di Paolo Repetto, 31 marzo 2021
Mentre mi radevo, stamattina, mi sono chiesto perché lo stavo facendo. Non ricordo di essermelo mai chiesto prima. In genere mentre mi faccio la barba ho la testa altrove, è un gesto quasi automatico: al più, dal momento che è l’unica occasione quotidiana in cui mi guardo in faccia, può capitarmi ogni tanto di scoprire qualche ruga o qualche macchiolina comparse di recente sulla pelle, tutte evidenze sulle quali non è il caso di interrogarsi.
Stamane però la domanda me la sono posta, e la cosa aveva anche un senso. Voglio dire: non mi rado certo per apparire. Nemmeno so se oggi uscirò di casa, siamo in pieno lockdown, e nel caso lo farò indossando una mascherina che copre più della metà del volto. Se sotto avessi la barba di una settimana non se ne accorgerebbe nessuno. Non c’entra nemmeno una qualche intolleranza fisica o idiosincrasia psicologica: ho portato una onorevole barba ininterrottamente per vent’anni, nell’intervallo tra il tramonto di quella sessantottina e l’affermarsi di quella islamica, e prima ancora, e poi anche dopo, i baffi, senza soffrire di irritazioni epidermiche o di allergie d’alcun genere, e senza affidare alla cosa messaggi di qualsivoglia tipo. La trovavo comoda, le dedicavo meno di un minuto per una spuntatina ogni quindici giorni. L’ho tagliata per una stupida scommessa.
Dunque, escluso che si tratti di una abitudine inveterata, di un adeguamento a un qualche ruolo o di una necessità fisica, davvero diventa difficile trovare una motivazione alla rasatura quotidiana. E infatti, al momento la risposta non me la sono data: ma in compenso, per una strana associazione d’idee, mi è tornato in mente uno scritto di Hannah Arendt che avevo riletto poche settimane fa.
In Vita activa. La condizione umana, Arendt opera una distinzione tra “natura umana” e “condizione umana”. “La condizione umana – scrive – non coincide con la natura umana, e la somma delle attività e delle capacità dell’uomo che corrispondono alla condizione umana non costituisce nulla di simile alla natura umana […]”. E aggiunge: «È molto improbabile che noi, che possiamo conoscere , determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra […]. Il fatto che i tentativi di definire la natura dell’uomo conducano facilmente a un’idea che ci si impone distintamente come “super-umana” e che viene perciò identificata con il divino, può destare dei dubbi sulla possibilità di un adeguato concetto di “natura umana”. D’altra parte, le condizioni dell’esistenza umana – vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra – non potranno mai “spiegare” che cosa noi siamo o rispondere alla domanda “chi siamo noi?” per la semplice ragione che non ci condizionano in maniera assoluta».
Come si vede Arendt, che non aveva la necessità di farsi la barba e non provava alcuna invidia per chi lo fa, si poneva domande un tantino più serie di quelle che mi faccio mio. Io non mi chiedevo “chi sono”, ma molto più banalmente “perché mi sto facendo la barba”: eppure l’associazione di idee non è forse poi così peregrina.
Non starò qui a spiegare in cosa consista la differenza arendtiana tra natura e condizione, o meglio, a cosa conduca: non è semplice, non sono affatto sicuro di averlo capito bene neanch’io e comunque a chi fosse interessato conviene andarla a verificare sulle pagine della Arendt stessa, che tra l’altro scrive in maniera molto più comprensibile di quanto non facciano in genere i suoi commentatori.
Parlerò invece di quella che è per me la differenza: per la precisione, cercherò di dimostrare che questa differenza non esiste. È vero senz’altro che “i tentativi di definire la natura dell’uomo conducano facilmente a un’idea che ci si impone distintamente come “super-umana” e che viene perciò identificata con il divino”. Ma questo avviene solo se si rimane nella distinzione heideggeriana tra essenza ed esistenza: se si ritiene cioè che l’uomo, a differenza evidentemente degli altri animali, abbia una sua specificità di fondo, connaturata, che ne fa un essere speciale, al quale sarebbero affidate finalità speciali. Arendt questo lo dice, sottolinea cioè questo rischio di attribuire all’uomo una connotazione “divina”: ma non va oltre. Lascia insomma sullo sfondo l’ombra di questa “natura”, al più dichiarandola inconoscibile, e si concentra invece sulla condizione, ovvero sul fatto che tutta una serie di elementi (vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra) condizionano la nostra esistenza.
