso invece lo nega, frammentandolo nella specializzazione e riducendo quei comportamenti che sono le caratteristiche costitutive della nostra identità a reazioni chimiche, elettriche o meccaniche (e questo per Ortega era uno dei prodomi della massificazione). “All’uomo è data l’astratta possibilità di esistere ma non gli è data la realtà. Questa se la deve conquistare, minuto dopo minuto: l’uomo, non solo economicamente ma anche metafisicamente, deve guadagnarsi da vivere”. Questo perché «l’essere umano e l’essere della natura non coincidono totalmente: dal “lato naturale” l’uomo risulta essere immerso nella natura circostanziale in cui i suoi processi naturali si attivano spontaneamente; la sua “parte extra-naturale” che “pretende di essere” ossia la sua personalità, il proprio io, necessita di costruzione, di cura ininterrotta e di attenzione».

Quindi: la tecnica è un beneficio nella misura in cui risponde alla sua funzione principale, ovvero, cambiamento ma soprattutto miglioramento della nostra situazione esistenziale. Il maggior rischio insito nella tecnica non è la produzione sterminata delle possibilità di vita che può offrirci; questa è una complicanza (il che non significa male assoluto) direttamente proporzionale alla sua grandezza. È invece l’uso improprio, il ricorso esasperato al suo aiuto per semplificarci la vita, che ce la semplifica ma solo nel senso che l’appiattisce, la omologa, la rende simile a tutte le altre, annichilendo la nostra identità. L’avanzamento tecnico, conclude Ortega, se fuori controllo, «indebolisce la forza dei centri riflessivi, semplifica e organizza razionalmente i rapporti umani. Potremmo essere vittime di un sistema tecnico che a sua volta corre un grave pericolo, quello “di sfuggirci dalle mani e scomparire in molto meno tempo di quanto potessimo immaginare”».

Riassumendo. La tecnica ha permesso all’essere umano di superare la sua ancestrale situazione di bisogno, di conquistare una libertà nei confronti delle determinazioni naturali della quale prima non godeva. Gli uomini hanno creato delle macchine moltiplicatrici della potenza, della velocità, della memoria, della conoscenza, le hanno usate per produrre o per distruggersi vicendevolmente, le hanno automatizzate e oggi con le nanotecnologie le hanno rese compatibili col nostro organismo, addirittura incorporabili. Tutto questo non l’hanno fatto le protesi, gli utensili, le strumentazioni, le macchine, lo hanno fatto gli uomini, e la tecnica è rimasta al loro servizio. Che poi ne abbiano fatto un buon uso o meno, è un altro discorso. Guardiamo al risultato: siamo più di otto miliardi. Dal punto di vista evolutivo, un incontestabile successo.

Fino ad oggi. L’evoluzione prevede infatti anche situazioni recessive. Anche queste le vanno messe in conto. Le specie che hanno esercitato sulla terra una eccessiva pressione si sono ridimensionate, o sono addirittura scomparse, e a questo non hanno provveduto solo i cataclismi o l’azione umana. I segni di una recessione di quella umana ci arrivano già dalle proiezioni sul calo demografico naturale a partire dalla metà di questo secolo (che potrebbe essere accelerato dalla natura stessa – epidemie, cambiamenti climatici – o dalla dissennatezza degli uomini – conflitti, carestie indotte). E sappiamo che anche là dove l’uomo ha inciso più profondamente e distruttivamente le tracce del suo passaggio la natura non impiega secoli per riprendere il sopravvento, ma pochi decenni.

C’è però un altro punto di vista da considerare: quello della essenza “umana”. Gli uomini non hanno bisogno della tecnica solo per sopravvivere. Hanno si trasformato il mondo per adeguarlo alle proprie aspirazioni, alla propria interiorità, per raggiungere i propri scopi, ma lo hanno fatto a costo di arrivare a dipendere totalmente dalle risorse tecniche. Le nuove necessità dell’uomo sono sempre meno determinate dalla sua natura e sempre più dallo stesso progresso tecnico-scientifico. La liberazione si è tradotta in una nuova forma di dipendenza.

Non è necessario insistere oltre su questo aspetto. Basta guardarci attorno. O riflettere su ciò che facciamo, sul tipo relazioni che viviamo. Ogni aspetto della nostra vita oggi è condizionato dalla tecnica, anche quando riteniamo di non essere “fuori controllo”. Può sembrare terribile, per molti versi lo è: ma l’ho già scritto sopra, non abbiamo alternative alla tecnica. Come scrive Ortega: “L’unica alternativa possibile all’uso delle macchine è quella di ritirarsi in se stessi e limitarsi a contemplare il mondo, rinunciando ai propri sogni e alle proprie aspirazioni per un futuro migliore”, e “vivendo in un continuo e vacuo sforzo di adattamento ai suoi (della tecnica) mutamenti”.

Questo non significa che non abbiamo alcuna possibilità di riprenderne almeno in parte il controllo, di sfruttarne positivamente i potenziali, di decidere se e quando cambiare marcia e svoltare. Significa che abbiamo una alternativa non all’uso, ma nell’uso.

Per darci un taglio, ed evitare di incartarmi ulteriormente, ricorro ad un esempio. Di fronte alla crescente digitalizzazione delle opportunità e delle competenze si parla del rischio di una “amnesia digitale”. Con questo si indica sia la precarietà dei contenuti, che possono andare dispersi per un qualsivoglia motivo, dall’attacco hacker all’incidente tecnico nel sistema, sia la perdita di competenze, la loro atrofizzazione, dal momento che l’operatività può essere demandata ai sistemi operanti sul web. Pensiamo alle mappe stradali, o alle calcolatrici sullo smartphone, o all’enorme deposito di conoscenze presente su Google. È chiaro che se ci affidiamo all’ausilio delle mappe digitali, che ci suggeriscono ogni svolta del nostro percorso, alla lunga perdiamo la capacità di orientarci autonomamente, di interrogare la segnaletica stradale, di affidarci al ricordo visivo. Lo stesso vale naturalmente se anziché ricorrere alle competenze di calcolo mi affido alla calcolatrice, o se per le mie ricerche consulto Google anziché faticare a rintracciare, a leggere e a comparare le fonti scritte.

È però da considerare un altro fatto: questo modo di procedere esige un investimento di tempo, di attenzione, di sforzo molto inferiore a quello classico. Se ci disabitua all’uso delle nostre facoltà, libera però anche molto spazio nel nostro cervello, che può essere riempito con altre conoscenze e competenze. È qui semmai che viene fuori il vero volto del problema: lo spazio liberato andrebbe riempito con conoscenze e competenze intelligenti, non col ciarpame. La responsabilità quindi non è della tecnica, che fino a questo punto ci offre una opportunità, ma nostra: siamo noi a dover decidere come utilizzare positivamente questi spazi. Il fatto che ciò non avvenga non può essere imputato all’invadenza degli strumenti, ma all’incapacità nostra di farne un uso sensato.

Quindi, lasciamo perdere le recriminazioni su come è andata a partire da Adamo ed Eva, o i vagheggiamenti di un’Arcadia presocratica desertificata dall’iper-razionalizzazione e dalle tecnologie. Abbiamo demandato alla tecnica la soluzione dei nostri problemi materiali, ci stiamo accingendo a demandarle anche il compito di pensare e decidere per nostro conto. È il momento di tracciare dei confini, e questo siamo ancora in grado di farlo: se non ci riusciremo come comunità umana, potremo comunque sempre volerlo come singoli. Non ci sono alibi.

Come vorrebbe dimostrare la postilla successiva.

2)  Ne La société du spectacle Debord indica tra i suoi riferimenti Cervantes, dandogli atto di aver precocemente intuito dove sarebbe andata a parare la “modernità”. E questo pur vivendo lo scrittore spagnolo in un paese che nel XVII secolo accusava un grave ritardo nella nascita di un capitalismo moderno. Nella seconda parte del Don Chisciotte attorno al “cavaliere dalla trista figura” viene infatti costruito un mondo artificioso, nel quale tutti recitano uno spettacolo ininterrotto, un po’ alla maniera del Truman Show. In questo caso lo spettacolo non è finalizzato come accade oggi a realizzare un dominio economico e psicologico totale, risponde semplicemente alla maligna voglia di divertimento del duca e della duchessa d’Aragona; ma si tratta comunque di una rappresentazione ingannevole, nella quale tutti hanno una loro parte, e che finisce per far perdere il senso della realtà anche a chi l’ha inscenata. Mano a mano che l’inganno si complica e richiede una partecipazione sempre più allargata ci accorgiamo che i primi a crederci sono proprio coloro che lo ordiscono, nel senso almeno che nello sbeffeggiamento della loro vittima cercano un riscatto, qualcosa che dia un surrogato di senso alle loro vuote esistenze.

L’ultima rilettura del romanzo mi ha rafforzato nel convincimento che avevo già maturato sessant’anni fa, al primo incontro: il cavaliere sarà un pazzo, almeno in base ai criteri di normalità che vigevano all’epoca e vigono tutt’oggi, ma non è un idiota. Attraversa tutte le sue disavventure consapevole di vivere nell’illusione, ma preferisce quella eroica che lui stesso si è scelta a quella squallidamente prosaica nella quale gli altri pretenderebbero di confinarlo. Lo dice chiaramente nel suo testamento: “Ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest’alta e nuova impresa”. Ma non è l’unico ad avere questa consapevolezza: poco alla volta la sua determinazione scuote anche l’ignavia di Sancho Panza, e apre gli occhi a Sansone Carrasco, lo studente di Salamanca suo amico-avversario, che così lo ricorda dopo la morte: “Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò, / e che pure nella morte / la sua vita trionfò. / Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura; / fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto”.

L’hidalgo non ha combattuto e vissuto invano.

Appendice

Informazioni più dettagliate sul situazionismo si possono trovare cliccando la voce su Wikipedia, e magari andando poi a confrontarle con quelle presenti su altri siti (ad esempio, su quello della Treccani, su Situazionismo.it, su Anarcopedia, ecc …) o in blog come Doppiozero e Carmilla; oppure consultando direttamente volumi come “AA VV, Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998”, o “Mario Perniola, I situazionisti, Castelvecchi, 2005”, e “L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013”.

È difficile dare un’idea dell’impatto reale che il situazionismo ha avuto sul pensiero alternativo del secondo novecento. Nato nell’ambiente delle avanguardie artistiche, il movimento si è poi spostato progressivamente sul terreno della critica rivoluzionaria, andando incontro nel frattempo a diverse scissioni (chi ha vissuto gli anni attorno al Sessantotto sa di cosa parlo) e prestandosi alle più svariate riletture. Gli va comunque riconosciuto di aver portato nella sinistra una ventata di rinnovamento, mettendo a nudo i ritardi e le miopie dei partiti tradizionali e la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni in atto nel secondo dopoguerra.

Aggiungo solo un personalissimo ricordo di uno degli autori qui citati, Mario Perniola, una delle persone più aperte, intelligenti e disponibili che io abbia mai conosciuto, a dispetto di una non sempre totale convergenza delle nostre opinioni. Lo cito perché, a differenza di troppi altri cialtroni incontrati dentro e fuori del mondo accademico, mi ha regalato, col suo solo modo di essere, una straordinaria lezione di vita.

 “Manifesto”, redazionale del 17 maggio 1960, I.S. n. 4, Giugno 1960

Una nuova forza umana, che il quadro esistente non potrà soggiogare, si accresce di giorno in giorno con l’irresistibile sviluppo tecnico e l’insoddisfazione per i suoi impieghi possibili nella nostra vita sociale privata di senso. L’alienazione e l’oppressione nella società non possono venire pianificate in nessuna delle loro varianti, ma solo rigettate in blocco con questa stessa società. Ogni progresso reale è evidentemente sospeso alla soluzione rivoluzionaria della multiforme crisi del presente.

Quali sono le prospettive d’organizzazione della vita in una società che, autenticamente, “riorganizzerà la produzione sulle basi di una associazione libera ed uguale dei produttori”? L’automazione della produzione e la socializzazione dei beni vitali ridurranno sempre di più il lavoro come necessità esterna, e daranno infine la libertà completa all’individuo. Liberato così da ogni responsabilità economica, liberato da tutti i suoi debiti e le sue colpe verso il passato e gli altri, l’uomo avrà a disposizione un nuovo plusvalore, incalcolabile in denaro perché impossibile da ridurre a misura del lavoro salariato: il valore del gioco, della vita liberamente costruita.

L’esercizio di questa creazione ludica è la garanzia della libertà di ognuno e di tutti, nel quadro della sola uguaglianza garantita con il non sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La liberazione del gioco, è la sua autonomia creativa, che supera l’antica divisione tra il lavoro imposto e i divertimenti passivi. La Chiesa ha bruciato un tempo le cosiddette streghe per reprimere le tendenze ludiche primitive conservate nelle feste popolari. Nella società attualmente dominante, che produce in maniera massiccia degli squallidi pseudo-giochi di non partecipazione, una vera e propria attività artistica è classificata necessariamente come criminalità. È semiclandestina. Si presenta come fatto scandaloso.

Cos’è, in effetti, la situazione? È la realizzazione di un gioco superiore, con più esattezza, è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana. I giocatori rivoluzionari di tutti i paesi possono unirsi nell’I.S. per cominciare ad uscire dalla preistoria della vita quotidiana. Proponiamo fin d’ora un’organizzazione autonoma dei produttori della nuova cultura, indipendente dalle organizzazioni politiche e sindacali che esistono in questo momento, poiché non riconosciamo loro la capacità di organizzare nient’altro che il riassetto dell’esistente.

L’obiettivo più urgente che fissiamo per questa organizzazione, dal momento in cui esce dalla sua fase sperimentale iniziale per una prima campagna pubblica, è la presa dell’UNESCO. La burocratizzazione, unificata su scala mondiale, dell’arte e di tutta la cultura è un fenomeno nuovo che esprime la profonda affinità dei sistemi sociali coesistenti nel mondo, sulla base della conservazione eclettica e della riproduzione del passato. La risposta degli artisti rivoluzionari a queste nuove condizioni deve essere un tipo nuovo di azione. Siccome l’esistenza stessa di questa concentrazione direttoriale della cultura, localizzata in un solo edificio, favorisce la conquista con un putsch; e siccome l’istituzione è del tutto sprovvista della possibilità di un uso sensato al di fuori della nostra prospettiva sovversiva, ci troviamo giustificati, di fronte ai nostri contemporanei, se ci impossessiamo di questo apparato. E l’avremo. Siamo determinati ad impadronirci dell’UNESCO, anche se per poco tempo, perché siamo sicuri di fare all’istante un’opera che resterà tra le più significative per illuminare un lungo periodo di rivendicazioni.

Quali dovranno essere i caratteri principali della nuova cultura, prima di tutto in rapporto all’arte del passato?

Contro lo spettacolo, la cultura situazionista realizzata introduce la partecipazione sociale.

Contro l’arte conservata, è un’organizzazione del momento vissuto, direttamente.

Contro l’arte parcellare, sarà una pratica globale basata contemporaneamente su tutti gli elementi utilizzabili. Tende naturalmente ad una produzione collettiva e senza dubbio anonima (almeno nella misura in cui, non essendo le opere immagazzinate in merci, questa cultura non sarà governata dal bisogno di lasciare delle tracce). Le sue esperienze si propongono, come minimo, una rivoluzione del comportamento ed un urbanismo unitario dinamico, suscettibile di essere esteso all’intero pianeta, e di essere poi diffuso su tutti i pianeti abitabili.

Contro l’arte unilaterale, la cultura situazionista sarà un’arte del dialogo, un’arte dell’interazione. Gli artisti — con tutta la cultura visibile — si sono separati del tutto dalla società, come sono separati tra loro dalla concorrenza. Ma anche prima di questa impasse del capitalismo, l’arte era essenzialmente unilaterale, senza risposta. Essa supererà questo periodo chiuso del suo primitivismo a favore di una comunicazione completa.

Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di “scuole”, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente ma simultaneamente. Inauguriamo ora quello che sarà, storicamente, l’ultimo dei mestieri. Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno «artisti», in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la costruzione della loro vita. Tuttavia, l’ultimo mestiere della storia è così vicino alla società senza divisione permanente del lavoro, che non gli si riconosce la qualifica di mestiere quando fa la sua apparizione nell’I.S. A quelli che non ci comprendessero bene, diciamo con un irriducibile disprezzo: “I situazionisti, di cui vi credete forse i giudici, vi giudicheranno un giorno o l’altro. Vi aspettiamo alla svolta, che è la liquidazione inevitabile del mondo della privazione, sotto tutte le forme. Questi sono i nostri fini, e saranno i fini futuri dell’umanità”.

L’origine del progresso

di Paolo Repetto, 8 marzo 2021

Come anticipavo ne “Gli orfani del progresso”, allego quella che avrebbe dovuto essere la parte introduttiva di uno studio piuttosto ambizioso sull’argomento, concepito una quarantina d’anni fa a margine di una serie di conferenze e poi mai decollato, proprio per l’eccesso di ambizione. Del progetto sono rimasti solo questa introduzione, l’unica parte in qualche misura sviluppata, e un cumulo di appunti nei quali farei oggi una gran fatica ad orientarmi. Ripropongo questo scritto, sia pure incompleto e ancora a livello di bozza, perché strettamente inerente il tema trattato sopra, e perché trovo ancora pienamente condivisibili le considerazioni sviluppate all’epoca.

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Le magnifiche sorti e progressive

Origini, apogeo e declino dell’idea di progresso

La nostra Zivilization è caratterizzata dalla parola “progresso”. Il progresso è la sua forma, non una delle sue proprietà, quella di progredire. Essa è tipicamente costruttiva. La sua proprietà consiste nell’erigere una struttura sempre più complessa.
Ludwig Wittgenstein

 

Premessa

Tra tutte le civiltà, quella occidentale è la sola a coltivare le nozioni di una libertà individuale e di un progresso morale direttamente connessi, secondo la sua etica, al continuo perfezionamento delle tecniche di manipolazione e di dominio della natura. Proprio da queste nozioni l’Occidente ha tratto la sua potenza e la giustificazione della sua conquista del mondo, realizzata talvolta con la violenza e sempre, comunque, con la negazione di tutti i valori diversi dai propri che ha incontrato sulla sua strada.” (Gilles Lapouge)

La civiltà occidentale pone dunque il problema della sua unicità. È il problema che mi sono prefisso di affrontare in questa nuova serie di conversazioni e che cercherò di presentare da svariate angolazioni. Quella indicata da Lapouge costituisce il tema dell’incontro odierno. In sostanza porrò la questione in questi termini: qual è l’origine del movimento interno che anima l’occidente e lo spinge a modellare il mondo a sua immagine?

Io ritengo che le origini dell’ideologia che ha segnato la differenza della civiltà occidentale, e che noi riassumiamo nella nozione di “progresso”, vadano rintracciate in entrambe le culture delle quali essa è debitrice, quella giudaico-cristiana e quella classica. Credo anche che il fattore chiave per la nascita e l’affermazione di tale idea risieda in una particolare intuizione del tempo. Sono convinto infine che questa concezione, e il quadro complessivo di valori da essa determinato, pur essendo maturati nel corso di almeno due millenni, si siano affermati soltanto negli ultimi tre secoli.

So di non dire nulla di nuovo: c’è una fittissima bibliografia a dimostrare che queste tesi sono ormai acquisite. Ma temo si tratti di un’acquisizione in realtà ben poco diffusa al di fuori dell’ambito filosofico, o diffusa ad un livello solo superficiale. Nel corso della conversazione odierna cercherò dunque di giustificare nella maniera più chiara e più semplice, compatibilmente con l’argomento, i miei assunti, delineando brevemente la parabola dell’idea di progresso, rintracciando le matrici di quest’ultima, cogliendone l’apogeo e cercando di individuare le ragioni del suo recente declino. L’intento è quello di evidenziare un percorso intellegibile e conseguente dalla prospettiva soteriologica, cioè dall’attesa di salvezza, alla volontà di realizzazione qui ed ora della stessa, e di mostrare come una particolare concezione del tempo abbia condizionato negli ultimi tre secoli tutti gli atteggiamenti politici ed economici, etici e sociali, pubblici e privati dell’occidente.

Nel farlo utilizzerò un approccio che definirei attinente la “storia delle idee”, qualcosa per intenderci che non ambisce né alla dignità filosofica né al rigore scientifico, ma procede per quelli che Carlo Ginsburg ha definito “paradigmi indiziari”: questo dovrebbe ad un tempo giustificarne le modalità e delimitarne le finalità.

È possibile, con un approccio di questo genere, non esprimere giudizi di valore sul tema in oggetto, ovvero sulla nozione di progresso? Non lo so, ma vorrei provare a farlo, limitandomi ad indagare come essa nasce e dove conduce. Se qualche giudizio apparirà implicito, vorrà dire che non sarò stato sufficientemente bravo a trattare la nozione di progresso come una delle tante, al pari di quella di provvidenza, di fato, ecc…, che hanno caratterizzato e differenziato le diverse civiltà.

0.

Dal momento che il tema di questa conversazione riprende e sviluppa quello del seminario precedente (Da Pico a Bacone. Le origini umanistiche della mentalità scientifica), è forse opportuno riassumere per sommi capi le conclusioni cui ero già pervenuto. In quella sede mi ero concentrato sui cambiamenti che avevano interessato la mentalità occidentale tra il XV e il XVI secolo, preparando la strada alla rivoluzione scientifica. Avevo sostenuto la tesi che il mutamento dell’attitudine gnoseologica non è semplicemente la conseguenza delle innovazioni economiche e sociali maturate nel corso di tutto il medioevo, ma piuttosto una precondizione, che accoglie e sintetizza questi fattori in un grande movimento di trasformazione. Avevo inoltre affermato che questa trasformazione non prescinde dal pensiero religioso della cristianità, ma ne porta alle estreme conseguenze taluni aspetti mistici e messianici, trasferendo sulla terra quell’aspettativa di salvezza che in precedenza era rivolta al cielo. Mi ero soprattutto soffermato sulle modalità di conoscenza della natura, sulla posizione che viene assunta nei confronti del mondo materiale, posizione che irradia peraltro le sue conseguenze sulle concezioni artistiche, letterarie, politiche, oltre che scientifiche. In sostanza, avevo colto nell’attitudine giudaico-cristiana, che riprende e fa propri taluni aspetti della filosofia greca, l’origine di una diversa concezione della natura, e nel suo affermarsi progressivo verso la fine del medioevo la condizione per il passaggio alla nuova mentalità.

Il quadro che avevo cercato di delineare era pressappoco il seguente:

  • Il presupposto teorico per l’avvento della rivoluzione scientifica è in sostanza il passaggio dall’aristotelismo medioevale al platonismo umanistico. L’aristotelismo è teoria della conoscenza come esperienza: si conosce quello che si esperisce attraverso la sensazione, e la conoscenza è una somma di dati sensoriali. Si disvela il mondo nella sua variabilità infinita, nella sua disomogeneità, e il tutto è tenuto assieme da un contenitore superiore, che è l’imperscrutabile volontà divina. Non ci sono leggi, in questo senso, non c’è serialità; al più c’è una ripetizione (i cicli naturali), che è mossa però da norme esterne, superiori, e non da un principio interiore.

Il platonismo è invece possibilità di conoscenza dei principi generali (l’eidòn). Il mondo delle idee è il mondo delle forme soggiacenti all’apparente disordine di superficie, è l’ordine nascosto in funzione del quale si manifestano i fenomeni. Nella sua accezione umanistica, che è filtrata attraverso il neo-platonismo e contaminata con l’ermetismo e la qabbalah, quest’ordine non è semplicemente un pallido riflesso della trascendenza, di quello ideale, ma è immanente alla natura e al mondo. In più, il platonismo umanistico è fortemente ibridato anche con l’aristotelismo, del quale conserva la validità dell’apparato sensoriale di raccolta dei dati. Quello che cambia è lo schema entro il quale sistemarli, e conseguentemente la finalità stessa della raccolta (ovvero, l’atteggiamento performante).

  • Una volta accettata l’idea dell’esistenza di quest’ordine – il che avviene anche in conseguenza dello spostamento dell’osservazione dalla terra al cielo (la rivoluzione astronomica) – la tentazione di decifrarlo procede automatica. Penetrare i misteri della natura, invece di limitarsi a descriverne i comportamenti fenomenici, è già spirito scientifico. Questo spirito si manifesta dapprima nel tentativo di cogliere la forza vitale, attiva, che muove dall’interno il creato (Telesio e i filosofi della natura). Dio è già allontanato, non è più presente costantemente, ma è inteso come un creatore che ha dotato la propria creazione di forza autonoma, e alcuni degli esseri creati della capacità di riflettere sugli accadimenti (naturali e storici), di ricondurli ad un piano o ad un disegno e infine di assumere il controllo del piano stesso (dalla magia, nella quale il controllo si attua con strumenti naturali, alla scienza, nella quale invece il controllo è esercitato attraverso strumenti “artificiali”).
  • Questa direzione, quella che vuole penetrare l’essenza per mettersi in sintonia totale con la natura, è quella percorsa lungo tutto il ‘500, fino a Giordano Bruno, dalla “magia naturalis”. In pratica si tratta di trovare le leggi intime della composizione e del divenire delle cose per accordarsi pienamente ad esse. Da Bacone in poi, invece, prevale un’altra direzione, anch’essa originata dal platonismo, che mira ad elaborare criteri funzionali di lettura dei fenomeni (le “leggi” scientifiche), quindi a creare parametri convenzionali, artificiali, che consentano di introdurre (e non di rinvenire) un ordine nel caos del reale.

In altre parole: assumendo quella che nel platonismo era considerata la forma perfetta di conoscenza (o la conoscenza delle forme perfette), quella matematica, si cerca di ricondurre a termini matematici la possibilità di conoscenza del mondo (ordine, pondere et mensura). Solo una conoscenza matematizzata, nella quale le cose siano numeri e grandezze e i fenomeni siano combinazioni di queste, ovvero operazioni, può diventare previsionale, e quindi operativa. Questo tipo di conoscenza si attua col passaggio dalla esperienza diretta della natura all’esperimento, cioè all’accadimento artificialmente riprodotto in laboratorio, in presenza di condizioni ambientali (spazio-tempo in primis) che rendono possibile la comparabilità. Le differenze di comportamento dei fenomeni debbono essere valutate sulla base di uno standard che non è intrinseco ai fenomeni stessi, ma è dettato convenzionalmente da chi li studia e li riproduce sulla base delle sue possibilità, delle intenzionalità di ricerca, della ricaduta pratica alla quale si punta. Dalla scienza naturale si passa quindi alla scienza sperimentale, che si dota di un metodo (Cartesio), di una strumentazione e soprattutto di un progetto (cioè di una direzione, di un senso).

Il passaggio cruciale si attua appunto con Galileo e Cartesio. Il primo impone definitivamente la lettura matematizzata e quantitativa della natura (“provando e riprovando”: la verità scaturisce dalla possibilità di ripetere infinite volte l’esperienza standardizzata in laboratorio), anche se ancora ritiene che le leggi siano intrinseche alla natura; il secondo fornisce letteralmente, rendendo la geometria suscettibile di analisi mediante l’algebra, le coordinate per una lettura matematica degli oggetti.

Perché prevale questo atteggiamento, rispetto ad esempio a quello di un Bruno, o di un Campanella? Perché di fronte alla liquidazione di tutte le certezze geografiche, astronomiche, religiose e politiche prodotta dal Cinquecento, e alla necessità di affrontare un mondo che si rivela del tutto ignoto, che non appare di per sé razionale e non è fatto di numeri e di misure, l’uomo prova paura. La summa di questo nuovo atteggiamento si attuerà poi nella fisica di Newton, che reggerà fino alla critica kantiana. Solo Kant chiarirà che “l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive a questa”.

In questo contesto compariva più volte, sia pure sullo sfondo, l’idea di progresso; prendeva forma cioè la coscienza, dapprima sfocata e poi, a partire da Bacone, sempre più nitida, del potenziale di miglioramento spirituale e materiale di cui l’umanità disponeva e dell’anelito ad una redenzione terrena che la animava. Si trattava però di una nozione confusa, ancora debitrice per la gran parte delle aspettative escatologiche, e dalla quale era assente la dimensione entro cui soltanto può esplicarsi l’idealità del progresso, quella storica. Quella della fede nel progresso è dunque una vicenda nuova, che ha se vogliamo un sacco di precursori ma che va letta a partire da un momento ben preciso, nel quale diventa decisiva. Il che ci impone di chiarire cosa implica questa nozione, prima di andare a indagare da dove nasce e come si sviluppa.

 

1.

L’idea del progresso umano nasce da un’interpretazione storica del passato – cioè dalla sua lettura secondo uno schema di continuità – che viene proiettata ad individuare una tendenza del futuro, e contemporaneamente dall’assunzione di questo futuro come campo non predeterminato, ma aperto. Si basa sul convincimento che gli uomini avanzino gradualmente verso una direzione definita, e che tale direzione sia desiderabile per tutti; e ne deduce che questa avanzata continuerà indefinitamente. Ciò implica da un lato che un giorno si perverrà ad una felicità generale, meta che giustificherà tutto il processo della civiltà, e dall’altro che questo processo è il risultato necessario della natura psichica e sociale dell’uomo, e non di una volontà superiore, trascendente o immanente (altrimenti l’idea di Progresso scivolerebbe in quella di Provvidenza).

Questa idea non è presente nella cultura occidentale delle età classica e medioevale, e nemmeno compare automaticamente con l’avvento della rivoluzione scientifica. Essa si afferma in verità piuttosto tardi, non prima del XVIII° secolo. Designa un movimento i cui caratteri sono la linearità e l’irreversibilità, e questo concetto è in contrasto con i modelli ciclici dei processi naturali, sociali e individuali che informavano il pensiero degli antichi. Proprio da questi modelli prendiamo ora l’avvio.

 

Immaginiamo l’umanità agli albori dell’epoca storica, nella fase del passaggio dall’economia nomade di caccia e raccolta a quella stanziale agricola. Ogni gruppo, ogni area abitata conosce una qualche forma di cultura religiosa, magari fortemente caratterizzata dalla situazione ambientale, ma apparentata alle altre dal fatto di rispondere ad un bisogno primordiale e connaturato. Intendo dire che questo bisogno può nascere dalle esperienze più diverse, ad esempio da suggestioni visionarie, da momenti di delirio, ecc … : ma fondamentalmente è connesso ad una “rivelazione originaria”, nel senso della predisposizione ad attribuire una “intenzionalità” agli oggetti, animati o inanimati. L’intenzionalità suppone un’anima, uno spirito: quindi comporta il riconoscimento di una “interiorità” anche agli altri (e, in una prima fase, alle cose). Questa intenzionalità è applicata alla coscienza, sia pure indistinta, della morte, e si esprimeva in prima istanza soprattutto attraverso il culto degli antenati.

C’è un termine, la parola “mana”, che designa questo atteggiamento unificante dell’uomo di fronte all’universo, un universo che lo comprende. Il mana è una struttura della coscienza, che lo spinge ad agire intuitivamente come se gli oggetti circostanti fossero pieni di impulsi verso di lui. Questa primordiale struttura della coscienza può produrre due atteggiamenti, quello magico e quello religioso. Il primo tende ad utilizzare le forze impersonali della natura, il secondo a personalizzare queste forze. I due atteggiamenti naturalmente coesistono, hanno origine da un fondo comune, ma a seconda del loro prevalere conducono in direzioni diverse. L’atteggiamento magico conduce, prima ancora di tradursi in scientifico, all’ateismo: l’altro, naturalmente, alle fasi successive dell’evoluzione religiosa.

La prima fase può dunque essere definita mitica. L’uomo attribuisce alle cose delle intenzioni che cerca di sfruttare a proprio vantaggio: non si pone razionalmente problemi del perché e del percome, semplicemente vive immerso nel mito, non fa distinzione tra sacro e profano.

Dopo questa fase, subentra l’autocoscienza: questo porta a separare, e conseguentemente ad analizzare, ciò che prima era vissuto come una totalità indistinta: si comincia ad opporre sé al mondo, il sacro al profano, il mito vissuto a quello pensato. Il risveglio della coscienza determina una separazione dal mondo della natura. La coscienza separa, è la divisione primordiale. Il sé e il mondo cessano di essere ovvi, e questo induce un bisogno di affermazione esplicita e di stima.

La concettualizzazione del mito ne fa una realtà autonoma, strutturata dall’intelligenza. Il mito diventa un oggetto simbolico, riorganizzato in un complesso di scritture sacre. Questa separazione, la dissoluzione dello stato mitico primordiale, crea nell’uomo angoscia e inquietudine, la percezione di una frattura col proprio ambiente. La religione è un tentativo di colmare il vuoto che si è aperto, di ritrovare grazie al sacro l’età dell’oro, il paradiso terrestre. Il mito religioso e teologico stabilisce un legame con il sacro: crea un modello esemplare per tutte le azioni umane rilevanti, consentendo la loro conformità al volere divino. Il mito fonda l’archetipo dei rituali religiosi, mediante i quali il tempo e la frattura originaria sono cancellati. La ripetizione ha per conseguenza l’abolizione del tempo profano e la proiezione dell’uomo in un tempo magico religioso che non ha nulla a che vedere con la durata propriamente detta, ma costituisce l’eterno presente del tempo mitico. La ricomposizione di questa frattura, la ricerca dell’unità perduta, daranno origine a due nuovi atteggiamenti, quello religioso e quello scientifico. Al fondo di entrambi c’è l’intervento dell’intelligenza, della ragione: e questa finisce per ridurre sempre più lo spazio della rivelazione, quando da strumento ausiliario diventa quello principale. La spiegazione razionale finisce per demolire i miti della fede. Inoltre, quanto più il mito religioso viene interiorizzato, e la religiosità diventa questione personale, tanto più il “sacro” viene frantumato, diventa sentimento interiore.

Il problema che ora ci si pone è pertanto: perché solo, o almeno precipuamente, in occidente ha prevalso l’atteggiamento di superamento dello stadio religioso?

In Occidente si danno due momenti chiave di questo superamento. Uno è legato alla cultura ebraica, l’altro a quella greca. Le spiegazioni di questa diversità sono molteplici, ma seguendo Martin Bernal si può arrivare ad una matrice unica. L’atteggiamento sarebbe fondamentalmente lo stesso, e avrebbe origine nella cultura semitica, salvo poi svilupparsi diversamente nei diversi contesti.

 

Le società antiche (che chiameremo tradizionali) erano strutturate sulla base di archetipi mitici (l’età dell’oro, il paradiso terrestre, ecc…), nel senso che facevano ascendere a modelli primordiali la giustificazione delle loro strutture sociali e istituzionali. Vivevano lo scarto tra la realtà e il mito come conseguenza di una colpa o di una profanazione, ed erano costantemente tese ad un riavvicinamento alla perfezione delle origini, prolungando ritualmente il momento primordiale della fondazione. Ciò significava rimanere disperatamente ancorate al presente e rivolte al passato, nel ricordo del tempo in cui l’uomo viveva in comunione con l’invisibile, integrato nell’universo (l’età dell’oro): ma a dispetto della ripetizione dei riti di consacrazione esse non potevano vedere che alterata nel tempo la loro purezza, ovvero la loro fedeltà al mito. Con ogni forza pertanto volevano evitare quei cambiamenti che, allontanandole dalla perfezione mitica, rischiavano di accentuare maggiormente lo squilibrio nato dalla rottura del grande interdetto, quello che noi chiamiamo peccato originale.

Di fronte a situazioni nuove le società tradizionali reagivano quindi con tutta una serie di meccanismi compensatori, destinati a salvaguardare il loro equilibrio. Ogni società rimaneva uguale a se stessa così a lungo da poter mantenere negli individui che la componevano la coscienza diffusa di partecipare della sua immortalità, anche integrando al patrimonio comune le nuove acquisizioni. Nei suoi rapporti con la società l’individuo era come una delle tessere che compongono un mosaico, il colore, la forma e la posizione delle quali non possono spiegarsi se non in funzione dell’insieme. Il risveglio della coscienza individuale, del libero arbitrio era impossibile in un ambiente sociale che condizionava l’individuo dalla nascita e gli insegnava a confondere le leggi e i costumi con una “necessità”.

 

Nelle civiltà pre-cristiane insomma, e segnatamente in quelle orientali, i popoli erano più testimoni che attori degli avvenimenti che si producevano nel tempo. Vivevano in una sorta di incantesimo, nel quale ogni anno riproduceva quello precedente e il tempo girava su stesso, riproponendo le sue feste, i suoi massacri, il suo eterno ritorno. Questo ordine universale non andava turbato e il corso delle cose non doveva essere ostacolato, perché ogni intervento non poteva originare altro che male. Dal momento che gli eventi erano governati da una loro intima legge, risultava vano per l’uomo perseguire qualsiasi fine. Come afferma Eliade[1], nella vita del genere umano i popoli si sono per lo più aggrappati all’idea del ciclo temporale, nel quale il passato è futuro, non esiste una vera storia e l’umanità si dispone a rinascere e a rigenerarsi.

In tutta l’antichità l’idea di una decadenza successiva all’età dell’oro iniziale[2] – e quella, ad essa strettamente collegata, di un ritorno ciclico – hanno dunque impedito lo sviluppo di una autentica nozione di progresso. Ciò vale sia per la versione “cosmologica” dell’Eterno Ritorno, quella che prevede una distruzione e ripetizione puntuale di tutto il ciclo (più diffusa nella mentalità orientale, e sostenuta, nel mondo occidentale, soprattutto dai pitagorici), sia per quella “storica”, che prospetta invece una palingenesi, intesa come aetas assolutamente nuova, novum saeculum, quindi non ripetizione ma rigenerazione. In entrambi i casi l’umanità non ha alcun ruolo nel determinare gli eventi. È sovrana la legge di natura.

La rottura di questo incanto paralizzante avviene ad opera di due diversi popoli, che per motivi e in modi differenti danno una svolta all’attitudine nei confronti della conoscenza. I loro modelli di pensiero si sviluppano dapprima separatamente, ma vengono poi a convergere nella sintesi romano-cristiana, dando vita a quella cultura e a quella civiltà che definiamo “occidentale”.

Uno di questi popoli è naturalmente quello greco. Per ragioni politico-economiche (la strutturazione territoriale in piccole unità, nelle quali si afferma la prima forma di democrazia), ma anche in virtù di una particolare concezione religiosa (una religione naturalistica, nella quale la divinità non è altro che una proiezione dell’uomo – per cui non è insondabile, e per arrivare ad essa non è necessario negare se stessi) l’idea greca di sapienza, di conoscenza non è in linea con quella puramente contemplativa delle culture tradizionali. È già un’idea di ricerca, fondata su un sapere in divenire (ricerca del sapere, philosophia, appunto) che non ammette verità rivelate ed immutabili, ma è al perenne inseguimento della verità delle cose al di là delle apparenze. Ed è un sapere aperto a tutti, non patrimonio delle caste sacerdotali privilegiate e non trasmesso per via iniziatica.

Gli indizi di una “differenza” greca sono svariati, e sono già percepibili nella narrazione del primo scontro tra la civiltà occidentale e quella orientale, quello descritto nell’Iliade, riferito peraltro ad un’epoca nella quale le democrazie erano ancora ben lontane dall’affermarsi. In quel contesto il modello di potere orientale è rappresentato da Priamo. Un potere apparentemente assoluto, in realtà nullo. Priamo è solo la voce di un oracolo, non decide ma registra, enuncia una volontà superiore, il disegno del Fato: e in pratica assiste impotente alla rovina del suo popolo. Un oracolo non si rivolge al futuro, discopre solo ciò che è presente, che è già deciso. Agamennone prende invece delle decisioni, le sue azioni non sono già decise, dipendono dalla volontà e dagli umori, suoi ma anche e soprattutto dell’assemblea. Sarà perché combattono in trasferta, lontani dai loro luoghi sacri, e quindi dai vincoli e dai rituali della tradizione, ma i Greci sono liberi, e le loro sono scelte vere. In qualunque momento possono prendere decisioni diverse per quello successivo, e il fatto che si diano diverse possibilità è testimoniato proprio dalle dispute che si accendono ogni volta che è necessario decidere.

L’agire o il pensare al di fuori dei luoghi sacri tradizionali sembra decisivo per l’emergere di una diversità ellenica. Come agiscono liberamente i guerrieri di Omero, pensano liberamente i filosofi ionici o gli eleati. Il pensiero filosofico greco nasce lontano dalla Grecia, in uomini che si sono laicizzati, hanno messo il mare tra sé e i luoghi delle epifanie del sacro, si sono sottratti ai recinti magici della tradizione e della ritualità, venendo a contatto con altri modelli di pensiero e altre tradizioni e sviluppando nei confronti di queste uno spirito critico e scettico che non tarda ad intaccare anche le loro credenze mitiche.

Ma ci sono anche altre possibili letture del tema del distacco. Ad esempio, secondo Karl Jaspers l’occidente non si è sempre necessariamente inteso come centro, ma piuttosto come parte, come appendice staccatasi dalla matrice asiatica attraverso una diaspora lacerante (le migrazioni indoeuropee? gli echi di questa concezione si trovano comunque in effetti già in Platone, e successivamente soprattutto nella collocazione orientale di terre felici ed edeniche). L’antitesi oriente-occidente sarebbe pertanto costitutiva della cultura europea: la pretesa di quest’ultima di riplasmare il mondo con la sua opera avrebbe radice nel senso di mancanza e di incompletezza.

Altri segni di questa diversità vengono ancora dalla concezione politica. Mentre nella società tradizionale l’ordine politico risulta perfettamente adeguato all’ordine cosmico, in quella greca le cose vanno diversamente. Non è soltanto lo strutturarsi delle varie città in forme istituzionali diverse a dircelo. C’è proprio un atteggiamento di fondo, che ritroviamo ad esempio nella elaborazione di progetti urbanistici ideali, nei quali la città (e in questo caso essa si identifica con lo stato) è calcolata dagli uomini per gli uomini. Nella cultura tradizionale le città erano segni disseminati dagli dei sulla terra per celebrare la propria signoria e trasmettere in linguaggio cifrato i loro disegni. Ora, sostituendo alla architettura fatale della tradizione l’ordine governato della città ortogonale, si pronuncia un giudizio sull’universo ordito dagli dei. In pratica si dice che questo universo è piuttosto mal concepito, e che l’uomo deve metterci mano per migliorarlo. Il creatore viene così relegato nei suoi lontani domini, e la dimora degli uomini rimane competenza di questi ultimi.

La cultura greca viene dunque ad infrangere un ordine mentale che, pur nelle differenze e nella varietà dei costumi e delle credenze, era sostanzialmente simile per tutti (o quasi, come vedremo) i popoli dell’antichità. E questo è indubitabile. Ma la mentalità nuova che i Greci portano non è ancora permeata dell’idea alla quale stiamo dando la caccia, della nozione di progresso.

