di Paolo Repetto, 20 dicembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale
Per un paio d’ore sono tornato indietro di mezzo secolo. Ogni tanto mi capitano questi salti temporali a ritroso, davanti a un oggetto intravisto al mercatino, un macinino da caffè o una scatola di latta per biscotti, oppure a un vecchissimo albo di fumetti: ma sono flash back che durano pochi istanti, svaniscono immediatamente lasciando in bocca il sapore dolceamaro della nostalgia. Quella di ieri è stata invece un’altra cosa: una immersione totale.
A propiziarla ha provveduto un libro di P.G. Wodehouse. (non chiedetemi cosa c’è dietro P.G.: non l’ho mai saputo, è bello così). Cinquanta e passa anni fa tra le chicche della mia nascente biblioteca c’erano quattro romanzi dell’umorista inglese, in una edizione della Bietti risalente a prima della guerra. Un paio di quei volumi li possiedo ancora, il terzo l’ho ben presente, non fosse altro per l’eccentricità del titolo (Jimmy all’opra): ma i miei ricordi di lettura sono legati essenzialmente a Psmith giornalista. All’epoca leggevo veramente di tutto, da Dostoevskji a Raymond Chandler e ad Achille Campanile, e leggevo anche Wodehouse. Non era tra i miei autori preferiti (credo di aver letto giusto quei quattro libri – ne ha scritti novanta), e tuttavia quel romanzo mi si è impresso indelebile nella memoria. Non per i pregi letterari, o per una qualche originalità della vicenda, ma solo perché vi giocava un ruolo importante un gangster di mezza tacca, torvo e scalognato, di nome Joe Repetto.
La cosa mi aveva entusiasmato: era il primo Repetto che trovavo citato nella letteratura – e a tutt’oggi, per quanto mi risulta, è rimasto l’unico. Mi chiedevo dove Wodehouse avesse pescato quel cognome, e la risposta più ovvia rimandava alla cronaca nera newyorkese dell’epoca (la vicenda si svolge in trasferta, a New York). Da ciò discendevano immediate due constatazioni:
- qualche mio lontano parente doveva essersi illustrato ai primi del secolo scorso al di là dell’oceano per le sue gesta criminose (il che in qualche misura era elettrizzante);
- l’esportazione di delinquenti in terra americana era iniziata ben prima della grande migrazione dal Sud, e la provenienza dei pionieri era ligure-piemontese. Con la differenza, rispetto alla seconda ondata, che i primi erano scamorze. Nel libro infatti i nomi dei capi delle diverse bande sono tutti irlandesi, e il nostro Repetto è solo una mezza figura (il che, invece, era deludente).
Quel volume era poi scomparso dalla mia biblioteca, finendo tra i tanti dati incautamente in prestito e mai più tornati. Non ne ho fatto un dramma: dal momento che le opere di Wodehouse continuano ad essere ristampate, contavo di poterne recuperarne facilmente una copia. Quando però ho cominciato a dargli la caccia in tutti i mercatini, dove in effetti circolano ancora diversi titoli di quella vecchia collana, mi sono accorto che era introvabile. Ma anche nelle edizioni più recenti non compariva affatto, e non ce n’era traccia on line. Ho cominciato persino a dubitare della mia memoria, a chiedermi se il titolo fosse proprio quello.
Fino a ieri, quando è arrivata l’intuizione. Mentre gironzolo per il mercatino di Predosa vedo occhieggiare da un cestone Le gesta di Psmith, un volumetto della TEA la cui copertina fa pensare a tutta prima ai manuali di viaggio di Severgnini. Qualcosa non mi torna: il titolo non può essere quello originale, non l’ho mai letto negli elenchi delle opere di Wodehouse (e ne ho consultati parecchi), ma soprattutto non è nello stile dell’autore. Urge una verifica: e infatti, lo apro e viene fuori che la titolazione originale è Psmith journalist, del 1915. Per forza non trovavo il libro: mi hanno cambiato il titolo, vai a capire perché (ma è un malvezzo diffuso: di uno stesso volume di storia dell’alpinismo sono uscite in cinque anni tre diverse edizioni con tre titoli differenti). C’è ora da chiedersi come avranno rititolato Jimmy all’opra.
Comunque, faccio scorrere impaziente le pagine ed ecco comparire immediatamente il “signor Repetto”. Solo non si chiama Joe, come io ricordavo, ma Jack. Anche fisicamente ne avevo una immagine diversa. Non ricordavo, ad esempio, che fosse albino: invece dalla prima descrizione che trovo, e che lo fotografa mentre è già al tappeto, vien fuori che “il guerriero caduto era albino. I suoi occhi, al momento chiusi, avevano ciglia bianche, ed erano tanto ravvicinati quanto era stato possibile ravvicinarli senza proprio metterli l’uno dentro l’altro. Il suo labbro inferiore era prominente e cascante. Guardandolo, si aveva l’istintiva certezza che nessun giudice di un concorso di bellezza avrebbe esitato un attimo di fronte a lui.”