Nella titolazione di un suo romanzo-saggio comparso nel 1948 (e oggi quasi sconosciuto, anch’io l’ho letto molto tardi) Aldous Huxley sintetizzava invece in due sole parole tutto il dibattito scientifico-filosofico in corso da un secolo. Il titolo del libro è La scimmia e l’essenza, ma al termine della lettura si è automaticamente indotti ad aggiungere un accento grave sulla congiunzione, facendolo diventare: la scimmia è l’essenza. Huxley è naturalmente l’autore del ben più conosciuto Brave new Word (Il mondo nuovo), uno dei capisaldi della letteratura distopica, e de L’isola, che al contrario potrebbe essere considerato un tardo epigono della tradizione utopica: ma è anche il nipote di quel Thomas Henry Huxley che si era guadagnato il soprannome di “mastino di Darwin” per aver stracciato nel primo grande dibattito sull’evoluzionismo, svoltosi a Oxford nel 1860, il vescovo antidarwinista Wilbeforce (alla provocazione sprezzante di quest’ultimo: “Vorrei sapere, signor Huxley, se è per parte di suo nonno o per parte di sua nonna che si dichiara discendente dalla scimmia” ribattè: “Il Signore è giusto, e lo mette nelle mie mani […]. Se dovessi scegliere per mio antenato fra una scimmia e un uomo che, per quanto istruito, usi la sua ragione per ingannare un pubblico incolto, […] non esiterei un istante a preferire una scimmia”.
Il romanzo di Aldous Huxley può essere ascritto al filone apocalittico. Racconta di un mondo uscito da un terrificante conflitto nucleare, sconvolto, affamato, contaminato dalle radiazioni, dominato in parte da sette sataniche e oscurantiste, in parte da popoli di scimmie divise gerarchicamente in classi sociali, che si trascinano dietro gli umani al guinzaglio. Il peggiore degli incubi, che vede la specie umana regredire recuperando solo i lati peggiori della sua natura animale, e le scimmie evolvere acquisendo solo quelli peggiori della “cultura” umana. E che porta l’autore ad affermare: “Sono le scimmie a indicare la meta, sono umani solo i mezzi per giungervi”. Il che, estrapolato dal particolare contesto del romanzo, potrebbe anche essere più genericamente tradotto in: è la nostra natura animale a dettare gli scopi, è la nostra singolarità culturale a inventare mezzi particolarmente efficaci per raggiungerli.
Ciò può non piacerci, ma è in buona parte vero. C’è dell’altro, senza dubbio: c’è una cosa che si chiama coscienza che almeno in apparenza si sottrae all’imperativo degli scopi, e con la quale dobbiamo fare i conti; nel finale del romanzo c’è persino un risveglio di questa coscienza, che porta un piccolo gruppo di umani a ribellarsi alla schiavitù: ma si può dire che quasi suo malgrado l’autore abbia centrato perfettamente i termini della questione.
Che la scimmia sia l’essenza, che noi siamo in sostanza dei primati diversamente (se si vuole, eccezionalmente) evoluti (o delle scimmie nude, secondo la definizione di Desmond Morris) ormai è abbastanza evidente quasi a tutti, persino ai vescovi (un po’ meno forse ai filosofi, anche se già Nietzsche scriveva “In passato foste scimmie, ma ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia”). Ma il concetto ancora oggi pare non essere stato ben digerito. Quale sia l’atteggiamento diffuso lo espresse al meglio probabilmente all’epoca del famoso dibattito proprio la moglie del vescovo Wilbeforce, quando uscendo dalla sala sussurrò: Può anche darsi che sia vero, ma per favore, almeno non fatelo sapere in giro!