Presso i greci infatti il progresso rappresentava una mera categoria relazionale (prokopè, termine che compare nel IV secolo a.C.). L’idea del progredire (prokoptein) indicava un mutamento correlato a settori determinati, fossero essi la scienza, la tecnica o anche lo sviluppo etico del singolo. Di conseguenza la dinamica progressiva si ritrovava incapsulata entro contesti specifici, oppure rivestiva un carattere puramente comparativo-descrittivo, ma non stava in nessun caso ad indicare un processo storico a carattere generale. Analogamente, progressio e progressus hanno sempre avuto presso i latini un’accezione materiale e non innovativa: indicavano il semplice fatto del procedere.

La verità è che nel mondo classico manca uno dei presupposti fondamentali per la nascita di un’idea di progresso: quello della constatazione di una effettiva messe di innovazioni. Si intuisce, a partire già da Eschilo e da Euripide, che in tempi remoti si viveva nella barbarie: ma permane, dominante, l’idea di un regresso dall’età dell’oro. Sia Democrito che Epicuro immaginavano che ciascun mondo dell’universo con i suoi abitanti si evolvesse, decadesse e si riformasse ancora. Il progresso cosmico, considerato nella sua globalità, si riduceva quindi ad una oscillazione attorno ad un punto fisso, senza presentare alcuna evoluzione cumulativa. Lo stesso Platone parla di ere della durata di 72000 anni, nel corso delle quali fino a metà si conserva l’ordine originario, poi subentrano la decadenza e la degenerazione. Anche la riflessione filosofica, almeno nel senso ampio nel quale oggi noi la intendiamo, è quindi, se non impedita, decisamente limitata. I filosofi dell’antichità potevano al più tentare di modellare, di fronte alla crisi, o addirittura alla distruzione delle strutture tradizionali, nuove strutture più stabili, meglio protette contro i pericoli esterni o contro la corruzione interna, ma sempre di “quelle” specifiche strutture si trattava. In Platone, in Aristotele, non c’è mai l’idea di un ordine che possa essere esteso all’ecumene intero, di un percorso possibile per tutta l’umanità futura. Entrambi, poi, sono contrari ad ogni deviazione da un ordinamento politico costituito, intesa sempre come una degenerazione, e quindi all’idea di un perfezionamento sempre in fieri.

 

Ciò che soprattutto inibisce lo sviluppo di una visione progressiva è la concezione del tempo. Nell’epoca premoderrna il computo del tempo è fortemente determinato da ciò che si vuole che il tempo significhi. I parametri vengono fissati in funzione delle esperienze acquisite, del vissuto presente e delle aspettative per il futuro. L’attenzione ruota attorno agli aspetti qualitativi del tempo, di conseguenza alla durata, piuttosto che a quelli quantitativi, cioè alla misurabilità. Quello che importa determinare sono le ere, e non il valore dei nanosecondi.

Le prime misurazioni del tempo sono certamente collegate alla necessità di prevedere la comparsa della pioggia o del sole, o il regime periodico dei fiumi, per controllare e assicurare il rinnovo delle riserve alimentari, per organizzare la continuità dei mezzi di sussistenza della comunità. Le primissime società racchiudono perciò il tempo in norme rigorose, fissate da vari miti e dalle esigenze dell’agricoltura e dell’allevamento.

Platone afferma che dare un nome al tempo, suddividerlo e contarne le parti significa per l’uomo tentare di tradurre l’eternità nella propria caducità. E’ quanto già pensavano i Parmenidei (i paradossi di Zenone di Elea). Nel Timeo distingue tra l’Essere e il divenire. Il mondo dell’Essere è un mondo reale, apprensibile dall’intelligenza mediante ragionamento perché è sempre allo stesso modo, mentre il mondo del Divenire (il regno del Tempo) è opinabile dall’opinione mediante la sensazione irrazionale, “perché si nasce e si muore, e non è mai veramente”. Dal cosmo l’uomo deduce una sequenza di segni, la cui realtà originaria e indivisa supera la sua capacità di comprensione. Allontanando il tempo nella direzione doppiamente inaccessibile dei simboli religiosi e matematici Platone crea un modello che in Occidente ispirerà le élites religiose e politiche sino alla modernità.

Nemmeno Aristotele si discosta da questa concezione. La sfera celeste è quella in cui regnano la necessità, la legge, il numero, la regolarità. In quella sublunare gli eventi sono assurdi e il futuro è imprevedibile, regnano il caos e la libertà, o almeno leggi così nascoste, numerose e contraddittorie che non si riesce a venirne a capo. Liquida quindi il problema affermando che il tempo è eterno e circolare, e tutte le cose sono disseminate lungo la sua circonferenza[3].

 

Il mondo latino eredita integralmente le concezioni elleniche, filtrate magari attraverso l’epicureismo e lo stoicismo. Sia in Lucrezio che in Seneca c’è la coscienza di un aumento delle conoscenze rispetto alle epoche precedenti, e magari l’aspettativa di ulteriori innovazioni; ma tutto questo ha un senso solo per la conoscenza in sé, per i filosofi, e non per l’umanità nel suo complesso. E comunque è sempre presente l’idea del collasso finale. “I nostri figli non vedranno mai nulla di nuovo, così come i nostri padri non videro mai nient’altro che ciò che vediamo noi stessi.” (Marco Aurelio)

Lo stesso avviene per il pensiero cristiano antico, anche se una innovazione è costituita dall’introduzione in Sant’Agostino (De civitate Dei) del procursus, concetto in contrasto con la teoria classica del ritorno ciclico. Quest’ultima non è però contestata sul terreno cosmologico, quanto piuttosto da un punto di vista teologico-morale, in quanto l’idea di una decadenza e di una rigenerazione che si ripetono all’infinito sottrae all’uomo la dimensione della speranza in una felicità finale. Agostino si oppone però al calcolo del tempo, ovvero alla fusione di tempo e numero. È tra i primi a porsi il problema della percezione psicologica del tempo, ma diffida della sua matematizzazione (e di tutto ciò che concerne la matematica, che gli appare come un tentativo sacrilego di attingere alla perfezione divina): ciò a dispetto, o meglio a riprova, di una concezione dell’opera divina come ordinata secondo numero, misura e peso.

Con Boezio e Cassiodoro abbiamo invece una celebrazione della matematica come fondamento della conoscenza: per il primo la natura originaria delle cose è modellata secondo numeri ragionevoli, per il secondo l’uomo si distingue dagli animali proprio per la capacità di “calculi intelligere quantitate”.

In realtà per tutto l’alto medioevo il problema che viene posto è quello del “computus”, cioè del calcolo del tempo, e non della misurazione. Quest’ultima si era sempre fatta con gli horologia (solari di giorno e ad acqua di notte), ed aveva interessato la sfera pratica, non quella teorica. Ma il dibattito che si sviluppa lungo tutto questo periodo finisce per coinvolgere anche la misurazione. Gregorio Magno, ad esempio, accomuna l’uno e l’altro in un’unica condanna, sulle orme di Agostino.

Con Agostino siamo però già andati troppo oltre. Occorre risalire all’indietro, per individuare l’altra sorgente dalla quale scaturiscono le premesse per la teoria del progresso. E l’altra fonte, l’altra cultura che rompe decisamente con la tradizione è quella giudaica. Il pensiero occidentale nasce anche e soprattutto con la marcia di Israele verso la terra promessa e con l’attesa della venuta di un messia. Nasce apparentemente da una contraddizione, perché il popolo che maggiormente contribuisce alla definizione di una modernità è un popolo nomade, che discende almeno moralmente da Abele, il pastore, e che è costantemente in conflitto con gli agricoltori discendenti di Caino, cioè con le popolazioni stanziali che lo circondano. Il paradosso sta in questo: mentre le popolazioni nomadi operano nella dimensione dello spazio, il quale non oppone alcuna limitazione e apre possibilità sempre nuove, i sedentari, costretti nello spazio di un dominio strettamente limitato, per quanto ampio sia, sviluppano la loro attività in un continuum temporale che appare loro indefinito: in altre parole, progettano e costruiscono per un futuro. I primi, inoltre, si rapportano prevalentemente al regno animale, anch’esso nomade, mentre i sedentari hanno come oggetto della loro attività i due regni fissi, quello vegetale e quello minerale (e quindi le loro attività sono, prevalentemente, la costruzione e la metallurgia). Storicamente, i sedentari assorbono i nomadi: nel corso delle età il tempo inghiotte lo spazio, affermando in tal modo la sua natura di “divoratore” (il mito di Kronos) e di uccisore (Caino, che compie sacrifici vegetali, uccide Abele, sacrificatore di animali). Ma questo avviene solo sul piano materiale: su quello spirituale, invece, la situazione si capovolge. I sedentari sono infatti portati ad adottare dei simboli visuali, a edificare strutture e a forgiare, plasmare, dipingere, scolpire opere durevoli, immagini fatte di sostanze diverse, le quali si riconducono però più o meno direttamente allo schematismo geometrico, origine e fondamento di ogni struttura spaziale.

I secondi invece, a cui le immagini sono vietate (cfr. ebraismo e islamismo), così come è vietato tutto ciò che tenderebbe a radicarli in un luogo determinato, si costituiscono dei simboli sonori, i soli che siano compatibili con il loro stato di migrazione continua. Paradossalmente, fra le facoltà sensibili la vista è in rapporto con lo spazio, e l’udito con il tempo: gli elementi del simbolo visuale si esprimono in simultaneità, quelli del simbolo sonoro in successione. Si opera in tal senso un rovesciamento delle relazioni in campo simbolico. I sedentari danno vita alle arti plastiche (architettura, scultura, pittura), cioè alle arti delle forme che si dispongono nello spazio: i nomadi danno vita alle arti fonetiche (musica e poesia), cioè alle arti delle forme che si sviluppano nel tempo. L’esilio perenne, l’erranza secolare verso la terra promessa fanno cadere per il popolo ebraico la necessità di quel tracciato magico, consacrato dall’opera edificatoria e dai simboli visivi, che reintegra l’uomo nell’universo e lo imprigiona nei riti, mentre lo conducono a dare valore sacrale alla parola, al verbo, e alla sua trascrizione. Può suonare singolare un’affermazione del genere, riferita ad uno dei popoli che pare maggiormente attaccato ad un suolo particolare e alla celebrazione del rituale: ma in verità quello ebraico non è il popolo di una terra, bensì di un libro: porta con sé, nei suoi rotoli della Legge, la sua sacralità, e dovunque esso è, lì è terra d’Israele.

Allo stesso modo il nomadismo, l’originaria vocazione pastorale degli Ebrei, è anche alla base dell’adozione da parte di questi ultimi di un primordiale sistema lunare di divisione del tempo: il calendario ebraico, strutturato in base ai bisogni dei pastori, era (ed è tuttora) fondato sul mutevole aspetto della luna nelle sue fasi, mentre quello egizio era indirizzato ai lavori dei contadini, e quindi orientato sulla presunta orbita del sole nel corso delle stagioni.

Il giudaismo porta con sé anche la certezza della salvezza finale per la promessa di Dio, l’attesa dell’avvento del Messia alla fine dei tempi. Questo pensiero, questa speranza non può che distruggere ciò che è volto al passato, o anche semplicemente ancorato al presente. La promessa di un Messia rompe l’incanto dell’eterno ritorno: il messia annunciato è un dio storico, l’evento atteso si annuncia come unico, irripetibile, definitivo. Crea una tensione, un’aspettativa di cambiamento volta al futuro. Il tempo diventa attesa dell’imminente e del possibile, al mondo viene assegnato uno scopo. E nel distendersi della curva dei secoli, come essa si scopre un fine, si inventa anche un’origine. Diventa una linea, una direzione. Gli avvenimenti non si sciolgono più gli uni negli altri, ma si dispongono come tasselli di un edificio. La Bibbia non è stata letta per secoli dagli ebrei come mito di creazione del mondo, ma come un manifesto rivoluzionario pieno di profezie considerate come altrettante allusioni a tutti i periodi di crisi, a tutti gli esili, a tutte le cattività. Degli uomini – a milioni – hanno creduto e credono ancora di vivere la fine dei tempi annunciata dai profeti, salutando ogni tribolazione come un segno precursore degli ultimi giorni, l’anticamera insanguinata dell’età novella: il regno dei giusti.

Dato che il tempo non è più ciclico ma a senso unico e irreversibile, è ora possibile la storia personale e una vita individuale può avere il suo valore. L’essere umano in quanto pedina sta cedendo impercettibilmente il passo a una più esaltata visione di ciò che l’essere umano è. Le conversioni al monoteismo saranno individuali, ed è questo che disgrega le strutture tradizionali.

In tutta la narrazione biblica è presente una dimensione che manca nelle narrazioni mitologiche degli altri popoli: quella della tentazione. Dio mette alla prova costantemente la capacità di scegliere dell’uomo. Si comincia con Adamo, si prosegue con Caino, si arriva ad Abramo. Nella vicenda di Abramo il rapporto con la divinità diventa davvero la storia di un rapporto interpersonale. Questo nasce prima di tutto dal senso spiccato della propria personalità che Abramo possiede. Ragiona come un individuo, non come la tessera di un mosaico. Nell’episodio di Isacco Dio dà e prende al di là di ogni ragione e di ogni giustificazione. Poiché le sue ragioni non sono interpretabili e i suoi pensieri non sono prevedibili, tutto e niente è possibile. Quindi la fede prende il posto della generalizzata prevedibilità del mondo antico, con la possibilità di autentico successo o di autentico fallimento: cioè, è un autentico viaggio il cui esito deve ancora darsi.

 

Un altro tema distintivo che caratterizza entrambe le culture alle quali ho fatto riferimento è quello dell’autorità. Per motivi e in modi diversi l’autorità politica viene distinta da greci ed ebrei da quella religiosa. Nel secondo caso non esiste nemmeno, a dispetto del monoteismo, una vera autorità religiosa, ma solo un criterio di autorevolezza: e questo anche all’epoca dell’esistenza di uno stato ebraico. La storia ha poi fatto si che il problema non si ponesse, e che gli ebrei mantenessero sempre un rapporto decisamente ambiguo con le diverse forme di autorità alle quali erano di volta in volta e di luogo in luogo soggetti: e tuttavia è unica la loro capacità di mantenere un’unità religiosa in assenza di una autorità riconosciuta. O forse tutto questo è frutto del particolare modo di accostare la verità religiosa, e cioè dell’approccio individuale e non mediato, o quasi, al contrario di quello cristiano che è mediato da una autorità o rappresentanza, che si arroga l’interpretazione ortodossa dei testi.

Per quanto concerne la cultura greca, qui è proprio la religiosità stessa, il politeismo piuttosto tiepido a non consentire l’instaurazione di una autorità religiosa e la commistione di autorità politica e autorità religiosa.

L’accento sulla individualità ha dunque questa duplice matrice. Non a caso poi passa attraverso la riforma protestante (ciascuno è sacerdote di se stesso), che nasce anche dai nuovi studi filologici del verbo testamentario incentivati dalla diffusione del qabbalismo (Reuchlin). Il rapporto non sacrale, ed anzi antitetico, degli ebrei con l’autorità è il terreno sul quale può svilupparsi una concezione convenzionalistica della stessa, l’idea del patto sociale e del diritto individuale che salvaguarda il singolo nei confronti di un potere accettato solo come formale.

Anche la concezione del tempo è naturalmente influenzata da questo rapporto con l’autorità. Valorizzando il significato e l’azione individuale, si è portati a leggere e privilegiare il tempo personale nei confronti di quello collettivo, a cercare di dar senso e di riempire di significati il proprio vissuto: significati che si traducono in esperienze nuove, invece che in ripetizioni, in azioni che distinguono, invece che in rituali che accomunano, in creazioni ed opere che rimangono, che forzano la natura e introducono la novità. (…..)

 

[1] Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, 1999

[2] Viene espressa ad esempio nel mito platonico di Er, nella Repubblica, ma anche nel Timeo

[3] Aristotele, Fisica, IV

 

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Gli orfani del progresso

di Paolo Repetto, 8 marzo 2021

Forse è solo un problema di disinformazione mia, dal momento che non leggo quasi più i giornali e non seguo la televisione. Mi sarà sfuggito qualcosa. Comunque sia, ho l’impressione che il recentissimo atterraggio della sonda Perseverance su Marte non abbia suscitato nell’opinione pubblica non dico entusiasmi, ma nemmeno una qualsivoglia emozione. Nei giorni successivi nessuno dei miei amici o conoscenti vi ha accennato: ed è gente che non segue solo il festival di Sanremo.

La cosa non mi ha meravigliato affatto: alla luce di quello che ci sta capitando, e pure al netto delle crisi di governo, dei giochi opachi di potere e degli intrallazzi che quotidianamente emergono, è un silenzio comprensibile. In fondo Perseverance non ha neppure il fascino della novità, visto che già altre quattro missioni hanno portato dei rover a calcare il suolo marziano, la prima addirittura venticinque anni fa (ma i primi oggetti terrestri a toccare Marte erano stati, fin dal 1971, i landers della missione sovietica Mars 3), e che in questo momento attorno al pianeta rosso ruotano una sonda cinese ed una sponsorizzata dagli Emirati arabi, mentre altre sono previste in arrivo nel corso dell’anno, per cui a breve ci vorranno i semafori. Ma sul piano prettamente tecnico-scientifico la valutazione è assai diversa: si tratta pur sempre di una missione importante, dalla quale si attendono grossi risultati. La sonda reca a bordo anche un drone, un mini elicottero, che dovrebbe scorrazzare nei cieli del pianeta, e una batteria incredibile di sensori che rileveranno l’esistenza o meno di condizioni per una ipotetica futura presenza umana. Non sono più cose da fantascienza, ma ancora sino a una decina d’anni fa lo erano.

Bene, di tutto questo a nessuno (se si escludono gli addetti ai lavori e i club di appassionati del settore), e a me per primo, lo confesso, importa granché. Un’affermazione del genere parrebbe smentita proprio da quanto dicevo prima, dall’affollamento delle orbite marziane oggi e dai possibili ingorghi sul pianeta rosso domani: ma la contraddizione è solo apparente. Il fatto è che nella percezione comune, non specialistica, queste missioni, per quanto strabilianti, non sembrano avere una ricaduta diretta, visibile, sulla nostra vita quotidiana, e nemmeno si capisce come potrebbero averne una futura (penso che per la mia generazione giochi la disillusione seguita all’avventura lunare, che per il momento, al di là di fantomatici sbocchi “turistici”, sembra tornata ad essere un’impresa fine a se stessa). Appaiono piuttosto mirate a scopi di propaganda politica, a offrire dimostrazioni di potenza tecnologica (e finanziaria, perché i costi sono altissimi). Sotto un profilo pratico, al massimo si può pensare siano finalizzate a sperimentare in condizioni estreme materiali, tecnologie, strumentazioni da riportare poi nella grande produzione sulla terra: ma credo che andare a testare su Marte macchine fotografiche o tessuti pressurizzati risulti un po’ eccessivo persino per le ambizioni produttive più sofisticate e innovative. È anche difficile immaginare che possano rivestire un vero interesse strategico, preludere ad esempio alla creazione di reti remote di controllo, perché allo stato attuale della velocità delle comunicazioni una ipotetica base marziana sotto questo aspetto non avrebbe alcun senso.

Di fatto dunque le missioni continuano, anzi, si infittiscono: ma per contro, quale che sia la consapevolezza diffusa dei loro scopi, non sembrano più sedurre nemmeno attraverso i risvolti spettacolari. C’è allora da chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi cinquant’anni, confrontando l’attuale indifferenza con l’entusiasmo suscitato all’epoca dai primi passi umani sulla luna. Fosse un’attitudine solo mia, potrei pensare ad un problema di età: nei giorni della passeggiata di Amstrong avevo vent’anni e almeno teoricamente un mezzo secolo davanti per vedere come sarebbe andata a finire: oggi so benissimo che non lo vedrò, ma anche che tutto sommato non mi perderò molto, e non ne faccio un problema.

Ma non è una sensazione solo mia: almeno, non credo. E nemmeno penso che la scarsa attenzione collettiva sia dovuta solo al Covid, o riguardi soltanto le missioni spaziali. C’è dell’altro, la faccenda affonda più in profondità. C’è in ballo l’idea stessa di progresso, della quale queste missioni erano divenute le avanguardie. O meglio: la fine dell’idea stessa di progresso.

Ci spostiamo dunque su un tema enormemente complesso. Oserei dire, sul tema per eccellenza, quello che condizionerà la vita e le scelte delle generazioni future. In cosa potranno credere? E perché?

Non essendo un testimone di Geova non ho in mente risposte, mi limito a porre le domande. D’altro canto, chi fosse interessato ad approfondire la cosa a livello filosofico e sociologico può trovare materiale a bizzeffe: della fine del progresso si parla (e soprattutto si straparla) da oltre un secolo. La novità degli ultimissimi anni è che ormai non ci si limita a profetizzarla, ma la si certifica, se ne prende atto. Purtroppo lo si fa quasi sempre partendo da un retroterra pregiudiziale, da una condanna aprioristica emessa quando va bene sull’onda di reazioni emotive, quando va male sulla scorta di una lettura “integralista” e acrimoniosa della storia, condotta con una lente deformante. Ciò che posso cercare di fare è quindi, nei limiti delle mie conoscenze, fornire in calce qualche indicazione per letture passabilmente equilibrate.

A scendere io stesso più in profondità naturalmente non ci penso nemmeno: non ne ho le forze, ma prima ancora è un impegno che ormai mi solletica poco. Confesso tuttavia di aver coltivato per un certo periodo, davvero moltissimi anni fa, un progetto del genere, e di avere anche iniziato a lavorarci (come dimostrano le pagine che allego a questo scritto (“L’origine del progresso“), recuperate pari pari dal cassetto nel quale erano sepolte, e che mi azzardo ora a propinare solo come testimonianza della sostanziale coerenza di un percorso), nell’intento di ricostruire la genealogia di questa idealità. Se la cosa è rimasta allo stato di bozza è perché una salutare consapevolezza dei miei limiti la possedevo già a vent’anni, e non l’ho persa nel corso del tempo. Ma proprio in virtù della coerenza che rivendicavo sopra mi sento autorizzato invece a proporre, cogliendo al volo l’occasione, qualche considerazione spicciola, qualche banale constatazione di fatto, sperando di offrire anche ad altri degli spunti per riflettere.

La prima considerazione è naturalmente di carattere lessicale. L’uso linguistico è sempre un sensore affidabile dei fenomeni, oltre che il più immediato. E mai come in questo caso ritengo sia indispensabile avere ben chiaro il significato nel quale si usano le parole. Oggi quando si fanno progetti per il futuro, di qualsiasi tipo, si parla ormai solo di crescita. Quello della crescita è un concetto eminentemente quantitativo: implica il ragionare per dimensioni, volumi, e per antonomasia sottende espansione, incremento delle grandezze economiche (produzione, investimenti, occupazione, reddito, ecc…). È strettamente connesso ad una matematizzazione del mondo e di ogni aspetto della vita. Si parla del tasso di crescita, pensando ad un numero indice, mentre riferito ai singoli individui il termine viene declinato in peso e altezza, caratteristiche quantitative, o in numero di conoscenze, anch’esso in qualche modo misurabile. L’uso del termine crescita sembra garantire dunque al discorso un valore asettico, il crisma dell’oggettività.

Con maggior cautela è invece utilizzato il termine sviluppo, ormai indissolubilmente associato al limitativo sostenibile, e in questa formulazione viene contrapposto proprio alla nuda crescita. Nell’idea di sviluppo entrava un tempo una coloritura più variegata: quando si parlava di paesi in via di sviluppo, o sottosviluppati, si sottintendevano anche ritardi politici e culturali, oltre che economici, cosa che oggi cozza contro il politically correct e solo a pensarla ci si attira l’anatema. Ma quell’idea recava in sé anche una ambiguità insanabile, quella tra una concezione che leggeva lo sviluppo in termini quasi naturalistici, quasi fosse insito nelle cose stesse, ed una che lo vedeva come il prodotto di una volontà e di un disegno prettamente umani. L’ambiguità permane ancora oggi, ma nella sostanza sviluppo è passato a designare qualcosa di ben diverso da ciò che era chiamato a significare sino a cinquant’anni fa: qualcosa cioè di non ineluttabile, di estremamente complesso, da governarsi con mille attenzioni. Il problema è che in realtà il nuovo significato è molto vago, e si presta alle interpretazioni più peregrine e contrastanti.

Ad essere quasi scomparso dal lessico corrente, e già da un pezzo, è invece proprio il termine progresso. A progresso erano sottese valenze morali, sociali, politiche, ecc …, oltre a quelle economiche e tecniche, ancora più esplicite. L’avanzamento morale era considerato infatti una naturale e automatica conseguenza di quello economico e tecnico, e il tutto rappresentava l’esito di uno sforzo interamente umano. Il progresso incarnava insomma fino a qualche decennio fa la concreta manifestazione dello Spirito hegeliano, da accettarsi a scatola chiusa perché imperscrutabile nei modi e nei mezzi del suo dispiegamento, alla quale era naturale sacrificare ogni altro valore. Oggi, al contrario, il termine evoca non solo l’idea una grande illusione, ma quella di una grande menzogna, dietro la quale sono state celate e giustificate le infamie e gli sfruttamenti più sfacciati. Come si sia arrivati a questa inversione semantica è un po’ lungo da spiegare: vedremo di arrivarci per gradi.

Vorrei intanto sottolineare come la parola sviluppo susciti, anche nei critici della modernità e del modello occidentale, una reazione meno negativa di quella connessa all’uso di progresso. Credo che la spiegazione stia nel fatto che la prima ha una valenza originaria di matrice biologica: il nostro cervello nel corso della sua evoluzione ha sviluppato dei modelli conoscitivi che hanno dovuto tenere conto della mutevolezza della realtà, della incessante trasformazione del nostro corpo e di quella dell’ambiente che ci circonda, per accettarla senza essere indotto a reazioni di paura. Questi cambiamenti sono stati di conseguenza percepiti, fossero essi ciclici (stagioni, fasi lunari, ecc ..) o irreversibili, come fasi del naturale “sviluppo” di un organismo o di un intero ambiente. La parola progresso viene invece automaticamente ascritta ad un ambito “culturale”: indica qualcosa che va ben oltre, che chiama in gioco le arti e la téchne.

La seconda considerazione concerne la storia dell’idea di progresso. In genere diamo questa idea come scontata, nel senso che parrebbe aver accompagnato tutto il processo della “civilizzazione”; è invece piuttosto recente, risale a non più di quattro o cinque secoli fa, agli esordi della rivoluzione scientifica. In termini macrostorici la sua obsolescenza è quindi stata rapida (come del resto quella di tutte le idee guida sorte dopo quel periodo). In realtà la credenza nel progresso non si è mai affermata completamente, e soprattutto ha viaggiato su due binari ben distinti. All’inizio era caldeggiata solo dagli ambienti scientifici (l’Advancement of Learning, 1605, di Francesco Bacone può esserne considerato il manifesto antesignano – ma io credo che i veri precursori siano da individuarsi negli studi quattrocenteschi sulla prospettiva), mentre veniva osteggiata da quelli religiosi e dall’establishment intellettuale più conservatore, e rimaneva in pratica sconosciuta a tutto il resto della popolazione. Anche Fontenelle, che nel 1688 la teorizzò apertamente con la Digression sur les anciens et les modernes (in base al principio della costanza dell’ordine naturale, per cui come ogni altro processo di natura anche la vita dell’umanità è governata da leggi immutabili, e le differenze tra l’oggi e il passato hanno origine dall’accrescimento del sapere nel corso del tempo) non sarebbe stato assolutamente in grado di far comprendere in cosa consistesse all’atto pratico questo fantomatico progresso ai milioni di contadini che sopravvivevano stentatamente nelle campagne francesi e dell’Europa tutta. Sino alla metà del diciannovesimo secolo più dei due terzi dell’umanità del progresso conosceva solo, e a proprie spese, le ricadute tecnologiche peggiori, ovvero gli strumenti militari della colonizzazione o della repressione e quelli “civili” del controllo del tempo e del lavoro. E tuttavia, il mutamento di prospettiva aveva cominciato lentamente ad agire anche dall’interno, nelle coscienze individuali, come frutto della secolarizzazione galoppante. L’affermazione su vasta scala dell’idea fu in effetti più legata alla rivoluzione morale indotta dalla Riforma che ai ribaltamenti conoscitivi prodotti da Cartesio e da Newton.

Ciò che intendo dire è che agli inizi del Settecento nulla era ancora intervenuto tangibilmente a sconvolgere i ritmi millenari della vita contadina, ma qualcosa cominciava a smuoversi nelle coscienze, nella percezione del tempo e nelle aspettative che lo caratterizzavano. L’incontro col grande pubblico, la discesa dell’idea sulla terra, si realizzò però solo sull’onda del positivismo; le grandi esposizioni universali, il dilagare delle ferrovie, le meraviglie dell’elettricità e la diffusione delle industrie, erano qualcosa che andava concretamente a incidere sulla vita quotidiana.

Nel frattempo, tuttavia, dopo che l’Illuminismo aveva connotato “materialmente” questa progressione, portando in primo piano l’interesse per l’artigianato, per l’industria, per l’economia in generale, si era già scatenata la reazione romantica, a difesa del sentimento contro la ragione calcolante. Il progresso aveva cominciato ad essere messo in discussione non solo dalla cultura reazionaria, ma anche da quella che oggi si definirebbe cultura “progressista”. A fronte delle nuove meraviglie tecnologiche riuscivano evidenti anche i costi sociali e ambientali altissimi, e ciò alimentava da un lato le reazioni popolari, con fenomeni come il luddismo, dall’altro offendeva la sensibilità estetica e morale degli intellettuali. Nel corso dell’ottocento le due cose avrebbero poi trovato una composizione col nascere prima delle organizzazioni operaie e sindacali e col loro confluire poi in movimenti politicamente strutturati, attraverso i quali il rifiuto veniva incanalato nella direzione opposta: non era più l’idea di progresso ad essere messa in discussione dal basso, ma piuttosto la sua interpretazione in termini di una distribuzione ineguale dei benefici.

Ma proprio mentre sia il marxismo che il liberalismo cucivano l’idea di progresso sulle proprie bandiere, e persino i popoli non occidentali cominciavano a farla propria, la stessa veniva già data per spacciata a cavallo tra il XIX e il XX secolo dalla cultura decadente, tanto che dopo la prima guerra mondiale la sua parabola era considerata definitivamente chiusa. Il secolo scorso l’ha vista risorgere ancora, almeno nella coscienza popolare, nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale: ma solo per tramontare, e questa volta direi definitivamente, dopo gli anni settanta.

La storia dell’idea di progresso ha conosciuto dunque un andamento tutt’altro che lineare e progressivo, almeno per quanto riguarda la considerazione riservatale dall’ambiente intellettuale: ma, soprattutto, c’è stato uno scarto sia temporale che qualitativo notevole tra questa considerazione e la percezione che ne ha invece avuto la maggior parte dell’umanità. Ho azzardato questo pasticciatissimo riassunto per sottolineare una cosa molto semplice, che mi viene in mente ogniqualvolta leggo le requisitorie che si sono levate (e oggi più che mai si levano) da tutte le parti contro l’idea di progresso. Per quanto il mea culpa sia espresso in termini di norma molto generici (la nostra civiltà, il nostro sistema, ecc…), ho l’impressione che la responsabilità di aver coltivata (e mal digerita) tale idea venga alla fin fine tacitamente ribaltata sulla “gente”, sugli incolti che si sono lasciati abbagliare dagli effetti speciali e dalle luminarie, mentre la parte “pensante” rivendica per sé il ruolo di precoce cassandra inascoltata. Bene, le cose non stanno proprio così. Se questa idea per un certo periodo si è imposta è perché forse davvero recava con sé un nuovo tipo di speranza, un senso da dare all’esistenza, e davvero veniva suffragata, al netto di tutte le tare possibili, da effettivi e tangibili miglioramenti delle condizioni di vita. Non si è trattato della corsa insensata di una massa di allocchi ad inseguire una chimera, ma della legittima aspirazione dei molti a godere almeno in parte di ciò che ai pochi era stato da sempre garantito. Questo mi sembra doveroso chiarirlo, e va tenuto ben presente se si vuole evitare l’ipocrisia. Insomma: le semplici cifre dell’aspettativa di vita nel Seicento, ad esempio, confrontate con quelle odierne parlano chiaro. E raccontarci che non ha senso raddoppiare gli anni di vita senza riempirli di significato è uno stupido sofisma. Il ruolo del progresso, se un ruolo vogliamo attribuirgli, sarebbe quello di creare le condizioni per vivere di più, con minori fatiche e con maggiori sicurezze: a vivere meglio, nel senso di dare alla nostra esistenza un significato, dobbiamo pensare noi.

In sostanza: il popolo dei credenti nel progresso non usciva dall’Eden, checché si insista oggi a raccontare, ed è stato guidato all’esodo da un mondo immobile e tutt’altro che idilliaco proprio dalle avanguardie intellettuali. Se poi il percorso si è rivelato tortuoso, o addirittura, come pensano i più, catastrofico, una qualche responsabilità queste guide dovrebbero assumersela: prima tra tutte, quella di non aver saputo suggerire percorsi alternativi credibili, vuoi per l’incapacità spesso volontaria di comunicare con chiarezza, vuoi, soprattutto, per la presuntuosa ignoranza delle reali condizioni e delle vere aspettative delle “masse”.

La terza considerazione prende spunto direttamente dalla constatazione iniziale, dal fatto che alla “gente” appunto non importa più nulla delle missioni spaziali. Ciò non avviene perché il ripetersi di queste ultime abbia prodotta ormai una certa assuefazione: il fatto è che non si vede più nelle missioni alcun segno di progresso, non le si inquadra più in quella dimensione di speranza e di attesa per il futuro che aveva caratterizzato ad esempio il primo allunaggio. Il che significa che, lungi dall’essere distratta, la gente ha in realtà disgiunto l’idea di progresso da quella di avanzamento tecnologico: al momento vede solo quest’ultimo e si rende conto di come solo strumentalmente abbia a che fare con quella condizione di maggiore serenità e giustizia che il progresso nella visione dei suoi promotori avrebbe dovuto assicurare.

Qui si apre una questione delicata. Riguarda appunto il fatto che l’avanzare delle tecnologie è l’aspetto più clamorosamente evidente del cosiddetto progresso, ed ha finito per essere confuso ad un certo punto dai più con “il” progresso tout court. In realtà, la tecnologia dovrebbe essere solo lo strumento che rende possibile il progresso, o meglio, uno degli strumenti (altri possono essere considerati ad esempio la politica, ecc …). La tecnologia in sé è insomma come una scatola di fiammiferi in mano ad un bambino, secondo l’immagine di J. B. Haldane, e con quella il bambino può accendere delle candele che illuminano la stanza o dar fuoco a tutta la casa. In quanto strumento, se non funziona o se funziona male, può essere aggiustato, se produce disastri può essere cambiato. I tecnofobici tendono a sottolineare come da strumento essa sia diventata ad un certo punto fine a se stessa, si sia “autonomizzata”, e questo in parte è vero: ma non considerano a sufficienza il fatto che è la scelta del bambino, e non una autonoma volontà della scatola di fiammiferi, a produrre eventualmente la distruzione della casa.

È altresì vero (non lo dico io, lo afferma uno come il fisico Freeman Dyson[1]) che “negli ultimi quarant’anni gli sforzi maggiori della scienza pura si sono concentrati in campi altamente esoterici, lontani da ogni contatto con i problemi quotidiani. […] Al tempo stesso gli sforzi maggiori della scienza applicata si sono concentrati su prodotti che possano essere venduti con profitto. Poiché ci si può attendere che per i nuovi prodotti i ricchi paghino più dei poveri, la scienza applicata condurrà, come al solito, all’invenzione di giocattoli per i ricchi. […] L’incapacità della scienza di produrre benefici per i poveri in questi ultimi decenni è dovuta a due fattori che operano nella stessa direzione: gli scienziati puri sono diventati meno sensibili ai bisogni mondani dell’umanità, e gli scienziati applicati sono diventati più attenti alle prospettive di profitto immediato”. In effetti esiste anche una terza alternativa, quella che i fiammiferi vengano utilizzati solo per accendere delle sigarette. Ma non sono loro i responsabili del vizio del fumo.

Ora, l’identificazione del progresso con la tecnica, e della tecnica con la negazione della natura e col trionfo dell’artificio, è alla base di tutti gli attacchi all’ “ideologia” delle “magnifiche sorti e progressive”. Si tratta allora di capire se il progresso così inteso sia o meno intrinseco alla natura umana, sia cioè un fattore costitutivo e fondante della humanitas. E in caso affermativo, se gli esiti debbano essere considerati necessariamente quelli che abbiamo di fronte, o se invece non ci sia stato ad un certo punto uno scarto, non si sia prodotta una forzatura, che ne ha dirottato le finalità e condizionato i modi. E ancora, se questo fenomeno sia eminentemente “occidentale” oppure no, e chi e cosa abbia in tal caso prodotto la frattura.

Il discorso a questo punto diventa talmente complesso da consigliarmi di lasciare in sospeso la questione. Ho già messo sin troppa carne al fuoco. Potrà essere l’argomento per interventi futuri, meglio sarebbe se di altri.

Per il momento mi limito invece a un paio di constatazioni conclusive. Per quanto sia additata quasi universalmente come la causa di tutti i nostri guai, la tecnica (e per estensione naturalmente la scienza, della quale la tecnica costituisce la risultante performativa) è oggi è anche l’unica che ai guai – di origine naturale o artificiale che siano – può porre in qualche misura rimedio. Lanciare dei violenti j’accuse contro la mentalità scientifica, contro la “ragione calcolante”, contro la nemmeno troppo strisciante tecnocrazia, può far vendere qualche libro e procurare qualche comparsata televisiva in più, ma non offre risposte immediate e concrete ai sette e passa miliardi di umani che si aspettano domani di poter mangiare e di potersi curare. In questo momento qualche Agamben in meno e qualche scienziato in più farebbe comodo.

E a questo proposito: la vicenda Covid ha necessariamente intensificato il rapporto tra la gente comune e la scienza (ma in realtà è più corretto dire: con l’ambiente scientifico). Avrebbe potuto essere un’ottima occasione, purtroppo pagata a un prezzo salatissimo, per sottoscrivere una “nuova alleanza”, per aprire un dialogo che in realtà non c’è mai stato e per orientare la scienza stessa su obiettivi più “sociali”, distraendola da una vocazione che sta diventando sempre più “economica”. Così non è stato. Il rapporto è oggi caratterizzato da una fondamentale ambiguità, in gran parte dovuta proprio al comportamento “spettacolare” e in qualche caso decisamente incosciente degli “esperti”, esasperato poi all’ennesima potenza da una modalità di informazione becera e urlata, superficiale nel migliore dei casi e distorsiva negli altri. Così, da un lato, le diatribe tra virologi e immunologi e infettivologi hanno sconcertato un pubblico che si attendeva risposte certe, e hanno minato la credibilità dell’ambiente scientifico: dall’altro lo stesso pubblico si trova a dover confidare comunque sempre più, per ottenere risposte, in una scienza volgarmente screditata dai suoi sacerdoti. La situazione risultante non mi pare molto diversa da quella in cui sopravvivono le religioni: credere nella scienza è diventato per molti un puro atto di fede, motivato dalla disperazione. Invece di chiarire il ruolo reale che la scienza ha, che è quello di porre le domande giuste e offrire risposte sempre passibili di essere smentite o migliorate, si è accreditata da un lato l’immagine della scienza come nuova divinità, che si vuole o si spera infallibile, dall’altro quella di una grande menzogna, che non solo non risolverà il problema, ma è addirittura responsabile di averlo creato.

Non è di questo che abbiamo bisogno: abbiamo bisogno non di fede, ma di ragionevole fiducia, che significa una fiducia fondata su una maggiore conoscenza e attenzione collettiva a quel che davvero accade nel mondo scientifico. La scienza, pura o applicata che sia, può diventare “etica” e tornare a guardare alle reali necessità umane. Ma per farlo necessita di una spinta e di un controllo, e quelli siamo noi, attraverso i nostri comportamenti politici collettivi e quelli morali individuali, a doverli esercitare. Di fronte a situazioni come quelle attuali, e non mi riferisco solo alla pandemia, non ci sono più alibi per il disimpegno, e non serve a nulla ritirarci schifati sull’Aventino. Il progresso non è né il vento della volontà divina né l’alito fetido di un Moloch che ci divora. È ciò che la nostra natura e la nostra coscienza ci impongono di perseguire.

Per farlo avremo un gran bisogno di Perseverance. Ma che si muova qui, sulla terra.

Avevo promesso qualche indicazione di lettura. Eccone alcune, per cominciare.

BURY J. B. – Storia dell’idea del progresso, Feltrinelli 1964

EDELSTEIN, L., L’idea di progresso nell’antichità classica, Il Mulino 1987.

LASCH, Ch., Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Neri Poz-za, 2016

HALDANE J.B. S., Dedalo, o la scienza e il futuro, Boringhieri 2008

MUMFORD, L., Tecnica e Cultura, Il Saggiatore 1964

NACCI, M., Tecnica e cultura della crisi, Loescher 1982

ORTEGA y GASSET, J., La ribellione delle masse, SE 2017

ROSSI, P., Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Il Mulino 1995.

RUSSEL, B., Icaro, o il futuro della scienza, Boringhieri 2008

SASSO, G., Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Ottocento e Novecento, Il Mulino 1984.

SCHELER, M., Il risentimento nella edificazione delle morali, Chiare-lettere 2019

SPENGLER, Osvald, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi 2008

SPENGLER, Osvald, L’uomo e la tecnica, Meridiana 2008

TOYNBEE, A., Civiltà al paragone, Bompiani, 1949.

[1] ne Lo scienziato come ribelle, Longanesi 2009

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​La luce fredda dell’Utopia

di Carlo Prosperi, 8 dicembre 2020

Pubblichiamo questi due brevi interventi di Carlo Prosperi, nati in realtà come mail private (naturalmente lo facciamo col suo consenso), perché ci sembrano esemplari del rapporto che il sito dei Viandanti vorrebbe finalmente stimolare. Col primo Carlo è riuscito, commentando un Quaderno comparso recentemente, ad anticipare tematiche che nel frattempo venivano sviluppate con un percorso indipendente da Nico Parodi e da Paolo Repetto (in Altruista sarà Lei!, prossimamente su questo monitor). Col secondo è direttamente entrato nel cuore dello stesso percorso. Sarà solo una coincidenza?

Caro Paolo, ho letto con grande piacere Fuori dall’Eden, ben scritto, lucido nell’impostazione e coerente nelle conclusioni. L’argomento mi ha interessato per due principali ragioni: anch’io in passato mi sono interessato al tema dell’Utopia ed ai suoi alfieri (conosco, infatti, tutti o quasi gli autori di cui parli nella prima parte, a partire da Hudson: gli autori maschili, voglio dire; ed anche molti di quelli che li hanno preceduti, ab antiquo): la loro lettura mi ha disamorato dal tema e mi ha convinto che chi sogna la perfezione in terra, qui o altrove, ora o in tempi altri, non sia solo un visionario, magari anche lucido, sì anche un nemico dell’umanità, uno che pretende di raddrizzar le gambe ai cani o – ch’è lo stesso – il “legno storto” di kantiana memoria. Un allievo o un imitatore di Procuste, insomma.

