di Paolo Repetto, 20 maggio 2020 – vedi l’Album
John Piper va rubricato tra gli artisti “poliedrici”. Questo termine viene in genere usato in due accezioni, una positiva, ad indicare chi in qualunque ambito artistico si cimenti ottiene risultati eccezionali, tipo Michelangelo, e una invece piuttosto “riduttiva”, ad indicare chi sa fare un po’ di tutto, ma senza eccellere in nulla. L’accezione mia è ancora un’altra: comprende chi ha moltissimi interessi, e produce in ogni campo risultati interessanti.
Piper, che ha attraversato tutto il “secolo breve” (1903 – 1992), di occasioni stimolanti ne ha avute in abbondanza, e non se n’è lasciato sfuggire una. È stato protagonista del rinnovamento della scena artistica inglese tra le due guerre, entrando a far parte del movimento dei “Sette più cinque” e fondando la rivista d’arte Axis, ha collaborato coi servizi segreti durante il secondo conflitto mondiale, diventando ufficialmente “artista di guerra”, ha censito “graficamente” negli anni cinquanta e sessanta ciò che rimaneva del patrimonio architettonico di dieci secoli di storia inglese.
Tutto questo mentre si occupava fattivamente di scenografia teatrale, di pittura su ceramica, di vetrate colorate, di murales, di fotografia e di tutto ciò che in qualche maniera avesse attinenza con l’espressione artistica, e compilava guide delle regioni inglesi che illustrava poi coi suoi disegni.
Nel frattempo transitava dall’astrattismo della giovinezza al naturalismo della maturità, per approdare poi ad un segno fortemente connotato sia graficamente che nelle tonalità cromatiche. Anche se rimane difficile identificare un stile che davvero lo rappresenti, la sua mano è immediatamente riconoscibile.
Quello che a noi maggiormente interessa è il Piper pittore di paesaggi e di edifici, chiese, castelli, manieri. Le sue opere potrebbero benissimo illustrare un libro di Sebald, se non fossero così vivacemente cromatiche. Ma la cosa stupefacente è che anche nell’esplosione dei colori le sue immagini sono tutte velate di malinconia. La sua è un’Inghilterra che non vedremo più.