Meno accettato ancora è poi cosa questo dato di fatto implichi, a livello pratico e comportamentale. Qui la resistenza è molto forte. D’altro canto, come dice un altro filosofo, è anche una resistenza comprensibile: “L’uomo delle caverne è apparso solo nel XIX secolo. Precedentemente, ci si figurava che prima di noi la terra fosse abitata da dei. […] I primi uomini avevano antenati sublimi: non immaginavano certo di discendere da una scimmia” (F. Hadjadj). Il problema sta dunque nel tipo di percezione che l’uomo contemporaneo ha di questa discendenza: nella tendenza cioè a sottolineare, all’interno della definizione che ho dato sopra, il “diversamente evoluti”, snobbando la condizione scimmiesca di base.
Ora, è incontestabile che una evoluzione “diversa” sia il nostro dato caratterizzante, e che solo in virtù di quest’ultimo stiamo qui a parlarne e a porci dei problemi. Ma rimuovere più o meno larvatamente l’importanza della parentela significa rinunciare a capire le motivazioni di fondo del nostro agire, a dare spiegazione di certi incomprensibili aspetti dei nostri comportamenti. Lo stesso vale, del resto, per una e malintesa indebita antropomorfizzazione dei comportamenti animali, per la pretesa che questi ultimi siano dettati da un’etica.
Quella dell’etica, checché se ne voglia dire e per quanto si voglia stiracchiare il significato del termine, è faccenda che vede come attori solo noi umani.i Gli altri esseri viventi e la natura tutta ne sono coinvolti, spesso ne sono vittime, in vari modi la condizionano, ma mai come protagonisti volenti e consapevoli. Ma l’etica non è scesa sulle nostre teste come una fiammella pentecostale, non ci è stata infusa con un soffio divino: è frutto appunto di quel processo naturale che si chiama evoluzione, e che in noi ha trovato, per una miriade di cause concomitanti (tutte, ripeto, naturali) degli sbocchi particolari.
Si tratta dunque, allo stato attuale delle conoscenze – ma sono convinto che ciò valga indipendentemente dall’aggiunta di altri tasselli – di accettare di buon grado il nostro albero genealogico e, con buona pace della signora Wilbeforce, di farlo conoscere il più possibile in giro.
La prima tappa dell’indagine che dovrebbe aiutarmi a rispondere alla madre di tutte le domande (perché mi rado la barba?) dovrebbe dunque svolgersi tutta sul terreno dell’autocoscienza. Si tratta di stabilire se esiste una “natura umana”, e se si, cosa intendiamo per tale, e se c’è un confine ben definito tra natura e cultura, o se invece la seconda è solo la prosecuzione della prima con altri mezzi. Non sono domande da poco, ci ha giocato sopra la speculazione filosofico-scientifica degli ultimi duemilacinquecento anni, e non sarò certo io stamattina, con la faccia mezza insaponata, a dare risposte particolarmente illuminanti. Mi limito invece a considerare che non c’è nulla di scandaloso, nulla di degradante a pensare che dietro le nostre scelte comportamentali (e l’etica è questo, la possibilità di scegliere, anziché seguire automaticamente il dettame dell’istinto) possa esserci comunque una motivazione egoistica, intesa nel senso buono della volontà di sopravvivere e della coazione a riprodursi. Insomma, che l’etica riposi su un fondamento “quantitativo” (il disporre di una gamma amplissima di risposte tra cui scegliere), anziché “qualitativo”.
Mi rendo conto che il confine è estremamente incerto. Se parlo di una gamma estremamente ampia ragiono in termini di quantità, se parlo di una gamma infinita ragiono in termini di qualità (e sconfino in quella che Arendt indicava come tentazione del divino). Credo che la risposta migliore rimanga quella offerta da Hegel, quando diceva che se un uomo perde qualche capello è uno che perde i capelli, se li perde tutti è un calvo: che cioè la quantità oltre un certo limite diventa “qualità”, senza tuttavia che questo dia al fenomeno (la perdita dei capelli, in questo caso) uno status e un’origine diversi. Voglio dire: l’essenza sono i capelli, che fanno parte della nostra corporeità, la condizione è la loro perdita, che può essere variamente motivata (malattia, stress, ecc.) e più o meno accentuata, ma non può prescindere dall’essenza: dal fatto cioè che noi abbiamo i capelli.