La seconda ragione è che ignoravo l’Utopia al femminile, e su questo devo dire che mi hai chiarito le idee e aperto nuove regioni da esplorare, quantunque gli esiti che tu stesso mi proponi siano tutt’altro che entusiasmanti. Il difetto principale delle utopie è quello di considerare l’uomo un accidente della (o nella) natura, quando anche l’uomo è un prodotto della natura: è natura. Anche la cultura, arrivo a dire, è alla fin fine natura. Quest’ultima, infatti, non va mitizzata o idealizzata, come tanti fanno, ma non Leopardi, non Schopenhauer, non Darwin. Si ignora o si fa finta di dimenticare che la natura crea ma distrugge anche, che persegue perpetuamente l’omeostasi, che è instabile per amore della stabilità. La vita, di conseguenza, è lotta: una lotta dove di volta in volta c’è chi vince e chi soccombe, dove i vincitori di oggi saranno i vinti di domani. Basta pensare, poi, alla catena alimentare (su cui prima Goethe e quindi Foscolo e Leopardi si sono soffermati). La ragione può pensare di rendere meno esiziale, meno aspra e violenta la lotta, ma non può pretendere di correggere la natura: non di ignorare o eliminare l’innata aggressività (espressione individuale della Voluntas, per dirla con Schopenhauer). Ora, volendo perseguire la perfezione, non si approda al paradiso, ma all’inferno. E questo la storia lo ha dimostrato. Eric Voegelin, soprattutto ne Il mito del mondo nuovo, ne ha disquisito in maniera a parer mio magistrale.

Io, per quanto mi riguarda, sono giunto alla conclusione che Mandeville nella sua satirica Favola delle api, a suo tempo da me disprezzata e negletta, si sia avvicinato alla verità più di altri accreditati filosofi. Soprattutto quando asserisce che gli uomini agiscono per autocompiacimento con considerazioni non del tutto razionali. Ciò che rende razionali le azioni umane non è infatti l’intenzione umana in quanto tale, ma le tradizioni e le istituzioni che le veicolano. Credo che Mandeville sia stato uno dei primi, se non il primo, a intendere la società come insieme di ordini spontanei e credo pure che Hume si sia rifatto a lui nel sottolineare la superiorità di un ordine che si produce quando tutti i membri obbediscono alle stesse regole astratte, perfino senza capirne l’importanza, rispetto a una condizione in cui ogni azione individuale è decisa sulla base di vantaggi, ossia considerando esplicitamente tutte le conseguenze concrete di una particolare azione.


Su questa strada arriverai a capire anche la mia ammirazione per Friedrich von Hayek e la mia avversione per ogni costruttivismo. La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto. Di qui le aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia, magari chiamando una mulatta a fare la parte di una biondissima Anna Bolena o un nero a rivestire il ruolo dell’ispettore Javert in un recente film su I Miserabili (nella Francia di Carlo X e di Luigi Filippo!). Sono i frutti perversi dell’Aufklärung. È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione.

Tutti conosciamo i Terrori (uso volutamente il plurale) generati dall’idolatria della Ragione: quelli partoriti dagli utopisti, non è un caso, come tu stesso noti, sono sogni algidi e refrattari. Ma non potevano essere diversamente, per uno come me che crede nell’eterogenesi dei fini. Un tema vichiano, questo, con cui ho polemizzato di recente con Diego Fusaro, cui facevo notare che la comunità è un organismo vivente, dove le differenze esistono e vengono valorizzate, creativamente, a profitto di tutti, e dove i valori condivisi costituiscono il cemento, anzi la base dell’ek-sistere dei singoli, da cui dipende il destino della stessa comunità. La concertazione interindividuale di Marx fallisce quando non tiene conto dell’eterogenesi dei fini e pretende di forzare la situazione trasformandola radicalmente, con la rivoluzione, che è un distacco violento dalla tradizione, senza considerarne da un lato la forza d’inerzia e dall’altro quanto c’è di sopraffattorio e di costrittivo nell’azione intesa a reprimere e sopprimere le resistenze di chi – dall’interno e dall’esterno – alla rivoluzione si oppone.

Non so se sono stato chiaro. Ma so di doverti ringraziare perché sei sempre uno stimolo potente per me e per le mie elucubrazioni. Spero dunque che il nostro colloquio continui. In fondo è anche un modo salutare di distogliere la mente dalla pandemia che ci insidia e che l’inettitudine di chi ci governa (in tutti i sensi) aggrava. Un abbraccio e… a presto, Carlo.

​… e quella tiepida della tradizione

Caro Paolo, ripensando al nostro ultimo colloquio (telefonico), mi è venuto in mente quanto scrissi tempo fa ad un amico, ex sindaco di Castelnuovo Scrivia, Gianfranco Isetta, che mi aveva “stuzzicato” (lui è un lucreziano convinto: tutto è atomistica casualità, nulla ha senso, e la poesia stessa – lui è un raffinato poeta – è pura sintonia con l’eterno divenire della natura) sul tema di Dio, sul problema di credere o meno, sul perché di questa o quella fede. Ti mando uno stralcio della mia risposta, che si aggancia al nostro discorso.

E, al solito, ti saluto con affetto, Carlo.

La scienza – scrive Paolo Flores d’Arcais, Etica senza fede, Einaudi – dimostra che Dio non esiste. In realtà la scienza, per principio, non dimostra nulla e tanto meno può darci certezze di ordine metafisico. Anzi, a dire di K. R. Popper, non ci dà neppure certezze di tipo scientifico, perché una proposizione scientificamente valida è una proposizione non ancora falsificata, ma tuttavia in linea di principio falsificabile. Che è come dire che un ateismo positivisticamente fondato sulla scienza è diventato, per rigorose ragioni metodologiche, del tutto impossibile. Compreso l’«ateismo scientifico» di Marx. D’altra parte, se è vero che è molto difficile dimostrare che Dio c’è, tuttora ben più difficile resta dimostrare che non c’è. Forse la soluzione più onesta è sospendere il giudizio, come fa chi è agnostico e dice: allo stato dei fatti non sono convinto che Dio esista ma non posso escludere questa possibilità. Que sais-je? Je m’abstiens, asseriva Montaigne. Ci sono più cose in cielo e in terra che in qualunque filosofia, per dirla con Shakespeare. Anche quella atea è un’opzione che richiede un atto di fede. La fede è appunto una scommessa – come quella teorizzata da Pascal – su di un dato che non è in se stesso apoditticamente certo. Si scommette perché si pensa di non poter sospendere indefinitamente il giudizio, e si scommette, in fondo, sull’ipotesi che ci piace (o ci persuade) di più. L’ateismo che pretende di sequestrare per sé il pathos della scienza e il lume della ragione non fa che degradare il livello della discussione. Dimenticando che laddove il credente sa di credere, l’ateo pensa di sapere: inganna e si inganna. Vale la spesa di ricordare la battuta famosa di Chesterton: «Chi non crede in Dio, non è che non creda in niente: in realtà, crede a tutto». Magari agli indovini e alle fattucchiere. Ciò detto, mi sembra evidente che una fede non valga l’altra. L’albero si riconosce dai frutti che dà. O che ha dato. In questo mi sembra che il cristianesimo abbia qualche merito (storico) in più.

Aggiungo un altro stralcio, che prendeva spunto dalle dimissioni di Ratzinger.

Su Ratzinger sono in parte d’accordo con quanto mi scrive Gianfranco Isetta: si è trovato a lottare contro i mulini a vento (qualcuno dice contro lo scatenarsi dell’Anticristo) ed è stato preso dalla sfiducia. Forse più sulle proprie capacità (e forze) di contrastare la crisi, che sulla validità del proprio credo (che continua tenacemente a professare e a difendere). E questa crisi, prima che dall’esterno, viene dall’interno: dalla corruzione che ha inquinato la Chiesa. Non sono persuaso che la Chiesa debba adeguarsi ai tempi e alle ragioni del mondo, se è vero che il Regno dei cieli non è di questo mondo e la sua logica – lo insegna chiaramente sant’Agostino – è tutt’altra: antitetica. Se la Chiesa, come ha fatto e come sta facendo, si adegua alle mode (sul fenomeno moda Heidegger ha scritto pagine a parer mio insuperate: la moda è la modernità che si autodivora, che di continuo deve rinnegarsi per sussistere, un’immagine di quella che Hegel giustamente chiamava “cattiva infinità”), è finita. Smarrisce il suo ruolo e il suo senso, ben espresso nel detto: stat crux, dum volvitur orbis. Ma anche l’Occidente, che – non va dimenticato – si basa sugli apporti di Gerusalemme, di Atene e di Roma, da quando rinnega le proprie radici (anche cristiane), va incontro al tramonto, nell’anomia più sfrenata, dovuta ad una incontrastata “volontà di potenza”, che, a furia di volere (e di volersi), lo porta a superare ogni limite, come una locomotiva impazzita che a folle velocità corra verso la catastrofe. I Greci la chiamavano hybris, tracotanza.

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Naturalmente

di Marco Moraschi, 12 novembre 2020

C’è un aspetto importante che questa pandemia ha fatto riaffiorare, ma che tuttavia non mi sembra sia stato ancora analizzato. Il coronavirus è la prima vera emergenza, non causata dall’uomo, a riguardare l’umanità intera da almeno 50 anni a questa parte. Per quanto mi riguarda, è la prima emergenza mondiale della mia vita. Credo che il disorientamento che molti di noi provano di fronte a questa situazione inedita sia dovuto al fatto che per la prima volta nelle nostre vite avvertiamo la Natura come Matrigna. L’immagine della Natura a cui siamo abituati è quella che vediamo nei documentari: paesaggi incredibili che destano invidia e stupore per un paradiso perduto, divelto dalla mano artificiale dell’uomo. Ovunque nelle pubblicità continuiamo a sentire il richiamo del naturale come qualcosa di incredibilmente attraente, che si contrappone a ciò che è invece artificiale, industriale, umano. Vogliamo cibo biologico ritenendolo più sano e sicuro di quell’altro (non saprei neanche come definirlo), ci facciamo i selfie in montagna per mostrare quanto amiamo l’ambiente selvaggio, lanciamo hashtags sui social per difendere l’orso polare che sta perdendo il suo habitat naturale nel pack artico.

Per noi la Natura è madre, è Madre Natura, una divinità buona e antica, la più antica di tutte, ritornata poi sotto altre vesti in Dio Creatore, buono e misericordioso, che ha creato la nostra bella Terra, l’Eden, paradiso naturale andato perduto per colpa dell’uomo. Le nostre remore di fronte a questo virus, e probabilmente il motivo per cui molti ne sono negazionisti, da chi sostiene che non esista a chi ritiene che sia stato creato in laboratorio, derivano credo tutte da quest’unica convinzione: la Natura non può allo stesso tempo essere Madre e aver creato un virus letale, dev’esserci sicuramente lo zampino dell’uomo. Il conflitto risulta ancora più evidente se anziché alla Madre, si pensa al Padre: come può Dio Padre, buono e misericordioso, che si prende cura dei suoi figli, aver creato quest’abominio? La risposta, a mio avviso, è ovviamente che Dio Padre non esiste, ma lascio i conflitti teologici a chi ha più tempo da perdere di me.

Non siamo mai stati così tanto amanti della natura come da quando ci siamo allontanati parecchio da essa, riparandoci al sicuro delle nostre case con riscaldamento, acqua potabile ed elettricità. Se vivessimo la natura da animali tra gli animali, in una savana piena di insidie e pericoli, ne saremmo terrorizzati. Nessun antibiotico a proteggerci dai batteri patogeni, nessuna protezione dalle intemperie, nessun aiuto da macchine artificiali che ci risparmierebbero la fatica. Così al sicuro nella modernità, chiusi nella nostra comoda bolla tecnologica, ci concediamo il lusso di disprezzare tutto ciò che l’uomo ha creato, credendo che un ritorno alle origini possa portare giovamento alle vite di tutti. Attenzione però, qui non si sta sostenendo che la Natura sia matrigna anziché madre. Il punto della riflessione è che l’aver considerato la Natura come Madre ci ha condotto in errore, così come lo farebbe il considerarla Matrigna. Questi appellativi sono infatti totalmente inadatti alla Natura (da qui in avanti lo scriverò con la n minuscola perché non amo gli assoluti): la natura non è né madre né matrigna, non è né logica né sensata, tutti giudizi che rientrano in sistemi di misura totalmente umani e inadatti a descrivere l’universo. La natura, la vita, l’universo non hanno senso perché il senso è una proprietà delle frasi del linguaggio, ed è un concetto che non ha senso (gulp) applicare altrove. La natura non ha naturalmente una propria coscienza e non può quindi essere buona, bella o cattiva: è semplicemente indifferente. Per la prima volta capiamo che la vita dell’uomo, nell’universo, è trattata alla pari delle altre specie viventi: il leone uccide e mangia la gazzella, i virus intaccano l’uomo e lo uccidono. L’uomo non ha nulla di speciale, è un essere vivente come tanti e in mezzo a tanti. La natura non ce l’ha con lui e non lo protegge: gli è semplicemente indifferente, indifferente alle sue vicissitudini quotidiane. Quali insegnamenti o considerazioni si possano trarre da tutto ciò lo lascio a voi, per il momento ci accontentiamo di questa riscoperta: siamo soli e proprio questo dovrebbe essere sufficiente a renderci conto che nella maggior parte dei casi siamo padroni di noi stessi. La scienza, la tecnologia, sono creazioni umane: ciò per cui vorremo usarle determinerà probabilmente il nostro destino. Il Covid verrà sconfitto grazie alle scoperte e alle tecnologie umane: sì, quelle artificiali.

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Ideologie coloniali

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

 

La scoperta degli indiani e della loro anima. 1

Buoni e cattivi selvaggi 12

Schiavitù, diversità, razza. 37

 

La scoperta degli indiani e della loro anima

Nel resoconto dei suoi primi approcci con gli indigeni delle Antille, Colombo ci anticipa attraverso alcune significative considerazioni i tratti che caratterizzano l’atteggiamento futuro dei colonizzatori. Egli annota: “Prendevano tutto quello che loro si regalava, e davano assai volentieri di tutto quello che avevano; ma parvemi che potessero dare ben poca cosa, e fosse gente sotto ogni aspetto molto povera”. Più oltre: “[…] essi debbono essere molto servizievoli e di buon carattere”. E poi ancora: “Mi sembra che se potrebbe fare subito dei cristiani, perché pare che non abbiano alcuna religione”. Infine: “Non hanno ferro. Le loro zagaglie sono bastoni senza ferro […] conoscono male l’uso delle armi […] cinquanta soldati sarebbero sufficienti a renderli inoffensivi e a far fare loro ciò che si vuole”.

C’è in primo luogo la preoccupazione di fondo, che concerne il movente principe della spedizione, quello economico. Gli indigeni sono disponibili allo scambio, e probabilmente la loro ingenuità consentirebbe traffici assai vantaggiosi: ma non possiedono nulla di ciò che muove l’interesse degli europei: né l’oro, né le spezie. Colombo non può fare a meno di rilevarlo, sia pure marginalmente, e lasciando appena trapelare la constatazione in mezzo all’entusiasmo per il compimento della traversata e alla curiosità per l’incontro con i nativi. Deve prendere atto che sotto il profilo economico l’impresa si sta rivelando fallimentare: in Spagna i suoi finanziatori attendono carichi di pepe, di cannella, di chiodi di garofano, oppure di tessuti o di preziosi, non certo pappagalli o selvaggi piumati da esibire. I suoi rivali portoghesi hanno trovato sulla rotta orientale l’oro della Guinea, e sono comunque certi di approdare prima o poi direttamente ai mercati indiani. L’ammiraglio non può ammettere che la “sua” via e le scoperte risultino antieconomiche: gli indigeni hanno poco da offrire, ma sono “molto docili e servizievoli”, e di lì a poco verrà proprio da lui la proposta ai sovrani di utilizzarli o di venderli come schiavi. Per il momento si limita a reclutare nei loro villaggi delle mogli per i propri uomini, e a portarne alcuni con sé, in Europa, come campionario.

Dai prosaici calcoli commerciali, la cui momentanea frustrazione non induce affatto un declino delle speranze, si passa a più elevate preoccupazioni di promozione spirituale. Gli amerindi, privi almeno in apparenza di un culto religioso, offrono una notevole occasione missionaria. I dubbi sulla loro appartenenza o meno al genere umano sorgeranno più tardi, quando sarà ormai comprovato l’isolamento del continente americano e non si riuscirà a farli rientrare in alcuna delle stirpi bibliche. Dall’evidente vacanza di una religiosità “positiva” organizzata, Colombo deduce invece soltanto che gli indigeni non hanno un dio. La sua fede non è formale e convenzionale: egli è fermamente convinto del dovere di diffondere la “vera religione”, con le buone o con le cattive: “se ne potrebbe fare subito dei cristiani”, appunto.

Infine, visto che il livello di organizzazione politica e militare è ben diverso da quello che ci si attendeva (Colombo era munito di lettere dei sovrani per il Gran Khan), emerge anche il dato tutt’altro che trascurabile dell’estrema debolezza bellica dei nativi: armi primitive e spirito fondamentalmente pacifico. Anche se l’ammiraglio sarà parzialmente smentito dalla feroce resistenza offerta dai Caribi, la sostanziale innocuità degli indigeni sarà uno dei fattori di maggiore stimolo per il moltiplicarsi delle spedizioni transoceaniche.

Sugli iniziali contatti con gli abitanti del nuovo mondo pesa tutto il retaggio di sogni, speranze, paure, fantasticherie liberatorie o paurose di cui gli europei hanno da sempre caricato il mistero occidentale. In un primo tempo è presente anche, e lo abbiamo accennato per Colombo, l’inquietudine generata da una supposta profanazione: non ha forse i tratti dell’Eden, questa terra dal clima incredibilmente mite, che nutre i suoi abitanti senza spremere il loro sudore, che appare come un immenso giardino per la varietà e la ricchezza della sua flora? La sensazione di aver violato un mondo estraneo al tempo e alla storia umana resiste anche alla concreta presa di possesso delle nuove terre, alle delusioni che essa arreca e alla nuova barbarie che sembra eccitare negli animi degli europei.

L’innocenza, la semplicità, la gioia di vivere che traspaiono dai primi resoconti sugli indigeni ravvivano l’immaginazione dei contemporanei di Machiavelli (ma non quella del segretario fiorentino), troppo mortificata dalla realtà torbida e violenta in cui sono immersi. Li eccita la libertà e al tempo stesso la naturalezza sessuale, della quale favoleggiano, secondo un inveterato costume, i marinai di ritorno: così come li affascina l’idea di un’esistenza sottratta alla schiavitù del lavoro, fondata sul piacere e sull’abbondanza. Nella fantasia di chi ascolta le meraviglie della fertilità del suolo, del tepore perenne, della debolezza e della cordialità dei nativi entrano in circuito le fabulazioni medioevali sulle Indie, assieme al sogno paganeggiante di una rinnovata età dell’oro, diffusa tra gli umanisti quattrocenteschi (Colombo è contemporaneo di Machiavelli, ma anche di Botticelli).

Il nuovo mondo dà linfa al fiorire dell’utopia: da un lato fornisce modelli esotici, sia di felice anarchismo che di efficiente organizzazione politico-amministrativa, cui attingono da Moro in avanti tutti i propugnatori di società “perfette”; dall’altro offre spazi concreti alla sperimentazione e alla realizzazione di “controsistemi” ispirati a nuovi rapporti con la natura e tra gli uomini. Del sogno utopico modifica comunque sostanzialmente i tratti. Le isole fortunate si moltiplicano, ma esse non vanno più alla deriva sugli oceani del mondo, e i loro colori sono familiari.

Al di là comunque delle fantasie liberate, la realtà dell’impatto procura agli europei più di una delusione. Si attendevano un’organizzazione politica, militare e soprattutto commerciale di alto livello, e si trovano di fronte, almeno inizialmente, ad un mondo primitivo, privo di una qualsivoglia struttura economica che consenta traffici regolari e remunerativi. Gli stessi missionari, aggregatisi sin dalla prima ora ai naviganti e ai conquistadores, nella prospettiva di immense greggi da condurre in seno alla chiesa, debbono constatare che i nativi sono riottosi alla conversione e tendono a dimenticare velocemente gli insegnamenti cristiani per tornare alla pratica dei loro culti tradizionali. I più comprensivi tra i religiosi manifestano l’impressione di trovarsi di fronte ad un popolo fanciullo, che dovrà attendere parecchio prima di giungere alla maturità. Esitano talvolta addirittura ad ammetterli ai sacramenti in cui entri in gioco una maggiore responsabilizzazione personale, come l’eucarestia. Ci sono anche coloro che, disgustati della promiscuità sessuale, delle usanze sacrificali, o semplicemente della impermeabilità dimostrata nei confronti della “vera fede”, rinunciano all’opera di evangelizzazione, affermando che “Dio mai creò gente tanto intrisa di vizi e di bestialità, senza mescolanza di bontà o urbanità”. (Tomaso Ortis).

D’altro canto, i problemi di coscienza e gli entusiasmi per il rinvenimento di una umanità più libera e felice sembrano propri soltanto di coloro che col nuovo mondo hanno rapporti puramente intellettuali o sentimentali. Chi invece ad esso concretamente approda è sospinto in genere da motivazioni che non consentono di apprezzare la “qualità della vita” degli indigeni. Al contrario, forti dell’impressione suscitata dalle armi da fuoco e dall’acciaio, ed anche del fatto che i nativi appaiono ingenui, fiduciosi e poco combattivi, gli europei non tardano a mettere in atto una spogliazione ed uno sfruttamento sistematici, improntati al più bestiale misconoscimento di ogni principio umano di carità o di giustizia. Cosa abbia significato per gli amerindi l’incontro con la “civiltà” europea lo dicono chiaramente le cifre. Nel volgere di un secolo una popolazione calcolata attorno ai venti milioni nella sola America Centrale, si riduce a circa un milione: e quella totale del continente, valutata sui quaranta milioni al momento dell’arrivo di Colombo, è ridotta alla fine del ‘500 a meno di dieci[1]. In questo sterminio hanno una gran parte le malattie, soprattutto quelle polmonari e il vaiolo, diffuse dai bianchi; ma senza dubbio la crudeltà, i massacri, le fatiche inumane imposte dai colonizzatoti rimangono il fattore principale. Nulla meglio della testimonianza di Bartolomeo de Las Casas, strenuo difensore della umanità degli Indios e del loro diritto alla libertà, può darci un’idea di ciò che avviene dopo la scoperta e nel corso della “civilizzazione”. Nella Brevisima relacion de la destruccion de las Indias troviamo descritte atrocità ai limiti del credibile. “I cristiani con cavalli e spade e lance cominciarono ad uccidere e usare indicibili crudeltà nei loro confronti. Entravano nelle terre, sventravano e squartavano senza risparmiare né ragazzi, né vecchi, né donne incinte, come se assaltassero degli agnelletti nelle loro mandrie. Scommettevano a chi con una coltellata fendeva un uomo in due, o gli tagliava lo testa di un colpo, o gli scopriva le viscere. Staccavano i neonati dalle poppe delle madri, prendendoli per i piedi, e li sfracellavano con la testa nelle rupi… I signori e la nobiltà li uccidevano normalmente in questo modo. Costruivano graticole di legno sostenute da forchette, e ve li legavano sopra, e sotto attizzavano un fuoco lento: onde poco a poco, gettando tra quei tormenti urla disperate, davano fuori l’anima […] queste cose e altre assai, che fanno fremere l’umanità, vidi io con questi occhi; ed ora ho appena il coraggio di raccontarle, desiderando io stesso non crederle, e supporre che sia stato un sogno”. Egli attacca violentemente anche gli encomenderos: “Finite le guerre, divisero tra loro gli uomini […] e così ripartiti li davano a ciascun cristiano col pretesto che dovesse ammaestrarli nelle fede cattolica: onde costoro, per lo più uomini ignoranti e crudeli, avidissimi e viziosi, eccoli divenire parrocchiani delle anime. La cura e il pensiero che ne ebbero fu di mandare gli uomini nelle miniere a estrarre oro, che è una fatica intollerabile: e le donne nelle capanne, per dissodare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davano da mangiare né agli uni né alle altre, se non erbe e cose prive di sostanza […] È impossibile riferire le some di cui li caricavano, di tre o quattro arrobe, facendoli camminare cento o duecento leghe… sempre si servivano di loro come bestie da soma […] La tirannia che esercitano gli spagnoli contro gli indiani per cercare o pescare perle è una cose più riprovevoli e crudeli che siano al mondo. Non vi è sulla terra vita così infernale e disperata che possa paragonarsi a questa… li mettono in mare, tre, quattro, cinque braccia al fondo, dalla mattina al tramonto. Stanno sempre nuotando a cercare le ostriche. Vengono a galla con alcune reticelle piene di queste a respirare, e lì vi è un boia spagnolo in una barchetta, e se cercano di riposarsi li percuote coi pugni, e pigliandoli per i capelli li butta nell’acqua, perché tornino a pescare”. Las Casas mostra di avere una esatta percezione delle dimensioni dell’etnocidio, quando afferma: “Daremo per certo e reale che, nei detti quarant’anni, per le tirannie e le infernali sevizie dei cristiani sono morti ingiustamente e tirannicamente più di 12 milioni di persone, uomini, donne e bambini; ed io credo in verità, né penso di ingannarmi, che passino i quindici milioni”.

Le divergenze tra la madrepatria e i coloni sul trattamento da usare nei confronti degli indigeni risalgono già ai primi anni della conquista. I sovrani, Isabella in particolare, sono decisamente contrari all’idea dell’asservimento, caldeggiata tra gli altri da Colombo. A Nicolàs de Ovando, primo governatore inviato alle Indie spagnole, fanno pervenire più di un richiamo a non eccedere nella coercizione degli indigeni al lavoro e a retribuirli “pagando loro il salario giornaliero che sia da voi fissato: e ciò facciano e compiano come persone libere come sono, e non come servi”. L’Ovando risponde che l’unico mezzo per far fruttare le terre scoperte è proprio il lavoro coatto: i nativi, pigri e disordinati per indole, necessitano in ogni attività produttiva di una guida e di uno stimolo costante.

Una soluzione accettabile per entrambe le parti sembra essere rappresentata dall’encomienda, istituita nel 1503 nell’intento da parte dei sovrani di salvaguardare i diritti degli indigeni, senza venire a contrasto con i colonizzatori e senza rinunciare alle entrate che lo sfruttamento delle isole caraibiche prospetta. L’encomienda, come si è visto dalla testimonianza di Las Casas, si rivela una forma di schiavizzazione totale e tra le più disumane. Gli indios non “appartengono” all’encomendero, non costituiscono un suo bene o possesso, anche se costui li utilizza come tali: e ciò rende la loro situazione assai più penosa, perché neppure il senso della proprietà interviene in qualche modo a salvaguardarli. Essi sono sfruttati fino a che possono produrre, e quindi lasciati perire di stenti o di malattia; altri, bisognosi d’essere istruiti nella vera fede e “protetti”, li sostituiscono. Las Casas narra di un ufficiale cui furono affidati trecento indios, e nel giro di pochi mesi li ridusse a trenta; ottenuto un ulteriore affidamento, si ritrovò in breve tempo nella stessa situazione: e cosi continuò, dice il narratore, finché il diavolo se lo portò via.

Le prime voci ad alzarsi in difesa degli indios sono quelle dei missionari, in modo particolare quelle dei domenicani. Un religioso giunto da poco a Santo Domingo, Antonio da Montesinos, indignato per la barbarie di cui si trova ad essere spettatore, inizia nel 1511 a denunciare con violente predicazioni l’ipocrisia e la ferocia degli encomenderos. Ottiene al momento soltanto di venire in odio ai suoi vecchi compatrioti, che ne sollecitano l’allontanamento presso la corte e i superiori. Il germe di una diversa coscienza del problema indiano è comunque gettato. Tornato in patria, Montesinos si fa assertore intrepido all’interno del suo ordine e di fronte al consiglio della corona dei diritti degli indios e del rifiuto di qualsiasi forma di schiavitù; e non lotta invano, se nelle disposizioni date ai missionari domenicani è compreso da allora il rifiuto dell’assoluzione per gli encomenderos indegni. Più tiepidi al riguardo appaiono invece i francescani, che hanno nelle isole particolari concessioni e tendono a salvaguardarle sostenendo la necessità di una “tutela” ampia da esercitarsi sugli indigeni.

Nel 1514 inizia la battaglia di Las Casas. Già encomendero al seguito di Ovando, prende i voti in età matura, a 36 anni, e si trova a parteggiare, al momento dello scompiglio suscitato da Montesinos, per i coloni. Non tarda però a provare disgusto, toccato da quella predicazione, per il comportamento dei suoi compatrioti, e a rilevare Montesinos stesso nella difesa degli amerindi presso il consiglio delle Indie, fino ad ottenere il titolo di Protector de Los Indios.

In seguito alle sue sollecitazioni viene inviata ai Caraibi una commissione d’inchiesta, che constata la veridicità delle denunce, ma arriva a concludere che la soggezione degli indios, sia pure in forme mitigate, è indispensabile per la resa economica di quelle terre. Tutt’altro che domo, Las Casas si impegna allora a dimostrare concretamente il contrario. Ottenuta una concessione imperiale, nel 1520 impianta egli stesso una colonia mista di popolamento a Cumana, sulla costa del continente, fondandola sulla parità di diritti tra le due razze. L’esperimento non ha successo, soprattutto per la scarsa disponibilità alla convivenza egualitaria da parte dei bianchi; esso si risolve addirittura in un massacro, causato dalle provocazioni continue dei coloni, cui fa seguito un’immediata, crudelissima rappresaglia.

Neppure questo fallimento riesce tuttavia a far desistere Las Casas da quella che ormai considera la sua missione particolare. È un momento particolarmente difficile per la causa degli indios. Le remore morali che avevano in qualche modo condizionato il comportamento iniziale dei conquistatori, o lo avevano comunque fatto oggetto di riprovazione, sembrano venute meno. Dopo la morte di Isabella la corona si è mostrata scarsamente sollecita nella difesa della libertà degli indigeni. L’assuefazione all’idea di un loro legittimo asservimento induce un altro assioma, quello della loro inferiorità.

Nel 1524 il francescano Tomaso Ortis presenta al consiglio delle Indie una relazione molto esplicita in questo senso. Gli indios vengono in essa descritti nelle tinte più fosche: “[…] Mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra popolazione… non provano né amore né vergogna, sono bestiali ed incostanti, incapaci di apprendimento e di correzione, traditori, crudeli, vendicativi, ostilissimi alla religione: sono stregoni, negromanti, indovini […]. Non hanno arte né abilità da uomini”. La loro resistenza alla predicazione e all’evangelizzazione è tra le colpe più gravi: “Quando si scordano delle cose della fede che hanno imparato, dicono che esse vanno bene per la Castiglia e non per loro, e che non vogliono mutare né costumi né dei”. Persino le costumanze estetiche sono interpretate come perversioni: “sono senza barba, e se gliene cresce un po’ se la tagliano”. Le accuse di cannibalismo e di sodomia sono le più ricorrenti nelle descrizioni “in negativo” delle popolazioni amerinde. La seconda è di prammatica, in tutto il corso della civiltà occidentale, nei confronti di qualsivoglia diversità o dissenso (soprattutto all’interno dei gruppi religiosi o politici). La presenza effettiva del cannibalismo, invece, pratica attribuita nel medioevo solo alle popolazioni leggendarie, colpisce profondamente l’immaginazione europea, che ingigantisce un fenomeno peraltro sporadico e di significato soprattutto rituale. Già nel 1511 un anonimo inglese dà questa descrizione degli indigeni: “… Non hanno re, né signore, né dio, possiedono tutto in comune e vanno coperti solo di piume, come bestie senza ragione vivono mangiandosi l’un l’altro e appendono le salme per affumicarle come noi la carne di maiale”; dove la mancanza di senso dell’autorità e della proprietà è associata, in un comune significato di depravazione, all’antropofagia.

Nel 1526 Gonzalo Fernandez de Oviedo dà alle stampe il suo Sumario de la natural Istoria de las Indias, nel quale vengono ribadite le tesi di Ortis, nel dichiarato intento di giustificare il comportamento degli encomenderos. Las Casas si sente vieppiù spronato nella sua opera di denuncia e di divulgazione delle atroci realtà della conquista. Continua a presentare memoriali al Consiglio delle Indie, e pubblica nel 1542 la Brevisima relaciòn, dalla quale abbiamo tratto i passi sopra riportati. Nel frattempo la chiesa si è espressa ufficialmente sul problema con la bolla Sublimis Deus, emanata da Paolo III nel 1537, nella quale si sancisce la piena umanità e razionalità degli indigeni, e conseguentemente il divieto di privarli della libertà. È una posizione che a molti riesce assai difficile accettare. Las Casas conduce una disputa quasi ventennale con Juan de Sepulveda, teorizzatore di un diritto delle nazioni “civili” a soggiogare quelle primitive, e a condurre quelle ultime alla civiltà “con qualsiasi mezzo”. Al tempo stesso, però, affianca all’impegno teorico l’azione concreta, svolta nelle terre in questione. Riesce a strappare a Carlo V, proprio con la relazione sulla distruzione delle popolazioni indigene, le Nueuas Leyes de Indias, con le quali viene abolito l’istituto dell’encomienda, lasciando in vigore solo le concessioni esistenti fino alla morte dell’affidatario. È un provvedimento un po’ tardivo per gli indigeni, ormai decimati: così come quello successivo delle Ordenanzas sobre discubrimiento del 1573; inoltre, nella realtà, la situazione muta ben poco.

Nell’ideale dibattito che lungo tutto il Cinquecento ha luogo intorno all’“umanità” degli indiani e al livello della loro civiltà, appaiono emblematici gli atteggiamenti di due tra i maggiori protagonisti della cultura dell’epoca: Montaigne e Shakespeare. Il primo ha una posizione nettamente anticolonialistica, fondata su premesse ben diverse da quelle missionarie di Las Casas. Non gli interessa che gli indiani siano in grado di abbracciare e di praticare la fede “superiore” come e più dei bianchi. La sua idea di umanità è talmente ampia da comprendere le manifestazioni più eterogenee del vivere umano, e da accettarle di per sé, senza rapportarle a paradigmi particolari di civiltà, nella fattispecie a quella europea. “Mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi: sembra infatti noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”. La sua amara riflessione sullo snaturamento e l’artificiosità dei rapporti umani lo spinge anzi a scorgere nello “stato di natura” degli amerindi un livello superiore di esistenza. “Quei popoli mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre […]. Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontiamoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie”. Smantella e ribalta persino le accuse che maggiormente si prestavano a suffragare l’imputazione di barbarie, come quella della pratica cannibalesca: “Non lo fanno, come si può pensare, per nutrirsene, ma per esprimere una superiore vendetta… Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente […] e sotto il pretesto della pietà religiosa)”. Ed esprime il suo rammarico per uno stato di purezza e di tranquillità che nell’incontro con gli europei è andato irrimediabilmente perduto: “Temo molto che avremo assai affrettato il suo declino e la sua rovina col nostro contagio, e che gli avremo venduto a caro prezzo le nostre opinioni e le nostre arti […] Quanto a religione, osservanza delle leggi, bontà, liberalità, franchezza, ci è stato molto utile non averne quanto loro: essi si sono rovinati per tale superiorità e venduti e traditi da soli”.

Nel suo ultimo dramma, La Tempesta, Shakespeare ci offre una metafora ben diversa dei rapporti tra barbarie e civiltà. Se pure all’inizio sembra abbracciare tesi anticolonialistiche (“Se colonizzerò quest’isola, farò tutto al contrario… niente traffici, niente magistrature… né poveri, né ricchi, e tantomeno schiavi… nessuna legge né contratto… niente recinti, né lavoro, ecc…”), l’antitesi tra Calibano (anagramma di cannibale) e Prospero si rivela ben presto come lo scontro tra cultura, nella sua espressione superiore, ovvero europea, bianca, e natura, nel significato deteriore di animalità. Alcune affermazioni sembrano riecheggiare le relazioni di Tomaso Ortis, più ancora che le teorie di Sepulveda: “È un demonio, un demonio nato, sulla cui natura l’educazione non potrà mai fare presa”. C’è una componente nuova, nel disprezzo che i bianchi shakespeariani mostrano nei confronti di Calibano: è qualcosa che odora decisamente di razzismo: “[…] ma la tua bassa natura, per quanto imparassi, era tale che gli onesti non potevano sopportare di avvicinarla”. Shakespeare ha probabilmente letto il saggio di Montaigne: ma l’immagine che ha dell’uomo naturale è tutt’altro che edenica. Per lui l’essere umano è comunque soggetto alla corruzione e alla malvagità. Lo stato di natura è imperfetto, è una condizione subumana, che l’uomo civile deve correggere ed educare. Nel caso specifico poi Calibano, nero di origine africana, “a savage and deformed slave”, personifica la bruttezza, che si contrappone alla bellezza di Miranda, la malvagità bestiale opposta alla gentilezza e alla civiltà, e ciò spiega e legittima la sua condizione di schiavitù.

E tuttavia, anche dietro un ritratto così negativo spuntano alcune consapevolezze che rendono ambigua la posizione di Shakespeare. Calibano si rivela infatti violento e malvagio solo dopo aver subito prevaricazioni e provocazioni, mentre all’inizio appare gentile e ben disposto; il suo cambiamento è quindi anche frutto della corruzione portata dall’uomo civilizzato, la cui bassezza può essere persino peggiore della bestialità del selvaggio. Non tutti i bianchi sono come Prospero: anzi, la gran parte dei protagonisti de La Tempesta è di tutt’altro stampo. La malvagità è comune a entrambi i mondi.

La colpa di Calibano sta soprattutto nel desiderare la fanciulla bianca; e naturalmente, in quanto selvaggio e colorato, il suo desiderio non si esprime nella forma civile dell’“aspirare alla mano”, ma nella bestiale ignominia dello stupro. Dopo che per un secolo gli spagnoli, i portoghesi e da ultimo anche i francesi si sono prodigati a ripopolare il nuovo mondo di meticci, la prospettiva di una mescolanza razziale appare ora, a chi sta per soppiantarli nel dominio coloniale, abominevole. Calibano è in fondo la proiezione di tutte le paure che gli abitanti del vecchio mondo hanno nei confronti del nuovo, e degli stereotipi che inventano per esorcizzarle …

Questa visione anticipa dunque, e condensa, lo spirito nuovo del colonialismo, lascia trapelare una diversa inquietudine: “La tempesta è la formulazione di un giudizio, oltre che storia in forma mitologica; è l’Europa che giudica e rifiuta non solo l’indigeno americano, l’indiano, ma tutti gli americani bianchi futuri, che inevitabilmente si trasformano a immagine dell’indiano. E pure il rifiuto non è totale, in quanto quasi all’ultimo momento il portavoce della cultura europea riconosce che il nuovo uomo nato dalla potenza delle tenebre è in qualche modo derivato anche da lui” (Fielder).

Shakespeare non è nuovo a questa ambiguità. È la stessa che troviamo infatti nella vicenda di Otello, e prima ancora in quella di Shylock.

Nella storia del moro di Venezia il vero protagonista negativo è un bianco, un occidentale. Umanamente il povero Otello ispirerebbe piuttosto simpatia; è innamorato, ed è orgoglioso di essere amato da una donna bianca. Ma proprio qui è il discrimine: fin dove arriva l’amore, e dove invece l’orgoglio? Il tragico finale ci dice che è il secondo a prevalere, e questo in qualche modo avvalora il disagio, il sospetto vero che Shakespeare, attraverso Jago, ma non solo lui, insinua: più che l’amore qui sembra in gioco una rivalsa o un riscatto razziale. Non importa che Otello appaia più moderno e più aperto di tutti i suoi nemici (anche se poi, quando gli viene istillato il sospetto lascia libero corso alla sua natura primitiva). La sua colpa non è di aver commesso qualcosa, ma di essere quello che è. E proprio questo è significativo.

Allo stesso modo, ne Il mercante di Venezia Shylock risponde all’immagine demonizzante dell’ebreo già diffusa a partire dal Basso medioevo in tutta l’Europa, ma rafforzata in età controriformistica sia nei paesi cattolici che in quelli protestanti. E tuttavia, le parole che gli sono messe in bocca, alla fine del ‘500, non possono non lasciarci un sapore amaro in bocca, che guasta il “lieto” fine. “Sono un Ebreo. Non ha occhi un Ebreo? Non ha mani un Ebreo, organi, membra, sentimenti, affetti, passioni? Non si nutre con lo stesso cibo, si ferisce con le stesse armi, è soggetto alle stesse malattie, è curato con gli stessi metodi, non sente freddo d’inverno e caldo d’estate come un Cristiano? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto non vogliamo vendetta? Se noi siamo come voi in tutto il resto, vi rassomiglieremo anche in questo”.

 

Buoni e cattivi selvaggi

Nel Settecento non si modifica solo l’immagine fisica che gli europei hanno del globo: cambia anche la percezione delle diverse culture che questo mondo dilatato lo abitano. Dopo lo sconcerto provocato dal primo impatto i popoli “nuovi” sono ora meglio conosciuti e cominciano ad essere inseriti in un quadro che non pretende di trovare corrispondenza letterale nella Bibbia e nella geo-antropologia tradizionale, mentre quelli “antichi” vengono spogliati di tutto il repertorio immaginifico che era loro associato nella classicità e nel medioevo. Una volta conclusa la prima fase della conquista, quella americana, viene anche meno la motivazione più strumentalmente immediata a “demonizzare” le popolazioni indigene, ad accampare la loro presunta barbarie per giustificare la propria. L’immagine che ne risulta è tuttavia mediata da una serie di nuovi filtri, attraverso i quali si attua una rielaborazione del diverso ad uso “interno”. In sostanza, mentre in precedenza la supposizione immaginaria o una conoscenza per la gran parte fantasiosa induceva a proiettare sugli “altri” le paure, le speranze o i rimpianti legati ad una tradizione mitologica o scritturale (e questo vale, come abbiamo visto, ancora per lo stesso Colombo), ora il termine di confronto è costituito dallo stato stesso della civiltà occidentale, con le sue istituzioni, la sua cultura, la sua storia, e gli “altri” fungono da pietra di paragone per esaltarne i pregi o denunciarne i difetti[2].