A questo punto si sarà già capito che appena a casa il libro l’ho riaperto, mi ha preso e non l’ho mollato prima dell’ultima riga. La vicenda grosso modo la ricordavo, quindi non è stata quella a intrigarmi. Mi ha invece attratto il linguaggio. Ho scoperto che Wodehouse non era forse un grande scrittore, ma sapeva scrivere mirabilmente (che non è la stessa cosa).
Quando leggo qualcosa di particolarmente divertente non scoppio a ridere. Rido dentro, mi contengo, ma mi si inumidiscono gli occhi. Da qualche parte il piacere deve pur uscire. Con Wodehouse riesce facile contenersi, il suo è un umorismo inglese che più inglese non si può, finissimo e freddo: eppure, per tutta la lettura di Psmith giornalista (preferisco mantenere il titolo originale) ho avuto gli occhi umidi, divertito non tanto dagli accadimenti narrati quanto dal linguaggio che l’autore mette in bocca al protagonista. Il quale già dal nome, con quella P che c’è ma non deve essere pronunciata, si presenta bene. Ecco un paio di esempi del suo eloquio, presi aprendo a caso.
Ad un avvocato malavitoso che viene ad intimargli di cessare la pubblicazione dei suoi articoli di denuncia, il nostro eroe si rivolge così: “Non abbiamo compreso del tutto il suo intento, mister Parker. Temo che dovremo chiederle di esporcerlo con una franchezza ancor più disarmante. Parla per puro spirito di amicizia? Ci sconsiglia di conti nuare a pubblicare questi articoli semplicemente perché teme che danneggeranno la nostra reputazione letteraria? O ci sono altre ragioni cha la spingono a desiderare l’ interruzione? Parla esclusivamente in quanto fine conoscitore letterario? È lo stile o l’ argomento a non incontrare la sua approvazione?”
E quando l’altro insiste, e diventa davvero esplicito, cercando di comprare quello che non riesce ad ottenere con le minacce: “Signor Parker, temo che lei abbia consentito al mercantilismo esasperato di questa mondana città di minare il suo senso morale. È inutile sventolarci sotto gli occhi ricche bustarelle. ‘Dolci momenti’ non si imbavaglia. Lei avrà senz’altro le migliori intenzioni, secondo le sue, se mi permette, alquanto ottenebrate vedute, ma noi non siamo in vendita, se non a dieci centesimi la copia.” Non è fantastico?
Oppure, ad un amico che gli consiglia di rivolgersi alla polizia: “Abbiamo accennato alla cosa con alcuni esponenti della forza pubblica. Ci sono sembrati abbastanza interessati, ma non hanno mostrato la minima tendenza a precipitarsi freneticamente in nostro aiuto. Il poliziotto newyorchese, come tutti i grandi uomini, ha le sue peculiarità. Se vai da un poliziotto a New York e gli fai vedere che hai un occhio nero, lui lo esaminerà ed esprimerà una certa ammirazione per l’abilità del cittadino che ne risulta responsabile. Se insisti, l’argomento gli verrà rapidamente a noia, e dirà: ‘Non ti basta quello che hai già ottenuto? Fila!’ In questi casi il suo consiglio è prezioso, e andrebbe seguito.”
Ed ecco la sua opinione sul mio degenere parente americano. “Conosco pochi uomini che non preferirei incontrare in un vicolo solitario piuttosto che il signor Repetto. È un manganellatore naturale. Probabilmente la cosa si è manifestata lentamente, in lui. È possibile che abbia iniziato così, solo per provare, colpendo un componente della cerchia famigliare. La tata, diciamo, o il fratellino minore. Ma, una volta iniziato, non è più stato in grado di resistere a quella brama. Per lui, è come il vino per un beone. Adesso manganella non perché gli piace, ma perché non può farne a meno.” Psmith parla così per tutto il libro, e non c’è una sua frase o una semplice interiezione che non sia perfettamente in linea con questo registro linguistico. Il che vale anche per tutti gli altri personaggi, da Bugsy Mahoney agli amici di Psmith, dai poliziotti agli avvocati. Persino quelli che non parlano, come l’ ineffabile Long Otto, hanno una loro solida espressività. Insomma, ognuno è caratterizzato da un linguaggio particolare, il che rende la cosa scoppiettante e paradossalmente realistica.