Una volta che non si accetta che lo spettro delle scelte possa essere infinito, perché questo ci proietterebbe nella dimensione divina, viene da chiedersi in cosa differisce allora il funzionamento del nostro cervello da quello di una intelligenza artificiale. La differenza sta senz’altro nell’emotività, perché il fattore emotivo è quello che genera da parte nostra la possibilità di errore: ciò accade quando le nostre reazioni sfuggono al controllo del cervello (non è del tutto esatto, anche la reazione emotiva passa per il cervello: ma mettiamola così). L’intelligenza artificiale, almeno in teoria, opera sempre la scelta più razionale e più efficace (gli automobilisti che usano il tom tom forse non sarebbero d’accordo), mentre gli umani operano entro un margine d’errore ampio quanto quello stesso delle scelte.
Per chiarire cosa intendo in questo contesto per “errore” posso citare l’esempio classico di chi si butta nel mare in tempesta per salvare un amico o un congiunto in pericolo, senza valutare il rapporto rischi-benefici, e perde a sua volta la vita. Una intelligenza artificiale non opererebbe mai una scelta del genere, mentre noi siamo spinti o almeno tentati a farla sull’onda dell’emozione, contravvenendo ad un altro dettame istintuale, che è quello della sopravvivenza individuale (che poi intervenga in questo caso un “egoismo di specie” – che sarebbe la definizione in chiave evoluzionistica dell’altruismo – è un altro discorso, molto più complesso). Paradossalmente, però, è proprio questa imperfezione a renderci in qualche modo speciali. L’emotività, che ha una radice tutta naturale, condiziona e a volte indirizza i nostri processi culturali, e in questo modo moltiplica in maniera esponenziale le opzioni di scelta. E non è un caso che buona parte delle scoperte, da quella dell’America a quella della penicillina, siano avvenute in seguito ad errori (o meglio, dalla riflessione seguita alla constatazione di un errore: quindi sarebbe più esatto dire dalla correzione di un errore).
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Questa caotica tirata per dire che dovremmo far precedere qualsiasi discorso di politica, di economia, di sociologia, o comunque relativo a quanto può essere considerato “scienza dell’uomo” (nella quale rientrano persino le più banali considerazioni meteorologiche) da un’avvertenza: tutto ciò di cui si va a trattare si iscrive nel panorama della storia naturale. Nel senso che ne discende, e nel senso che comunque non ne esce. È quella che Sebastiano Timpanaro chiamava l’assunzione di un materialismo ateo, ovvero della coscienza che i nostri comportamenti hanno una radice naturale, e per quanto storia e cultura ci abbiano poi lavorato, è sempre da quella radice che traggono linfa. Non solo: come tutte le specie in natura anche la nostra è a termine (forse più di tutte le altre), quindi ogni considerazione va fatta tenendo conto della “temporalità” della prospettiva.
Ecco, solo di qui, dall’accettazione di questa “essenza” biologica primordiale può prendere avvio un cammino serio di autoconsapevolezza: quello che, per tornare al mio caso e alla mia barba, se lo avessi percorso con maggiore continuità, concedendomi meno soste e distrazioni, avrebbe forse già da un pezzo dato qualche risposta alla domanda iniziale. Ma sottolineo il “forse” e il “qualche”, perché a questo punto ho almeno imparato che ciò che davvero mi interessa è il cammino, molto più che le mete alle quali può condurmi. E che probabilmente in questo dobbiamo identificare la “condizione” di cui parla Hannah Arendt.