Su questa trasformazione influiscono quindi tanto le modalità pratiche, motivazionali e psicologiche dell’approccio (ciò che sta fuori non fa più paura – anche perché lo si affronta dall’alto di una superiorità tecnologica e militare – ma incuriosisce e, per i più svariati motivi, attira), quanto il progressivo affermarsi di una “razionalizzazione”, di una concezione convenzionalistica degli istituti sociali, politici e culturali (quella che va da Machiavelli a Hobbes e a Locke per la politica, che passa per la definizione dei “generi” nella letteratura e delle “buone maniere” nel costume quotidiano, che opera attraverso l’adozione di un metodo nella cultura scientifica[3], ecc.). Si è ora disposti a guardare con altri occhi alle culture altre perché non si suppone più un’origine divina dei modelli politici, sociali e culturali propri. Ciò non implica necessariamente una “valorizzazione” del diverso: dal confronto può anche scaturire un sentimento di superiorità, che da culturale tende velocemente a trasformarsi in “razziale”; oppure si può essere indotti a considerare quello in cui vivono gli altri popoli uno stadio più arretrato dello stesso cammino, riconoscendo a tutti una potenzialità di crescita ma avendo chiaro in mente dove questo cammino debba portare. Rimane comunque il fatto che anche in questi casi le differenze di livello vengono imputate alla natura degli uomini, al loro operato, al loro rapporto con le situazioni ambientali, e non alla volontà divina.

La concezione convenzionalistica si traduce pertanto in una considerazione degli altri, dei loro costumi, delle loro credenze e tradizioni, che prescinde da scale di valori precostituite. Solo fino ad un certo punto, però: perché il possibile esito (nella fattispecie, anche il più comune) è il prevalere di una lettura simbolica e strumentale delle diverse esperienze, chiamate in causa non per quello che sono ma per quello che, proprio attraverso il confronto, dicono della cultura occidentale. L’interesse degli europei si concentra infatti sugli elementi più immediatamente funzionali al dibattito politico-filosofico interno: ad esempio, sull’atteggiamento nei confronti della proprietà, che presso i popoli di più recente scoperta o non esiste o è intesa come possesso dei beni clanico o comunitario (il che riduce ad esempio a una normale pratica di scambio ciò che dagli europei è considerato un furto, o addirittura in qualche caso associa a questo comportamento un particolare prestigio); o sulla concezione dell’autorità, e di conseguenza di quella dei limiti e dei modi della libertà individuale; oppure sugli atteggiamenti relativi alla sfera del pudore e della sessualità (dai costumi prematrimoniali alla nudità, all’incesto, ecc…). Spesso queste differenze, vere o semplicemente enfatizzate che siano, vengono giocate a sostegno di una immagine di inferiorità e di barbarie (si pensi al mito del cannibalismo): ma più spesso ancora, e anche a partire da interpretazioni diametralmente opposte, offrono lo spunto per un ripensamento radicale sui fondamenti religiosi, morali e politici su cui si è sviluppata la cultura occidentale. La stessa “barbarie” è sempre meno intesa come la risultante di una degenerazione o di una deviazione dal modello umano originario, e viene letta piuttosto come una particolare condizione storica e sociale all’interno dell’unico percorso possibile verso il modello umano compiuto. Dall’idea del “barbaro” si passa a quella del “selvaggio”.

Tanto è la gente amorevole, e senza avidità, e trattabile, e mansueta, ch’io giuro alle Altezze Vostre che nel mondo non v’è miglior gente, né miglior terra”. Nel corso del suo quarto viaggio Colombo si convince di essere approdato nel paradiso terrestre, e tenta di convincere anche i suoi finanziatori. Naturalmente è l’unico a crederci[4], perché i navigatori che nel frattempo ne hanno seguita la scia, Vespucci tra i primi, hanno capito subito di essere soltanto al cospetto di una terra e di una umanità diverse e ne hanno data notizia all’Europa. La polemica che si origina da questa coscienza e le motivazioni che la alimentano sono già state trattate in queste pagine: le conseguenze sul piano di una presunzione di superiorità non solo culturale ma biologica lo saranno più oltre. Ciò che preme ora ribadire è che alla fine, malgrado tutto, sarà l’immagine proposta da Colombo a prevalere: è sufficiente sostituire l’Eden con lo “stato di natura” e ci si accorge che il navigatore genovese ha in fondo fornito un modello interpretativo destinato ad una enorme fortuna.

Tuttavia, anche se di fatto è il primo “moderno” a parlare in positivo dei “selvaggi”, Colombo non lo fa nei termini propri della modernità, perché non è pronto a riconoscere agli “indiani” una loro originalità culturale[5]. Questo passaggio sarà reso possibile solo dal clima diffuso attorno alla metà del Cinquecento dal tardo Umanesimo, dalla visione laica del mondo e della storia che Erasmo e i suoi eredi oppongono tanto alla Riforma che alla Controriforma, ribaltando l’idea di un’umanità marchiata dal peccato originale e condizionata dal servo arbitrio. Pur considerandolo uno stadio primordiale quasi animalesco, e argomentando ciascuno in maniera diversa, Grozio e Hobbes prima, e poi Pufendorf e altri, fino a Locke e a Leibnitz, teorizzano uno “stato di natura” che suppone quest’ultima come un ordine autonomamente normato, nel quale l’umanità può svilupparsi al di fuori dei limiti sociali e culturali artificiosamente creati dalla “civilizzazione”. I costumi dei selvaggi ne sono appunto la testimonianza, e anche quando vengano interpretati come segni di inferiorità dimostrano comunque che le fedi e le culture dei popoli civilizzati sono frutto di un artificio, e le istituzioni e le leggi nascono da una convenzione.

In questo quadro teorico, e sulla scorta della documentazione fornita soprattutto dai missionari sul comportamento degli europei nei confronti di questi popoli, sugli eccidi e le nefandezze da essi compiuti, sulla sostanziale innocenza di pratiche volutamente interpretate in negativo al primo incontro, è naturale che nasca una riflessione intorno al senso e al destino della cultura occidentale. Lo ha già fatto con largo anticipo Tommaso Moro, traendone un giudizio tutt’altro che positivo: ma Moro, per quanto probabilmente suggestionato dalle notizie sull’incontro con i “selvaggi”, rimane nella sfera del vecchio mondo, al più spostando oltre l’oceano la localizzazione della sua Utopia. Ci ritorna invece con uno spirito nuovo, come abbiamo già visto, dopo la metà del Cinquecento, Montaigne.

Nel celebre “essai” Des Cannibales Montaigne non usa mai l’espressione “buon selvaggio”, che comincerà a circolare solo un secolo più tardi[6]. Le sue riflessioni si fondano soprattutto su l’Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil, autrement dite Amerique, di Jean de Lery (pubblicato nel 1568), resoconto entusiasta della vita degli indigeni del nuovo mondo, che sfronda tutta una serie di luoghi comuni assurdi e dà un’interpretazione in positivo della poligamia, della nudità, dell’assenza di senso della proprietà, arrivando a concludere che se esistono uomini felici, questi sono gli Americani. Montaigne attinge dunque ad una fonte laica, laddove per quasi tutto il suo secolo e quello successivo saranno soprattutto i religiosi, in primo luogo i Gesuiti, a difendere la causa dei popoli primitivi e a ribaltarne in positivo l’immagine. Questo probabilmente influisce sulle conclusioni che il filosofo ne trae, sull’assunzione di un atteggiamento scettico anziché giusnaturalistico. Non ha infatti la necessità di fare un uso polemico delle notizie cui si affida, perché non deve sostenere l’esistenza di alcuna base, naturale o religiosa, del diritto. Si limita a prendere atto della diversità e ad astenersi dal giudizio (sia pure mostrando simpatia per i “selvaggi”). Quella di Montaigne rimane comunque una posizione isolata, dettata dal buon senso e da una sensibilità che difetteranno, per un verso o per l’altro, ai suoi successori. Non è relativismo, ma la semplice coscienza del fatto che ogni cultura ha una storia propria, e che importante è conoscere e capire questa storia, piuttosto che fare confronti tra realtà per molti aspetti e per ragioni naturali e storiche incommensurabili.

Un contemporaneo di Montaigne, Giovanni Botero, scrive: “[…] danno nome di barbari a quei popoli i cui costumi si dilungano dalla ragione e dalla vita comune. Definizione che, se fosse vera, il nome de’ Barbari converrebbe più a’ Greci e a’ Latini che al resto delle genti: perché se vita comune si deve dire quella che mena la più parte delli huomini e Barbari quelli che se ne allontanano, essendo che i Greci e i Latini vivono differentemente da altri e sono meno degli altri, a loro converrebbe il nome di Barbari[7]. In pratica risponde con largo anticipo a Grozio, il quale qualche decennio dopo sosterrà che “[…] il diritto naturale è quello che viene ritenuto tale presso tutto i popoli, o tutti quelli con costumi più avanzati. Un effetto universale postula una causa universale […][8], e definirà barbari coloro che non seguono la retta ragione e la comune consuetudine degli uomini.

L’argomentazione di Botero è fatta propria a metà Seicento anche da Hobbes: “Non di rado accade che tutti i popoli appaiano perfettamente d’accordo nel tenere comportamenti che quegli scrittori (i giusnaturalisti) ritengono essere contrari alla legge naturale[9]. Il criterio non può quindi essere quello del consensus omnium, ma quello per cui la legge naturale è il “dettame della giusta ragione”. E in base a questo, ad esempio, è possibile negare la naturalità del patriarcato, o quella della proprietà privata: allo stato di natura, come dimostrano proprio i costumi dei “popoli selvaggi dell’America”, queste istituzioni non esistono. A prescindere dal fatto che per Hobbes lo stato di natura è comunque tutt’altro che edenico[10], affermare che a dispetto dell’esistenza di diversità culturali inoppugnabili e irriducibili esiste un parametro, e questo parametro non è né il consenso universale né quello dei popoli più civilizzati, è un passo fondamentale. Significa muoversi già su un altro binario, quello che attraverso Pufendorf condurrà poi a Leibnitz[11] e all’illuminismo francese.

Al di là comunque delle sfumature, sia pure tutt’altro che trascurabili, ciò che importa è che tanto Montaigne quanto Grozio e Hobbes affermano l’autonomia dell’essenza umana. Ed è questo a fare la differenza rispetto alla concezione pre-moderna. Di qui innanzi, quale che sia il giudizio che di questa essenza si verrà a dare, il dibattito ruoterà attorno all’idea di una “umanità” che esiste anche al netto della civilizzazione, oltre che della rivelazione. Naturalmente, il passaggio è graduale. Nel corso del Seicento il dibattito si svolge ancora, come abbiamo visto, a tre voci: c’è quella dei conquistatori, che procede attraverso l’uso sistematico della connotazione in negativo (i selvaggi non hanno dio, non hanno leggi morali, non indossano abiti, non conoscono la proprietà, non lavorano, non sono monogami, ecc…) ad alzare lo steccato, a sancire la barbarie e a giustificare l’asservimento; c’è quella dei missionari, quando non si accordi e non diventi strumentale alla prima, che mitiga la contrapposizione, perché pur ammettendo i difetti e l’inferiorità culturale degli indigeni riconosce loro anche una buona disposizione e una certa potenzialità di miglioramento, o meglio di “redenzione”, e rivendica l’innocenza dei loro costumi; e c’è infine quella dei “libertini”, che si innesta su un filone ideologico di polemica antispagnola in nazioni come l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra, e sostiene la naturalezza di questi costumi, capovolgendo il non privativo in un senza dal significato liberatorio[12] e travalicando quel sistema di valori all’interno del quale l’innocenza ancora si pone.

Nel Settecento il confronto in qualche modo si semplifica. Ormai l’idea dell’esistenza di uno “stato di natura” è acquisita, viene costantemente suffragata da una conoscenza delle culture dei selvaggi scientificamente fondata su un approccio etno-antropologico, ed è divulgata dalla letteratura diaristica, dalle relazioni di viaggio e dalle illustrazioni sempre più realistiche e dettagliate che le accompagnano. Su questa base lo “stato di natura” può essere poi letto, a seconda dei casi, secondo il paradigma del “buon selvaggio” o in chiave negativa. Le scuole di pensiero tendono naturalmente a connotarsi nell’una o nell’altra direzione in ragione delle scelte coloniali delle diverse nazioni, per cui laddove i nativi sono considerati degli interlocutori, nel quadro ad esempio di una politica di alleanze o di scambi commerciali, verranno individuati gli aspetti positivi delle loro culture, mentre dove li si vede come un ostacolo nella prospettiva di un insediamento territoriale, o al più come una risorsa da sfruttare in forma schiavistica, se ne sottolineeranno soprattutto l’arretratezza e la disumanità. È così che il dibattito assume coloriture molto diverse in Francia, in Spagna o in Inghilterra[13]. La semplificazione è comunque legata anche al fatto che, una volta uscito dal chiuso dei salotti libertini o delle relazioni dei gesuiti, il dibattito si allarga ora a coinvolgere un’opinione pubblica ben più vasta, e nel farlo rinuncia sempre più alle argomentazioni sottilmente teologiche o filosofiche per dare spazio alle componenti emozionali o spettacolari. L’immagine dei “selvaggi” che circola nel Settecento è piuttosto quella diffusa dal barone di Lahontan o da De Foe, e più tardi da Bernardin de Saint-Pierre o da Bougainville, che non quella dei giusnaturalisti o degli illuministi.

Se vogliamo in qualche modo datare un inizio del “nuovo corso” possiamo farlo risalire al 1683, quando padre Louis Hennepin, un “recollet” belga già aggregato alla spedizione di La Salle, pubblica la Description de la Louisiane nouvellement decouverte au sud-ouest de la Nouvelle France. Mescolando realtà, fantasia e millanterie il francescano descrive una natura incontaminata e fertile (è il primo occidentale a vedere, o perlomeno a descrivere, le cascate del Niagara), racconta di avventure mirabolanti e di grandi passioni, presenta “selvaggi” che parlano con un’arte oratoria degna di Cicerone e conservano intatta la capacità di un alto e nobile sentire. Hennepin conosce in effetti la vita indiana, per essere stato catturato dai Sioux ed avere vissuto con loro, come prigioniero, per qualche mese (afferma addirittura di essere stato adottato da un capo indiano): ma il valore documentario della sua opera è alquanto discutibile. Indubbio è invece l’effetto: il suo racconto, oltre a ravvivare l’interesse per l’America degli ambienti politici e commerciali francesi, fino a quel momento piuttosto tiepido, accende l’entusiasmo di molti giovani assetati di avventura.

Tra costoro c’è il barone Louis Armand de Lahontan, personaggio decisamente controverso e intrigante, che nel 1683, a soli diciassette anni, si arruola nell’esercito e viene spedito in Canada, dove si trova a vivere l’epopea dell’esplorazione della zona dei grandi laghi e delle guerre tra la nazione urone e quella irochese. Lahontan rimane nella nascente colonia per dieci anni, durante i quali impara perfettamente le lingue algonchine e condivide per lunghi periodi la vita e i costumi delle popolazioni indiane. Alla fine, per contrasti nati con il governatore, diserta e rientra in Europa. Naturalmente non può tornare in Francia (anzi, fornisce esortazioni e suggerimenti al governo inglese su come subentrare ai francesi), e pubblica in Olanda nel 1703 i Nouveaux voyages de M. le baron de La Hontan dans l’Amérique septentrionale, cronaca della sua vita canadese, seguiti dai Mémoires de l’Amérique septentrionale, osservazioni sulla geografia e sulle istituzioni delle tribù indigene, nonché da un Supplément aux Voyages, ou Dialogues curieux entre l’auteur et un sauvage de bon sens qui a voyagé, in cui esalta la vita primitiva attaccando violentemente il cristianesimo e la civiltà europea. Nei suoi scritti racconta le peregrinazioni lungo l’alto corso del Mississippi e la scoperta di altro fiume, la “rivière longue”, probabilmente il Missouri, la sua permanenza per più anni nei villaggi algonchini, gli scontri con gli inglesi e con le tribù avversarie. È un racconto vivace ed incalzante, che appassiona i lettori e divulga un’immagine nuova e diversa del selvaggio americano. Nel Supplemento, in particolare, attraverso il dialogo tra lo stesso Lahontan e un capo urone di nome Adario, viene esaltata la condizione di assoluta libertà e serenità dei popoli nativi. L’idealizzazione dello “stato naturale” è mirata soprattutto a mettere sotto accusa le complicazioni e le restrizioni comportate da una civiltà europea avvelenata dalla religione, dalle leggi e dalla proprietà privata[14]. I “selvaggi” non hanno bisogno di giudici, e quindi di prigioni, perché non conoscono la proprietà e nemmeno l’uso del denaro; non hanno bisogno di preti, perché la loro religione è semplice e la loro vita è esente dai vizi tipici degli europei; non hanno bisogno di capi, di funzionari e di burocrazie perché sono liberi e completamente padroni dei loro corpi, e non conoscono discriminazioni tra ricchi e poveri.

Alla stessa immagine perviene, partendo da esperienze e motivazioni decisamente differenti, Anthony Cooper, terzo conte di Shaftesbury, in un saggio sulle “Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi” pubblicato nel 1711. Shaftesbury non ha mai visto un selvaggio, ma non ne fa un problema: ciò che gli preme è trovare argomenti contro la dottrina del peccato originale. Gli indiani raccontati da Lahontan e da Hennepin gliene offrono a iosa: dimostrano che lo stadio “naturale” è assolutamente positivo e che fino a quando non vengono guastati da una civiltà piena di vizi, di ingiustizie e di corruzione gli uomini sono essenzialmente buoni. In un universo che è armonico e ordinato sono necessariamente tali anche le leggi che governano la sfera morale, e il bene comune si accorda pienamente con quello individuale. Non c’è conflitto tra egoismo e altruismo, dal momento che quando l’individuo opera “scelte razionali” queste tengono conto dell’interesse comune, e il singolo persegue il bene universale mentre realizza il proprio. Shaftesbury parte dal principio che “se in una creatura o in una specie v’è qualche cosa di naturale, è ciò che contribuisce alla conservazione della specie stessa e determina il suo benessere e la sua prosperità”. Pertanto, al contrario di ciò che afferma Hobbes, l’uomo è spontaneamente incline alla società con gli altri uomini, poiché l’istinto sociale è insito nella sua stessa disposizione naturale. “Se devi cercare un modello etico”, consiglia dunque al suo lettore “cercalo nella semplicità dei modi e nel comportamento innocente che era spesso proprio dei puri selvaggi, prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci[15]. Shaftesbury va quindi oltre la posizione libertina, che era soprattutto indirizzata ad una contrapposizione ideologica. Non rifiuta la civiltà cristiana, ma la civiltà tout court. E in questo senso va oltre non solo le posizioni di Hobbes, ma quelle dello stesso Montaigne.

Le avventure di Lahontan esercitano un enorme influsso su un’opinione pubblica che cresce con la diffusione della lettura, cosi come le idee di Shaftesbury lo hanno su tutta la filosofia settecentesca: ma questo vale più sul continente che oltremanica. In Inghilterra lo sguardo sui nativi americani rimane in verità piuttosto disincantato. Colpisce in negativo la loro povertà istituzionale e l’assenza di tecnologia. Il modello del pensiero inglese è perfettamente riassunto dal Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. Duecento anni dopo l’isola di Utopia, protagonista è un’altra isola, nella quale però il collettivismo lascia il posto all’individualismo. I selvaggi possono essere buoni, come Venerdì, quando sono disposti a fungere in pratica da schiavi (il fatto stesso che Robinson gli imponga un nome, come fa Adamo con tutte le cose dopo la creazione, invece di chiedergli se ne ha uno, è una chiara presa di possesso), o cattivi, come i cannibali che frequentano l’isola per i loro macabri banchetti, che vanno quindi combattuti e possibilmente sterminati. L’idea di avere qualcosa da imparare da loro non passa a Robinson nemmeno per il capo.

D’altro canto, sia pure con esiti più sfumati, ma adottando comunque un angolo visuale non molto dissimile, il tema del selvaggio americano era già stato trattato da Locke nel secondo dei Due trattati sul Governo (1690). Locke va al sodo. “Mi chiedo se nelle foreste vergini o negli immensi spazi incolti dell’America, abbandonati alla natura senza alcuna bonifica, alcun dissodamento o coltivazione, un migliaio di acri forniranno ai poveri e disgraziati indigeni altrettante comodità di vita quante ne forniscono dieci acri di terra ugualmente fertile nel Devonshire, dove son ben coltivati […]” Poveri e disgraziati: altro che vita beata nella natura. Verrebbe da chiedere a chi i dieci acri fornissero le comodità di vita, stanti le condizioni in cui versavano i contadini inglesi ai primi del Settecento: ma Locke non sta a sottilizzare: “in mancanza dell’incremento apportato dal lavoro, non hanno nemmeno la centesima parte delle comodità di cui godiamo noi”. Il lavoro, la proprietà, il denaro, prima ancora che lo sviluppo delle tecnologie, che era stato uno degli argomenti a favore della superiorità occidentale nel Seicento, costituiscono per Locke il discrimine tra uno stato naturale di miseria ed uno civile di benessere. Da notare che Locke è un sostenitore dello “stato di natura”[16], e che in un altro capitolo dello stesso trattato utilizza in funzione polemica antilegittimista il tema della concordia interna ai gruppi tribali e dell’assenza di dinastie monarchiche, dal momento che i selvaggi eleggono i loro governanti[17], e conferiscono loro poteri limitati ai periodi di belligeranza: “I Re degli indiani sono poco più che generali delle loro armate. Pur avendo un comando assoluto in guerra, tuttavia negli affari interni e in tempo di pace essi esercitano un potere assai esiguo […]”. Ma se la naturale condizione umana non è per Locke la guerra di tutti contro tutti, e ogni uomo ha in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace, è solo nello stato di diritto, o stato sociale, che le regole impresse dalla natura nel suo cuore trovano la piena e concorde attuazione. Gli uomini sono stati creati per vivere in società, e non in solitudine.

In Francia e sul continente il filone letterario-filosofico del “buon selvaggio” trova un terreno più consono, ed è declinato nelle sue più diverse sfumature. Il padre gesuita Joseph François Lafitau (scopritore tra l’altro delle virtù del ginseng canadese e considerato uno dei fondatori dell’antropologia) nel 1724 pubblica Moeurs des Suavagés ameriquains, comparées au moeurs des premiers temps. In questo caso l’esperienza è maturata sul campo, con uno studio approfondito delle popolazioni irochesi, ma è fortemente mediata da una intenzione ideologica (Lafitau sostiene il monogenetismo, e di conseguenza il diffusionismo culturale). Nei riti e nelle credenze dei popoli primitivi ritrova la spiegazione dei riti e delle credenze di quelli classici, tanto da arrivare ad affermare che gli indiani americani sono i diretti discendenti dei Lacedemoni, arrivati nel nuovo continente dopo aver attraversato tutta l’Asia e superato lo stretto di Bering. Anche se non crede ad una assoluta eguaglianza degli spiriti (cosa che invece credeva Fontenelle[18]), Lafitau vede la condizione dei “selvaggi” come uno stadio significativo della storia dell’umanità (in linea peraltro con quanto afferma quasi contemporaneamente Giovan Battista Vico nei Principi di una Scienza Nuova, del 1725). Quindi uno stadio primitivo, nel quale sopravvivono però le qualità fondamentali di coraggio, schiettezza e lealtà proprie degli antichi eroi della classicità.

Ludovico Antonio Muratori, dal canto suo, propone nel 1743, con il Cristianesimo felice de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, una storia delle riduzioni gesuitiche compilata in funzione apologetica dell’operato della Compagnia, proprio nel pieno della tempesta che porterà di lì a qualche anno alla sua soppressione. In questo caso lo “stato di natura” è per Muratori quello che rende possibile la riaffermazione della “vera chiesa”, che consente di veder riapparire “lo spirito dei primi cristiani”, nei quali “abita l’umiltà” che la cristianità europea ha dimenticato. Gli intenti possono apparire diametralmente opposti a quelli di Shaftesbury, ma il presupposto è in fondo lo stesso.

Nelle Lettere irochesi (1752) di Jean Henry Maubert de Gouvest, un ex gesuita dal dente avvelenato, l’irochese Igli è un invece un pretesto in puro stile libertino per mettere alla berlina la religione cristiana, e in generale tutte le fedi, ma anche la cultura formalistica e storicistica degli europei: a questa il “selvaggio” contrappone il suo gusto per la vita e per la natura. Lo stesso spirito informa L’ingénu di Voltaire (1767), dove si raccontano le malinconiche vicende di un indigeno americano schietto e innocente, catturato dagli inglesi, finito a vivere in Francia, convertito al cristianesimo e alle maniere civili, solo per trovarsi a constatare quanto immorale e falsa sia la società evoluta. Voltaire ha peraltro già affrontato il tema dei “selvaggi” nell’Essai sur les moeurs, dove li cita a modello, ma anche in questo caso solo per parlare male dei civilizzati[19]. (Salvo poi darne, come vedremo, un giudizio completamente opposto in un’altra occasione).

Persino Benjamin Franklin, rappresentante di una nazione che nasce sulla negazione agli indiani del diritto alla propria terra e alla propria cultura, che li ha combattuti prima e arriverà poi quasi a sterminarli, prende posizione in loro favore nei Remarks concerning the savages of North America (1784). “Selvaggi li chiamiamo noi – scrive – perché le loro maniere sono diverse dalle nostre, e noi pensiamo di aver raggiunto la perfezione della Civiltà: ma essi pensano la stessa cosa di se stessi”. Franklin rivolge questo scritto, nel quale non manca peraltro di fare le punte a certe esagerazioni e ai luoghi comuni del mito, ai coloni suoi connazionali. «Non dovete essere così sicuri che il vostro stile di vita sia l’unico modo di vivere dignitosamente. Gli indiani sono brave persone, con una forte fede. Il fatto che non sia la stessa fede che praticate voi non significa che non sia “buona”. Dovete anzi sforzarvi di essere più simili a loro, in quanto sono persone ospitali». Troverà un uditorio alquanto distratto.

In Europa invece il mito del “buon selvaggio” conosce un’ulteriore definitiva consacrazione presso il grande pubblico (anche quello femminile, che non legge le relazioni di viaggio o i pamphlets polemici) quasi a fine secolo, nel romanzo Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre (1787). In realtà, qui i selvaggi c’entrano poco, dal momento che i protagonisti sono figli della cultura europea che hanno la ventura di crescere in mezzo all’oceano indiano, in un’isola che pare modellata su quella degli utopiani, dove gli abitanti vivono e lavorano in perfetta armonia, collaborazione ed eguaglianza, e che dovrebbe rappresentare le condizioni esistenti allo “stato di natura”. Ma ci sono tutti gli ingredienti per toccare i cuori ed appagare la voglia di esotismo da cartolina che una nuova forma di sensibilità va diffondendo: una storia d’amore tra adolescenti, lo sfondo di un ambiente da sogno, lontano dalle convenzioni sociali e dalla corruzione della civiltà, il tragico epilogo. Di illuministico c’è solo la formazione dell’autore: per il resto, con Paul et Virginie siamo già in atmosfera preromantica, in una concezione sentimentale della vita e spiritualistica della natura[20]. I passi successivi saranno Les Natchez di Chateaubriand (ma siamo già nel 1801), dove l’idillio scocca tra un europeo e una “selvaggia” figlia della natura, e l’Ultimo dei Mohicani, dove le parti addirittura si rovesciano.

Nel frattempo, però, continua ad essere mostrata anche l’altra faccia della medaglia, quella del “cattivo selvaggio”. Non si tratta necessariamente di rivangare la crudeltà e la brutalità che imperano allo stato primitivo, rappresentazione che anima ad esempio in Inghilterra un acceso dibattito durante la guerra dei sette anni sull’utilizzo di alleati indiani[21]. Anche senza far ricorso ai cannibali o ai sacrifici umani ci si richiama ad una valutazione realistica delle miserabili condizioni, rapportate ai parametri europei, in cui vivono le popolazioni americane: sono condizioni che non sembrano lasciare alcuno spazio a quelle prospettive di costante miglioramento che l’illuminismo pone a significato ultimo dell’uomo.

Il giovane ecclesiastico olandese Cornelius de Pauw pubblica nel 1768 le Recherches philosophiques sur les Américains, un poderoso studio sulla natura delle Americhe e sui loro abitanti. De Pauw ribalta completamente la prospettiva. Sottolinea il ritardo economico, tecnologico e culturale dei selvaggi, e lo spiega da un lato con la natura troppo rigogliosa del continente, che consente di sopravvivere senza impegnarsi molto, dall’altro con la “pusillanimità innata” dei suoi abitanti, la “constitution de la vie sauvage”. In sostanza, la fortuna di un popolo è vivere su una terra che non dia nulla senza la contropartita di uno sforzo, perché induce a produrre più del necessario. Questo è verificabile peraltro anche nei comportamenti dei conquistatori europei: i coloni inglesi stanno “risanando” l’ambiente naturale americano con il loro lavoro, e stanno cercando di trasmettere il loro spirito operoso anche agli aborigeni, mentre quelli spagnoli e portoghesi si sono lasciati ammorbare dall’ambiente e contagiare dalla pigrizia degli indigeni. Come spesso accade, le posizioni più conservatrici o reazionarie si rivelano poi le più lungimiranti. Du Pauw ignora volutamente tutta la letteratura “positiva” delle relazioni gesuitiche e dei pamphlets libertini, ma preconizza un futuro radioso per l’America, sia sul piano economico che su quello culturale, anche se lo pospone di almeno tre secoli (forse per dare il tempo agli aborigeni di estinguersi e agli inglesi di dissodare)[22]. Se si prescinde delle tesi razziste, il suo è in realtà un ritratto dell’America alla metà del Settecento molto più veridico di quelli che circolano nel milieu libertino: ed è anche rimarcabile il fatto che in conclusione l’autore si auguri che non si ripeta in altri continenti quello che è accaduto nel nuovo, dove gli Europei hanno fatto una strage orrenda degli abitanti originari: se non sappiamo far altro che peggiorare la loro situazione, scrive De Pauw, lasciamoli almeno vivere in pace nella loro miseria[23]. Che è già qualcosa di meglio della pretesa di “civilizzarli”, e di più realistico di quella di farne dei modelli.

Uno schivo e misconosciuto frequentatore del gruppo degli enciclopedisti, Nicolas Antoine Boulanger, fa piazza pulita di tutta la mitologia sull’Eden primordiale ne L’Antiquité dévoilée par ses usages, pubblicata nel 1766. Boulanger è un pensatore fuori dal coro, particolarmente ecclettico, precursore di Wittfoghel ma anche di Alfred Wegener, lo scopritore della deriva dei continenti. Parte dall’analisi delle religioni, dei riti e dei miti antichi, ripercorre le fasi dell’imporsi di un dispotismo teocratico originario, fondato sulla paura e sulla debolezza della ragione, e disegna un percorso evolutivo dell’uomo sociale. L’intento è quello di arrivare a smascherare ogni forma di dispotismo politico, che a suo parere altro non è che una teocrazia laica, nella quale le ritualità religiose sono semplicemente sostituite da un cerimoniale politico altrettanto artificioso. Il cammino verso la libertà, intrapreso solo dall’uomo occidentale, perché gli orientali continuano ad essere sottomessi a dispotismi di vario genere, è insieme un percorso sociale e individuale di liberazione dalla natura originaria, tutt’altro che innocente e fiera, di progressiva emancipazione dalle paure e dalla superstizione.

Boulanger non costituisce un’anomalia: testimonia il fatto che nell’ambiente illuminista la naturale bontà dei “selvaggi” e le meraviglie dello stato di natura non sono dei dogmi, ma piuttosto dei pretesti per il dibattito sui modi e sugli esiti del processo di “civilizzazione”. Anche i maggiori esponenti del movimento, primo tra tutti Voltaire, nutrono più di un dubbio. D’Holbach stesso (che peraltro è l’editore delle opere di Boulanger) riporta raccapriccianti episodi delle guerre indiane riferitigli dal barone di Dieskau (quello rappresentato in celebre quadro di Benjamin West mentre sta per essere scalpato da un irochese e viene salvato in extremis dal generale Johnson). Tanto il quadro che il racconto sottolineano il contrasto tra il senso dell’onore e il rispetto dell’avversario degli europei e la vile ferocia dei selvaggi (il barone Dieskau è ferito e indifeso)[24].

La fase americana della guerra dei Sette Anni, combattuta al di fuori di ogni regola militare e di ogni convenzione morale, smorza alquanto gli entusiasmi dei fautori dello stato di natura. Nel frattempo, però, si apre un orizzonte alternativo. Vengono pubblicate in rapida successione le relazioni sui viaggi d’esplorazione nelle terre australi di Byron, di Wallis, di Carteret, di Bougainville e di James Cook, tutti compiuti nel volgere di una manciata di anni, che rivelano l’esistenza di una cultura edenica conservatasi intatta, lontano dalla civiltà e dalla cristianizzazione[25]. Lo specchio nel quale riflettersi non sono più gli indiani americani, ma gli indigeni polinesiani.

I “selvaggi” dei Mari del Sud non sono feroci come gli irochesi né apatici come gli indios sudamericani. Sono allegri, spontanei, ospitali. Non conducono una vita stentata e miserabile[26]. Al momento di ripartire, dopo aver scoperto Tahiti e avervi soggiornato per qualche tempo, Wallis non riesce a trattenere la commozione[27]. Sin dal primo impatto Bougainville è affascinato dalla loro fisicità, gli uomini robusti e tatuati, le donne aggraziate e sensuali: “Le piroghe erano piene di donne che, per l’aspetto gradevole non apparivano di certo inferiori alla maggior parte delle europee, e con queste avrebbero potuto gareggiare con vantaggio”. Il paesaggio stesso suggerisce dolcezza, facilità e felicità del vivere: “Io stesso ho passeggiato diverse volte all’interno dell’isola. Mi credevo trasportato nei giardini dell’Eden[28]”. Ma mentre passeggia nell’Eden lo sta già profanando. Nel corso della prima spedizione Cook scrive nel suo diario: “Stiamo corrompendo la loro integrità morale, già di per sé portata al vizio, e diffondiamo tra loro bisogni e forse anche malanni prima sconosciuti per loro e che servono solo a turbare la tranquilla felicità di cui essi e i loro progenitori hanno sinora goduto”. È trascorso solo un anno dalla partenza di Bougainville.

Il tema del degrado della condizione indigena, della corruzione degli animi e dei costumi indotta dal contatto con gli europei, ricorre nei resoconti di tutti i viaggiatori dell’ultima parte del Settecento e di tutto il secolo successivo. Lo ritroviamo in Georg Forster, che partecipa alla seconda spedizione di Cook, e poi in Humboldt, in Darwin e in Wallace. Costituirà in effetti il leit-motiv di tutta la letteratura etnografica otto-novecentesca, fino a Levi-Strauss e oltre. Riflessioni di questo genere non erano certo mancate anche nei secoli precedenti, rispetto alle civiltà e alle culture americane: ma sono decisamente rafforzate dall’incontro con le popolazioni dei mari del Sud. I motivi, come abbiamo visto, sono essenzialmente due: da un lato la situazione incontrata dai primissimi scopritori, che presenta davvero tutti i requisiti per far pensare all’Eden[29], dall’altro la rapidità con la quale questa situazione si degrada. Tra il racconto di Bougainville e quello di Forster intercorrono dieci anni, e dalla meraviglia si è già passati al rimpianto[30]. È ora di iniziare a tirare qualche somma.

Guillaume Raynal, altro gesuita tornato allo stato laicale, pubblica nel 1770 l’Histoire philosophique et politique des établissements des Européens dans les deux Indes. Nel decennio successivo ne verranno edite altre due successive versioni, ampliate fino a raddoppiarne l’estensione e a conferirle un respiro immenso. Alla fine l’opera viene a costituire quella che può essere considerata la prima storia della globalizzazione, ripercorsa ed interpretata da ogni angolo visuale e con uno sguardo che pone problemi ancora oggi di stretta attualità. L’Hisoire costituisce in effetti il pendant storico dell’Encyclopédie: non a caso dietro ad entrambe c’è il genio di Denis Diderot, non soltanto ispiratore ma materiale estensore e responsabile delle parti più significative. Non si tratta solo della redazione di un bilancio: l’opera è un vero, appassionato manifesto di denuncia di un modello di civilizzazione ferocemente imperialista, che ha esportato in tutto il mondo il dispotismo, le diseguaglianze sociali, l’assenza di libertà e i costumi corrotti tipici della società europea.

Diderot ha una sua particolare posizione sullo “stato di natura”. Pur essendo un apostolo della scienza e più ancora delle sue applicazioni pratiche, delle tecnologie, nelle quali vede lo strumento per un continuo progresso, nel Supplément au voyage de Bougainville, pubblicato nel 1772, sembra non sottrarsi al mito del buon selvaggio. “Noi siamo innocenti, noi siamo felici; e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità. Noi seguiamo il puro istinto della natura; e tu hai cercato di cancellarne il carattere dalle nostre anime. Qui tutto appartiene ad ognuno; e tu ci hai insegnato non so quale distinzione tra il tuo e il mio. Noi siamo liberi; ed ecco che tu hai sotterrato nella nostra terra il simbolo della nostra schiavitù futura”. Chi parla in questo modo è un vecchio tahitiano, che descrive a Bougainville gli effetti prodotti tra la sua gente dall’arrivo degli Europei.

Il vecchio risponde a distanza di ottant’anni ai giudizi di Locke: “Noi possediamo tutto ciò che ci è necessario, tutto ciò che è bene per noi. Siamo forse degni di disprezzo per non aver saputo crearci bisogni superflui? Quando abbiamo fame, noi abbiamo di che sfamarci; quando abbiamo freddo, noi abbiamo di che vestirci […] Ricerca fin dove vuoi quelle che tu chiami comodità della vita; ma consenti a esseri forniti di buon senso di arrestarsi quando essi potranno ottenere soltanto, dalla continuazione dei loro sforzi penosi, dei beni immaginari”. La risposta in verità vale anche per il Bougainville reale, che a giustificazione della partenza per il suo giro attorno al mondo aveva scritto: “Si troverà nei mari del sud una sorgente inesauribile di esportazione per i prodotti francesi, a vantaggio delle popolazioni immense che li abitano e che, nell’ignoranza in cui vivono, apprezzeranno infinitamente ciò che la nostra cultura ha reso così comune e ha ridotto da noi a così vil prezzo. Di lì trarremo i beni che la natura offre laggiù[31].

Il portavoce di Diderot mette persino in questione la superiorità razionale degli europei: “Lasciaci i nostri costumi; essi sono più saggi e più onesti dei tuoi: non vogliamo scambiare ciò che tu definisci la nostra ignoranza con i tuoi lumi inutili”. La conclusione è perfettamente in linea con quelle di Lahontan e di Shaftesbury, e in parte, come vedremo, anche con quelle di Rousseau: “Esisteva un tempo un uomo naturale; all’interno di quest’uomo si è introdotto un uomo artificiale, e nella caverna si è accesa una guerra continua che dura per tutta la vita. Talvolta l’uomo naturale è piú forte, talvolta è invece sconfitto dall’uomo morale e artificiale. […]

Ma allora, si deve civilizzare l’uomo, oppure abbandonarlo al suo istinto? Se si deve rispondere francamente, dirò che dovete civilizzarlo, se avete intenzione di diventarne il tiranno: avvelenatelo quanto piú potete di una morale contraria alla natura; frapponetegli ostacoli di ogni specie; impedite i suoi movimenti in mille modi; ispirategli fantasmi che lo spaventino; perpetuate la guerra nella caverna, di modo che l’uomo naturale sia sempre incatenato ai piedi dell’uomo artificiale. Se invece lo volete felice e libero, non intervenite nelle sue faccende: già troppi incidenti imprevisti lo condurranno alla luce e alla disperazione; e restate pur sempre convinti che non è a vostro profitto, ma per proprio vantaggio, che alcuni saggi legislatori vi hanno costruiti e conformati così come siete”.

Mezzo secolo dopo sembra di sentir ripetere il discorso di Adario a Lahontan. Ma non è la stessa cosa. In mezzo ci sono una militanza illuminista eclettica e perennemente curiosa, fatta di profonde e sincere amicizie e di rispetto intellettuale per le opinioni altrui, i rapporti con il sensismo materialistico di Condillac e D’Holbach, la conoscenza del pensiero di Shaftesbury, del quale Diderot ha tradotto le opere principali e adottate le idee di tolleranza: c’è, soprattutto, una rara capacità di mettere in discussione i propri convincimenti, di fronte alle realtà e alle situazioni che le nuove conoscenze fanno intravvedere. Diderot non pensa affatto che l’uomo debba abbandonarsi ai suoi istinti o lasciarsi determinare dalle forze naturali. La libertà dell’individuo sta per lui proprio nella capacità di dominare gli uni e le altre, o quantomeno di sottrarsi al loro condizionamento, e quindi alla superstizione e ai pregiudizi, attraverso la conoscenza tanto dei fenomeni naturali che della storia umana. È ben lontano dall’idea di uno stato naturale edenico. Ma ci sono degli aspetti del racconto di Bougainville che lo hanno profondamente colpito. Il primo è la sensualità spontanea e innocente dei tahitiani (“La ragazza lasciò cadere negligentemente una stoffa che la copriva e apparve agli occhi di tutti nello stesso modo in cui Venere apparve al pastore frigio”, scriveva Bougainville), che al contatto con gli europei si è degrada immediatamente a lussuria. Diderot fa dire al vecchio: “Le nostre figlie e le nostre donne sono comuni; tu hai condiviso con noi questo privilegio, e hai acceso in esse furori sconosciuti. Esse sono diventate folli nelle tue braccia, e tu sei diventato feroce tra le loro. Esse hanno cominciato a odiarsi; voi vi siete battuti per esse, e ci sono ritornate macchiate del vostro sangue”. La prima lotta per la liberazione dalle paure e dai tabù concerne per Diderot proprio la sfera del corpo (coerentemente col suo sensismo): conoscerlo e viverlo appieno significa riprenderne possesso, dopo l’espropriazione operata per tanti secoli tanto dalla chiesa quanto dai poteri civili.

Il secondo aspetto concerne i rapporti sociali e il loro legame con il regime economico, l’assenza di sperequazioni tra ricchi e poveri. Bougainville aveva scritto: “È probabile che i tahitiani pratichino fra loro una lealtà che non conosce incrinature. Siano essi in casa o no, giorno o notte, le case sono aperte. Ciascuno coglie i frutti nel primo albero che incontra, o ne prende nella casa in cui entra. Parrebbe che, per le cose assolutamente necessarie alla vita, non esista il diritto di proprietà, e tutto appartenga a tutti”. E infatti il vecchio accusa: “Qui tutto appartiene ad ognuno; e tu ci hai insegnato non so quale distinzione tra il tuo e il mio”. Il paradiso perduto, insomma, non è tanto quello esotico dei mari del Sud, ma quello domestico di un’Europa dove la “civilizzazione” ha coinciso con un progressivo asservimento: “Richiamiamoci a tutte le istituzioni politiche, civili e religiose: esaminatele profondamente – e, se non mi inganno, vi vedrete la specie umana piegata di secolo in secolo sotto il giogo che un ristretto numero di imbroglioni si proponeva di imporle. Diffidate di colui che vuol mettere ordine”.