Ne risulta una architettura complessiva esilarante: perché i differenti linguaggi creano diversi piani di interpretazione della vicenda, nei quali nessuno, tranne Psmith, capisce quel che sta veramente accadendo; ed è proprio il linguaggio di Psmith a tenere le fila di tutto e a costringere gli altri ad accettarne gli sviluppi. È uno di quei casi in cui rimpiango amaramente di non poter leggere nella lingua originale, per cogliere tutte le sfumature dello slang e i giochi di parole – e anche per non trovare continuamente l’appellativo compagno. Devo muovere infatti un secondo appunto alla nuova edizione italiana, dopo quello relativo al titolo. Per tutto il libro il termine comrade, che ricorre costantemente in bocca a Psmith, è tradotto con compagno, forse per eccesso di politicamente corretto. Il che crea un effetto straniante, sembra di essere nella Russia di Stalin, e disturba parecchio.
Mentre leggevo cercavo di immaginare un volto per ognuna di quelle voci, ed erano invariabilmente volti di attori del cinema americano o inglese degli anni trenta, dei film di Frank Capra soprattutto. Ho realizzato che in Wodehouse c’era già tutto quello che mi ha sempre affascinato in quel cinema e in quella letteratura: c’erano i fratelli Marx e Philiph Marlowe, Helzapoppin e Cary Grant. E ho anche meditato sull’efficacia in termini di malignità di un eloquio forbito ed elegante. Dire a qualcuno “Ho orizzonti mentali circoscritti”, e “Lei proprio non ci rientra” è molto più sferzante che apostrofarlo con “Mi stai sulle palle” (ammesso naturalmente che il destinatario sia in grado di decodificare: ma se non lo è, parlare sarebbe inutile comunque). Quel che la gente non sopporta non è l’insulto, ormai scaduto a livello di abituale intercalare, ma l’esclusione: e il taglio risulta molto più netto se praticato col bisturi, anziché con la mannaia. Psmith stesso si qualifica come “un rispettabile fornitore di invettive generiche di qualità”.
Mi è venuta in mente infine un’altra considerazione: nel romanzo non compare una sola figura femminile, e forse proprio per questo tutto fila da cima a fondo liscio come l’olio. Non so cosa ne direbbe la psicanalisi, non conosco i gusti sessuali di P.G. Wodehouse, e non mi interessano, ma dal punto di vista dell’economia narrativa funziona perfettamente. Come nei film western più riusciti, quello di cui si parla è un mondo di soli uomini e per uomini soli.
A questo punto, dopo aver riposto il libro ed essermi asciugato gli occhi, ho cominciato a riflettere sulle vere ragioni della straordinaria e apparentemente poco giustificata emozione che avevo appena provata. Non ho dovuto spremermi molto per arrivare ad una conclusione che in fondo già conoscevo.
Al di là del tuffo nel passato, che mi ha fatto rivivere la sorpresa e il divertimento con cui gustavo all’epoca quasi tutto quello che mi capitava tra le mani, hanno agito in questo caso almeno due altri motivi, di carattere molto diverso (che spiegano tra l’altro perché un’analoga emozione non mi sia arrivata dalla ripresa di un libro di Verne, o dalle riletture di Steinbeck, autori che pure ho amato moltissimo).
Il primo potrà sembrare banale, ma come vedremo si collega comunque al secondo, quello più rilevante, e tanto vale che lo confessi subito. Io sono malato di anglofilia, sono a tutti gli effetti un anglomane. Ma la mia è un’anglomania “povera”, coltivata per moltissimo tempo solo a tavolino, sulle letture in traduzione dei libri di Stevenson, di Kipling, di Wilde, di Conrad e di infiniti altri. Nemmeno oggi parlo l’inglese, lo leggo e lo capisco a stento. È anche una anglomania selettiva: non sono mai stato un fan dei Beatles o dei Rolling Stones, e meno che mai di Elton John. E non è totalmente acritica: sono convinto che gli inglesi siano affetti da una incredibile spocchia e abbiano sempre guardato al resto del mondo come se avessero qualcosa da insegnargli (tra l’altro, sempre presumendo che gli altri non fossero comunque in grado di imparare). Quindi, in realtà ci sarebbe ben poco da amare: a meno di essere convinti che abbiano ragione.
Ebbene, non posso negare che una qualche idea del genere la coltivo, a dispetto anche dell’opinione della mia prima figlia, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese e dei suoi connazionali dice peste e corna. È una convinzione che viene rafforzata da ogni breve permanenza in Inghilterra (e lo è ulteriormente ogni volta che ne vengo via). Vedo qual è la realtà inglese attuale, e come gli inglesi si siano ridotti, ma continuo ad amarli, con tutti i loro difetti di ieri e di oggi.