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Chiarito ciò, non è che si arrivi di conseguenza a rinunciare ad ogni tentativo di indagine sui percorsi “culturali” dell’umanità e a disperare della possibilità di abbozzare un’etica comune e diffusa, o quanto meno un codice di mutuo rispetto. Al contrario, proprio la consapevolezza della totale appartenenza biologica ne rende possibile l’avvio: e l’indagine è oggi più che mai necessaria, ed è un’operazione tutt’altro che gratuita, della quale dobbiamo farci carico per dare un senso all’anomalia (parziale) che come esseri umani costituiamo.
Non ho naturalmente indicazioni di percorso da offrire. Ciascuno deve scegliersi il suo, badando magari ai segnavia che trova lungo il cammino ma senza ignorare le indicazioni che gli fornisce la sua bussola personale. Mi permetto quindi, in questa la sede, solo di abbozzare una mappa molto essenziale di quello che è stato sino ad ora il mio percorso, e solo a titolo esemplificativo.
Intanto, cosa significa che “costituiamo un’anomalia”? Significa che abbiamo bisogno di regole dettate da noi perché quelle naturali, dettate dalla nostra biologia “essenziale” e valide per tutte le specie, per noi non funzionano. Abbiamo fatto saltare gli automatismi di risposta biologici e siamo da millenni alla ricerca di qualcosa che li sostituisca. In tal senso, per un periodo lunghissimo abbiamo continuato a cercare norme valide per tutti e per sempre, e la cosa era giustificata dal fatto che la società appariva relativamente stabile e simile a se stessa nel tempo, così come l’ambiente esterno. In realtà i cambiamenti c’erano, economici ed ambientali (si pensi alla domesticazione di certe piante o di certi animali, e alla conseguente mutazione dei regimi alimentari, dei modi di coltivazione e di produzione, ecc): ma i tempi della trasformazione erano talmente lunghi da renderla quasi impercettibile, e da consentire comunque un adeguamento non traumatico dei modelli comportamentali. È pur vero che ogni generazione ha da sempre lamentato lo stravolgimento di valori operato da quella successiva, ma questa recriminazione era in genere legata più a un disagio individuale, al trascorrere dell’età e alla personale inadeguatezza che ciò comporta, che non ad una reale coscienza delle macro-trasformazioni in atto.
La distonia nei confronti dei tempi, piuttosto che della vita, ha cominciato ad essere avvertita con l’avvento della “modernità”: il modo di produzione industriale ha impresso una violenta accelerazione nei cambiamenti, una radicale trasformazione dell’ambiente, una totale dissoluzione dei vecchi rapporti. L’economia industriale, con tutto il suo indotto in termini sociali e politici, apre i gusci tribali, crea la necessità di uno scambio tra protagonisti che arrivano da storie e da culture diverse, non concede tempi lunghi per gli adeguamenti, impone la necessità non di studiare regole nuove ma di inventare un nuovo modello, elastico, di convivenza. In pratica la società viene atomizzata, e l’atomizzazione libera i singoli atomi alla possibilità di aggregarsi in molecole di tipo diverso – diventa società dinamica. Ma per fare questo è necessario che a ciascun individuo vengano riconosciute alcune proprietà, o valenze, minime. Queste proprietà sono i diritti.
Una società fondata sui diritti è un insieme liquido: non si cristallizza, ma si adegua alle trasformazioni ambientali. “Scorre” costantemente andando a riempire ogni spazio nuovo che si apra, o apre essa stessa nuovi spazi con la forza dell’erosione. Non è un canale dalle sponde cementificate, dal dislivello continuo e leggero, con una portata e una velocità costanti. Incontra salti, si addensa in rapide, si trascina appresso i detriti strappati alle sponde, depositandoli poi mano a mano sul fondo, e tende ad allargare costantemente il suo letto raccogliendo lungo il percorso gli immissari laterali. Fuor di metafora: la forza che tiene assieme una società dei diritti non è la pressione esterna, naturale o soprannaturale che si voglia, ma la coscienza più o meno chiara in ogni singolo che la convivenza si regge su un sistema convenzionale di regole, e che per partecipare al gioco è necessario accettarne almeno in linea di massima il regolamento. La convenzione, le regole, non riguardano i modi (questo fa parte dell’etichetta) ma senz’altro lo spirito (e questo riguarda l’etica).