Di questo asservimento mascherato dai vuoti rituali politici e religiosi e dall’ipocrisia delle buone maniere, messo ora a nudo attraverso la brutalità con la quale si è espanso a tutto il globo, l’Histoire di Raynal e Diderot offre una radiografia cruda e indignata. È una lettura delle forme del potere e del nascente imperialismo che lascerà il segno, anche se a prevalere nell’immediato parrà piuttosto la lezione di Rousseau.

Paradossalmente, tra i pensatori illuministi Rousseau è quello meno vicino al mito del buon selvaggio. Mentre il modello giusnaturalista dava dello stato di natura un’interpretazione “realistica”, collocandolo in un periodo storico o in uno stadio particolare del processo di incivilimento, Rousseau lo assume invece come categoria teorica[32]. Con lui lo “stato di natura” diventa in maniera esplicita un criterio di giudizio per sviluppare la critica del presente e condannare le ingiustizie e le disuguaglianze indotte dalla civiltà. Pur essendo un avido lettore di resoconti di viaggio non è particolarmente entusiasta dei costumi delle popolazioni amerindiane (e nemmeno appare commosso dal loro sciagurato destino)[33]. I dati etnografici gli servono soltanto a elaborare il paradigma di una ideale “sauvagerie”. Il selvaggio da lui ipotizzato non è né buono né cattivo, vive in una sorta di limbo di innocenza. Nel Discorso sulle scienze dice: “I selvaggi non sono precisamente cattivi, per-ché non sanno cosa sia essere buoni; poiché non è l’accrescimento dei lumi né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio che impedisce loro di fare il male”. Adeguando esattamente i loro bisogni alle risorse di cui dispongono non necessitano di sviluppare le arti e le tecniche o di creare istituzioni sociali. Allo stadio naturale l’uomo torna ad apparire a Rousseau come un essere “senza”, senza occupazione, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra e senza legami[34]. È evidente che non sta pensando agli Uroni o agli indios amazzonici, ed anche che non auspica un ritorno allo stato “selvatico”.

L’“uomo naturale” possiede in potenza due strumenti fondamentali per uscire da questo torpore: il libero arbitrio e la capacità di perfezionarsi. Stimolato da fattori esterni, ambientali, l’uomo ha utilizzato questi strumenti, ma in maniera sbagliata: ha iniziato a costruirsi una famiglia, ha inventato la metallurgia e l’agricoltura, le quali a loro volta hanno indotto il senso della proprietà e le disuguaglianze, e di conseguenza lo Stato, per difenderle e perpetuarle. L’uscita dallo stato primitivo ha coinciso quindi con il passaggio dall’uguaglianza primitiva alla disuguaglianza propria della società progredita: in questo senso la storia non è che una “deviazione”. Per certi versi l’uomo civile è superiore all’uomo primitivo: ma si tratta di recuperare la bontà e la felicità che furono propri di quest’ultimo, e lo si può fare solo con una diversa educazione, che lo lasci liberamente sviluppare secondo natura.

I buoni selvaggi sono quindi per Rousseau piuttosto i montanari svizzeri (peraltro già portati ad esempio anche da Locke) che gli americani. La prossimità alla natura consiste per lui nella fedeltà a una vita semplice e operosa, rispettosa delle antiche tradizioni di libertà: quella in definitiva che può essere riscontrata, senza tanti esotismi, nella repubblica ginevrina. Non sono tanto i modi della vita, quanto i sentimenti naturali, la contrapposizione ai costumi corrotti degli stati assolutistici, a determinare il grado di libertà.

L’incontro settecentesco con la diversità non riguarda però solo i “selvaggi”. Sono “diverse” anche quelle culture con le quali esiste un’antica consuetudine, ma che vengono ora riscoperte sull’onda di un espansionismo economico (e presto politico e militare) che ingenera necessariamente anche una curiosità culturale. L’immagine dell’Oriente era rimasta per secoli quella trasmessa da Marco Polo e dagli altri viaggiatori nel XIII e XIV secolo, mediata prima dai rapporti con Bisanzio e poi da quelli intrattenuti soprattutto da Venezia con il mondo ottomano, e per suo tramite con la cultura arabo-mussulmana: una mescolanza di mistero, di favola, di crudeltà e di vita intensa dei sensi. Ancora agli inizi del Seicento la letteratura (si pensi al Tasso o a Marino) insiste su questa immagine fortemente sensuale, ripresa e rafforzata negli scritti degli esploratori e dei viaggiatori, che sottolineano sempre gli aspetti “scandalosi” o semplicemente disinvolti della sessualità nelle popolazioni extra-europee: l’idea dei mondi nuovi come luoghi della libidine e dell’eros si riverbera anche su quelli antichi.

La penetrazione dei portoghesi prima e di olandesi, britannici e francesi poi nell’estremo oriente fa conoscere però anche altre realtà: e sono soprattutto i missionari gesuiti affluiti in Cina e in India a strappare il sipario del favoloso e a raccontare agli stupefatti occidentali di società ordinate, laboriose e civili quanto e forse più quella europea. Verso la fine del XVII secolo le relazioni di Matteo Ricci e dei suoi confratelli, le opere di Athanasius Kirkner, insieme all’importazione delle sete, delle ceramiche e del segreto della porcellana, creano una vera e propria mania per le cineserie, ma anche una forte curiosità intellettuale per i costumi di un popolo che sembra aver elaborato leggi perfette, che utilizza amministratori reclutati per concorso ed ha elaborato un sapere filosofico di altissimo livello. La Cina influenza per quasi un secolo il gusto europeo non solo in ambito letterario (Il mandarino meraviglioso di Carlo Gozzi), ma nell’architettura, nell’arredo, nella costruzione dei giardini, sposandosi felicemente con il rococò. Dopo la metà del Settecento, invece, in concomitanza con il tentativo di colonizzazione francese dell’India e la guerra anglo francese che ne consegue, l’interesse si sposta e la sinomania lascia il posto allo studio dei costumi e della religione indiana, aprendo tra l’altro un nuovo fondamentale capitolo negli studi linguistici.

Anche l’oriente arabo conosce un forte ritorno di interesse a partire dai primi anni del sec. XVIII, ma in una direzione diversa. L’edizione francese de Le mille e una notte, del 1704, nella traduzione di Antoine Galland, avvalora l’immagine di luoghi magici e favolosi e incontra un’enorme fortuna tanto in Francia quanto in Inghilterra, dando l’avvio alla moda letteraria del racconto o della fiaba ambientati in un Oriente che è tutto una caverna di Aladino. Gli stereotipi di questa forma di esotismo sono quelli perfettamente riassunti nel Vathek (1786) di William Beckford (autore anche di pregevoli libri di viaggio), dove la magia, e addirittura il demoniaco, si mescolano con l’erotismo, la violenza, la crudeltà, i saperi misteriosi e ogni altro ingrediente capace di solleticare i sensi e la fantasia, piuttosto che la razionalità. Ma la speziatura orientale viene utilizzata, con finalità diverse, anche in altri contesti: per aggiungere sapore al racconto galante (il Sophà di Crébillon fils) o per travestire sotto spoglie esotiche la critica dei costumi e della società occidentali.

Un’utilizzazione satirica dell’esotismo era già stata fatta da Montaigne, che aveva raccontato gli stupori e le perplessità di due cannibali capitati a Rouen. Alla fine del Seicento Giovanni Paolo Marana ne “L’esploratore turco nelle corti dei principi cristiani” (che i francesi traducono “L’espion turc”) fa giudicare gli Europei da un preteso viaggiatore orientale e lancia un nuovo modo di far satira, che di lì a poco conoscerà il suo capolavoro con le Lettres Persanes (1721) di Montesquieu.

Nell’opera di Montesquieu le Lettres stanno a L’Esprit des Lois come in quello di Diderot il Supplément sta all’Histoire. Sono una dichiarazione d’intenti, alla quale seguirà lo studio approfondito dei costumi civili e politici. Montesquieu non può essere iscritto tra i fautori dello stato di natura, anche se nell’opera maggiore indica le società primitive come modelli di virtù e di saggezza[35]. Le culture cui fa riferimento in questo caso sono piuttosto quelle remote nel tempo che quelle lontane geograficamente e, come avviene per Rousseau, la società che lo interessa non è quella naturale, ma quella civile. Non rifiuta lo Stato, ma vuole che sia legittimato dall’equilibrio dei poteri: e non sono certo gli uroni o gli irochesi a potergli fornire dei modelli convincenti. Nemmeno i persiani, a dire il vero: ma questi perlomeno gli offrono lo spunto per criticare le manie, i pregiudizi e gli abusi della civiltà moderna da un pulpito reso credibile da millenni di storia. I suoi due orientali non sono né naturali né ingenui, ma hanno quello sguardo lucido e disincantato che consente di cogliere da “fuori” tutto ciò che risulta oggettivamente ridicolo e assurdo.

I persiani non sono lì per caso. Nel corso della seconda metà del XVII secolo diversi francesi, tra cui Jean Baptiste Tavernier e Jean Chardin, soggiornano a lungo in Persia, attratti soprattutto dal commercio delle pietre preziose, tanto ricercate dalla corte del re sole. Da Versailles vengono inviate anche ambascerie ufficiali, e sono ricambiate. Gli usi e i costumi del paese vengono conosciuti con ricchezza di dettagli, naturalmente anche con qualche esagerazione, e suscitano una impressione positiva, che verrà rafforzata dopo la pubblicazione de Le mille e una notte. La moda persiana è però destinata a tramontare presto. Ad un certo punto, nel secolo successivo, l’influenza francese sulla corte persiana diverrà fastidiosa per la Compagnia inglese delle Indie Orientali, che si mobiliterà per subentrare. I francesi si ritireranno in buon ordine, ma solo per lasciare spazio al nuovo competitore che si affaccia nello scacchiere dell’Asia centrale: la Russia.

 

Schiavitù, diversità, razza

L’attenzione a modelli di civiltà e di cultura diversa, l’assunzione ad esemplarità di uno stato naturale edenico o l’ipotesi di un possibile progresso culturale coinvolgono i popoli asiatici e gli indigeni americani o polinesiani, ma non i neri africani.

Il parametro del giudizio rimane nei viaggiatori del Sei e del Settecento la prossimità al modello bianco. Bougaiville, dopo aver decantato le delizie della “Nuova Citera” e le virtù dei suoi abitanti arrischia il complimento più grande: “Nulla distingue i loro tratti da quelli degli Europei; e se fossero vestiti, se vivessero meno all’aria aperta e in pieno sole, sarebbero bianchi come noi”. Più avanti conclude: “Per il resto abbiamo osservato, nel corso di questo viaggio, che in generale gli uomini con la pelle nera sono molto più cattivi di coloro il cui colore è vicino al bianco”.

Dumont d’Urville descrive così gli abitanti della nuova Zelanda: “I Maori sono di un colore bruno, un po’ più scuro di quello degli spagnoli. Sono molto alti: i loro lineamenti sono generalmente regolari e piacevoli a vedersi. L’influenza del clima più freddo avvicina la loro fisionomia a quella degli europei; il naso aquilino, lo sguardo pensieroso, la fronte rugosa, manifestano un carattere più virile, dalle passioni più durature, una attività più perseverante. […] I Manga-Manga sono invece più piccoli e più robusti; il loro colore è assai scuro; hanno capelli e barba assai crespi e occhi piccoli… i lineamenti del viso poco espressivi”. Lo stesso vale per gli abitanti delle Fiji: “Il colore della loro pelle è poco scuro, soprattutto tra i capi, e questo fatto dà a molti di loro una somiglianza ancor più marcata con gli europei delle contrade meridionali. Ci sono anche individui che alla taglia più bella, al portamento più nobile, alle forme più perfette uniscono i tratti più delicati e un colore quasi bianco o semplicemente abbronzato”.

Quando si vuole sottolineare in positivo l’umanità e la possibilità di integrazione degli indigeni si ricorre alle sfumature: “Sono di alta statura, ben fatti e proporzionati…il loro colore è bronzino, ma piuttosto chiaro” (John Byron)” oppure si abbinano i caratteri fisici all’industriosità e alle capacità tecniche: “Questi indiani sono di color bronzino […] hanno dei bei e lunghi capelli neri […] i loro lineamenti sono di mediocre statura, ma straordinariamente agili, vigorosi e attivi” che si accompagna a “le loro piroghe sono ben lavorate e con molta destrezza” (Carteret).

Il colore bronzino, possibilmente tendente al chiaro, sembra costituire per gli scopritori dei paradisi del Pacifico il limite ultimo tollerabile nella scala cromatica dell’umanità. Oltre c’è il nero, o il tendente al nero, c’è la diversità assoluta, anziché la differenza. Un’istintiva antipatia e contrapposizione verso tutto ciò che è scuro ha da sempre caratterizzato la cultura e il gusto occidentale, portando ad associare simbolicamente il bianco con ciò che è puro e buono e il nero con ciò che è malvagio ed ha a che fare con la morte o con le tenebre. Ma in questo caso all’istinto[36] si sovrappone un convincimento culturale di recentemente acquisito. Questi viaggiatori, e gli scienziati e i filosofi che ne leggono e ne commentano le relazioni, sono figli di Linneo e del nuovo atteggiamento “scientifico”: hanno indossato gli occhiali di un pregiudizio che non è più fondato su contrapposizioni religiose o etniche, ma su una sistematizzazione delle conoscenze in termini di “razionalità” e “scientificità”. Magari senza averne alcuna coscienza, sono portatori di un germe che si svilupperà proprio in seno alla cultura illuministica della tolleranza etnica e religiosa e dell’universalismo. Il razzismo è dunque un virus nuovo, generato, coltivato e diffuso proprio dalla “modernità”.

Il concetto delle differenze razziali basate sulla ereditarietà e sulla biologia si sviluppò soltanto tra popoli che da secoli si erano liberati del servaggio e della schiavitù, ma che mantenevano essi stessi degli schiavi. È importante notare che, fino a quando il commercio degli schiavi fu considerato cosa lecita e nessuna voce si alzò contro di esso, gli schiavi, per quanto trattati come bestie, furono sempre ritenuti esseri umani, sotto ogni aspetto, salvo quello dello status sociale” (Montagu).

In effetti, prima del diffondersi della tratta africana la civiltà occidentale non ha mai postulato nessi di fondo tra schiavitù e diversità etnica. È vero che già Aristotele, nella Politica, giustificava l’esistenza della schiavitù affermando che “[…] per natura, alcuni esseri comandano, altri obbediscono, ai fini della reciproca sicurezza […]” e che “[…] colui che è abile soltanto ad eseguire con la fatica del corpo è inferiore, e naturalmente schiavo”: ma le sue argomentazioni non fanno riferimento a caratteri biologici specifici, quanto piuttosto ad una attitudine spirituale, che non ha legami di sorta con i tratti morfologici. È solo il concetto della “superiorità” culturale diffuso nel mondo greco, portato alle estreme conseguenze attraverso la razionalizzazione. Da quel mondo arriva piuttosto, per voce del suo più famoso viaggiatore, la testimonianza di un criterio estetico non etnocentrico che farà difetto ai moderni. Parlando degli Etiopi Erodoto infatti dice: “Vi si trovano gli uomini più alti, più belli e più longevi”. Un atteggiamento altrettanto aperto, e più moderno ancora, troviamo nella cultura romana. Nel De Legibus Cicerone afferma che “gli uomini, diversi quanto a sapere, sono però tutti uguali nella loro attitudine al sapere: non c’è nessuna razza (genus) che guidata dalla ragione non possa raggiungere la virtù[37]. Ha qualche dubbio, in verità, nei confronti degli ebrei, ma il dato di fondo è l’assenza di qualsiasi discriminazione pregiudiziale. Certo, possiamo trovare altrettanti riscontri di un atteggiamento opposto, in Plinio il Vecchio[38], ad esempio, in Pomponio Mela, in Strabone e in Tacito[39], ma anche questi autori non arrivano mai a mettere in discussione l’unicità di quel genus.

Le cose non cambiano in epoca cristiana. San Paolo sancisce l’unità di tutti i popoli in Cristo[40]. È vero che Agostino, prendendo spunto proprio da Plinio, si pone il problema di una comune discendenza di tutti i popoli della Terra da un solo progenitore, soprattutto di quelli “mostruosi che abitano i confini del mondo”; ma lo risolve con una professione di fede monogenetica[41] e soprattutto, quantunque “africano bianco”, non accenna minimamente ad un problema specifico posto dalla “negritudine”.

La presunzione di una superiorità “latina” e poi “cristiana” rimane certamente viva, e si accentua, in età medioevale: si alimenta però sempre di contrapposizioni culturali o religiose (è il caso degli ebrei) e sottolinea le differenze etniche soltanto in funzione di queste ultime. Si arriva al più a dare credito alle favole su esseri intermedi, su uomini con la coda ed altre straordinarie ibridazioni, confinando comunque queste presenze ai limiti del mondo, in una dimensione che non comporta problemi di valutazione biologica.

Non solo. Nel Medio Evo si può addirittura rintracciare un certo apprezzamento per i “mori”, al contrario di quanto avviene nei confronti degli ebrei. Un primo motivo è verosimilmente legato al fatto che i neri sono comunque lontani, non costituiscono una presenza tangibile e inquietante, mentre gli ebrei sono presenti e pongono quotidianamente con la loro presenza il problema della diversità. Ma esistono anche altre ragioni plausibili. L’ultima delle svariate localizzazioni del mito del prete Gianni, ad esempio, colloca in Africa, nella regione etiope, il favoloso regno dal quale dovrà arrivare soccorso contro gli islamici. E probabilmente si lega a questo mito la comparsa di un nero tra i magi rappresentati nelle Natività. Una condizione di parità sembra vigere persino nel repertorio dei santi, che vede un san Maurizio bianco nelle prime versioni e poi improvvisamente e definitivamente nero, e un san Gregorio il Moro venerato addirittura in Germania. Non viene neppure negata l’appartenenza alla nobiltà ai mulatti generati da nobili con schiave nere e riconosciuti dal genitore (è il caso di Alessandro “il Moro”, della famiglia dei Medici), o a ex schiavi nordafricani adottati da famiglie nobiliari (Leone Africano, anch’egli accolto nella grande famiglia medicea). Solo nella penisola iberica la presenza islamica e il suo retaggio portano precocemente all’associazione tra pelle nera e schiavitù; ciò che spiega peraltro la naturalezza e la disinvoltura con la quale i portoghesi sin dai primi impatti con l’Africa subsahariana hanno dato avvio alla tratta.

Delineare il percorso che dai primi approdi portoghesi nel golfo di Guinea conduce al razzismo “scientifico” del secondo Ottocento è tutt’altro che semplice, soprattutto in un lavoro di sintesi. È sufficiente ad esempio dare un’occhiata alla sterminata produzione storiografica sul razzismo per rendersi conto che la scelta stessa di retrodatare o di posticipare l’apparizione di sintomi evidenti del fenomeno, o di restringere o allargare i criteri per una sua definizione, ne modifica radicalmente la chiave di lettura. Ho scelto pertanto, per praticità e chiarezza, di distinguere nei limiti del possibile e trattare in successione le due angolazioni dalle quali il tema può essere affrontato, quella dello schiavismo moderno e della sua giustificazione e quella conseguente e parallela del razzismo. In parte queste tematiche sono già state sviluppate, almeno per quanto concerne i risvolti pratici, parlando della tratta. In quanto aspetti di uno stesso fenomeno naturalmente si fondono e si incrociano, ma a partire da un certo punto percorrono anche vie autonome. Lo dimostra il fatto stesso che la cessazione della tratta non ha implicato automaticamente la fine dello schiavismo, e che l’abolizione di quest’ultimo non ha affatto coinciso con una ritirata del razzismo (semmai, è avvenuto il contrario).

Stante quello che si è a più riprese affermato nelle pagine precedenti, e cioè che la xenofobia e l’etnocentrismo hanno caratterizzato da sempre, in ogni tempo e cultura, la storia dell’umanità, ma né nell’antichità né nel medioevo e né in Europa né in Oriente hanno mai assunto una vera connotazione “razziale”, resta da capire da quando può essere significativamente documentata la comparsa di quest’ultima tendenza. Credo che la metà del XV secolo possa rappresentare un plausibile spartiacque, per la concomitanza di una serie di eventi che a vario titolo risultano connessi alla nostra direzione d’indagine. Intanto, la caduta di Costantinopoli cambia la percezione della presenza ottomana e del pericolo che rappresenta per l’intera Europa, inducendo la ricerca di rotte commerciali alternative (e quindi aprendo l’epoca delle grandi scoperte geografiche) ma anche una contrapposizione frontale che si alimenta di reciproche demonizzazioni.

Dal lato opposto del Mediterraneo, la “normalizzazione” e la sete di rivincita che seguono la cacciata definitiva degli Arabi dalla Spagna portano ad elaborare, proprio a partire dalla metà del secolo, gli statuti della purezza del sangue (limpieza de sangre). Gli statuti in realtà non fanno che tradurre in uno strumento giuridico codificato dei provvedimenti e un modo di sentire diffuso che erano nati già dieci secoli prima, rivolti specificamente contro gli Ebrei[42]. Ora però tali provvedimenti vengono allargati ai moriscos. Si tratta di una discriminazione su base religiosa, almeno negli intenti: ma diventa invece, visto il clima di sospetto che continuerà a gravare sui conversos, ebrei o arabi che siano, lo strumento per indurre una concezione “ereditaria” della differenza. Per esseri che portano dentro il gene del male non c’è conversione che tenga. Pertanto, una volta “ripulita” la penisola iberica, tutte le immagini negative associate nei secoli precedenti ai moriscos e agli ebrei, soprattutto ai neoconvertiti, verranno in automatico proiettate sugli indigeni americani e sugli schiavi africani.

Negli stessi anni in cui vengono emanati i primi statuti fa la sua comparsa la tratta, e a suo supporto prende avvio il processo di de-umanizzazione dei neri. Gomes Eanes de Zurara sostiene, nella seconda metà del XV secolo, che “i neri sono i discendenti di Cam, la cui razza era destinata a restar sottomessa a tutte le razze del mondo, come afferma Giuseppe nelle ‘Antichità Ebraiche’ […]” Sta facendo appello ad una argomentazione che discendente da una lettura impropria della Bibbia, e che fatta propria dalla cultura islamica è divenuta presto funzionale alla pratica schiavistica diffusa nel mondo arabo: gli abitanti dell’Africana sub-sahariana sono appunto considerati dai musulmani i discendenti di Cam, maledetti e condannati alla schiavitù perpetua.

Sembra non mancare nulla: statuti di purezza del sangue, giustificazione della schiavitù per appartenenza etnica. Tutto parrebbe avere inizio prima ancora della scoperta dei nuovi mondi. In realtà sarà quest’ultima a portare le argomentazioni decisive per la svolta verso il razzismo “moderno”.

Lo strappo è costituito, alla fine dello stesso secolo, dall’incontro con i nativi americani. Il confronto con i “selvaggi” del nuovo mondo non dà luogo ad una vera e propria concezione “razzista”, ma sono proprio questi popoli a mettere in moto quel diverso meccanismo di approccio che ne indurrà i presupposti teorici. Il problema di fondo che essi pongono è quello dell’origine, per la quale non c’è riscontro nella narrazione biblica (a meno di volerli considerare, come qualcuno in effetti subito fa, i discendenti di una delle tribù disperse di Israele). Ci si chiede quindi se si tratti o meno di discendenti di Adamo, e le possibili risposte hanno le implicazioni più diverse, relative al peccato originale, alla possibilità di ricevere il battesimo, ecc…

Il dibattito non rimane comunque circoscritto nei termini dell’esegesi biblica, anche se fino alla metà del XVII secolo il confronto più serrato e significativo si svolgerà proprio su questo piano. L’isolamento plurimillenario induce a pensare che questi popoli non abbiano un’origine comune con quelli da sempre conosciuti, e non basta la bolla papale Sublimis Deus, del 1537, emanata per scongiurare la riduzione degli indigeni in schiavitù[43], a restituire loro la parentela diretta con gli “umani”. Anzi, il pronunciamento ufficiale della Chiesa accelera probabilmente la comparsa e l’affermazione delle teorie poligenetiche, non fosse altro per un automatica presa di distanza da parte del mondo protestante.

Le prime ipotesi in questa direzione cominciano infatti ad essere formulate proprio da posizioni ereticali, come nel caso di Giordano Bruno e di Paracelso. Per quest’ultimo la diversa origine è già sinonimo di inferiorità: gli indigeni sono privi di anima, in quanto creati non da Dio, ma dagli influssi di una particolare congiuntura astrale. Non è un’argomentazione particolarmente pregnante, ma sottintende la possibilità che altre forze, oltre la volontà divina, possano agire o aver agito nella definizione del quadro della vita. Sarà sufficiente sostituire la natura, come agente autonormativo, agli influssi degli astri per entrare nella nuova mentalità scientifica.

Nell’ambito dell’ortodossia prevale invece naturalmente la teoria monogenetica, sostenuta soprattutto dai gesuiti; anticipando di secoli le conclusioni della genetica delle popolazioni essi sostengono per quanto concerne i nativi americani l’ipotesi di una migrazione dall’Asia, anzi, di una serie di migrazioni, che spiegherebbero i differenti livelli di civiltà cui i vari popoli sono pervenuti.

La controversia sull’origine degli indiani si svolge comunque su un terreno nel quale hanno gioco fattori e interessi i più svariati. Lo stesso Colombo passa dal primo entusiasmo ai dubbi appena incontra, già al secondo viaggio, delle resistenze[44]. I conquistadores e gli encomenderos devono giustificare il trattamento inumano riservato agli indigeni. I libertini, nel secolo successivo, usano l’argomento per confutare la narrazione biblica, mentre i gesuiti sostengono l’opinione contraria per giustificare i loro esperimenti di cristianizzazione totale. Altri, come ad esempio il mercante-navigatore George Best, incaricato di redigere il resoconto ufficiale della spedizione di Frobisher, rifiutano la comune discendenza perché questa avvalora l’idea che le differenze fisiche tra gli esseri umani siano da attribuirsi esclusivamente al clima e all’ambiente, idea che può scoraggiare gli europei dal cambiare continente o emisfero. Nella prospettiva di avviare progetti di colonizzazione in tutte le aree del globo, comprese le zone torride o glaciali, è invece necessario fugare nei potenziali coloni ogni timore di una possibile “degenerazione” morfologica, a partire dalla pigmentazione della pelle, affermando che i caratteri sono stati fissati da Dio una volta per tutte e citando a sostegno la solita maledizione di Cam.

Tutto sommato, comunque, la gran parte delle valutazioni espresse sul carattere e sui costumi di questi popoli sono positive, e arrivando quasi sempre da missionari fanno riferimento in particolare alla permeabilità religiosa: le stesse valutazioni verranno poi paradossalmente riprese ed utilizzate nella direzione opposta, della libertà di pensiero e della naturalità dei costumi, dalla cultura libertina. Nell’un caso e nell’altro l’origine comune non è messa in discussione. Meno frequenti sono invece le descrizioni totalmente negative, anche perché le popolazioni americane vengono viste ancora come un insieme unico, nel quale spiccano alcune civiltà che hanno raggiunto un alto livello organizzativo. Non si rende quindi necessario ricorrere a teorie esplicative della differenza culturale e somatica tra i vari popoli della terra su basi biologiche.

Quanto ai neri, il problema si pone in altri termini. Con la loro diversità gli europei hanno convissuto per millenni; non costituisce una sorpresa, non ha mai creato eccessivi interrogativi. Ne hanno dato spiegazioni naturalistiche già gli autori classici, da Erodoto[45] a Plinio, svariando dagli effetti del clima a quelli dell’alimentazione, senza trascurare peraltro anche ipotesi degenerative, ma mai accampando un’origine separata.

L’incontro con le popolazioni della costa subsahariana proietta però la negritudine in una prospettiva nuova, in termini sia economici che psicologici. Il quasi contemporaneo contatto con gli indigeni brasiliani sembra intanto confutare ogni ipotesi di pigmentazione legata al clima e all’ambiente. Sotto il sole dei tropici vivono sulle due sponde dell’oceano uomini dal colore, dai tratti, dalle corporature e dai costumi completamente diversi, difficilmente rapportabili ad un genitore comune. Gli stessi europei, anche dopo lunghe permanenze nelle zone equatoriali, mantengono sotto una momentanea arrossatura il colorito chiaro. Gli africani condividono poi il territorio con specie antropomorfe che suggeriscono una scala dell’essere a gradini distinti: e la contiguità viene facilmente tradotta in una prossimità di “stato”, che relega i neri al fondo della scala. Anche la “protesta” religiosa, soprattutto nella versione luterana, decisamente contraria alla politica di inclusione e di conversione di massa promossa dalla chiesa, porta a cogliere nella diversità il segno di un’esclusione divina: a livello popolare è diffusa, in particolare in Germania, la credenza che il mancato rispetto della Bibbia produca la degenerazione fisica, e che il segno più manifesto sia proprio l’iscurimento della pelle. La responsabilizzazione individuale di fronte al peccato non fa sconti ai popoli “bambini” (nemmeno a quelli più anziani, a giudicare dall’odio di Lutero per gli Ebrei), e non concede loro alcun credito di una crescita futura: esattamente come farà la cultura laico-scientifica.

L’ipotesi poligenetica comincia infatti a diventare dominante verso la fine del Seicento, in una prospettiva ormai sganciata dalle motivazioni religiose, polemiche o apologetiche che siano: il problema della diversità si ripropone ora in termini “scientifici”. Agli inizi essa non comporta un esito necessariamente razzista: uno dei suoi primi sostenitori, Arthur Isaac La Peyrère, nel Pre-Adamitae (1655) afferma che l’origine dei negri è più antica di quella dei bianchi, secondo un’interpretazione che è appunto definita “preadamitica”, dalla quale non trae peraltro alcuna valutazione gerarchica. Ma il preadamitismo compare in un’epoca nella quale l’attenzione si va spostando dal selvaggio americano a quello africano; il primo, buono o cattivo che lo si voglia considerare, del tutto inadatto alla fatica e allo sfruttamento, il secondo al contrario eccezionalmente resistente e utilizzabile in ogni settore lavorativo. Inoltre, si afferma contemporaneamente al maturare di tentativi di interpretazione biologica della diversità orientati verso l’ipotesi di una catena degli esseri.

Già William Petty nel 1677 parla di differenze esistenti tra gli uomini “come tra le diverse razze dei cani”. Nel 1684 poi François Bernier divide gli uomini in cinque razze: europei, negri, americani, lapponi, ottentotti[46], e anche se il suo impiego della categoria di “razza” non implica giudizi morali è automatico che questi scaturiscano dalla suddivisione stessa. È così che verso la fine del ‘600 vi sono autori che possono già intendere il senso riposto di queste elaborazioni dottrinali come un tentativo di giustificazione dello schiavismo. Morgen Goodwin (The Negro’s and Indians advocate, 1680) afferma che sono i proprietari di schiavi a sostenere la teoria preadamitica, in quanto ciò consente loro di evitare di battezzare i propri servi, eludendo così ogni controllo religioso e statale sul trattamento ad essi inflitto. Occorre d’altro canto osservare che si trovano argomentazioni del tutto opposte. Un medico che ha lavorato su navi negriere, John Atkins, sostiene il poligenismo proprio contro le conversioni con le quali i religiosi giustificano la schiavitù.

I due problemi della diversità razziale e della schiavitù cominciano quindi ad essere posti in correlazione. Nel frattempo, le anticipazioni della teoria poligenetica sembrano trovare una conferma scientifica nelle osservazioni di Malpighi e di Ruysch: si comincia a parlare di un “reticolo mucoso” individuato, durante la dissezione di negri, tra lo strato esteriore e quello interno dell’epidermide. Un’argomentazione simile si ha già ne L’Espion Turc del Marana (1686), dove si sostiene espressamente che i bianchi e i negri appartengono a due specie differenti, e si cita la testimonianza di un celebre medico parigino che afferma di aver trovato “una sorta di vascular plexus, che si stendeva per tutto il corpo come una tela”. L’autore ne deduce che “la natura, per distinguerli gli uni dagli altri ha dato dei marchi interni ed esterni per far conoscere la differenza dei loro corpi”. Lo stesso tipo di testimonianza si ritrova in Tyssot de Payot (Voyages ed adventures de Jacques Massé, 1710): “[…] immediatamente sotto l’epidermide trovammo una membrana estremamente delicata, […] ciò diede luogo a ragionamenti sull’origine degli Etiopi, che sembra non essere quella degli altri uomini, vista questa rimarchevole differenza”.

Agli inizi del ‘700 la vecchia interpretazione che attribuiva la differenza di colore agli influssi climatici è ormai in disuso. Anche il linguaggio si adegua. Il termine “razza” compare per la prima volta in un vocabolario francese nel 1690. Il fatto è che quando si trasferisce l’utilizzo di questo termine dalle specie animali a quella umana il fattore di diversità più immediatamente evidente è proprio il colore della pelle. Nelle colonie nordamericane comincia ad essere utilizzato già nel ‘600 l’acronimo Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), ad indicare i discendenti dei primi colonizzatori, rigorosamente inglesi, non contaminati con ebrei, afro-americani, slavi o asiatici, appartenenti alle chiese presbiteriane o anglicana. È significativo che la connotazione “cromatica” preceda sia quella etnica che quella dell’appartenenza religiosa. Ma in fondo “Dio è bianco”, e i popoli dell’Europa occidentale, che nel pallore del loro incarnato maggiormente gli si avvicinano, forniscono il parametro sul quale misurare quantitativamente il grado di civiltà le altre culture[47]. Tempo un secolo e in Europa si affermerà il termine ariano, che fa corrispondere ai caratteri morfologici, primo tra tutti naturalmente il colore, un insieme molto più nutrito di peculiarità psicologiche e linguistiche.

Si adegua intanto velocemente anche il mondo scientifico. Le ricerche degli anatomisti sulle cause della diversa pigmentazione dei negri si sono moltiplicate. Oltre alla tesi sul reticulum mucosum ve ne sono altre che parlano di un fermentum nigricans, o individuano l’origine nel sangue e nella bile. Tutte comunque portano ormai allo stesso risultato: la razza nera è separata dalle altre da una barriera biologica. È pur vero che nell’ambito più strettamente scientifico Linneo prende le distanze da una interpretazione forzata del suo Systema naturae (1735): ma in realtà l’opera, anche nella sua neutralità, apre la strada ad una convalida scientifica di quanto era venuto maturando alla fine del XVII secolo[48]. Il fissismo non ammette evoluzioni o salti qualitativi.

La spiegazione “razzista” trova dunque numerosissimi adepti[49], anche se nel mondo scientifico incontra ancora alcuni oppositori. Buffon nelle Varietà della specie umana (1749 e poi 1777) sostiene che a differenziare gli uomini sono solo le sfumature: se vi sono differenze tra questi popoli, esse non concernono che il più o il meno di difformità. Pur parlando di “razza”, e introducendone in pratica il concetto antropologico, non intende assolutamente il termine in senso biologico. Ciò malgrado, riesce ad essere razzista su altri presupposti: sostiene infatti la teoria della degenerazione, in base alla quale tutti gli uomini discendono da un ceppo unico, ma alcuni popoli, per fattori legati al clima e all’ambiente si sono allontanati dalle caratteristiche originarie. Nei confronti della schiavitù non esprime alcuna condanna, limitandosi ad osservare che i maltrattamenti inflitti ai neri non sono degni di bianchi “superiori”.

Tra i più accesi sostenitori del razzismo biologico e gerarchico è invece Voltaire, che desume dalle varietà e dalle differenziazioni “scientificamente sperimentate” dei convinti giudizi di valore. Egli vuole sbarazzare il campo di tutte le nozioni relative a ciò che non è naturale, come quella di “indole” usata da Buffon. Per natura le specie sono fisse, immutabili, al più si possono ottenere degli ibridi infecondi. Le enormi differenze esistenti tra le razze umane sono incontestabili, e poiché hanno dato origine a civiltà di diverso livello, occorre trarne classificazioni gerarchiche: i vari gradi di umanità corrispondono ai vari gradi di civiltà. Così che “ottentotti, samoiedi, lapponi, cafri … sono animali”. Voltaire non ha dubbi, cita anch’egli le testimonianze sul reticolo mucoso, e sembra in definitiva interpretare quella che è l’opinione comune corrente della sua epoca. Il paradosso sta nel fatto che pur disprezzando profondamente i neri (e gli ebrei) attacca lo schiavismo come un prodotto del cristianesimo, mentre gli sta offrendo tutta una serie di giustificazioni laiche e “razionali”.

Verso la fine del secolo James Burnett (Lord Monboddo), autore di Of the origin and progress of language (1792), ritiene che la recente scoperta dell’orangutan nelle isole malesi comprovi l’esistenza di una grande catena dell’essere, che va dall’inorganico sino all’uomo cosciente, e nella quale “il fratello dell’uomo”, così simile ai neri africani, costituisce l’anello superiore animale, mentre i neri sono quello più basso della specie umana. Lo stesso orangutan viene posto dal suo contemporaneo Edward Long, un coltivatore giamaicano impegnato a difendere lo schiavismo attraverso l’ipotesi poligenetica, al livello dei neri, in una specie inferiore, dalle caratteristiche più bestiali che umane[50]. Proprio dalla Giamaica parte, con questa grossolana risposta alla nascita del movimento abolizionista, l’offensiva del razzismo compiutamente “moderno”, quello che lasciando cadere le vecchie argomentazioni testamentarie pretende di fondarsi sulle più avanzate ricerche e acquisizioni scientifiche, e che tanto successo avrà negli Stati Uniti[51].

Anche in Europa comunque la tesi della differenza razziale biologica viene molto presto quasi universalmente accettata, malgrado in autori come Herder[52] e Blumenbach[53] si ritrovi la teoria dell’unicità dell’origine umana. Un collega di Blumenbach a Gottinga, Christoph Meiners, redige addirittura, a pochi anni dalla comparsa della terza edizione dell’Histoire di Raynal e Diderot, una storia universale di segno diametralmente opposto, (Lineamenti di una storia dell’Umanità) basata sulla tesi dello sviluppo separato di razze umane diverse ab origine, con caratteri ereditari non mutabili, valutate sulla base di un criterio estetico-morfologico che naturalmente pone in una sfera superiore gli europei[54]. Meiners anticipa molte delle future teorie di De Gobineau, schierandosi contro ogni mescolanza inter-razziale.

Qualche anno dopo Petrus Camper classifica in una sua Dissertazione[55] (1791) le razza umane in base alle misure anatomiche (è l’inventore dell’angolo facciale), che dovrebbero fornire un criterio estetico basato sull’anatomia comparativa. Questo consente a Charles White, un chirurgo inglese, di affermare che “per la struttura e l’economia corporee, il nero è più vicino alla scimmia dell’europeo[56]. Da un altro versante, e pur se alieno da ogni ipotesi razzista ed etnocentrica, anche Johann Kaspar Lavater con la Fisiognomica (1778) finisce per supportare le tesi della differenza. Le sue silhouettes forniscono un metodo per la comparazione dei tratti somatici, meno scientifico rispetto all’analisi biometrica ma egualmente soggetto ad interpretazione.

È infine lo stesso Kant, con il trattato “Le differenti razze dell’umanità” a introdurre in Germania l’ipotesi poligenetica e il concetto di razza, anche se non ne dà poi alcuna connotazione morale[57]. Si tratta oramai però di una acquisizione ideologica che si è autonomizzata, perché lo schiavismo ha in realtà fatto la sua epoca.

L’evolversi dell’atteggiamento occidentale nei confronti delle ipotesi genetiche può essere quindi seguito parallelamente allo sviluppo dell’istituto schiavistico nelle colonie. Fino a quando si tratta di popoli coi quali si mantiene un rapporto commerciale, nulla induce a porsi problemi sulla loro appartenenza o meno a pieno diritto al genere umano. Ma allorché si passa ad una forma diversa di colonizzazione, intesa alla produzione diretta, e diventa necessario “usare” intere popolazioni tenendole in uno stato inumano, ecco sorgere il corrispettivo scientifico della loro non umanità. Evidentemente non è un caso che proprio il secolo dei lumi veda l’affermazione del razzismo: e non tanto perché i criteri di omogeneità e di commensurabilità sottesi alla razionalizzazione comportano una valutazione negativa e gerarchizzata del diverso, quanto piuttosto perché questa razionalizzazione si attua all’insegna di un nuovo esperimento produttivo, di cui lo schiavo è soltanto la prima cavia. Per questo, non appena gli orientamenti economici mutano e il sistema schiavista viene superato dall’incalzare della nuova realtà industriale, il pensiero illuminista potrà abbracciare la causa dell’abolizionismo, senza per questo rinnegare le sue acquisizioni “scientifiche” razziste.


[1] Le stime relative alla demografia dell’America precolombiana sono a tutt’oggi assai controverse. Vanno, per l’intero continente, da un minimo di 10/12 milioni a un massimo di oltre 100. Sulle valutazioni pesano fattori legati alla metodologia di ricerca, ma è poi determinante l’atteggiamento ideologico. Per la seconda ipotesi, quella di un continente sovrappopolato (la stessa Europa di fine XV secolo non raggiunge i cento milioni) propende un gruppo di storici terzomondisti, tra i quali il più autorevole è Pierre Chaunu, per ovvie ragioni, mentre la maggioranza degli studiosi valuta ragionevole una consistenza attorno ai trenta milioni. Esiste infine una corrente minimalista, che basandosi sulla relativa povertà di siti archeologici, non è disposta ad ammettere cifre superiori ai dodici milioni.

[2]Sino ad oggi i moralisti avevano cercato l’origine e i fondamenti della società nelle società che avevano sotto gli occhi. Ma dopo che si è visto che le istituzioni sociali non derivano né dai bisogni della natura né dai dogmi della religione, poiché innumerevoli popoli vivono indipendenti e senza culto, si sono scoperti i vizi sella morale e della legislazione nella formazione stessa delle società” (Denis Diderot, Pensées détachées remis à l’Abbé Raynal)

[3] Un metodo che insegna a dubitare anche del concetto di “consenso universale”. Nel Discours de la méthode Cartesio scrive: Vedendo come molte cose che, malgrado a me sembrino assolu-tamente stravaganti e ridicole, sono tuttavia comunemente riconosciute e approvate da altri grandi popoli, ho imparato a non credere troppo a ciò di cui ero stato persuaso dagli esempi e dal costume diffuso […]”.

[4] Il riferimento all’Eden, o all’età dell’oro, è presente anche nelle Decades de orbe novo di Pietro Martire d’Anghiera, pubblicate qualche anno più tardi: ma in questo caso è la cultura umanistica, e quindi metaforica, a prevalere, piuttosto che quella religiosa.

[5] Gli indigeni gli sembravano, però, appartenere ad una civiltà inferiore, da convertire, ma anche da assoggettare: “devono essere buoni servitori e ingegnosi, perché osservo che ripetono tutto quello che dico loro” annotò.

[6] Per la precisione nel 1672, nell’opera teatrale La conquista di Granada, di John Dryden.

[7] Giovanni Botero, Relazioni Universali, parte IV, Venezia 1596

[8] Ugo Grozio, De jure belli et pacis, 1625

[9] Thomas Hobbes, De Cive, Londra 1642

[10] Per Hobbes nello stato di natura gli uomini vivono in uno stato di guerra perpetuo di ciascuno contro tutti gli altri (“bellum omnium contra omnes”) e la vita è nasty, brutish, and short (spiacevole, grezza, e breve). La conservazione di se stessi è un principio naturale, e proprio il naturale diritto a conservare la propria vita e la propria integrità fisica autorizza l’uomo, nello stato di natura, ad aggredire il suo vicino per difendersi da lui prevenendolo. Per uscire da questa situa-zione e garantire la sicurezza degli individui si deve costituire una società efficiente. Gli individui devono quindi rinunciare ai propri diritti naturali, stringendo un patto con cui li trasferisco-no a una singola persona, che può essere o un monarca, oppure un’assemblea di uomini, che si assume il compito di garantire la pace entro la società.

[11] In una lettera ad Hobbes del 1670 Leibnitz sostiene che quella dello “stato di natura” deve esse-re considerata una pura finzione concettuale, e non una realtà storica. Dio non può aver creato un mondo nel quale non ci siano obblighi morali e diritti individuali. Tuttavia consente con Hobbes sul fatto che la “società civile” nasca per motivi di sicurezza reciproca tra uomini spinti dal timore.

[12] Il senza era stato utilizzato in una valenza negativa da André Thévet, un compagno di De Léry: “L’America è abitata da genti meravigliosamente strane e selvagge, senza fede, senza legge, senza, religione, senza civiltà alcuna, ma che vivono come animali privi di ragione nel modo in cui la natura li ha generati, che mangiano radici e restano sempre nudi sia gli uomini che le donne … (La singularité de la France Anctartique .., 1558). Lahontan scriverà invece: “Ah! Vi-va gli Uroni, che senza leggi, senza prigioni e senza torture passano la vita nella dolcezza, nel-la tranquillità, e godono di una felicità sconosciuta ai francesi”. (Dialogues curieux …, 1703)

[13] Questo avviene anche all’interno della chiesa cattolica. Vedi il dibattito gesuiti-francescani, che si disputano il controllo delle reducciones e la gestione della evangelizzazione degli indigeni. Particolarmente crudo sarà il confronto tra la Compagnia di Gesù e i cosiddetti “recollets”, che sono gli apripista dell’evangelizzazione soprattutto nel Nord-America.

[14] C’è in queste accuse un forte coinvolgimento personale, perché Lahontan si arruola per sfuggi-re ai creditori, e sia in America sia dopo la diserzione verrà sempre a conflitto con ogni autorità costituita, religiosa o laica.

[15] Anthony Shaftesbury Advice to an author (1712)

[16] Anche se è disposto a dar credito ai racconti più assurdi sui “selvaggi”: “Vi sono luoghi dove la gente mangia i propri bambini. Gli abitanti dei Caraibi erano soliti castrare i bambini apposi-tamente per ingrassarli e mangiarli. Garcilaso de la Vegas ci racconta di un popolo nel Perú il quale ingrassava e mangiava i bambini che avevano dalle loro prigioniere, le quali venivano conservate come concubine per quello scopo e quando avevano passato l’età della procrea-zione venivano anch’esse uccise e mangiate” (Saggio sull’intelletto umano).

[17]Benché essi preferiscano di solito l’erede del loro re defunto, tuttavia, se lo trovano in qual-che modo debole o incapace lo mettono da parte e stabiliscono a loro governatore l’uomo più forte e coraggioso […]”.

[18] Bernard de Fontenelle riteneva che tutti i popoli “civili” fossero passati per uno stato simile a quello dei selvaggi: “I Greci furono un tempo dei selvaggi cosi come lo sono oggi gli America-ni: quando erano un popolo nuovo non pensavano affatto più ragionevolmente di quanto pen-sino i barbari d’America, i quali erano, a quanto pare, un popolo buonissimo, quando furono scoperti dagli spagnoli” (Histoire des oracles, 1686).

[19]Voi intendete per selvaggi dei villanzoni che vivono nelle capanne con le loro famiglie e qualche animale […] che parlano un dialetto che non si comprende nelle città (…) che hanno poche idee e per conseguenze poche espressioni […], che si riuniscono in una specie di ca-panna per celebrare delle cerimonie di cui non comprendono nulla […]? Il fatto è che vi sono di tali selvaggi in tutta l’Europa. Bisogna convenire che i popoli del Canadà e i Cafri, che noi chiamiamo selvaggi, sono infinitamente superiori ai nostri. L’Urone, l’Algonchino, l’Illinois, il Cafro, l’Ottentotto hanno l’arte di fabbricare essi stessi tutto ciò c di cui hanno bisogno. Le popolazioni dell’America e dell’Africa sono libere, e noi selvaggi non abbiamo nemmeno l’idea di cosa sia la libertà” (Essai sur les Moeurs).

[20]Voi europei, il cui spirito si riempie sin dall’infanzia di tanti pregiudizi contrari alla felicità, non riuscite a concepire che la natura possa procurare tanti lumi e tanti piaceri. La vostra anima circoscritta in una piccola sfera di conoscenze umane presto attinge il termine dei suoi godimenti artificiali: ma il cuore e la natura sono inesauribili”.

[21] Anche dopo la rivolta delle colonie, in un discorso pronunciato alla Camera dei Lord nel 1777, William Pitt il Vecchio denuncia gli atti di violenza e addirittura di cannibalismo perpe¬trati da-gli ausiliari indiani contro “innocenti”.

[22]Au bout de trois cent années, l’Amérique rassemblera aussi peu à ce qu’elle est aujourd’hui, qu’elle ressemble aujourd’hui peu à ce qu’elle étoit au temps de la découverte”.

[23]Ne massacrons pas les Papous pour connaître, au thermomètre de Réaumur, le climat de la Nouvelle Guinée”.

[24] La credibilità del racconto è a dire il vero un po’ inficiata dalla reputazione di Johnson, che era chiamato “il selvaggio bianco” per l’atteggiamento spietato.

[25] Questa immagine viene ulteriormente rafforzata dalla vicenda del Bounty, che ha una larga risonanza sia per lo scandalo dell’ammutinamento che per la scelta dell’equipaggio di rimanere nelle Isole Felici.

[26]Gli indigeni danno l’impressione di essere felici come nessun altro popolo sotto la cappa del cielo e oltre a tutto il necessario dispongono anche a profusione di quegli agi e voluttà che abbelliscono la vita” scrive Cook nei Diari di bordo.

[27]Tutti questi nostri amici, e specialmente la Regina, diedero l’ultimo addio ai nostri in una maniera così sensibile, che Mister Wallis avendo il cuore nell’estrema costernazione, non fece altro per lungo tempo che sfogarsi anch’egli a piangere dirottamente”.

[28] Luois Antoine de Bougainville, Voyage autour du mond, 1771

[29] Anche se non mancano le eccezioni. A proposito delle Isole Salomone Carteret scrive: “Se può giudicarsi dello stato di un popolo da quello delle sue abitazioni, questi selvaggi dovevano es-sere certamente negli estremi gradi della vita selvaggia, avendo per dimora le più miserabili che si fossero giammai vedute nel mondo”.

[30] Georg Forster, Viaggio attorno al mondo, 1780. “Purtroppo io temo che la nostra conoscenza sia stata del tutto svantaggiosa per gli abitanti dei Mari del Sud”.

[31] Bougainville, Voyage autour du mond, Lettera introduttiva

[32]Lo stato di natura non esiste più, forse non è mai esistito, probabilmente non esisterà mai” (Discours sur l’origine de l’inegalité, 1755)

[33] Non si può nemmeno parlare di primitivismo o di culto della barbarie, anche perché Rousseau è ben consapevole dei limiti di quello stadio di vita. “Non vi era né educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente e, poiché ognuno partiva sempre dal medesimo punto, i secoli scorrevano e rimaneva inalterata la rozzezza dell’età primitiva, la specie era già vecchia e l’uomo rimaneva sempre bambino”.

[34] Nel Discours sur l’origine de l’inegalité scrive: “Errando nella foresta senza lavoro, senza pa-rola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi simili, così come senza alcun desiderio di nuocer loro, persino senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a quello stato, non provava che i bisogni veri, non guardava se non quanto aveva interesse di vedere e la sua intelligenza non faceva maggiori progressi della sua vanità”.

[35] Montesquieu, al pari di Locke, non ha una grossa stima dei “selvaggi”. Ne “L’Esprit des Lois” usa a modo di parabola la storia di un popolo che, avendo scelto di vivere allo stato di natura, finisce per degradarsi ed estinguersi. Non è nemmeno un entusiasta delle civiltà orientali: basandosi su una relazione di Dampierre depreca l’uso tonchinese e cinese di affidare le cariche amministrative agli eunuchi, che produce una serie di contraddizioni: “Si affidano a quelle persone le magistrature perché non hanno famiglia; e d’altro lato, si permette loro di sposarsi perché hanno le magistrature […] Nella storia della Cina si trovano un gran numero di leggi per togliere agli eunuchi tutte le cariche civili e militari: ma vi ritornano sempre. Sembra che gli eunuchi in Oriente siano un male necessario”.

[36] Parlo di istinto non perché ritenga che i pregiudizi di gruppo siano geneticamente determinati (come sostengono William Hamilton, Richard Dawkins ed Edward O. Wilson), ma perché so-no comunque universalmente diffusi, sotto le specie dell’etnocentrismo, e agiscono come un automatismo di difesa e di sopravvivenza.

[37] Quaecumque est hominis definitio, una in omnes valet (De Legibus, I, X, 29)

[38] Naturalis Historia, libro VII

[39] Nel De origine et situ Germanorum, soprattutto, insiste sulla non contaminazione dei popoli germanici, dei quali esalta il coraggio, la semplicità, il senso dell’ospitalità e la monogamia, in contrasto con l’immoralità dei costumi romani (non manca però di sottolineare quanto siano pigri e barbari). Negli Annales esprime invece a più riprese un profondo disprezzo per gli ebrei.

[40] Nell’Epistola ai Galati (III, 27): Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo.

[41] Agostino di Ippona, De civitate dei, libro XIX. Agostino sostiene anche, però, che la schiavitù va vista come la sanzione divina di una colpa (che può anche essere collettiva). Una legittimazione della schiavitù arriva nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino, aristotelico convinto, che ritiene giustificata la schiavitù se conseguente ad una condanna per un grave delitto, alla cattura in una guerra giusta, alla nascita in stato servile.

[42] Già nel Concilio di Elvira (IV secolo) si proibiva ai cristiani il matrimonio con gli ebrei o addi-rittura di consumare con essi il pasto.

[43] Preceduta peraltro da una legge di Carlo V, del 1539, che perseguiva lo stesso scopo.

[44] A differenza dei Tainos, che gli erano parsi la miglior gente di questo mondo “i Caribi, sono gente fiera e combattiva, ma affrancata da quella loro crudeltà, sarebbero schiavi dei migliori che siano al mondo” scrive nel memoriale ad Antonio de Torres del 1494.

[45] Erodoto, al solito il più moderno, fa risalire le differenze alla sola “tradizione culturale”.

[46] Nouvelle division de la Terre par les différentes éspèces ou races d’homme qui l’habitent.

[47]Nel Settecento si escludeva che i cinesi fossero ‘bianchi’ in quanto non se ne riconosceva più la pari dignità culturale. La convinzione che esistesse per forza un nesso fra il colore della pel-le da un lato e il carattere di una razza o di un popolo dall’altro, e che vi fosse altresì una gerarchia culturale, nella quale il primo posto spettava ai bianchi europei e l’ultimo ai neri dell’Africa, implicava non solo che una carnagione scura dovesse comunque corrispondere a un’inferiorità di cultura e di carattere, ma anche, per converso, che quanti non erano adeguati allo standard delle ‘nazioni progredite dell’Europa’ non potessero, appunto perciò, essere bianchi”. (Demel, Walter – Come i cinesi divennero gialli – Vita e pensiero 1997).

[48] Lineo distingue tra europei, indiani d’America, asiatici, africani. Utilizza come criterio distinti-vo il colore della pelle (bianchi, rossi, gialli e neri) e descrive i primi come “perspicaci, ottimisti, creativi, governati dalle leggi”, i secondi come “collerici”, i gialli come “apatici”, gli ultimi come “furbi, indolenti, negligenti, malinconici, governati dal capriccio”.

In verità nelle prime edizioni del suo Systema Naturae (ad esempio in quella del 1740), l’uomo asiatico è definito “fuscus” (scuro), ma nel 1756 diventa “luridus” (giallastro).

[49] Tra questi anche David Hume (Essays, 1741), che ritiene i neri “inferiori per natura”, privi di doti razionali e incapaci di sviluppo civile.

[50] History of Jamaica, 1774 – Lang ritiene esistano solo tre specie del genere umano: gli europei e, molto a margine, i gialli e i rossi; i negri e gli orang-utan; le scimmie senza coda.

[51] Una delle eccezioni è costituta da Thomas Jefferson, che nelle Notes on Virginia (1784) sostiene la parità morale dei neri coi bianchi. Un po’ più dubbioso è su quella intellettuale, mentre non ha dubbi sulla superiorità estetica dei secondi.

[52] Johann Gottfried von Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-91) – In realtà, anche se combatte lo schiavismo e il colonialismo, Herder inaugura con la sua teoria del Volkgeist, lo spirito del popolo, una sorta di razzismo culturale.

[53] Johann Friedrich Blumenbach De generis humani varietate nativa (1776). – Per lui il significato di razza è quello di tipo ideale, un’astrazione teorica. Suddivide l’umanità in cinque gruppi: caucasici, mongoli, etiopi, americani e malesi, sottolineandone le caratteristiche somatiche, piuttosto che quelle morali. Non ha dubbi che tutti gli esseri umani appartengano alla stessa specie, ma neppure sul fatto che sia quella caucasica la razza umana originaria, quella che presenta gli esemplari più belli be più giusti e che ha la forma del cranio più aggraziata.

[54] Christoph Meiners, Grundiss der Geschichte der Menscheit, 1785

[55] On the Points of Similarity between the Human Species, Quadrupeds, Birds, and Fish.

[56] In An Account of the Regular Gradation in Man, (1799) Charles White sostiene l’esistenza di quattro razze e ne definisce una precisa gerarchia, ponendo gli asiatici subito dopo gli europei in quanto a intelligenza.

[57] Immanuel Kant, Von der verschiendenen Racen der Menschen, 1775 – Kant distingue quattro razze: bianca, nera, mongolica e indù. Afferma che “si possono definire appartenenti ad una ‘razza’ quegli animali che conservano la loro purezza malgrado la migrazioni da una zono all’altra […] così i negri e i bianchi non sono certo due differenti tipi di specie, ma nondimeno due razze differenti”. Definisce i cinesi una “semirazza”, nelle vene della quale però scorre sangue unnico.

 

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L’età d’oro del viaggio scientifico

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

Caratteri del viaggio scientifico. 1

L’esplorazione dei mari 10

L’esplorazione dei continenti 22

 

Caratteri del viaggio scientifico

Nelle precedenti conversazioni si è parlato di viaggi metaforici e di viaggi immaginari. Ripartiamo da questi ultimi, ma solo per dire che una componente immaginaria in realtà è presente in ogni viaggio, e soprattutto nel racconto che del viaggio si fa. Ed è molto presente, a dispetto di quanto verrebbe spontaneo pensare, anche nei resoconti di quella particolare tipologia di viaggio di cui mi accingo a parlare oggi: il viaggio scientifico.

Mi spiego. La componente “immaginaria” del viaggio agisce in più modi e in diversi momenti. Agisce nel momento stesso in cui si viaggia, e prima ancora in quello in cui si desidera e si progetta il viaggio. Le nostre aspettative rispetto ai luoghi che ci accingiamo a vedere o alle persone che andremo ad incontrare nascono infatti da un’immagine che abbiamo elaborato “a priori”, sulla scorta dei racconti di esperienze altrui o di qualsivoglia altra testimonianza. Noi quindi “prefiguriamo” il viaggio, ci attendiamo di vedere cose, di provare emozioni delle quali già assaporiamo il gusto. Nel corso del viaggio saremo molto condizionati da queste nostre attese, che ci porteranno a cogliere e a privilegiare alcuni aspetti del mondo che andiamo a conoscere, e a trascurarne, o addirittura ad ignorarne, altri. Anche nel caso in cui si facciano delle vere e proprie scoperte, o si provino delle grosse delusioni, tutto questo avviene in rapporto a quanto ci attendevamo. Siamo meravigliati, o delusi, perché non ci attendevamo quella, ma un’altra cosa. L’impressione che riportiamo, e il conseguente giudizio che diamo, sono tarati su quelle aspettative.

Sul racconto del viaggio agisce poi quella che potremmo definire la selezione della memoria, che in parte è inconsapevole, in parte no. Si racconta cioè ciò che ci ha maggiormente colpito, in negativo o in positivo, ma si racconta soprattutto ciò che ha corrisposto alle nostre aspettative o, al contrario, le ha deluse, oppure ci ha positivamente sorpresi e ci ha aperto ad una prospettiva, ad uno sguardo nuovo.

In sostanza potremmo dire, semplificando molto, che la componente immaginaria agisce sul viaggio e sul suo racconto in tre modi e in tre momenti: sulla motivazione, e quindi sulle aspettative, prima; sulla percezione, durante; sul racconto, dopo.

Questo vale per tutti i viaggi, anche paradossalmente per quelli non progettati, non desiderati ma imposti, come nel caso dell’esilio o della fuga, nei quali l’aspettativa è solo quella di una qualche salvezza. E vale, come si diceva in apertura, alla stessa maniera per il tipo di viaggio di cui parleremo oggi: il viaggio scientifico. Come, e in che misura, è quanto mi propongo di esemplificare, raccontandovi alcuni dei viaggi e degli uomini che del “viaggio scientifico” sono stati i protagonisti per antonomasia.

L’epoca eroica delle grandi scoperte geografiche si esaurisce nel breve volgere di un secolo. Ha il suo apice addirittura in un solo trentennio, quello che intercorre grosso modo tra il primo viaggio di Colombo e la prima circumnavigazione del globo da parte di Magellano, ed è poi seguita da una fase nella quale i rinvenimenti sensazionali lasciano il posto alla ricognizione delle coste e dei mari. Le terre casualmente incontrate sono ancora considerate, soprattutto dalle nazioni rimaste al palo nella fase iniziale, un ostacolo da superare piuttosto che una opportunità da sfruttare: e per tutto il XVI secolo questo rimane l’atteggiamento di fondo, anche se nella seconda metà gli oceani vecchi e nuovi sono ormai sistematicamente violati ed esiste una rete di approdi lungo tutte le coste occidentali del nuovo mondo. Il problema che aveva dato l’avvio a tutta la vicenda, l’individuazione di una via diretta per i paesi delle spezie, rimane in sostanza irrisolto.

Un diagramma ideale dei ritmi dell’attività esplorativa a partire dagli inizi del ‘600 evidenzierebbe un andamento discontinuo, con punte di vivace intensità che si alternano a prolungati momenti di stanca. Dopo i viaggi di Drake e di Cavendish[1], ad esempio, passa oltre un secolo prima che venga compiuta una nuova circumnavigazione completa del globo. E non sempre c’è concomitanza tra lo sviluppo della ricerca e una concreta politica di espansione. I primi decenni del XVII secolo, ad esempio, caratterizzati da un relativo rilassamento dell’attività esplorativa, vedono il decollo dell’espansionismo commerciale olandese. Al contrario, il risveglio dell’impulso alla scoperta nella seconda metà del secolo, legato per la Francia al trionfo dell’assolutismo e della politica mercantilistica e per l’Inghilterra all’assunzione in proprio da parte della corona del progetto politico coloniale, trova poi al di là degli oceani un debole corrispettivo in termini di volume dei traffici o di insediamenti. A cavallo tra il Seicento e il Settecento agiscono infatti in negativo la politica di Luigi XIV e le conseguenti guerre per l’egemonia nel vecchio continente, assorbendo e disperdendo le risorse economiche ed umane degli europei. La spinta si rinnoverà solo a partire dal terzo decennio del Settecento, sposandosi questa volta anche ad una coscienza scientifica assolutamente inedita.

Nel corso di questi duecento anni cambiano radicalmente sia i modi che i moventi della attività di esplorazione, così come le nazioni che le promuovono. E cambiano anche le direttrici lungo le quali essa si muove. Quelle classiche orizzontali, di levante e di occidente, sono in pratica esaurite dal ripetersi delle circumnavigazioni sul finire del ‘500. Esse hanno offerto le basi per una valutazione di massima delle dimensioni del globo e della reale estensione di continenti e oceani. Un secolo dopo il mondo è conosciuto anche nella gran parte dei contorni litoranei: le zone costiere sono state toccate al 90%, sia pure, spesso, da semplici ricognizioni periferiche, ed è possibile abbozzare un profilo riassuntivo della fisionomia terrestre. Il quadro va poi via via completandosi nel ‘700, fino ad assumere alla vigilia della rivoluzione francese un’immagine pressoché definitiva, spoglia anche degli ultimi residui di quella geografia fantastica che affondava le sue radici nella classicità, e che paradossalmente aveva tratto nuovi spunti proprio dalle scoperte rinascimentali. Ad essa si sostituiscono gradualmente i dati di una conoscenza più prosaica, scientifica, informata appunto all’ottica razionalistica del secolo. La scoperta settecentesca viene ad essere così altrimenti motivata, e non è casuale, ma perseguita, e in alcuni casi addirittura prevista.

È possibile quindi enucleare alcune specifiche caratteristiche che fanno dei secoli XVIII e XIX l’epoca d’oro del viaggio scientifico. I viaggi con finalità e con modalità scientifiche in realtà ci sono sempre stati. Erodoto e altri giramondo meno famosi di lui hanno viaggiato, dopo e qualcuno anche prima, con gli occhi ben aperti su aspetti particolari della natura e dell’antropologia. Ma quando si parla di viaggio scientifico ci si riferisce a spedizioni collettive o ad intraprese individuali esplicitamente e principalmente votate all’osservazione e allo studio, con protocolli e metodologie di osservazione ben definiti e universalmente accettati e adottati. E questo può avvenire solo dopo che siano stati redatti i protocolli stessi, sia stato dettato uno statuto della ricerca scientifica. Cioè dopo Bacone, dopo Galileo, dopo il secolo della rivoluzione scientifica.

Possono essere allora definiti “scientifici” i viaggi promossi, intrapresi e attuati sulla scorta di finalità e di metodologie di approccio dichiarate e condivise nel mondo scientifico, quali che siano poi gli altri fini, magari meno nobili e meno espliciti.

Riassumendo, le condizioni che permettono e che motivano questo tipo di intraprese sono:

  1. l’allargamento degli orizzonti conseguente le scoperte geografiche, e quindi la crescita degli appetiti e delle motivazioni sia politiche che economiche;
  2. la rivoluzione scientifica e l’affermazione delle scienze fisiche e naturali, e poco alla volta anche di quelle umane, come discipline autonome, svincolate dalla religione e dalla filosofia (almeno in apparenza, perché poi hanno una enorme valenza, positiva o negativa anche in questi ambiti);
  3. la nascita delle accademie e delle società scientifiche, sponsorizzate dagli stati nazionali o dall’iniziativa privata, ovvero dagli interessi coloniali dei primi e da quelli commerciali e produttivi dei secondi;
  4. l’esistenza di protocolli d’osservazione, di sperimentazione e di ricerca dettati dagli scienziati del XVII secolo e ormai consolidati, divenuti di uso comune e accettati universalmente dalla comunità scientifica;
  5. la disponibilità di una strumentazione scientifica, sia per la navigazione che per la rilevazione e l’osservazione, sempre più raffinati ed efficaci;
  6. la nuova intraprendenza degli scienziati, che una volta messo da parte Aristotele vogliono andare a toccare con mano, direttamente o tramite rappresentanti qualificati e accreditati della comunità scientifica.

Analizziamo brevemente questi cinque presupposti:

  1. La curiosità nasce dalla diversità, e le scoperte geografiche che si rincorrono tra la fine del ‘400 e la prima metà del ‘500 di diversità ne offrono molte. Non solo diversità di etnie, di usi e costumi, di istituzioni politiche e di religioni, ma anche diversità della flora e della fauna, del panorama celeste, dei fenomeni naturali. Mentre procedono alla metodica penetrazione nei nuovi continenti disvelati, alla loro conquista, allo sfruttamento e spesso alla distruzione delle nuove popolazioni, o alla loro evangelizzazione, gli occidentali non possono fare a meno di rilevare queste differenze e di relazionarne. È questo allargamento stesso di orizzonti a far crollare i presupposti su cui si fondavano la scienza antica e quella medioevale, e a postularne una rifondazione.
  2. Questa rifondazione prende il nome di rivoluzione scientifica; è una trasformazione della mentalità che procede dal macrocosmo – la scoperta di altri emisferi e dell’altra metà della calotta celeste – verso il microcosmo (la vita microscopica) e che induce la necessità di fare ordine, di passare ad un certo punto dall’accumulo di nuove conoscenze alla loro sistemazione. Il viaggio scientifico appartiene appunto a questo secondo momento, è figlio di Linneo e di Buffon e nipote di Bacone, e si incarna in uomini come Cook e Humboldt, che applicano “sul terreno” le nuove tecniche matematiche di rilevazione, raccogliendo un’incredibile messe di misurazioni astronomiche e fisiche e sistemandole in un quadro organico. Nasce con essi la moderna geografia, con la quale conoscenze che ancora a metà del XVII secolo venivano distinte e considerate separatamente confluiscono in un’unica disciplina[2].
  3. Le Accademie Scientifiche nascono in pratica in contrapposizione alle Università e al tipo di sapere, prevalentemente umanistico e retorico, che queste coltivano. Le Università si danno come scopo quello della conservazione e diffusione di un sapere ritenuto già consolidato e compiuto, le Accademie sono invece finalizzate ad una nuova costruzione del sapere (nuovi metodi) e alla costruzione di un sapere nuovo (nuovi contenuti). Nascono anche col patrocinio e come espressione del nuovo modello di potere politico, le monarchie nazionali, ed economico, la borghesia, e dei loro interessi (economici, politici e militari), mentre le Università rientravano, sia pure con uno status di costante marginalità, nel quadro istituzionale pre-rinascimentale.
  4. Gli scienziati del XVII secolo cominciano a lavorare di concerto, mantenendo contatti epistolari o personali che consentono di superare le distanze, e non soltanto quelle fisiche. Lo scambio di informazioni diventa una prassi consolidata, crea le condizioni per l’instaurarsi di quella ecumene scientifica transnazionale che caratterizzerà soprattutto il Settecento. Perché questo scambio sia davvero efficace è necessario però che vengano condivisi i protocolli di osservazione, di sperimentazione e di comunicazione delle ricerche effettuate, e che la commensurabilità di queste ricerche sia garantita dall’adozione di strumenti comuni, tarati sugli stessi valori e utilizzati con le stesse procedure.
  5. In tal senso è disponibile una strumentazione scientifica, sia per la navigazione che per la rilevazione e l’osservazione, sempre più raffinata ed efficace. Fondamentale per la determinazione delle coordinate geografiche è ad esempio la sempre maggiore precisione dei misuratori di tempo. Il cronometro marittimo realizzato attorno alla metà del secolo da John Harrison (incentivato da un grosso premio in denaro messo in palio dalla Commissione inglese per la longitudine) ha un margine d’errore inferiore ai due minuti, il che significa mantenere la rotta per una traversata dell’Atlantico entro lo scarto di qualche chilometro. Ma si utilizzano poi anemometri, termometri, barometri, bussole di inclinazione e di declinazione, sestanti, teodoliti, igrometri, ecc…, e si dispone di accurate carte nautiche. Naturalmente, malgrado i progressi (il cronometro di Harrison è poco più grande di un orologio da taschino) l’equipaggiamento scientifico rimane molto ingombrante. L’attrezzatura di ricerca utilizzata da Humboldt nel suo viaggio, ad esempio, occupa due bauli ed è trascinata per migliaia di chilometri lungo foreste, in mezzo a paludi o attraverso le montagne. Ed ancora, gli strumenti sono estremamente delicati, fabbricati artigianalmente, e non c’è alcuna possibilità di reperire pezzi di ricambio.
  6. I nuovi protocolli impongono in primo luogo l’osservazione diretta (vedere di persona, e non conoscere per “sentito dire”, o per appreso dai testi sacri della religione o della sapienza antica), sorretta da rigore e da canoni ben precisi e definiti; e poi parametri comuni di misurazione, coordinate geografiche, quadri e tassonomie di riferimento. Se l’osservazione ha da essere compiuta di persona, la diffusione delle conoscenze postula al contrario un’impostazione rigorosa e standardizzata, che ha come presupposto l’uscita dell’osservatore dalla scena. Quindi l’assoluta imparzialità.

Gli scienziati vogliono dunque toccare con mano, osservare direttamente i fenomeni. È il nuovo imperativo di botanici, geologi e naturalisti in genere. Scandagliano laghi, mari, foreste, vulcani: e quando non possono farlo di persona, dettano le istruzioni per i loro inviati o corrispondenti. Nel corso del Settecento si diffondono dei veri e propri vademecum del viaggiatore, e nella fattispecie del viaggiatore “scientifico”, che codificano ambiti e modi dell’osservazione. Tra i compilatori più autorevoli e più famosi troviamo lo stesso Linneo e il geologo Woodword, e in Italia Lazzaro Spallanzani, che sono peraltro al tempo stesso anche viaggiatori in proprio.

La diffusione e il successo della letteratura di viaggio sono una conseguenza del moltiplicarsi dei viaggi, ma anche un volano per motivarli. La stampa permette da un lato una diffusione quantitativa, consente di raggiungere un vastissimo pubblico; dall’altro per la sua stessa capacità di fissare una tradizione testuale, di rendere possibile una distinzione chiara tra ciò che è dato come noto, come acquisito, e ciò che è ignoto alla letteratura tramandata, stimola a perseguire la novità. Il racconto di viaggio importante è quello che aggiunge qualcosa alle conoscenze ricevute.

A questo successo contribuiscono anche le nuove tecnologie. Il linotype consente di produrre e diffondere immagini realistiche e scientificamente corrette di ambienti, piante ed animali, oltre a carte dettagliate. Ma permette anche di togliere la briglia alla fantasia dell’immaginario iconografico, e di corredare i testi con rimandi suggestivi a mondi tutti da scoprire.

La nascita e la precoce diffusione di riviste scientifiche consente anche ad un platea sempre più vasta di seguire i progressi della ricerca. Quando poi nell’Ottocento si aggiungeranno i giornali specificamente dedicati ai viaggi, l’interesse si allargherà al grande pubblico. La vicenda della ricerca dei superstiti della spedizione di John Franklin è esemplare: una campagna di stampa fortemente voluta dalla moglie dell’esploratore induce il governo britannico ad uno sforzo eccezionale, e a mettere in campo addirittura dodici successive spedizioni.

Ad incrementare l’interesse e l’attenzione per le tematiche connesse al viaggio (le avventure, gli incontri, il confronto, l’esotismo) contribuiscono naturalmente anche le rielaborazioni romanzesche di vicende realmente accadute, o le narrazioni a carattere fantastico e satirico. I casi più clamorosi sono senz’altro costituiti dal Robinson di De Foe, dal Gulliver di Swift e dal Candide di Voltaire, ma un po’ tutta la letteratura del Settecento sembra prediligere le narrazioni di ambiente esotico.

 

Le tappe di questa evoluzione qualitativa e quantitativa del sapere geografico sono infine sintetizzate visivamente negli sviluppi della cartografia, anche se in realtà le rappresentazioni cartografiche dell’epoca risultano, dal confronto con i giornali di viaggio, poco aggiornate rispetto allo stato effettivo delle conoscenze. I ritardi nell’introdurre i dati nuovi o nell’escludere i miti della geografia immaginaria si spiegano con la propensione comune, ma diffusa soprattutto tra i portoghesi e gli olandesi (che pure sono all’avanguardia nella cartografia), ad un uso interno ed esclusivo degli aggiornamenti, coerente con la difesa monopolistica delle rotte commerciali. Fino a che non si impone l’attitudine scientifica settecentesca i più prodighi di informazioni restano i missionari, soprattutto i gesuiti, anche se spesso le loro relazioni, ricchissime sotto il profilo etnologico e antropologico, appaiono tutt’altro che precise per quanto concerne il riconoscimento geografico. Ciò è dovuto sia ad un effettivo difetto di basi scientifiche, sia anche, talvolta, ad una giustificata reticenza ad aprire popolazioni inermi alla “civilizzazione” materiale europea. È il caso, ad esempio, dei missionari operanti in Africa o nel cuore dell’America del sud, alle cui spalle si muovono negrieri e bandeirantes.

Sul piano tecnico, dopo la rivoluzione introdotta da Mercatore con l’uso delle proiezioni, un ulteriore perfezionamento viene dalle tavole di Keplero, che consentono di correggere gravi errori nei calcoli della longitudine (lo stesso conosciutissimo Mediterraneo è ridimensionato di più di mille chilometri). Per tutto il ‘600, comunque, i progressi appaiono molto lenti. Il Novus Atlas di Blaeuw (1658), redatto ad un secolo dai mappamondi di Mercatore e di Ortelius e destinato a godere a lungo di un crisma ufficiale di attendibilità, continua a dare per scontata l’esistenza dello stretto di Anian, leggendario canale che dovrebbe separare l’Asia dall’America all’altezza del 60° di latitudine nord, del quale nessun navigatore ha dato per un secolo riscontro; rappresenta inoltre la Corea come un’isola, non fa menzione della Siberia e riduce di molto rispetto al reale le dimensioni della penisola del Deccan e la massa continentale asiatica in generale. L’America del Nord conserva un profilo molto allungato, che le conferisce una estensione spropositata, mentre la parte meridionale del continente, più precisa nella fisionomia, è molto difettosa nelle proporzioni. Manca naturalmente del tutto l’Oceania, mentre la gran parte dell’emisfero australe è occupata dalla vastissima “terra australis nondum cognita”, per la quale si ipotizza uno sviluppo costiero alquanto accidentato.

Nel frattempo vanno però maturando le condizioni per una vera e propria rivoluzione nel campo della rilevazione cartografica. A propiziarle è il lavoro di Gian Domenico Cassini, già titolare della cattedra di astronomia a Bologna e chiamato in Francia da Colbert al fine esplicito di lavorare al calcolo della longitudine. Cassini sguinzaglia per il mondo diverse spedizioni incaricate di rilevare con la maggior esattezza possibile la longitudine e la latitudine di svariate località, dalla Guyana ai Caraibi, da Capo Verde all’Egitto, ma anche in Madagascar, in Siam e in Cina. La messe di dati raccolti viene scientificamente sistemata dal cartografo Guillaume De l’Isle, che adotta la proiezione conica e la levata astronomica come fondamento matematico dei rilevamenti. Le carte dello stesso De l’Isle, che lavora anche per Pietro il Grande, del suo successore Baptiste d’Anville, del danese Nieburh, sono frutto di un accurato lavoro di revisione critica dei calcoli e dei dati, molto spesso anche di rilevamenti compiuti in prima persona, e non esitano ad indicare con vaste macchie bianche le aree non esplorate. Anche questi spazi, comunque, appaiono destinati a coprirsi in tempi brevi dei nomi e dei simboli della nuova geografia empirica, cacciando dai suoi estremi rifugi quella millenaria del sogno.

Le ricerche condotte dai cartografi portano anche alla risoluzione di un ultimo grande problema, quello relativo alla forma della terra. Una serie di discrepanze emerse nei rilevamenti induce infatti a dubitare che la terra sia una sfera perfetta. Le due ipotesi contrarie che ne derivano, quella di un allungamento e quella di uno schiacciamento ai poli, sono sostenute rispettivamente dal figlio di Cassini e da Newton. È l’Académie des Sciences a farsi carico di dare una risposta definitiva. Nel 1735 vengono inviate due spedizioni, l’una, affidata a Maupertuis, nell’Artide, l’altra, sotto la guida di Charles Marie de la Condamine, a Quito, sulla linea dell’Equatore. I risultati danno ragione a Newton: la terra è una sfera schiacciata.

 

L’esplorazione dei mari

Nei secoli XVII e XVIII le più significative imprese di esplorazione marittima mirano proprio a sciogliere gli ultimi grandi nodi ereditati dalla geografia fantastica: il passaggio, a nord-ovest o a nord-est, dall’Atlantico al Pacifico, e la “terra australis”. L’esistenza dell’introvabile passaggio è il postulato sotteso alla volontà e alla necessità di aprire una via più diretta alle Indie, e gli sforzi profusi nella ricerca, spesso con esito tragico, testimoniano di un potere di autoconvincimento capace di dare lo spessore della certezza ad un fantasma della speranza. Inglesi, olandesi, francesi, russi, coltivano con uguale ostinazione il progetto, arrivando infine a trasferirne il valore sul piano scientifico-sportivo quando sarà accertata la sua inattuabilità economica. Ma nel frattempo le loro ricerche consentono di acquisire conoscenze utili per la pesca, per la caccia alla balena e per il riconoscimento delle estreme propaggini settentrionali dei tre continenti interessati.

 

Dopo i tentativi cinquecenteschi di Frobisher e di Davis ad occidente e di Barents ad est, la corsa al passaggio continua cocciutamente nei primi decenni del XVII secolo. Henry Hudson, un tipico avventuriero inglese, della stoffa di Drake o di sir Walter Raleigh, negli ultimi cinque anni della sua vita guida quattro spedizioni sotto tre diverse bandiere. Nel 1607 e nel 1608 naviga per conto della Compagnia di Moscovia: punta dapprima ad ovest e poi a nord-est e raggiunge il punto più settentrionale dell’arcipelago delle Svalbard, a meno di seicento miglia dal Polo Nord, dove è fermato dai ghiacci. Nel 1609, passato alla Compagnia olandese delle Indie Orientali, esplora e cartografa tutta la costa orientale del Nord America, risalendo anche per un tratto il fiume che prenderà il suo nome. Nel 1610, dopo essere stato arrestato per tradimento al ritorno in Inghilterra, è nuovamente in mare, stavolta sotto bandiera inglese, per conto della Compagnia della Virginia. Raggiunto quello che sarà chiamato lo stretto di Hudson presso la punta settentrionale del Labrador, si inoltra nella baia omonima, cercando uno sbocco occidentale: ma al sopraggiungere dell’inverno, con la nave intrappolata tra i ghiacci, non gli resta che sbarcare e cercare di sopravvivere. Nella primavera del 1611 vorrebbe proseguire l’esplorazione, ma l’equipaggio ammutinato lo abbandona alla deriva in una piccola barca assieme al figlio. Di loro non si saprà più nulla.

Lo scopo dichiarato, il passaggio occidentale, non è stato raggiunto, ma la scoperta della baia avrà comunque un peso enorme per la futura politica coloniale inglese nell’America settentrionale. Battuti sul tempo dai francesi nell’esplorazione interna del Canada occidentale, i britannici potranno accampare i diritti acquisiti sull’immenso territorio canadese attraverso l’accesso da nord: quando ne entreranno in possesso, dopo la Guerra dei Sette Anni, la ricognizione di tutto il litorale settentrionale e della sua fascia interna, sino all’Alaska, sarà già stata completata.

Una delle spedizioni inviate alla ricerca di Hudson, guidata da William Baffin, giunge comunque nel 1616 all’imbocco di quella che effettivamente è la via d’acqua tra i due oceani e naviga sin oltre lo Stretto di Davis, scoprendo la baia a nord che ora porta il nome dell’esploratore e toccando 77° 45’ di latitudine Nord: rinuncia poi ad avanzare, nella convinzione di trovarsi di fronte ancora una volta ad un mare chiuso. Per qualche tempo quindi, in seguito a peggioramenti intervenuti nella situazione politica europea, il problema viene accantonato. Attorno alla metà del secolo tornano però a trovare credito, anche negli ambienti marittimi più informati, le voci dell’esistenza di uno stretto che separa l’America dall’Asia (il già citato stretto di Anian). Ciò sembra sciogliere ogni dubbio sulla possibilità di accedere da settentrione al Pacifico, al punto che in Inghilterra viene costituita la “Compagnia della Baia di Hudson” (1670) per la gestione del futuro commercio interoceanico sulla via del nord. Ma i diversi tentativi promossi dalla società si arrestano inevitabilmente di fronte alla banchisa di ghiaccio, fino a quando l’attività esplorativa non viene interrotta dallo scoppio delle ostilità anglo-francesi.

Nella prima parte del Settecento sopravviene un nuovo calo d’interesse, anche perché comincia ed essere evidente che una eventuale via a latitudini così alte avrebbe scarsa rilevanza commerciale. Pertanto le ultime spedizioni, rimesse in moto dalla scoperta dello stretto di Bering (1728)[3], avranno un carattere quasi esclusivamente scientifico. Nel 1776 Cook, al suo terzo viaggio, constata una volta di più la possibilità di aprirsi una via tra i ghiacci artici: ed esperienze analoghe faranno prima della fine del secolo anche La Pérouse ed Alessandro Malaspina. In effetti, bisognerà attendere fino agli inizi del nostro secolo perché il “passaggio a nord-ovest” venga effettivamente percorso per via marittima, ma a titolo ormai puramente sportivo.

Ad esiti ben diversi conduce invece la navigazione nei Mari del Sud. Qui si erano rifugiate ormai, agli inizi del ‘600, la sete di novità e la fantasia geografica, dopo che per un secolo il globo era stato percorso in lungo e in largo, e più volte circumnavigato. Solo le alte latitudini dell’emisfero australe non erano state raggiunte e potevano riservare ancora qualche sorpresa. I geografi, dal canto loro, non avevano dubbi. La presenza di una vasta massa continentale, superiore a quella di tutti gli altri continenti conosciuti, era già stata ipotizzata da Ipparco di Nicea e ripresa da Claudio Tolomeo, sulla base di una argomentazione semplice quanto, evidentemente, convincente. Per equilibrare il peso del blocco euroasiatico nell’emisfero settentrionale, stante la differenza di peso della terra e del mare, era necessario un altro continente nell’emisfero opposto: per l’appunto, la terra australis incognita. La tesi era stata accolta e sviluppata dai geografi arabi, e quindi da quelli europei del medioevo. Ancora nel 1520, facendo riferimento ad una relazione di viaggio portoghese (della quale non rimane in verità alcuna altra notizia: ma tanto i portoghesi quanto gli spagnoli tenevano il più possibile segrete le loro scoperte), l’astronomo tedesco Johann Schröner disegna un globo che riporta attorno all’odierna Antartide un’enorme massa terrestre, separata dall’Africa e dall’America del Sud solo da brevi tratti di mare. Il viaggio di Magellano sembra confermare questa ipotesi, dal momento che la spedizione ha doppiato il continente americano forzando lo stretto tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, e quest’ultima è stata interpretata come la punta più settentrionale del continente sconosciuto. Di lì a qualche anno un’ulteriore conferma sembra venire dalla casuale scoperta della Nuova Guinea operata da Dom Jorge de Mendes e da una prima incompleta ricognizione costiera dell’isola effettuata nel 1527 da Alvaro de Saavedra. A questo punto i portoghesi, impegnati a consolidare i loro avamposti in india e a Malacca e a difendere il loro monopolio sulla rotta circumafricana, abbandonano la ricerca.