Ciò vale naturalmente per le società che per prime accedono alla dimensione industriale, ovvero quelle occidentali. Per le altre, che sono state coinvolte solo nell’ultimissimo periodo, o sono state coinvolte in precedenza come non partecipanti al gioco, il discorso è molto diverso. Il tentativo di universalizzare la cultura occidentale del diritto, anche ammettendo che sia stato fatto in buona fede (il che non è quasi mai vero) è fallito inizialmente per le resistenze di modelli economici e sociali arcaici e di tradizioni culturali che andavano in direzione opposta, poi di fronte al crollo repentino dei primi e alla dissoluzione delle seconde, che hanno lasciato il posto ad una terra di nessuno aperta alla pura competizione selvaggia, senza regole.
Ma a questo punto ci siamo già addentrati da un pezzo in un secondo capitolo, o, per rimanere nell’immagine precedente, nella seconda tappa del percorso di consapevolezza. E io nel frattempo mi sono ormai completamente rasato e ho anche già preso il secondo caffè e fumata la seconda sigaretta della giornata (sarebbe interessante indagare come si collocano nella relazione natura-cultura questi comportamenti, che nel sottoscritto sono diventati automatismi “istintuali”, e che non ho certo selezionato perché funzionali. Ma non esageriamo!). Incombono adempimenti più prosaici, ma improrogabili.
Rimando dunque l’approfondimento ad una prossima occasione: non mancherà, mi rado ogni mattina. E sono determinato a capire il perché.
P.S. [Se qualcuno però è impaziente, e vuole continuare per conto proprio l’indagine, propongo una scaletta di ricerca che potrebbe valere per la terza tappa e anche per quelle successive:
- Come è stato elaborato il nostro (occidentale) sistema di regole? Attraverso quali tappe? Come si è passati da una normativa dettata dalla natura a una dettata dalla cultura?
- Questo sistema è compatibile con una congiuntura come l’attuale, nella quale si confrontano modelli culturali assolutamente diversi (o ci si confronta con un’assenza totale di regole)? In sostanza: va difeso (e semmai migliorato) a tutti i costi, magari lasciando degli spazi marginali di interazione e confronto laddove arrivino segnali di reciprocità? oppure va rimesso totalmente in discussione, e reso adatto ad accogliere in seno ogni alterità?
- Visto il sostanziale fallimento tanto del multiculturalismo quanto delle politiche di integrazione, e stante la necessità di trovare al più presto, non fosse altro per frenare l’agonia del pianeta, un minimo di condivisione di alcuni principi, se questo sistema non è compatibile, come organizzarne uno che sia più o meno accettabile da tutti? Ad esempio, è ipotizzabile, vista l’emergenza ecologica, pensare a regole imposte dall’alto, uguali per tutti (almeno in teoria) per tentare di frenare l’agonia del pianeta?]
Note
Ho inserito queste due note non per dare una parvenza di serietà “scientifica” al pezzo, ma perché mi sembra possano chiarirne alcuni passi o perché introducono punti di vista alternativi al mio. Di entrambe sono debitore a Nico Parodi, come sempre primo attento e rigoroso rilettore dei miei testi.
1 – Il termine “etico” implica un giudizio su un comportamento che rientra nella relazione con gli altri (non definiamo etica o meno l’ingestione di cibo che può avvelenarci – ma vedi il caffè, vedi la sigaretta). Quel comportamento lo definiremo buono/cattivo (io preferisco il funziona-non funziona) per le conseguenze che ha sulla vita di un “gruppo” (quindi la sigaretta, se fumata in presenza altrui, ci rientra). Proprio perché interviene un meccanismo di valutazione consideriamo l’etica solo umana e giudichiamo i comportamenti animali con “malintesa e indebita antropomorfizzazione”. In realtà ci sono comportamenti collaborativi e utili, anche di batteri, che proprio con un criterio di antropomorfizzazione potremmo considerare “buoni”.
I nostri comportamenti sono frutto di una selezione evolutiva nel lungo periodo che ha comportato modifiche genetiche e determinazioni culturali che possiamo paragonare all’addestramento. In laboratorio vengono addestrati animali di qualsiasi tipo a reagire agli stimoli più svariati.
L’evoluzione delle società umane diventa culturale (vedi Cavalli Sforza), e i comportamenti relazionali vengono giudicati da noi umani in relazione ai costrutti culturali all’interno dei quali siamo stati istruiti/addestrati. Noi usiamo termini di valutazione che comportano un implicito paradigma morale (buono/cattivo), ma alla fine le varie culture vengono selezionate sulla base del funziona/non funziona (funziona meglio/peggio) per permettere la sopravvivenza riproduzione ecc del gruppo portatore di quella cultura.
Comunque credo che, in condizioni “perturbate”, sia per gli animali di laboratorio addestrati dagli scienziati sia per noi addestrati culturalmente, le reazioni, guidate dagli schemi cerebrali geneticamente determinati, prendano il sopravvento.
Il “sistema etico”, fatto come dici tu di “etichetta”, norme, valori ecc. ha in un qualche modo lo stesso valore che ha il sistema immunitario per un organismo vivente.
2 – Ti rimando alla prefazione di “Naturalmente buoni” di De Waals (che non condivido del tutto, ma parla di Huxley e ha un’opinione diversa sulla disposizione “etica” degli animali).
Oltre a essere umani, noi ci gloriamo di essere umanitari. Quale modo brillante di eleggere la moralità a marchio distintivo della natura umana, quello di adottare un aggettivo riferito al nostro nome di genere – Homo – per definire la tendenza a essere caritatevoli! Gli animali, ovviamente, non possono essere umani, ma potrebbero mai essere umanitari?
Se questo può apparire un interrogativo quasi retorico, considerate il dilemma che si pone ai biologi o a chiunque altro veda la questione in una prospettiva evoluzionistica. Essi potrebbero affermare che, a qualche livello, deve esservi una continuità fra il comportamento dell’uomo e quello degli altri primati.
Nessun aspetto del comportamento – nemmeno la nostra tanto celebrata moralità – può essere escluso da questa assunzione.
Non che la spiegazione del concetto di moralità sia impresa facile anche per i biologi. La quantità di problemi è tale che molti si tengono bene alla larga dalla questione, e può darsi che qualcuno mi consideri uno sciocco che si è cacciato nel pantano.
Tanto per cominciare, il fatto in sé che le leggi morali rappresentino il potere della comunità sull’individuo è un’importante sfida alla teoria evoluzionistica. Il darwinismo ci dice che i caratteri si evolvono perché gli organismi portatori traggono un vantaggio dalla loro esistenza, e non dalla loro inesistenza.
Perché, allora, nell’ambito dei nostri sistemi morali l’interesse della collettività e l’abnegazione del singolo individuo sono considerati valori così alti?
Il dibattito su questo argomento ha un centinaio d’anni. Più esattamente iniziò nel 1893, quando Thomas Henry Huxley tenne una conferenza dal titolo “Evolution and Ethics” dinanzi a un folto uditorio a Oxford, in Inghilterra. Poiché Huxley considerava la natura crudele e indifferente, dipinse la moralità come la spada forgiata da Homo sapiens per uccidere il drago del suo passato animale. Anche se le leggi del mondo fisico – il processo cosmico – sono inalterabili, il loro impatto sull’esistenza umana può essere attutito e modificato. “Il progresso etico della società dipende non dall’imitare il processo cosmico, e ancor meno dal rifuggirlo, ma dal combatterlo.”