L’incarico di sciogliere anche questo enigma se lo assumono invece gli spagnoli, che si considerano i grandi esclusi dall’estremo Oriente, e che a partire dalla metà del secolo hanno iniziato a gettare un ponte sul Pacifico partendo dalle loro basi americane e prendendo possesso delle Filippine. Nel 1567 Alvaro de Mendana salpa dal Perù con il preciso mandato di scoprire la Terra Australe, ma nel corso di una rapida e tormentata esplorazione del Pacifico meridionale riconosce soltanto una serie di arcipelaghi, tra cui le Salomone; in un tentativo molto più tardo, durante il quale troverà la morte, arriverà alle Marchesi (1595). Qualche anno dopo il suo vecchio pilota, Pedro de Quiros, crede di aver realmente realizzata la scoperta, toccando terra alla più bassa latitudine sino ad allora raggiunta: si tratta invece delle isole Ebridi. Quiros è costretto a tornare indietro a causa di un ammutinamento, ma un suo ufficiale, Torres, prosegue con una seconda nave sino a traversare lo stretto di mare tra Australia e Nuova Guinea, senza però rendersi conto che quella che lascia alla sua sinistra è una massa continentale.

Intanto cominciano a muoversi anche i nuovi inquilini del sud-est asiatico, gli olandesi. Per evitare la caccia delle flotte portoghesi e spagnole che incrociano nell’Oceano Indiano, e che dopo il 1581, a seguito della riunificazione delle corone nella persona di Filippo II, conducono una guerra congiunta ai Paesi Bassi, gli olandesi una volta doppiato il Capo di Buona speranza mantengono una rotta molto meridionale, all’altezza del quarantesimo parallelo (i famosi “40 ruggenti”). Ciò consente loro di sfruttare correnti marine favorevoli, risparmiando mesi di viaggio rispetto alla rotta circumafricana degli iberici, e ad impattare inevitabilmente il continente sconosciuto. Per incarico della Compagnia Olandese delle indie Orientali, nata solo dieci prima, Willelm Jenszoon tocca già nel 1605 le coste della Nuova Guinea e dell’Australia nordorientale, ritenendole parte di un unico continente. Dopo di lui, in rapida successione, Hendrick Brouwer (1611), Dirk Hartog (1616), Frederik Hauptman (1619), Willem de Vlamingh (1624) e Peter Nuyts (1627) approdano sul litorale australiano occidentale. Questi viaggi confermano l’esistenza di una vasta piattaforma continentale, ma hanno anche l’effetto di raffreddare alquanto gli entusiasmi, poiché le terre rinvenute appaiono tutt’altro che ricche ed accoglienti, ben lontane dalla favolosa immagine che della terra australis avevano costruito geografi e poeti. Per questi navigatori, che sono spinti essenzialmente da interessi commerciali, esse non sembrano offrire alcuna prospettiva, tanto più che il litorale occidentale, molto lineare, non consente di individuare baie adatte ad accogliere eventuali porti. Comunque, prima di sospendere le ricerche la Compagnia organizza ancora un viaggio esplorativo nel 1642, affidandolo ad Abel Tasman. Partendo da Batavia la spedizione scende a toccare quella che oggi è appunto la Tasmania, costeggia la Nuova Zelanda e risale poi lungo la Nuova Guinea. Ha modo di verificare che questa è separata dalla massa continentale meridionale, e che pertanto tra il continente asiatico ed altre eventuali piattaforme terrestri a sud c’è una grossa distanza.

Gli inglesi si spingono alle latitudini meridionali solo nel 1686, con William Dampier, che tocca la costa nord-occidentale australiana. In un secondo viaggio (1699-1700) l’ex filibustiere[4] percorre lo stretto di Torres, che separa la Nuova Guinea da quella che viene chiamata Nuova Olanda, esplora le coste settentrionali australiane e si ferma soltanto quando trova lo sbarramento della grande barriera corallina. Guida poi altre due spedizioni nei Mari del Sud nel 1703 e nel 1708, compiendo un ricognizione accurata dello sviluppo costiero dell’Australia e scoprendo la Nuova Britannia e la Nuova Irlanda. Al di là dell’effettiva rilevanza delle sue scoperte, e del fatto che conferma in pie-no l’impressione negativa già riportata dagli olandesi, Dampier ha il merito di aver saputo creare interesse attorno ai mari tropicali con le sue avventurosissime relazioni (soprattutto con A New Voyage round the World, del 1697), conquistando anche il grosso pubblico dei non specialisti alla letteratura e ai problemi geografici. Ciò avrà molta importanza nel creare una favorevole spinta dell’opinione pubblica per le spedizioni scientifiche della seconda metà del secolo.

Agli inizi del Settecento, comunque, la confusione sui dati geografici di quest’area è ancora enorme. Le coste della terra australis sono state respinte a latitudini meridionali sempre più alte; ma essa è tutt’altro che rimossa dai miraggi di avventurieri e navigatori. Lo conferma la spedizione dell’olandese Jacob Roggeveen, che a dispetto del veto della Compagnia olandese delle Indie, poco disposta a tollerare iniziative private in una zona che considera di suo monopolio, tenta in proprio la ricerca nel 1722. Roggeveen giunge sino all’isola di Pasqua, prima di essere bloccato dai suoi compatrioti e costretto a rientrare.

Al disinteresse olandese si contrappone invece la crescente attenzione dei francesi per i Mari del Sud. La Compagnia francese delle Indie, che attraversa un felice momento commerciale, affida nel 1738 a Jean Baptiste Bouvet de Lozier l’incarico di cercare la terra australe. Bouvet si spinge sino al 54° parallelo, naturalmente senza trovare traccia di masse continentali. Ormai è gara aperta tra Francia ed Inghilterra. Nel 1764 sono gli inglesi ad armare una spedizione esplorativa al comando di John Byron: essa punta sull’Atlantico meridionale, esplora le coste della Patagonia e della terra del Fuoco, spingendosi anche nel Pacifico, ma non riesce a toccare la costa antartica. Due anni dopo un’altra spedizione, al comando di Samuel Wallis, fa vela verso i mari dell’Oceania, arrivando sino a Tahiti[5]. Anche Louis Antoine de Bougainville, partito nel dicembre dello stesso 1766, tocca l’isola nel 1768. La sua circumnavigazione del globo è la risposta francese non solo a Wallis, ma anche alla sconfitta subita nella guerra dei Sette Anni (della quale tra l’altro Bougainville è stato un protagonista, combattendo valorosamente prima in Canada e poi sul Reno). Cacciata dall’America settentrionale e dall’India, la Francia cerca nuovi spazi di espansione in Oceania. Dopo una tappa al Rio della Plata e una sosta a Rio de Janeiro, Bougainville ha guadagnato il Pacifico attraverso lo stretto di Magellano ed ha esplorato l’arcipelago delle Tuamotu e le isole del Vento. Lasciata Tahiti tocca ancora le Samoa, si spinge a sud alla ricerca della Terra Australis, scopre la grande barriera corallina, che gli impedisce la ricognizione delle coste australiane orientali, risale alle Salomone e all’arcipelago della Sonda (dove scopre di essere stato preceduto di pochi mesi, nella scoperta di Tahiti, da Wallis). Riapproda in patria nel marzo del 1769, e due anni dopo pubblica il diario del viaggio de La Boudeuse e de L’Etoile (Voyage autour du monde), che darà un grosso contributo alla diffusione dell’immagine del “buon selvaggio”.

Questo crescente impegno nelle missioni esplorative, sia nell’uno che nell’altro paese, consente ai navigatori e ai geografi di accumulare un importante bagaglio di esperienze che daranno modo nei decenni successivi di affrontare con determinazione scientifica il problema. Nel 1768 salpa infatti da Londra un’altra spedizione, al comando di James Cook. È un’intrapresa a carattere eminentemente scientifico, patrocinata dalla Reale Società Geografica londinese con lo scopo preciso di ottenere dei rilevamenti astronomici da un punto di osservazione privilegiato, proprio Tahiti, in occasione di una eclissi totale di Sole[6].

Cook è arrivato al comando relativamente tardi, perché ha trascorso tutta la giovinezza in campagna ed è entrato nella marina reale solo a ventisette anni, nel 1755, partendo come semplice marinaio. Di lì in poi però la sua carriera è stata rapidissima, e il giovane è stato notato dalla Royal Society per le sue eccezionali qualità di cartografo. In effetti da tutti i suoi viaggi ha poi riportato una mole impressionante di informazioni di carattere naturalistico, cartografico e storico, per la gran parte raccolte e annotate di persona. La nave di Cook, l’Endeavour, è stata per l’occasione attrezzata a vero e proprio laboratorio scientifico, con biblioteca, gabinetto di studio e serre per la conservazione delle specie vegetali tropicali. Fanno parte della spedizione due botanici, due naturalisti, un astronomo e un disegnatore specializzato. Cook approda a Tahiti nel marzo 1769, compie i rilevamenti richiesti e fa rotta sulla Nuova Zelanda; la circumnaviga e dopo aver superato l’ostacolo della barriera corallina esegue una ricognizione sulle coste orientali australiane, dove individua la localizzazione del primo futuro insediamento inglese nella Botany Bay.

Quindi fa vela verso l’Europa. Sia pure decimata dalle febbri tropicali, la spedizione giunge a Londra nel 1771. I risultati sono eccezionali dal punto di vista scientifico, ma anche da quello geografico. Intanto si restringe ulteriormente l’area di ricerca del fantomatico continente australe, e si tracciano carte precise degli arcipelaghi polinesiani e della Nuova Zelanda: ma soprattutto è importante il fatto che le osservazioni di Cook relativamente all’Australia sono favorevoli, e inducono il governo a prendere in considerazione un progetto di colonizzazione. Ciò giustifica la sollecitudine con cui viene armata una seconda spedizione, ancora affidata a Cook, che ha con sé una nuova equipe di scienziati[7]. L’accertamento dell’esistenza della terra australis, già compreso nelle istruzioni del primo viaggio, costituisce questa volta lo scopo primario. Cook naviga per quattro mesi in direzione orientale senza fare scalo, ad una latitudine molto alta (circa 67 gradi). Giunge ad una settantina di chilometri dalla piattaforma continentale ma non riesce a raggiungerla, essendo indotto a desistere dal pericolo degli iceberg. Nell’estate del 1773 raggiunge e supera il circolo polare, scopre la Nuova Caledonia e torna a Londra nel 1775.

Sotto l’aspetto della conoscenza geografica è questo il suo viaggio più fruttuoso. Oltre alle numerose isole scoperte o riscoperte, esso cancella ogni residua illusione sulla esistenza di un ulteriore continente australe abitabile, e sposta definitivamente l’attenzione inglese sull’Australia. Rende conto inoltre, per la prima volta, dell’esistenza dell’Antartide.

Risolto l’enigma australe, l’Inghilterra appare decisa ormai a dare soluzione anche a quello settentrionale. Cook viene incaricato nel 1776 della ricerca del passaggio a nord-ovest, tentandolo però dal versante del Pacifico. Dopo aver costeggiato il continente americano fin oltre l’Alaska, ed aver toccato i 70° di latitudine Nord, l’esploratore constata l’impossibilità di avanzare e torna indietro per svernare alle Hawaii, dove è ucciso dagli indigeni nel 1779.

Il confronto tra Cook e Bougainville è particolarmente significativo. Mentre il primo è figlio di un bracciante agricolo, e ha scalato con la sola forza della sua intelligenza i gradi che lo portano al comando di una nave, Bougainville appartiene alla più alta nobiltà ed ottiene l’autorizzazione a compiere la circumnavigazione del globo, primo francese, per i suoi meriti ma soprattutto per il suo rango. Le differenze si vedono nello stile adottato dai due nel condurre le rispettive spedizioni. Cook è incredibilmente determinato, mentre Bougainville sfiora più volte la scoperta eccezionale, ma o è battuto per pochissimo sul tempo (a Tahiti, da Samuel Wallis) o rinuncia quando è già in vista dell’obiettivo (l’Australia, raggiunta e rivendicata solo l’anno successivo proprio da Cook).

Ma anche i risultati scientifici conseguiti sono molto diversi. Cook è capace di mappature incredibilmente precise e dettagliate. Il materiale raccolto nelle sue spedizioni darà lavoro per anni ai naturalisti e ai cartografi, rivoluzionando le conoscenze botaniche e riempiendo la gran parte degli ultimi spazi bianchi sulle mappe marittime.

Bougainville riporta invece soprattutto delle impressioni, la convinzione di avere trovato a Tahiti una sorta di paradiso terrestre nel quale è ancora presente l’innocenza originaria, e le affida al suo Voyage au tour du monde, destinate ad alimentare il dibattito filosofico (Diderot scrive un Supplement au Voyage de Bougainville che diverrà molto più famoso dell’originale) e il mito del buon selvaggio. Bada molto più alla dimensione umana che non a quella scientifica, ed è questo forse che gli consente di chiudere la sua circumnavigazione, durata due anni e mezzo, avendo perso solo sette uomini su oltre duecento. Anche nelle spedizioni di Cook i costi umani sono molto bassi, ma ciò è dovuto più che all’umanità del polso alla dieta alimentare comprendente agrumi e crauti, che il comandante impone e che previene lo scorbuto.

 

Il successo dei viaggi di Cook induce la Francia a intensificare gli sforzi di esplorazione. Luigi XVI invia nel 1785 Jean Francois Galaup de la Pérouse a completare le esplorazioni inglesi nel Pacifico meridionale, a prendere possesso delle terre nuove scoperte e a tentare ancora una volta il passaggio a nord-ovest dal versante occidentale. Come quella di Cook, la spedizione di La Pérouse ha un imponente corredo di strumenti, laboratori, volumi scientifici, e naturalmente di astronomi, naturalisti, meteorologi ecc… L’esito è tragico, perché entrambe le navi vanno disperse: ma nel corso del viaggio l’esploratore ha potuto inviare in patria una interessante messe di osservazioni e di rilevamenti.

Un’altra spedizione scientifica è organizzata negli stessi anni dalla corona spagnola e affidata all’italiano Alessandro Malaspina. Composta di naturalisti e cartografi, essa compie con le corvette Descubierta e Atrevida (equivalente spagnolo di Discovery e Resolution, i nomi delle navi dell’ultima spedizione di Cook) una ennesima ricognizione del Pacifico, durata quasi cinque anni, e suggella un secolo di esplorazioni con un ultimo, e ormai quasi simbolico, tentativo di forzare il nord-ovest. Al suo rientro Malaspina è ricompensato con un’accusa di tradimento (motivata dal fatto che si espresso in favore di una maggiore autonomia da concedersi ai territori coloniali) e con dieci anni di detenzione. Anche i risultati, davvero eccezionali, tanto dal punto di vista cartografico, per l’accuratezza e la quantità dei rilevamenti costieri, quanto più in generale per l’enorme messe di dati scientifici, oceanografici, geologici, botanici e antropologici raccolti, giaceranno purtroppo sepolti per oltre un secolo negli archivi segreti dell’ammiragliato[8].

Il Settecento si chiude comunque sull’onda di una spinta esplorativa rilevante e di segno nuovo, che sgombra definitivamente il campo dai vecchi miti e da quell’attitudine avventuriera, individualista e disordinata che aveva caratterizzato l’epoca eroica dell’espansione marittima.

È il clima culturale settecentesco, indubbiamente, a spingere verso una autonomia di significato dell’esplorazione, verso l’affermazione della curiosità scientifica come suo movente primario: ma vi concorrono anche le mutate condizioni politiche ed economiche, il subentrare dello stato nella gestione della politica coloniale, l’attenuarsi dell’urgenza dei fattori commerciali dopo che le correnti di traffico principali si sono stabilizzate, nonché l’apporto di uomini come Cook, capaci di far tesoro delle esperienze di tre secoli e di tradurle in capacità organizzative e in efficienza. È fondamentale anche la riorganizzazione che quasi tutti gli stati, spinti dalle nuove esigenze colonialistiche, intraprendono nel campo della marina militare, alla quale competono ormai funzioni non più limitate al campo bellico, ma allargate alla sperimentazione tecnica e alla ricerca scientifica. Queste ultime costituiscono anzi spesso la giustificazione, di fronte ai contribuenti, per il mantenimento di un elevato potenziale e di un alto livello di efficienza.

Gli stimoli alla ricerca vengono come abbiamo già visto dai progressi delle varie scienze, soprattutto dell’astronomia e della biologia. Le Accademie scientifiche sorte nel Seicento sotto il patrocinio e a spese dei sovrani caldeggiano rilevamenti sempre più accurati di dati meteorologici ed idrografici, chiedono raccolte e descrizioni di esemplari di fauna e flora tropicali, aggiornano le mappe astronomiche coi cieli degli antipodi. L’impulso iniziale legato alla competizione commerciale e militare (non è un caso che sia proprio un sovrano come Pietro il Grande a dare tra i primi l’esempio di una gestione diretta dell’attività di esplora-zione) si trasferisce alla competizione scientifica. Il destino ed il significato della scoperta mutano radicalmente, essa trae valore dalla priorità, e quindi dalla divulgazione immediata: alla segretezza e alla diffidenza subentra la pubblicità e la collaborazione. Inglesi e russi si incontrano ai limiti del circolo polare artico, impegnati nella stessa ricerca, si festeggiano e si scambiano informazioni. Esploratori francesi fanno tappa negli insediamenti britannici, in piena guerra tra i due paesi, per rifornimenti. L’Europa e le sue beghe sono diventate troppo piccole per chi sta allargando i confini del mondo.

I successi straordinari delle imprese di esplorazione del secondo Settecento nascono infine anche da ragioni tecniche. Le protagoniste di questi viaggi sono imbarcazioni di nuova concezione, dalla sagoma agile e veloce, adatte tanto alla navigazione in alto mare come a costeggiare. Sono fregate, corvette, golette, che si sostituiscono ai pesanti galeoni spagnoli, alle caravelle portoghesi, alle tozze caracche mediterranee[9]. I perfezionati criteri di costruzione garantiscono l’impermeabilità delle connessure, la resistenza all’erosione della salsedine e la compattezza generale della chiglia. L’applicazione di ricoperture di rame sulle chiglie, per limitare il formarsi di incrostazioni di alghe o di teredini, nonché il disegno più basso ed allungato degli scafi comportano, oltre ad una migliore penetrazione e quindi ad una aumentata velocità di crociera, un maggiore equilibrio di galleggiamento, ciò che permette l’utilizzo di alberi più alti e quindi di una velatura più ampia.

Queste ed altre soluzioni, compresa una serie di accorgimenti che garantiscono un minimo di sicurezza nelle manovre, permettono di governare la nave con un equipaggio ridotto e con turni meno massacranti. Il minore affollamento consente a sua volta di alloggiare gli equipaggi in ambienti più salubri, pur se ancora tutt’altro che confortevoli. Cambia anche il sistema di reclutamento degli ufficiali, sino al secolo precedente ristretto ai soli appartenenti alle classi nobiliari, e ciò permette a uomini capaci come Cook, figlio di contadini, di arrivare ad esercitare il comando.

La strumentazione nautica si arricchisce di apparecchi di riflessione e di cronometri, che consentono di determinare la longitudine in mare con margini d’errore sempre più contenuti, di bussole di rilevamento, di carte nautiche reticolate con meridiani e paralleli. Miglioramenti considerevoli si hanno anche nelle condizioni umane dei viaggi: grazie alla scoperta delle proprietà delle verdure e degli agrumi per combattere lo scorbuto, e più in generale alla maggior cura del vitto e dell’igiene, sia Bougainville che Cook riescono a compiere circumnavigazioni della durata di due o tre anni con costi umani ridottissimi.

 

L’esplorazione dei continenti

Accanto all’attività di esplorazione marittima prosegue intanto quella terrestre di penetrazione dei nuovi continenti e di ricognizione delle zone sconosciute dell’Asia e dell’Africa.

Nell’America del Nord gli spagnoli risalgono lungo le sierre dell’alto Messico, fino alla penisola di California. Missionari e avventurieri ripercorrono gli itinerari di Coronado e di Cabeza de Vaca, fermandosi però a nordovest davanti alle Montagne Rocciose e ai deserti dell’Arizona, ad est ai primi contraffarti degli Allegheny e al Mississippi. Più a settentrione, invece, i francesi dilagano dai loro primi insediamenti sul San Lorenzo, in una foga di esplorazione alla quale non è estranea la speranza di trovare un passaggio via terra per l’Oriente. Non appena Champlain ha rafforzato la colonia canadese cominciano a percorrere come cacciatori o commercianti di pellicce i territori dell’interno, spingendosi tra il 1650 e il 1660 fino alla Baia di Hudson e riconoscendo tutta la zona dei grandi laghi. Quest’area è già battuta nel secondo decennio del secolo dal giovane Etienne Brulé, che raggiunge l’Ontario e il Lago Superiore, ma finisce poi ucciso (e secondo la leggenda, cucinato) dagli indiani. Negli anni Quaranta Jean Nicollet, sempre alla ricerca del mitico passaggio, rinfocolata dai racconti indiani sull’esistenza di una “grande acqua”, si spinge sino al lago Michigan, mentre Chouart e Radisson esplorano nel decennio successivo il Wisconsin.

Negli anni Settanta sono Luois Joillet e Jacques Marquette a completare il quadro, identificando il Lago Eire e scendendo il tratto superiore del Mississippi, fino a convincersi che il fiume non li sta conducendo al Pacifico, ma all’oceano orientale. A seguirne il corso sino alla foce e a prendere possesso della regione retrostante gli Appalachi è invece, tra il 1779 e il 1784, Robert Cavalier de la Salle (assieme all’italiano Enrico Tonti). Prima della fine del secolo una cintura di forti e di stazioni di scambio collega il Canada con il golfo del Messico, e sulle coste di quest’ultimo viene fondata Nouvelle Orléans, a suggellare l’espansione della Louisiana.

L’interesse francese però, soprattutto negli ultimi due decenni di regno di Luigi XIV e durante quello del suo successore, è tutto concentrato sull’Europa. Non essendoci alle spalle un progetto significativo di colonizzazione le iniziative sono lasciate ai singoli. Così anche quando nel 1731 Pierre de La Vérendrye ed i suoi figli puntano dritto ad ovest, toccano il lago Winnipeg e arrivano alle pendici delle Montagne Rocciose, la loro ricognizione non ha alcuna ricaduta pratica.

Gli inglesi, dal canto loro, conservano a lungo un’idea alquanto imprecisa dell’estensione del continente. All’estremo nord, mentre i francesi si muovono lungo la direttrice di terra, i britannici portano avanti soprattutto la ricognizione costiera. Esplorano la baia scoperta da Hudson nel 1610 e sessant’anni dopo, nel 1668, fondano la Compagnia omonima, che ha nella carta costitutiva due scopi espliciti: cercare il varco marittimo per il mar della Cina e dare sviluppo al commercio delle pellicce. Lungo la costa settentrionale la Compagnia stanzia avamposti fortificati, dai quali partono poi le esplorazioni dell’interno. In pratica si crea una sorta di terra di tutti e di nessuno, nella quale si giocano le rivalità tra le diverse compagnie nazionali. La lotta per assicurarsi il monopolio sulle pellicce si svolge senza esclusione di colpi, destabilizza l’equilibrio già precario dei rapporti tra le varie le tribù indiane e trova una soluzione solo dopo la metà del Settecento, al termine della guerra dei Sette Anni.

A questo punto infatti l’iniziativa rimane tutta nelle mani degli inglesi. Molte colonie si sono viste riconoscere sulla carta di fondazione il diritto all’espansione illimitata in profondità, basato sul presupposto di una relativa vicinanza dell’oceano Pacifico: ma solo dopo la guerra di successione di Spagna e la pace di Utrecht si è dato inizio ad una attività esplorativa, e solo attorno alla metà del ‘700 questa attività comincia a produrre risultati, soprattutto nella fascia settentrionale. Antony Hendry ripercorre nel 1754 l’itinerario tracciato da La Vérendrye, mantenendosi leggermente più a nord e risalendo il corso del fiume Saschastkevan sino a raggiungere le Montagne Rocciose. Nel 1770 Samuel Hearne, anch’egli partendo dalla baia, risale verso nord-ovest fino al Mar Glaciale Artico e scopre il Grande Lago degli Schiavi. La sua ricognizione conferma l’impossibilità di arrivare dalla baia di Hudson al mar della Cina per via d’acqua, anche se, come vedremo, non chiude definitivamente il capitolo.

La situazione cambia ancora una volta nell’ultimo quarto del Settecento. Lo scontro tra le colonie e la madrepatria introduce sulla scena una nuova rivalità, e quando le prime ottengono l’indipendenza la corsa riparte con finalità diverse. I britannici devono giocare d’anticipo per arginare future pretese statunitensi di espansione verso occidente, e il riconoscimento geografico del territorio conferisce una sorta di diritto di prelazione. Prima ancora che il nuovo stato abbia trovato un assetto istituzionale definitivo Alexander Mackenzie, funzionario della Compagnia del Nord-Ovest, che ha rimpiazzato quella della Baia di Hudson, compie una serie di viaggi esplorativi terrestri con l’esplicito intento di raggiungere il Pacifico. Nel 1789 un primo tentativo lo conduce, con la discesa del fiume che oggi porta il suo nome, a sbucare sul Mar Glaciale Artico molto più ad ovest del punto raggiunto da Hearne. Nel 1793 riparte dal lago Atabasca, mantiene una direzione più meridionale e arriva, dopo aver superate le montagne Rocciose, a toccare l’oceano a nord dell’isola di Vancouver. È la prima traversata continentale compiuta a nord dell’odierno Messico, in pratica lungo la linea che costituirà il futuro confine tra gli stati uniti e il territorio canadese.

Una volta affermata la priorità della scoperta, sulle orme di Mackenzie si organizza a partire dai primi dell’800 un vero e proprio servizio di ricognizione topografica. Un altro funzionario della compagnia, Simon Frazer, arriva al Pacifico ad una latitudine inferiore, seguendo il fiume che da lui prenderà il nome sino di fronte all’isola di Vancouver. David Thompson rileva in una campagna ventennale di esplorazioni tutti i principali fiumi e i grandi laghi tra il 50° e il 60° parallelo, arrivando a superare più volte le Montagne Rocciose attraverso valichi diversi e scendendo al Pacifico lungo il bacino del Columbia (1801). La sua opera viene proseguita, molto più a nord, da John Franklin, che nel 1819 è incaricato di completare il riconoscimento costiero del mar Glaciale artico e della zona a nord del 60° parallelo. La prima spedizione rientra dopo aver trascorso due inverni a terra e aver perso molti membri, ma nel 1825 Franklin è nuovamente sulle rive dell’Artico. Altre spedizioni si spingono sino a discendere la prima parte del corso dello Yukon, arrestandosi però di fronte alla reazione di un’altra compagnia per il commercio delle pellicce: l’Alaska è infatti di competenza russa.

Nel frattempo anche gli Stati Uniti cominciano a muoversi. Nel 1783 con la pace di Parigi hanno annesso tutti territori tra gli Appalachi e il Mississippi: nel 1803 comprano da Napoleone la Louisiana. Si tratta di territori non del tutto ignoti, già in parte percorsi da spagnoli e francesi, abitati da popolazioni bellicose: un’immensa tavola piatta, poco protetta dalle masse d’aria provenienti da nord e da sud, quindi soggetta ad un clima marcatamente continentale, e il cui confine occidentale è definito solo dalla barriera naturale delle Montagne Rocciose. È quasi automatico che le iniziative di esplorazione siano volte soprattutto a superare queste ultime, a trovare vie d’accesso per la fascia costiera del Pacifico. Ed è anche sintomatico del mutamento intervenuto negli scopi il fatto che queste iniziative siano tutte affidate a militari.

Nel 1804 il governo statunitense incarica i capitani Meriwether Lewis e William Clark di risalire il Missouri, il maggior affluente del “padre delle acque”, per riconoscerne le sorgenti ma soprattutto per individuare possibili vie di accesso al Pacifico. La spedizione ha pieno successo. I due capitani arrivano nell’estate successiva a bagnarsi i piedi nelle acque dell’oceano e nel corso del viaggio stabiliscono contatti con le diverse nazioni indiane, individuano quelle potenzialmente ostili e stringono rapporti con quelle meglio disposte, assolvendo ad un ruolo che va ben oltre quello puramente esplorativo. Sulla via del ritorno si dividono per effettuare una ricognizione a più ampio raggio dei possibili percorsi alternativi, e a due anni dalla partenza sono nuovamente a Washington. È la risposta statunitense a Mackenzie, ed è rimasta tanto nell’immaginario quanto nella storiografia nordamericana come “la spedizione” per antonomasia.

Lewis e Clark sono però solo i primi e i più famosi di una fitta schiera di esploratori a stelle e strisce. Mentre ancora i due sono impegnati lungo il Missouri il tenente Zebulon Pike attraversa tutta la pianura centrale, arriva alle falde delle Rocciose, devia verso sud, segue il Rio Grande, spingendosi in profondità in territorio messicano, e torna poi attraverso il Texas. Il nuovo stato è ancora in fasce, e già sgomita in tutte le direzioni.

Dopo la guerra che li oppone nel 1812 agli Inglesi diventa ancora più pressante per gli Stati Uniti l’esigenza di riconoscere tutti i territori di confine col Canada, soprattutto di individuare lo spartiacque dal quale ha origine il bacino del Mississippi. Nel 1823 il maggiore Samuel Long esplora l’area degli odierni Wisconsin e Minnesota, nella quale dovrebbero essere rintracciabili le sorgenti del fiume: a questa spedizione si aggrega anche un italiano, Giacomo Agostino Beltrami, che ad un certo punto proseguirà la sua avventurosa ricerca da solo e si convincerà di aver trovato le sorgenti.

All’estremo ovest, su e giù per le Montagne Rocciose, tra il Grande Lago Salato e i fiumi Columbia e Colorado, si snodano le esplorazioni di Jededya Smith, che identifica tutte quelle che diverranno le vie classiche d’accesso alla California.

Ma il più grande sforzo esplorativo organizzato è quello che tra il 1842 e il 1853 vede il maggiore J. C. Freemont battere a tappeto con una serie di percorsi orizzontali tutto il Far West, l’Oregon e la California. Freemont è un valente cartografo, formatosi alla scuola del francese Nicollet. Le sue rilevazioni e le sue carte sono definitive. L’esplorazione dell’America settentrionale, a questo punto, è conclusa.

Tra il XVII e il XVIII secolo prosegue nel continente meridionale la penetrazione di portoghesi e spagnoli (per un certo periodo, tra il 1580 e il 1640, congiuntamente, per l’unificazione delle corone). Dal punto di vista geografico si tratta di completare un quadro del quale sono state sbozzate solo le linee generali, anche se gli itinerari della conquista hanno tagliato in lungo e in largo il continente. Le aree inesplorate rimangono in realtà vastissime, e in esse trovano ancora rifugio le fantasie medioevali che dalla scoperta hanno tratto nuovo alimento, dal mito dell’Eldorado a quelli delle Sette città di Cibola e delle donne guerriere. In un primo periodo sono però soprattutto i missionari, francescani e gesuiti, a battere la pista verso l’interno, alla ricerca di anime da convertire, il più possibile lontane dalla contaminazione europea. Alla fine del secondo decennio del ‘600 due francescani ripetono le imprese di Orellana e di Aguirre, discendendo il Rio delle Amazzoni su una canoa, dal Perù sino alla foce. Pochi anni dopo, nel 1637, è invece il portoghese Pedro Teixeira a risalire il fiume alla guida di una grande spedizione (quaranta imbarcazioni e circa 2.500 uomini), partendo dalla foce e riguadagnando dopo due anni l’oceano rifacendo a ritroso il percorso. Paradossalmente questa poderosa ricognizione, invece di sfatare una volta per tutte le leggende, contribuisce ad alimentarle. I gesuiti che accompagnano Teixeira e redigono la cronaca della spedizione riportano infatti gli accenni a luoghi e popoli favolosi come voci di seconda mano, ma non le mettono affatto in dubbio. Nella stessa zona compie invece interessanti rilevamenti idrografici, a cavallo tra il Seicento e il Settecento, un loro confratello tedesco: Samuel Fritz redige la prima carta attendibile del percorso del fiume ed apre la strada alla seconda ondata di esploratori, quella degli scienziati-naturalisti.

Nel 1743 è un francese, Charles Marie de la Condamine, inviato alcuni anni prima in Perù per una misurazione astronomica, a discendere in tutta la sua lunghezza la grande via d’acqua brasiliana. Con i risultati di questa esperienza De la Condamine aggiorna e completa le carte di Fritz, e individua alcuni problemi dei quali lascia ai posteri la soluzione, contribuendo in questo modo a suscitare ulteriore curiosità geografica in numerosi giovani scienziati. Il primo, e il più famoso, è il prussiano Alexander von Humboldt, che nel corso di un viaggio di esplorazione intrapreso in compagnia del pittore e botanico francese Aimée Bompland proprio alla fine del secolo attraversa diagonalmente la fascia più settentrionale del Sudamerica. Dopo aver risalito l’Orinoco sino alle sorgenti e aver appurato l’esistenza di una comunicazione fluviale diretta tra questo e il bacino delle Amazzoni, i due partono dal Venezuela, attraversano le Ande, arrivano sino al Perù e scendono poi al Cile, per tornare infine ad esplorare il Messico e l’isola di Cuba. Oltre ad effettuare rilevazioni scientifiche di straordinaria importanza (viene ad esempio scoperta la corrente fredda che lambisce le coste cilene e sale verso il nord), ne riportano dopo cinque anni vastissime collezioni di nuove specie animali ed erbari sterminati. I viaggi di Humboldt contribuiscono a fissare definitivamente la fisionomia del continente: ma come quello di De la Condamine, e più ancora di quello, data la risonanza che avranno negli ambienti scientifici europei, aprono una infinità di altre prospettive.

Di conseguenza, per tutta la prima metà dell’800, e anche oltre, sulle orme del barone prussiano e del pittore francese si muoveranno innumerevoli naturalisti e ricercatori scientifici di diverse nazionalità, favoriti dalle progressive indipendenze conquistate dei paesi latinoamericani e quindi dalla facilità di accesso. Saranno loro, personaggi come lo zoologo francese Alcide d’Orbigny che per sette anni vagabonda tra il Brasile e la Patagonia, o il tedesco R.H. Schomburgk, che ripercorre e amplia gli itinerari di Humboldt tra Gujana e Venezuela, o un altro francese, il conte Francois de Castelnau, che tra il 1843 e il 1847 va e viene tra il Mato Grosso, il Gran Chaco e gli altipiani andini (perdendo nell’ultimo viaggio tutto il materiale scientifico raccolto) a riempire gli ultimi spazi bianchi rimasti sulle carte del Sudamerica[10]; o ancora, l’entomologo inglese H. W. Bates, inizialmente compagno di avventura di Alfred Wallace, che esplora lungo undici anni tutto il bacino delle Amazzoni, e Richard Spruce, che in Amazzonia rimane quindici anni e ne riporta una collezione di quasi trentamila piante, di cui settemila sconosciute; o infine, l’italiano Antonio Raimondi, che intraprende un più che ventennale lavoro di mappatura del territorio peruviano, percorrendolo praticamente tutto a piedi[11].

In Asia giunge a compimento nei corso del XVII secolo la progressiva conquista russa della Siberia. Essa aveva preso l’avvio già negli ultimi decenni del secolo precedente, durante il regno di Ivan il Terribile, ma i contatti risalivano ad un’epoca più antica, immediatamente successiva alla cacciata dei Tartari, ed erano legati ai commercio delle pellicce. Mercanti e cacciatori avevano iniziato molto presto a varcare gli Urali, seguiti dopo la metà del ‘500 da bande cosacche che avevano sconfitto e sottomesso le tribù siberiane occidentali. Su questo slancio si era immediatamente inserito lo stato moscovita, organizzandolo in un disegno preciso di penetrazione a tappe forzate. La prima parte di questa avanzata è lineare, e mira a raggiungere velocemente l’oceano Pacifico, isolando la parte settentrionale del continente ed evitando lo scontro con le forti popolazioni del Turkestan. Essa si muove principalmente lungo i grandi fiumi che sfociano nell’oceano Glaciale Artico, che corrono per lunghi tratti in direzione longitudinale e sono facilmente navigabili. Non incontra ostacoli di sorta, né naturali né umani, trattandosi di una immensa landa semi pianeggiante e pressoché disabitata. Le varie tappe sono scandite da altrettante città, fondate sulle rive dei fiumi via via raggiunti: Tobolsk nel 1587 sull’Ob, Turkhansk nel 1607 sullo Jenissei, Jakustk nel 1632 sulla Lena. Nel 1649 è raggiunto l’oceano Pacifico, sulle cui coste viene fondata Okostk. Mentre è tracciato l’asse di penetrazione alcuni esploratori si spostano perpendicolarmente ad esso, compiendo peripli di ricognizione lungo i bacini fluviali: Poliarkov e Kabarov verso il sud, Stadovkin e Denjev a nord-est, fino all’estrema propaggine continentale. Denjev nel 1648 attraversa sul ghiaccio lo stretto di Bering, dando inizio all’interesse russo per l’Alaska.

L’espansione avviene senza clamori, e gli europei si accorgono di avere un nuovo concorrente affacciato sul Pacifico solo alla fine del Seicento, quando russi e cinesi tentano una definizione dei confini, dopo gli iniziali dissapori creati dall’ostilità cinese per la nuova inquietante vicinanza.

La conquista a quest’epoca è compiuta ancora soltanto sulla carta, anche se le basi effettive sono state poste. La maggior parte delle popolazioni nomadi e delle tribù kirghise sono tutt’altro che dome. Esse continuano ad incontrarsi nelle poste commerciali e nelle grandi fiere estive con i mercanti della Russia, ma si oppongono alle esazioni fiscali, all’introduzione della legislazione russa, alla conversione al cristianesimo. La messa in valore dell’immenso territorio non si fonda comunque sulle popolazioni indigene: essa è demandata alla colonizzazione contadina. Migliaia di servi della gleba cominciano a scegliere ogni anno di valicare gli Urali, alla conquista della libertà e di una terra propria. Con essi numerosi sono i dissidenti religiosi, appartenenti al raskol dei “Vecchi Credenti”, ferocemente perseguitato nella seconda metà del ‘600. Come il Nord-America, la Siberia sembra consentire nella sua immensità, nella sua natura desertica, la fuga verso la libertà e la possibilità di vivere in armonia con le proprie convinzioni. Ma a differenza di là, qui lo stato è presente e intende farsi sentire, almeno dove può giungere. La sua presenza si caratterizza quasi subito nell’aspetto più repressivo, in quanto la Siberia comincia ben presto ad ospitare i bagni penali, diventando così il simbolo stesso dell’oppressione autocratica.

Nel Settecento, soprattutto a partire dal 1720, Pietro il Grande organizza l’esplorazione siberiana in modo più sistematico. Sul continente Atlassov percorre la Kamchatka, completando così il profilo generale siberiano. Sul mare il danese Titus Bering è incaricato di cercare il passaggio che consenta la comunicazione diretta con la Cina attraverso i mari settentrionali (1728). Nel corso di questa spedizione scopre lo stretto che porta il suo nome e che separa l’Asia dall’America. In un viaggio successivo tocca le Aleutine, dove qualche anno dopo i cacciatori russi di pellicce fisseranno una loro stazione; ma il passaggio a nord-ovest rimane inviolato, anche se nel corso del secolo quasi tutta la costa bagnata dall’oceano Glaciale Artico viene riconosciuta sia da terra che per via marittima.

A dispetto dell’interesse che l’Europa del Seicento e del Settecento manifesta nei confronti della Cina e della sua civiltà, i rapporti diretti col grande impero rimangono in tutto questo periodo alquanto limitati. Dopo il tramonto della potenza portoghese e fino agli inizi del XVIII secolo le frontiere cinesi sono chiuse ai commercio occidentale, e soltanto alcune missioni gesuitiche ottengono agli inizi del Seicento di poter svolgere all’interno dell’impero la loro opera di evangelizzazione. Proprio questi gesuiti, portati dalla loro attività missionaria a percorrere gran parte del territorio cinese, raccolgono i dati più significativi della loro esperienza nel Nuovo Atlante della Cina (1655), che offre un quadro generale dei costumi e del pensiero cinese, oltre che della geografia del paese, e che viene aggiornato vent’anni dopo nella Cina Illustrata di padre Athanasius Kircher. Nella seconda parte del ‘700 questa opera di esplorazione e di divulgazione ha termine, per la polemica insorta all’interno stesso dell’ordine e ripresa poi dalle autorità ecclesiastiche, sulla tolleranza nei confronti dei riti cinesi, in particolare del culto degli antenati e di Confucio. Il riassunto globale delle conoscenze acquisite è comunque riversato nella prima carta moderna della Cina, che Jean-Baptiste D’Anville redige nel 1735.

Nel 1685 viene creata a Canton una dogana marittima per l’approdo di navi straniere, e nel 1699 gli inglesi ottengono di aprire in città un ufficio commerciale. Di lì a poco la stessa concessione sarà rilasciata ai francesi (1734), e nel 1784 addirittura alla neonata repubblica statunitense. Quando però le potenze occidentali cercano di forzare la mano, come nel caso della missione inglese guidata da lord George Mc Cartney nel 1783, l’imperatore ostenta uno sprezzante disinteresse[12]; salvo poi accettare, solo due anni dopo, un’analoga proposta per l’avvio di scambi commerciali e culturali da parte dell’emissario della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, Isaac Titsingh[13].

L’atteggiamento cinese è dunque estremamente contradditorio: da un lato si manifesta un sostanziale disinteresse per quanto l’Occidente ha da offrire, tanto sul piano culturale come su quello economico, dall’altro vengono commissionate ai gesuiti intraprese scientifiche o artistiche di grande rilievo[14]. Quello occidentale rimane invece sempre improntato a grande curiosità, e le relazioni e le immagini riportate anche da missioni sostanzialmente fallimentari come quella di Mc Cartney, che annovera nel suo seguito anche due pittori, contribuiscono ad alimentare l’interesse e la moda delle “cineserie”.