Vedendo la moralità come l’antitesi della natura umana, Huxley sospinse destramente la questione della sua origine fuori dal campo delle scienze biologiche. Dopo tutto, se la condotta morale è un’invenzione umana – una vernice sotto la quale siamo rimasti amorali o immorali tanto quanto ogni altra forma di vita – quasi non si avverte la necessità di darne una spiegazione evoluzionistica. Che quest’opinione sia tutt’altro che scomparsa si può comprenderlo dalla sorprendente affermazione di George Williams, un biologo evoluzionista contemporaneo: “Spiego la moralità come una capacità accidentalmente prodotta, nella sua sconfinata stupidità, da un processo biologico che normalmente è l’opposto dell’espressione di tale capacità”.
Da questo punto di vista, la gentilezza umana non fa realmente parte del più ampio schema della natura, ma è o una forza culturale contraria all’evoluzione o uno stupido errore commesso da Madre Natura. Inutile dirlo, questa visione è straordinariamente pessimistica, tanto da scuotere la fiducia di chiunque nella profondità del nostro senso morale. Inoltre non spiega da dove il genere umano possa attingere la forza e l’ingegnosità per sconfiggere un nemico temibile quanto la propria natura stessa. Molti anni dopo la conferenza di Huxley, il filosofo americano John Dewey scrisse una risposta critica rimasta poco nota. Huxley aveva paragonato il rapporto fra etica e natura umana a quello fra giardiniere e giardino, in cui il giardiniere lotta senza sosta per tenere ogni cosa in ordine. Dewey rovesciò la metafora, e affermò che i giardinieri lavorano tanto con quanto contro la natura. Mentre il giardiniere di Huxley si adopera per mantenere il controllo e sradica tutto ciò che non gli aggrada, Dewey corrisponde a quello che potremmo definire un coltivatore organico. Un giardiniere capace – egli fece osservare – crea le condizioni per l’introduzione di specie vegetali che potrebbero essere fuori dell’ordinario per quel particolare appezzamento, “ma che fanno parte dell’uso e costume della natura nel suo insieme”.
Io mi schiero con decisione dalla parte di Dewey. Considerata l’universalità dei sistemi morali, la tendenza a svilupparli e a farli rispettare deve essere una parte integrante della natura umana. Una società cui manchi la nozione del bene e del male è la peggior cosa che possiamo immaginare, se davvero è possibile immaginarla. Poiché noi siamo esseri morali fin nel nostro intimo, qualsiasi teoria del comportamento umano che non consideri la moralità nel modo più serio è destinata a non fare strada. Non essendo disposto ad accettare che la teoria evoluzionistica facesse questa fine, mi sono posto il compito di vedere se alcuni degli elementi fondamentali della moralità siano riconoscibili in altri animali.
Sebbene condivida la curiosità dei biologi evoluzionisti sul come la moralità potrebbe essersi evoluta, il mio interrogativo principale in questa sede sarà da dove essa provenga. Di conseguenza, dopo essermi soffermato nel primo capitolo sulle teorie dell’etica evoluzionistica, mi avvicinerò a questioni più pratiche.
Gli animali mostrano un comportamento analogo alla generosità e alle leggi e norme della condotta morale umana? E se sì, che cosa li motiva ad agire in questo modo? Ed essi si rendono conto che il loro comportamento ha delle ripercussioni sugli altri? Con interrogativi simili, quest’opera si qualifica come uno studio che si situa nell’emergente campo dell’etologia cognitiva, poiché guarda agli animali come a esseri dotati di conoscenza, volontà e capacità di ragionamento.
Nella mia qualità di etologo specializzato in primatologia, è naturale che, il più delle volte, io faccia riferimento ad animali ascritti al nostro stesso ordine. Tuttavia il comportamento rilevante per la mia tesi non è limitato ai primati, e ogni volta che le mie conoscenze me lo permettono comprendo anche altri animali. In ogni modo non posso negare che i primati rivestano un interesse speciale. È molto probabile che i nostri progenitori possedessero molte delle tendenze comportamentali attualmente osservate nel macaco, nel babbuino, nel gorilla, nello scimpanzé e così via. Mentre l’etica umana ha lo scopo di contrastare alcune di queste tendenze, è probabile che nel far ciò vengano utilizzate le altre, combattendo la natura con la natura, come Dewey aveva proposto.