Una notevole curiosità suscita anche in questo periodo la regione del Tibet, che dopo essere stata visitata e descritta nel Trecento da Oderico da Pordenone non era più stata toccata da alcun europeo. Dalla relazione del viaggiatore francescano si ricava la suggestiva immagine di una società fondata su basi essenzialmente religiose, e ciò costituisce un ulteriore stimolo per i gesuiti. Essi risalgono dall’India, fondano una prima missione alle falde dell’altipiano e nel 1661 sono ricevuti anche a Lhasa. Ma i rapporti non tardano a guastarsi in seguito ad una ondata xenofoba causata dagli attriti tra i tibetani e l’impero cinese, ed anche questa regione torna a rifiutare per secoli l’approccio dell’occidente.

Decisamente più misterioso rimane anche nel XVIII secolo il Giappone. Per tutto il periodo Edo, dal 1639 sino alla metà dell’Ottocento, viene perseguita dagli shogun la politica del sakoku, l’isolamento totale. La popolazione non deve avere alcun contatto con la cultura occidentale. A tal fine viene anche inasprita la caccia ai nuclei cristiani creati dalla evangelizzazione cinquecentesca dei gesuiti, e gli unici occidentali ad avere accesso ad uno scalo portuale (a Nagasaki) per l’importazione e l’esportazione sono gli olandesi[15]. Eppure, anche durante questo periodo, nonostante la chiusura nei confronti del mondo esterno, in Giappone si studiano le scienze e la tecnica dell’Occidente, soprattutto le discipline geografiche, astronomiche, mediche, naturalistiche e astronomiche, nonché la fisica, e in particolare la meccanica.

Il resto del continente asiatico non è interessato nei due secoli in esame da importanti iniziative di esplorazione. Progredisce, naturalmente, la conoscenza geografica dell’India, in ragione del peso prima commerciale e poi politico che la regione va assumendo per gli europei. Si tratta comunque di un’area le cui caratteristiche generali erano già note fin dall’antichità. Assai meno conosciuta è invece la penisola indocinese, al cui interno penetrano soltanto alcune spedizioni missionarie francesi nella seconda metà del ‘600.

Infine, una prima relazione a carattere scientifico sulle regioni araba ed iranica si ha nella seconda metà del ‘700, ad opera del danese Carsten Niebuhr, protagonista di un viaggio avventuroso e tragico[16]. La spedizione di cui fa parte, promossa dalla corona danese, muove nel gennaio 1761 alla volta della penisola arabica, passando per l’Egitto. Dopo due anni, e dopo aver visitato lo Yemen e le coste occidentali dell’India, dei cinque scienziati che ne facevano parte rimane in vita il solo Niebuhr, che rientra in patria con un viaggio terrestre di tre anni attraverso l’Oman, la Persia, l’Iraq, la Siria, la Palestina e la penisola anatolica[17].


[1] Francis Drake aveva circumnavigato il globo con un viaggio durato tre anni, dal 1577 al 1580, intrapreso a fini militari piuttosto che esplorativi. Thomas Cavendish fu invece il primo navigatore a proporsi coscientemente, a soli 26 anni, di compiere l’intero periplo, ad imitazione di Drake e con finalità quasi sportive. Non mancò tuttavia, durante il viaggio, di dare la caccia alle navi spagnole e di impadronirsi delle immense ricchezze del Galeone di Manila (1586-1588).

[2] Bernardo Varelio, nella Geographia Generalis (1650), distingueva tra geographia generalis, “che studia i caratteri o qualità della terra”, geographia specialis, “che studia la configurazione e posizione di ogni paese” e una geografia “civile”, che studia le forme di governo e l’azione degli uomini sull’ambiente naturale.

[3] Vitus Bering era un ufficiale della marina danese, che dopo aver maturato diverse esperienze nei mari artici venne incaricato da Pietro il Grande di scoprire se l’America e l’Asia fossero collegate e nel 1728 identificò lo stretto che ne reca il nome e che separa la Siberia dall’Alaska. Bering morì nel corso della spedizione, assieme alla gran parte dei membri del suo equipaggio.

[4] William Dampier è davvero un personaggio da romanzo. Ebbe una vita avventurosissima, che lo portò anche a militare tra i pirati della filibusta. Ispirò a Swift la figura di Gulliver, e proprio il suo ritratto compariva nella copertina della prima edizione dei famosissimi Viaggi.

[5] Wallis circumnavigò il mondo tra il 1766 e il 1768 con l’HMS Dolphin. Attraverso lo Stretto di Magellano si inoltrò nel Pacifico toccando Tahiti, quindi attraversò sino a Batavia, e tornò in patria doppiando il Capo di Buona Speranza. Fu il precursore di Cook, e diversi uomini del suo equipaggio navigarono anche con quest’ultimo.

[6] Il Settecento è il secolo nel quale la “repubblica delle lettere” creatasi all’insegna della comune causa dell’Illuminismo tra gli scienziati e gli uomini di cultura di tutto l’occidente stimola la collaborazione nella ricerca. In questo caso, per l’eccezionalissimo doppio transito di Venere da-vanti al sole, nel 1761 e nel 1769, vennero inviate spedizioni in ogni parte del globo, dalla Norvegia al Capo di Buona Speranza, da Terranova a Tahiti e al Madagascar, per consentire agli astronomi inglesi, francesi, russi e tedeschi di seguire il pianeta e determinare, attraverso il confronto dei dati rilevati, la misura della distanza della Terra dal Sole. Non sempre però le cose andarono bene. L’astronomo Christian Mayer, che doveva osservare il transito a San Pietroburgo, trovò il cielo annuvolato per un mese di fila. Ma l’oscar della sfortuna va al francese Guillaume Le Gentil, che viaggiò per otto anni per tentare di osservare entrambi i passaggi, non ci riuscì e venne dato per morto, perdendo anche la moglie, che si risposò.

[7] I botanici sono questa volta i tedeschi Georg Foster e suo padre Johan. Georg, una volta rientrato in patria, pubblica il suo Viaggio attorno al mondo, che otterrà in Germania un enorme successo e influenzerà von Humboldt.

[8] Per completezza devo però ancora citare almeno altri tre navigatori-esploratori inglesi, attivi nella prima metà del XIX secolo, animati più dallo spirito pragmatico di un Cook che da quello illuministico di un Bougainville. Dietro le loro imprese ci fu sempre la figura e la determinazione del secondo segretario dell’ammiragliato, John Barrow, che alla esplorazione artica riuscì a conquistare per quarant’anni l’entusiasmo del paese e notevolissimi finanziamenti.

La prima delle spedizioni varate all’indomani della fine delle guerre napoleoniche (che avevano selezionato ufficiali particolarmente capaci) venne affidata a John Ross, e l’obiettivo era per l’ennesima volta il passaggio a nord-ovest. Si interruppe per una controversa decisione del comandante nello stretto di Lancaster, che in effetti avrebbe dato accesso al passaggio, e l’insuccesso sembrò chiudere la carriera di Ross. Questi aveva però cominciato ad intuire le potenzialità delle più recenti innovazioni meccaniche, e raccolse finanziamenti per una spedizione privata da effettuarsi su una piccola imbarcazione, la Victory, attrezzata con un motore a vapore.

Le peripezie di questa nuova spedizione durarono quattro anni, con altrettanti inverni trascorsi intrappolata dai ghiacci sull’isola di King William, e superati solo con l’aiuto degli inuit. Il risultato più importante fu forse in definitiva l’incredibile (stante la situazione) contenimento delle perdite: solo tre uomini.

Un partecipante alla prima spedizione di Ross, William Parry, fu incaricato di ripercorrerne l’itinerario e di spingersi il più possibile ad occidente, cosa che fece toccando i 110º di longitudine O. Ciò in pratica provava l’esistenza del famoso passaggio. Anche lui fu costretto dai ghiacci a svernare oltre il circolo polare artico, e ne approfittò per organizzare una spedizione esplorativa sulla terraferma. Nei dieci anni successivi fu poi a capo di altre tre spedizioni, l’ultima delle quali in direzione del Polo Nord.

Il nipote di John Ross, James Clark, che aveva cominciato a navigare a undici anni, partecipò sia alle spedizioni dello zio che a quelle di Parry. Ebbe quindi modo di maturare sin da giovanissimo un’enorme esperienza delle zone e delle condizioni artiche, oltre a conoscenze scientifiche che gli consentirono di determinare la posizione del polo magnetico boreale. Ciò indusse poi il governo britannico ad affidargli il comando di una spedizione nell’Antartico, che non conseguì lo stesso risultato ma portò alla conferma che al di là della barriera di ghiaccio si stendesse la terraferma.

[9] Dal galeone secentesco, caratterizzato da imponenti so¬vrastrutture a più piani (i ca¬stelli) a prua e a poppa e da un rapporto lar¬ghezza-lunghezza di 4 a 1 (di norma, qua¬ranta metri per dieci), si passa ai primi del Settecento al vascello, che abbassa o elimina del tutto i castelli, mentre innal-za notevolmente gli alberi – uno dei vascelli più fa¬mosi, la HSM Victory, che combatté anche a Trafalgar, era alto dal pelo dell’acqua alla cima dell’albero maestro più di 60 metri – e triplica o qua¬druplica il tonnellaggio; per arrivare poi, nella se¬conda metà del secolo, alla fregata, che aumenta il rapporto lunghezza-larghezza a 5 a 1, rendendo più snello lo scafo, conserva un solo ponte e aggiunge una quarta vela ai primi due alberi e velacci e controvelacci anche a quello di mez¬zana. Da rilevare che in una caracca come la Santa Maria di Colombo il rapporto era pari o di poco superiore a 3 a 1.

[10] Ma vanno ricordati anche i due più diretti discepoli tedeschi di Humboldt, Karl von Martius e Johann von Spix, che risalgono tra il 1819 e il 1821 il Rio delle Amazzoni ed esplorano il baci-no del Rio Negro: e, subito dopo la metà del secolo, i francesi Jules Crévaux e Henri Coudreau, che mappano gli affluenti di destra e di sinistra del Rio.

[11] Altri italiani sono affascinati dall’Amazzonia. Gaetano Osculati ripete tra il 1846 e il 1848 il viaggio di Orellana. Ermanno Stradelli dedicherà invece, a cavallo tra Otto e Novecento, i due terzi della sua esistenza all’esplorazione dei bacini idrografici maggiori del Sudamerica, quelli del Parà, dell’Orinoco e dell’Amazzoni.

[12] Quando la delegazione inglese ottenne udienza, trovò soltanto il trono vuoto e un messaggio dell’imperatore Qianlong, che definendo “barbari” gli occidentali faceva seccamente presente come la Cina, “terra del centro”, non avesse alcun bisogno dei beni da loro offerti. Avendo poi rifiutato di prosternarsi davanti all’imperatore, i britannici dovettero lasciare la Cina alla chetichella, senza aver concluso alcun trattato.

[13] Che, al contrario di Mc Cartney, non ebbe problemi a prosternarsi. Titsingh aveva maturato in decenni di servizio per la VOC, una lunga esperienza di confronto con le culture orientali, prima in Giappone, poi in India e in Indonesia. Fu ricevuto con tutti gli onori ed ebbe anche modo di attraversare in pieno inverno mezza Cina, vedendo luoghi che nessun occidentale aveva mai visto prima.

[14] Come la compilazione di un nuovo calendario (redatto dal padre Johann Adam Shall von Bell) o la composizione di enormi dipinti celebrativi delle imprese degli imperatori (grandi rotoli, fino a sessanta metri di lunghezza, pensati e coordinati da Giuseppe Castiglione.

[15] Che si sono guadagnati il privilegio bombardando da una loro nave un castello nel quale si era-no asserragliati i cristiani.

[16] Un affascinante racconto del viaggio è fornito in Arabia Felix, di Thorkild Hansen.

[17] Una ricognizione minuziosa del territorio (ma anche dei costumi, dell’archeologia e dell’etnologia) dell’impero ottomano e dell’area mediorientale viene offerta nella seconda metà del Seicento nel Libro dei Viaggi, opera sterminata (10 volumi) dell’erudito turco Evliyã Çelebi, che non sarà però conosciuta in occidente prima della fine dell’Ottocento.

 

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Attenzione!

Voglio andarmene al Perù

di Paolo Repetto, 2011

Ah… A Iquitos c’è tanto da bere…
Con che piacere si deve vivere in un luogo come Iquitos,
dove uno si può ubriacare tutto il giorno!
Indio peruviano, citato da Antonio Raimondi in “El Perù

Ogni tanto, giusto per quel paio di giorni che vanno da un articolo di giornale a un approfondimento televisivo, si torna a parlare di fuga dei cervelli. Come fosse un fenomeno nuovo per questo paese (e come non bastasse guardarsi attorno per accorgersi che di troppi qui è rimasto solo il corpo).

Invece non è nuovo affatto. L’Italia è stata a lungo esportatrice di braccia, ma di cervelli lo è da sempre. Se volessimo fare una lista solo di quelli famosi, da Giordano Bruno fino a Fermi, e poi a Meneghello, Cipolla, Modigliani (entrambi, il pittore e l’economista) e a tutti gli altri che scopriamo italiani per un attimo quando ricevono il Nobel, ci vorrebbe un volume della Treccani. L’emigrazione intellettuale è una delle voci più attive del nostro interscambio con l’estero, segno che siamo bravissimi a creare condizioni di incompatibilità per chi usa la materia grigia.

Oggi si scappa dall’Italia per un sacco di motivi, ma evidentemente ce n’erano parecchi anche in passato, vista la continuità dell’esodo nel tempo. Non ci siamo fatti mancare nulla: persecuzioni religiose, prima, durante e dopo la Controriforma, dominazioni straniere sciagurate e rapaci, e quelle indigene anche peggio, discriminazioni politiche e leggi razziali. Sottolineerei però soprattutto una congenita malignità e trombonaggine dei nostri “ambienti culturali” che, unita a un nepotismo sfacciato, ha sempre indotto i migliori spiriti a cercare respiro e spazio altrove.

Quest’ultimo fattore è più che mai di attualità, anche se nessuno oggi deve fare le valigie per ragioni politiche (un esilio forzato – ma in genere dorato – è previsto solo per qualche grande evasore, o per qualche terrorista); c’è in compenso un’enorme migrazione semi-volontaria imposta dalla sclerosi e dalla povertà delle nostre istituzioni culturali e scientifiche, dallo scandalo delle saghe familiari nelle università, negli ospedali e in parlamento, e più in generale dal disgusto morale di vivere in un paese nel quale l’ignoranza viene esibita e coccolata senza il minimo ritegno.

Le cose stavano già così nell’Ottocento: avesse avuto un po’ di salute in più, Leopardi se la sarebbe filata a vent’anni in Germania o in Francia. Ma le motivazioni alla fuga erano allora prevalentemente politiche, ad andarsene erano soprattutto gli oppositori dei vari regimi, quello borbonico, quello papalino, quello asburgico, quello sabaudo.

Ad esempio, tutta una generazione mazziniana di medici, di ufficiali e di uomini di scienza, dopo i ripetuti insuccessi delle cospirazioni degli anni trenta e quaranta si trasferì in blocco a Londra, sulle orme del maestro, e non fece ritorno nemmeno al compimento dell’unità.

C’erano anche quelli, primo tra tutti Cattaneo, che dopo aver salutato con entusiasmo l’esplosione del quarantotto, essersi battuti sulle barricate e aver pagato le doppiezze della diplomazia piemontese o i velleitarismi dell’azione mazziniana, capirono dove si andava a parare e decisero di cambiare aria.

Tra questi ultimi spicca un uomo il cui nome agli italiani dice poco, o più probabilmente nulla, ma che in Sudamerica è annoverato tra i grandi della scienza e in Perù addirittura tra i padri della patria. Il nome è quello di Antonio Raimondi. Molti non lo avranno mai sentito prima, ed io stesso, pur avendo letto qualcosa di lui oltre trent’anni fa, l’ho riscoperto da poco. Cercherò di fare ammenda con questo breve ritratto.

In effetti, Raimondi non può essere classificato tra i grandi incompresi o tra i perseguitati cui si faceva cenno più sopra, ma tra i dimenticati senz’altro sì (e anche questa è una forma d’incomprensione). Si presta comunque benissimo a esemplificare un modello umano decisamente raro nel nostro paese (per l’ovvia ragione che quando ci nasce se ne va) di persona seria, coerente, profondamente leale, che ha saputo coniugare la curiosità e le capacità intellettuali con la modestia e il disinteresse per i riconoscimenti ufficiali. Ma ha potuto farlo solo andandosene. Poiché non è possibile clonarlo, credo varrebbe la pena, soprattutto per i nostri giovani, almeno conoscerlo.

Raimondi nasce milanese doc, attorno al primo quarto dell’Ottocento (sulla data precisa c’è un po’ di confusione, comunque nel 1824 o nel 1826). Cresce in una città che anche nel periodo della Restaurazione mantiene una dimensione europea negli scambi e nel clima culturale, anche se il rapporto con l’amministrazione austriaca si è molto deteriorato rispetto a quello esistente all’epoca di Parini, di Beccaria e dei fratelli Verri. La famiglia è benestante e gli lascia molta libertà d’azione, assecondando la sua precocissima passione per ogni aspetto della natura. Antonio studia quindi chimica da autodidatta e pratica la ricerca naturalistica con frequenti escursioni in Valtellina: a casa dipinge ad acquerello centinaia di piante e attrezza un piccolo laboratorio nel quale analizza fiori, insetti, rocce, tutto ciò che suscita la sua curiosità. In più a Milano, come in tutti i maggiori centri europei, c’è un giardino botanico che ospita piante esotiche provenienti da tutti continenti, e questo diventa il suo santuario dei sogni:

In quella stagione non avevo altro conforto che rifugiarmi nella serra dell’Orto botanico. Lì, in mezzo a una verde e varia vegetazione, che contrastava vivamente col candore della neve da cui era ricoperto fuori il terreno […], lì, in presenza di quella vegetazione attiva e verdeggiante, quasi tutta oriunda delle regioni tropicali […]. L’immaginazione volava a quelle desiderate regioni, scorreva per le folte selve solitarie […].


Oltre all’Orto botanico di Brera frequenta il Museo di Storia Naturale, da poco fondato e da subito diventato un centro della “resistenza” antiaustriaca. Entra quindi molto presto in contatto con gli spiriti più vivaci e brillanti della Milano prequarantottesca, e nel contempo alimenta attraverso una sana conoscenza naturalistica le fantasie e i sogni che segneranno il suo futuro:

Nel vedere gli animali imbalsamati dei nostri musei, vivificavo nella mia fantasia tutti quegli esseri inanimati, mi trasportavo come in sogno nei paesi dove vivono e assistevo alle loro lotte sanguinose. Vedevo con orrore la tigre feroce abbrancare al collo l’umile daino e strozzarlo in un momento con gli aguzzi artigli. Vedevo il condor dominare con il volo maestoso le bianche cime della gigantesca Cordigliera delle Ande […].

Tutto quello che oggi un bambino dai tre mesi in poi può tranquillamente vedere in documentari, cartoni animati e film, Raimondi se lo ricostruisce partendo da una descrizione, da un’illustrazione o da un esemplare impagliato: invece di consumare come spettatore passivo e inerte delle storie preconfezionate, è produttore, regista e interprete delle sue fantasie.

Vive insomma una di quelle giovinezze possibili solo in altri tempi, quando la gioventù non era un target commerciale e una chimera pubblicitaria, un adolescente poteva ancora sognare un futuro e il suo consumo maggiore era quello degli occhi sui libri.

La passione per le scienze naturali, infatti, è tale che a tredici anni Raimondi si regala, con gli spiccioli del salvadanaio, il Sistema della natura di Georges-Louis Leclerc de Buffon. Ma non legge solo Buffon: legge anche il Viaggio alle regioni equinoziali di Humboldt, se ne innamora com’è già successo al suo quasi coetaneo Darwin, e poi un sacco di altri libri.

Nato con una precisa inclinazione ai viaggi e allo studio delle scienze naturali, sognai dalla prima fanciullezza le splendide regioni della zona torrida. Più tardi, la lettura di varie opere di viaggiatori (Colombo, Cook, Bougainville, Humboldt, Dumont d’Urville e via dicendo) suscitò in me il più vivo desiderio di conoscere quei paesi privilegiati. Nelle mie letture seguivo sulla carta gli itinerari percorsi da quegli illustri viaggiatori, e mi pareva di visitare con essi le numerose isole dell’Oceania e le vaste selve dell’America tropicale […]. La lussureggiante esuberante vegetazione, l’infinita varietà di animali, le tribù selvagge che vagano per quelle cupe foreste, tutto si presentava alla mia immaginazione […].

Un ragazzino così, che gioca in casa al piccolo chimico, ama le escursioni naturalistiche, legge libri e sogna a occhi aperti, oggi sarebbe un sicuro candidato all’analisi psicoanalitica e al bullismo dei compagni. Nell’Ottocento ha altre prospettive, e questo dovrebbe indurci a riflettere sulle derive ultime della nostra società, ma soprattutto, se non gli manca l’animo, ha anche la possibilità concreta di realizzarne alcune. Antonio Raimondi riuscì, sommessamente e incredibilmente, a dare corpo a tutte le sue fantasie. Un suo omologo odierno dovrebbe accontentarsi dei videogiochi.

Le informazioni sulla giovinezza di Raimondi, e in generale su tutta la sua vita, le desumiamo dall’opera nella quale è raccolto e riassunto il frutto di un’intera esistenza dedicata alla ricerca: El Perù, opera che a suo tempo venne paragonata al Cosmos di Humboldt o alle Storie Naturali di Plinio, e che a tutt’oggi è considerata un classico della letteratura scientifica e antropologica, ma della quale non esiste naturalmente un’edizione italiana.

Nel primo volume (nell’edizione originale sono quattro, e tutti belli corposi) Raimondi abbozza una breve autobiografia, mirata più che altro a spiegare l’origine del suo impegno scientifico: racconta pertanto le sensazioni, le passioni, le aspettative della sua giovinezza, mentre è piuttosto stringato sui fatti e non si sbottona molto nemmeno al riguardo degli anni cruciali che a questa giovinezza mettono fine. Sappiamo solo che nel Quarantotto, a ventiquattro anni, Raimondi vive da protagonista tutta la stagione della rivoluzione politica e indipendentista.

È sulle barricate a combattere contro Radezky, nel momento esaltante della cacciata degli austriaci, ma è anche a Custoza, in quello umiliante che prelude al loro ritorno. Prende parte anche all’ultima, infamante battaglia di Novara, dove la tragedia si trasforma in farsa. Molla allora l’esercito piemontese e va ad arruolarsi con Garibaldi per la difesa di Roma, ma ancora una volta vede crollare a Mentana ogni sogno. In un anno e mezzo di lotte ha bevuto fino in fondo il calice della delusione, e si è bruciato parecchi ponti alle spalle: non può rientrare a Milano, meno che mai può andare a Roma, è considerato quasi alla stregua di un disertore dall’esercito piemontese. In più la scoperta dei molteplici e divergenti interessi che stanno dietro la lotta indipendentista, in qualche caso sfociati anche in aperto conflitto, lo ha decisamente sconfortato. È pronto per un altro mondo.

Alla fine del 1849 torna clandestinamente a Milano, il tempo di raccogliere poche cose, qualche libro e qualche attrezzo scientifico, e s’imbarca con alcuni amici su un brigantino in partenza da Genova per l’America. Vede per la prima volta le coste del Perù dopo sette lunghi mesi di navigazione. Non varcherà mai più l’oceano.

Le ragioni della fuga non le spiega, quasi volesse rimuovere tutto. Motiva invece così la scelta della destinazione:

La sua proverbiale ricchezza, il suo vario territorio, che sembra riunire in sé gli arenili della costa, gli aridi deserti dell’Africa, i vasti altipiani, le monotone steppe dell’Asia, le alte vette della cordigliera, le fredde regioni polari, gli intricati boschi di montagna e la lussureggiante vegetazione, mi spinsero a preferire il Perù come campo di esplorazione e studio.

In realtà, quando Raimondi sbarca a Callao, la proverbiale ricchezza è un ricordo lontano. Ultimo paese sudamericano a essersi liberato degli spagnoli, il Perù è rimasto fermo a un’economia mineraria sempre più povera. L’agricoltura è pochissimo sviluppata e nel corso di tre secoli tutta la fascia costiera è stata disboscata e impoverita.

Raimondi ha sognato sin da bambino immense foreste, e da adolescente innamorato delle scienze naturali un paradiso di specie animali e botaniche da scoprire e da classificare: si trova ora davanti coste aride e grigiastre, che lo deludono. Ma non demorde. Prima di tutto deve trovare una sistemazione economica, un’occupazione che in qualche modo gli consenta di mettere a frutto le sue competenze. A Lima conosce il dottor Gaetano Heredia, uno degli scienziati più eminenti del paese, che ne ricava un’ottima impressione e gli affida prima il compito di sistemare il Museo del Collegio dell’Indipendenza – trasformatosi poi in Facoltà di Medicina – e l’anno dopo la cattedra di Zoologia e Botanica. Si segnala subito come ottimo insegnante e come infaticabile organizzatore culturale. Rinnova, infatti, l’insegnamento della storia naturale spronando gli studenti alla ricerca sul campo, e spinge perché l’Università completi lo spettro delle cattedre fondamentali (lui stesso fonderà in seguito quella di Chimica analitica)

Raimondi però scalpita. Lima e il circondario dopo un po’ gli vanno stretti. Sullo slancio dell’entusiasmo iniziale ha già visto e identificato tutto ciò che i dintorni della capitale gli offrivano, scoprendo anche qualcosa di nuovo. Ma non è questo che sognava. Non ha attraversato l’oceano per svolgere un lavoro di routine, per quanto prestigioso. Vuole lavorare sul territorio in grande scala, scoprire e descrivere ogni angolo del Perù. In questa direzione lo spingono la serietà del ricercatore, ma anche le suggestioni delle letture e delle illustrazioni viste nell’infanzia.

Pianifica allora un progetto a lunga scadenza, suddividendo il territorio in regioni da esplorare palmo a palmo, con un triplice obiettivo: in primo luogo, una ricognizione geografica che consenta di correggere tutti gli errori e le approssimazioni dei cartografi precedenti; poi un censimento delle ricchezze minerarie, vegetali e animali, delle potenzialità di coltura, delle forme di sfruttamento più congeniali e meno distruttive; infine la ricerca e l’esame critico delle fonti storiche di ogni tipo, per dare ordine e interpretare anche la geografia umana del paese. Il suo piano è accettato: le autorità accademiche gli concedono un’aspettativa a tempo indeterminato dall’insegnamento e da un certo momento in poi, quando cominciano a convincersi dell’importante ricaduta che l’impresa può avere per lo sviluppo economico del Perù, sovvenzionano, sia pure con scarsa regolarità e in misura ristrettissima, le sue esplorazioni.

L’immenso lavoro progettato si può fare solo viaggiando incessantemente, e Raimondi viaggerà addirittura per diciannove anni consecutivi, in un territorio dove esistono poche strade, pochissimi ponti, e i mezzi di trasporto sono cavalli e muli. Lo farà mettendo a repentaglio più volte la propria vita, affrontando i disagi di un’esplorazione compiuta in territori dove unici rifugi possono essere, qualche volta, le misere capanne degli indios. Si calcola che abbia percorso oltre 45.000 chilometri, non interrompendo le sue esplorazioni nemmeno quando è colpito dalla malaria, sopportando la fatica, la fame, le intemperie del clima e le punture degli insetti.

Viaggia con un barometro, un termometro e la bussola, e annota nei suoi diari ogni dato relativo a flora, fauna, geologia, clima, toponomastica, usi e costumi della gente, reperti archeologici, ecc., senza mancare di riferire anche delle peripezie, dei pericoli e dei fatti bizzarri di cui è testimone o protagonista. Produce anche un numero incredibile di acquerelli pregevolissimi, soprattutto di piante e animali, ma anche scorci architettonici.

Da cosa è motivato ce lo dice lui stesso, dopo aver raccontato di alcune sue paurose disavventure:

Ora domando: qual è il motivo che ha spinto il naturalista, in un luogo solitario, non visto da alcuno, a calarsi giù per una ripa con pericolo di vita per cogliere una meschina pianticella che non aveva mai visto altrove? Non certo l’interesse pecuniario, perché il naturalista è disposto ad arrischiare la vita per la più umile erba, sprovvista di fiori vistosi e che non avrebbe alcun valore in commercio. È forse ambizione di gloria? Ma che gloria può venire da un’azione ignorata da tutti, perché nessuno è presente alle sue angustie, ai suoi pericoli e alle sue vittorie? È vero che indirettamente gli può spettare la gloria di aver fatto progredire la scienza, ma non è la gloria il motivo delle sue azioni, poiché l’uomo fatto per l’investigazione della verità obbedisce quasi ciecamente a un innato desiderio e, se anche si trovasse del tutto segregato dal mondo e non fosse possibile trasmettere alla posterità il risultato dei suoi studi, lavorerebbe tuttavia e arrischierebbe cento volte la vita pur di strappare un segreto alla natura e scoprire la verità dovunque si trovi.

L’altro motivo è che Raimondi, persa una patria, ne ha trovata un’altra, una realtà completamente nuova e tutta da esplorare, capace di fargli provare continuamente l’emozione della scoperta, dimenticata in qualche modo dagli uomini e dai loro appetiti coloniali, che sembra tagliata su misura per la sua vocazione e alla quale sente di doversi dedicare anima e corpo, e per sempre. Quando da Roma gli arriveranno riconoscimenti e offerte di insegnamento, in un periodo buio della storia del Perù, risponderà: “Grazie, ma non posso abbandonare la mia seconda patria nel momento della sventura”.

Le sue non sono naturalmente ricerche fini a se stesse, al puro accrescimento del sapere scientifico: hanno una destinazione pratica conclamata. Gli studi mineralogici e geologici trovano sbocco ad esempio nella rilevazione di giacimenti minerari, quelli chimici nella determinazione della potabilità delle acque, quelli geografici nella stesura della prima carta geografica completa del Perù. Raimondi è capace di stupore, di rispetto, di gratitudine per le bellezze della natura, ma crede soprattutto nella necessità di conoscerla in profondità, se non per dominarla, senz’altro per volgerne le proprietà al servizio dell’uomo.

Con questi intenti vagabonda a zig zag tra la costa oceanica e le Ande, valica ripetutamente queste ultime (arrivando oltre i 5000 metri di altitudine) esplorandone anche il versante amazzonico, dove discende su una zattera gli affluenti meridionali del Rio delle Amazzoni, visita isole e scala vulcani.

Si è dato un programma preciso e lo rispetta integralmente, cartografando ogni singolo angolo di terra peruviana. Lungo il percorso studia l’origine dei depositi di guano, individua giacimenti di carbone e banchi di salnitro, saggia le rocce aurifere, scopre fonti termali. L’elenco delle località toccate e dei dipartimenti da lui visitati è impressionante, e la cosa singolare è che non cessa di stupirsi e di entusiasmarsi, lungo vent’anni, per quello che vede e che trova.

E trova in effetti, oltre alle meraviglie naturali, anche dei veri tesori archeologici. Dopo aver visitato tutti i principali centri inca (tranne Machu Pichu, che rasenta lungo l’esplorazione del Riobamba, ma che sarà scoperto solo cinquant’anni più tardi) e aver tracciato le piante di Huánuco Pampa o della fortezza di Paramonga, arriva alle rovine di Chavín de Huántar, e si convince che la città abbia ben poco a che vedere con la cultura incarica. Ha ragione, perché la cultura di cui Chavín è testimone risale a quasi tremila anni fa. Nel suo diario scrive:

Arrivai al villaggio di Chavín per osservare le importanti rovine denominate El Castillo; penetrai nei suoi oscuri sotterranei, percorsi in tutti i sensi, sin dove mi fu possibile, questo intricato labirinto, vidi la pietra scolpita con simbolici disegni che, come una colonna, sostiene i grandi massi che formano il soffitto, nel punto dove s’incontrano le gallerie e disegnai una piccola mappa della zona che ero riuscito a visitare.

Ma il bello viene dopo. Dopo aver fatto il giro delle rovine Antonio è invitato a bere un bicchiere di birra di mais da un contadino della zona. Mentre si disseta nota il contrasto tra la povertà della casa del contadino, costruita con mattoni di paglia e fango, e il lungo tavolo di pietra scura che sta al centro. Passa le dita sulla parte inferiore di quest’ultimo e si rende conto che è piena di fini incisioni. Appena riavutosi dal mezzo infarto che gli è preso, tratta l’acquisto della pietra. Il contadino perde un pezzo del mobilio, ma l’umanità acquista una straordinaria testimonianza di una cultura scomparsa: la Stele Raimondi, oggi conservata a Lima, nel Museo Nazionale di Archeologia e Storia del Perù, è una lastra di pietra vulcanica di quasi due metri per ottanta centimetri, spessa circa venti, su una faccia della quale è rappresentato in bassorilievo il giaguaro dorato, la più importante divinità dell’epoca di Chavín.

Il viaggio nel bacino alto del Rio delle Amazzoni, nel corso del quale arriva sino al Brasile, è l’ultimo della “grande esplorazione”. Nel 1870 torna a Lima e comincia a riordinare l’enorme messe di appunti o di esemplari che ha raccolto nei suoi vagabondaggi. Non senza ripensare, con gratitudine verso la sorte e con una punta di nostalgia (anche perché nel frattempo si è sposato, e sa che il tempo dell’avventura è finito), agli incredibili anni vissuti tra cordigliere, foreste e deserti.

Quando penso a tutti gli ostacoli superati per portare a termine i miei lunghi viaggi; quando rifletto sui pericoli che da tutte le parti mi assediavano, trovandomi continuamente esposto a perdermi e a perire di sete negli sterminati e aridi deserti della Costa, a essere travolto dall’impetuosa corrente nel guado di qualche torrentoso fiume, a essere sgominato dalla terziana o vittima delle febbri maligne che regnano in alte regione; a sprofondare o rotolare in un precipizio lungo le insidiose scorciato della Sierra; a morire in pochi istanti dal morso di qualche serpente velenoso; o a essere assassinato a frecciate dai selvaggi; quando ricordo tutto questo, e che ho realizzato il sogno di percorrere tutta la Repubblica senza dovere lamentare nessuna disgrazia, congratulo me stesso, considerando che a pochissimi viaggiatori è toccata una così grande fortuna.

Anche il lavoro di riordino e di stesura, come le esplorazioni, è svolto in solitaria. Malgrado sia tornato a insegnare all’Università, infatti, Raimondi non si avvale di assistenti: per disporre il tutto all’interno del quadro che vuole costruire è necessario avere la visione d’insieme, e questa la possiede solo chi ha visto ogni cosa, ogni minerale, ogni pianta, nel suo contesto naturale. È consapevole della difficoltà del suo assunto e del rischio che corre di non arrivarne a capo, ma quando scrive:

Attualmente, una sola idea mi tormenta, ed è il dubbio che non mi basti la vita per porre termine alla mia audace impresa. Giovani peruviani! Fidando nel mio entusiasmo ho intrapreso un arduo lavoro, molto superiore alle mie forze. Vi chiedo, quindi, il vostro concorso. Aiutatemi.

Non chiede soccorso per sé, quanto per la scienza. “Aiutatemi” significa: proseguite e completate la mia ricerca, io la mia parte l’ho fatta.

Il suo momento magico è davvero finito. Ha sposato una donna che gli dà tre figli, ma che presto manifesterà segni di squilibrio e alla fine diverrà ingestibile.

In alternativa alle esplorazioni ha gli amici e il caffè. Ai primi, nonostante la sua scelta di viaggiatore solitario, non ha mai rinunciato: «Vi supplico di inondarmi con un diluvio di lettere perché un uomo che viaggia solo riceve molta consolazione dalle lettere degli amici e gli sembra di stare fra loro, anche se sono lontani», scriveva alla fine degli anni cinquanta. Del secondo fa un vero abuso, tanto da procurarsi una quasi cronica insonnia.

E poi la scienza. Il suo lavoro è conosciuto nel mondo, perché Raimondi mantiene un’attiva corrispondenza con i principali istituti scientifici, ma ciò non toglie che debba faticare per far pubblicare dal governo peruviano, al quale le ha generosamente cedute, le sue opere. Gli ultimi volumi di El Perù vedranno la luce solo dopo la sua morte. I politici peruviani non sono diversi dagli altri, e pensano piuttosto a finanziare gli eserciti. Così, durante la Guerra del Pacifico, quando il Perù subisce l’invasione cilena, deve salvare a casa propria le collezioni di fossili, di minerali, di piante, di crani umani e di insetti che aveva donate all’Università, ma nell’occasione perde anche quelle poche sostanze che gli garantivano una sopravvivenza decorosa. Va a morire infine a casa di un amico, uno di quelli che avevano lasciata l’Italia con lui. Ha solo sessantasei anni, ma la vita, e non certo quella del vagabondaggio, lo ha spossato.

Per molti aspetti, primo tra tutti l’enciclopedismo, e fatta salva una ben diversa attitudine alla modestia, Raimondi ricorda Alexander von Humboldt. Con una fondamentale differenza di assunto, però: il secondo ancora sperava di trovare la chiave di interpretazione del cosmo, il primo si accontenta di conoscerne a fondo e raccontarne una piccola porzione. Nel farlo gli capita magari di avere intuizioni geniali, rispetto ad esempio alla natura e alla composizione dei suoli, o alla storia dei popoli, ma non azzarda teorie, si limita a proporre i fatti e a lasciare loro la parola.

È una questione di carattere, senza dubbio, ma anche di epoca. Raimondi viene dopo Darwin, e paradossalmente con Darwin la scienza fa un enorme passo avanti, ma per un certo verso viene azzerata. Tutte le sue passate acquisizioni rimangono, ma devono essere riconsiderate; ogni singola conoscenza deve essere ricollocata. Raimondi ha la giusta umiltà di farlo partendo dal piccolo, cuocendo i mattoni che serviranno poi ad altri per innalzare il nuovo edificio. Il tipo di conoscenza cui mira ha da essere prima di tutto esaustivo e preciso nei particolari, per consentire sintesi semplici e corrette. Lo si potrebbe definire un manovale del lavoro scientifico, di quelli che si accollano il lavoro duro e sporco e sono soddisfatti di essere utili agli altri.

Questo è il carattere distintivo di Raimondi. La sua scienza vuole essere innanzitutto una scienza “utile”, lo ripete senza stancarsi, nello sforzo quasi commovente di sgomberare le teste dei suoi studenti dalle paturnie nazionalistiche e di indurre i governanti a fare scelte per una valorizzazione concreta del paese. «Date tregua alla politica e consacratevi a far conoscere il vostro paese e le immense risorse che possiede». Naturalmente, è come parlare al muro, ma lui quel paese lo ama davvero, perché a differenza degli studenti e dei politici lo ha percorso, lo ha visto e lo conosce tutto, nelle sue contraddizioni stridenti e nelle sue enormi potenzialità: è ormai diventato per lui la patria vera, sentita più ancora che se ne fosse nativo. E quindi lavora per far conoscere la realtà peruviana al resto del mondo, ma anche e prima ancora per dare al Perù la piena coscienza del suo potenziale culturale ed economico. Offre la sua disinteressata collaborazione alle autorità per sfruttare le ricchezze del paese, ma soprattutto per preservarle. Visto come sono andate poi le cose, temo che si rivolterà nella tomba: le ricchezze sono state sfruttate da altri, la natura che tanto amava è stata violentata in ogni maniera, i suoi connazionali elettivi sono tra i più poveri al mondo. Del suo Perù, e di quello che sperava diventasse, è rimasto poco o nulla: ma questo nulla toglie all’importanza e all’onestà della sua azione. Soprattutto, nulla toglie alla limpidezza dei suoi intenti.

Disgraziatamente pochi capiscano che uno possa spendere tutta la vita nella contemplazione della natura e nell’investigazione de’ suo segreti, senza fare il minimo conto dell’interesse e della gloria.

Mi chiedo perché, alla fin fine, al di là dell’oggettivo ed eccezionale valore dello scienziato, la figura di Raimondi mi abbia tanto colpito, e in maniera così diversa rispetto ad altri che pure gli fanno compagnia in questa personalissima campagna di riabilitazioni. Forse è proprio per la sua apparente “normalità”.

Uno che scrive: «La vera felicità la faccio consistere nella tranquillità d’animo, nella vita pacifica in famiglia, nel rispetto e nell’affetto reciproco e in tutta l’indipendenza possibile dai fastidi che impone la società di pura etichetta» e che poi nella vita dà corpo a tante avventure e realizza tante cose che Indiana Jones gli fa un baffo, non può lasciarti indifferente. È il modo a colpirti, prima ancora dell’intensità.

Raimondi sembra fare tutto come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, non nasconde di aver provato paura trovandosi un serpente a sonagli tra le coperte, ma sembra dirti: com’è normale che sia, spegnendoti sulle labbra la domanda: ma è normale andare a dormire in mezzo a un deserto? Tutto pare capitargli per caso, anche quando sarebbe piuttosto un caso se non gli capitasse: rovinare giù per un precipizio per andare a raccogliere una piantina strana, essere travolto dalla corrente cercando di forzare un guado, fare da bersaglio per gli indios andando a ficcanasare nel cuore della foresta. Cos’altro avrei potuto fare?, sembra chiederti. E allora ti convinci che tanta letteratura e troppo cinema hanno falsato la figura dell’eroe, vincolandoci all’idea dell’impresa eccezionale e subitanea, e facendoci dimenticare quelle realizzate giorno per giorno, con passione, con curiosità e determinazione inossidabili, con modestia e senza spettacolarizzazione, da uomini come Antonio Raimondi.

Raimondi non fece mai ritorno in Italia, anche quando la sua fama cominciò a procurargli inviti e promesse di onorificenze. Evidentemente sapeva sin troppo bene cosa vi avrebbe trovato. Se ho capito qualcosa del personaggio non ce lo vedo proprio a mischiarsi con gli scienziati dell’epoca e a farsi coinvolgersi nelle faide baronali delle nostre università. Nel suo comportamento non è però da leggere alcun disprezzo o risentimento nei confronti del paese originario, anzi non perse occasione di rivendicare le sue origini e si prestò a presiedere il Comitato Italiano quando gli interessi dei suoi vecchi connazionali erano in pericolo. Soltanto aveva capito che l’unico modo per amare questo paese e provarne un po’ di nostalgia, è stargli lontano. E quando gli tornavano in mente l’orto botanico di Brera e i sogni della sua giovinezza, non aveva che da alzare lo sguardo e «gli occhi sembrava non bastassero per guardare tutto».

Per conoscere meglio Antonio Raimondi:
BONFIGLIO, Giovanni – Antonio Raimondi. L’italiano che esplorò il Perù –Ed. Fondazione G. Agnelli, 2008
MONTI, Mario – Gli Esploratori – Longanesi, 1981
GERBI, Antonello – Romanticismo e peruanesimo di Antonio Raimondi, in Le Americhe. Storie di viaggiatori italiani – Electa, 1987

 

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