Forse dovrei dire piuttosto che amo la “civiltà” inglese: ma quella civiltà è appunto il prodotto di uno spirito, di uno stile, di una cultura che mi appaiono straordinari, e che appartengono (o forse appartenevano) solo a loro. Posso affermarlo con cognizione di causa perché i miei interessi, che occupano uno spettro piuttosto ampio, hanno fatto si che li incroci continuamente. Dovunque mi abbia portato il mio disordinatissimo percorso culturale, li ho trovati. Magari non erano approdati per primi, ma una volta arrivati c’erano rimasti.
Ora, non è questione di qualità, non penso cioè (a differenza degli inglesi stessi) che nascano in Inghilterra intelletti “superiori”. Quelli possono nascere ovunque. È invece una faccenda di quantità, e un numero eccezionale di personaggi fuori dal comune: e il numero è tale che agli inglesi tanto straordinari poi non sono mai parsi. Lo sembrano a noi, dal di fuori. A me, senz’altro.
Sul perché di questa eccezionale fioritura ho le mie teorie, fondate sulla storia e non sulla biologia, delle quali ho già parlato in Due lezioni sulla storia inglese: ma per farsene un’idea è sufficiente leggere ad esempio, in Tour de France, di Richard Cobb, il racconto dell’adolescenza e del percorso di studi di uno storico anglosassone.
E questo ci porta all’altro motivo, quello più profondo, che è collegato alla funzione e al potere del linguaggio. Io non sono solo vecchio, ma proprio antico. E non sono diventato antico con l’età: lo sono sempre stato. Sono stato un bambino antico, un adolescente antico, un insegnante antico. Come tale ho sempre rimpianto intimamente un mondo che non ho fatto a tempo a conoscere, ma che mi arrivava attraverso la letteratura (soprattutto quella inglese). Questa cosa mi ha fatto sentire costantemente fuori sintonia, tanto con la mia epoca che con la mia cultura d’origine.
Il mondo che idealizzavo era caratterizzato, prima di tutto, da un uso corretto ed elegante della parola. Non deve sembrare così strana questa priorità data alla lingua: sono stato svezzato in dialetto e la padronanza di un idioma standard ha significato per me una vera conquista. Dava accesso ad una socialità più allargata, nella quale il linguaggio si spogliava degli umori e delle chiusure localistiche per esprimere una razionalità positiva e universalmente condivisa, quella che avrebbe dovuto essere terreno di mediazione e comunicazione e coesione tra gli uomini. Al tempo stesso consentiva di confrontarsi con l’immenso patrimonio di idee, di valori, di sentimenti, di passioni riversato nella letteratura del presente e del passato, e di esprimere i propri senza tema di scadere nella volgarità o nel patetismo, uscendo dalla reticenza tipicamente dialettale. In effetti, in qualche misura così è stato. Fino a quando non è arrivata, inarrestabile, la svalutazione.
Quello che mi ha colpito rileggendo Wodehouse (ma una cosa analoga mi era capitata la sera precedente, ascoltando la Rapsodia in blu di Gershwin) è in primo luogo l’enorme distanza che separa la sua dalla nostra epoca. Quanti ventenni d’oggi sorriderebbero davanti a una domanda articolata così: “Qual è esattamente la tua posizione in questo giornale? In pratica, e ben lo sappiamo, tu ne costituisci la spina dorsale, la linfa vitale. Ma qual è la tua posizione tecnica? Quando il proprietario si congratula con se stesso per essersi accaparrato l’uomo ideale per svolgere il tuo compito, qual è il compito preciso per cui può congratularsi con se stesso di essersi accaparrato l’uomo ideale? (Psmith a Billy Winsdor)”
Non la capirebbero nemmeno. Eppure è musica. Palazzeschi e Ragazzoni con queste note hanno costruito la loro poesia. Ed è anche di più. È uno scioglilingua che si esercita tutto all’interno di un costrutto razionale, e che consente all’interlocutore di partecipare al gioco in un ruolo attivo, perché deve a sua volta cogliere la pallina e rimandarla al di là della rete. L’esatto opposto di quanto fanno l’odierna comunicazione politica, o quella pubblicitaria, o la comicità demenziale.
Cosa è allora successo nel frattempo (un secolo giusto giusto)? Le date in questo caso sono significative, almeno a livello simbolico. È accaduto che nello stesso momento in cui Wodehouse scriveva Psmith giornalista, in Italia Marinetti dava alle stampe il Manifesto tecnico della letteratura futurista. Ne ho già parlato (in Osservazioni sulla morale catodica) e dal momento che non ho alcuna voglia di parafrasarmi, mi cito senza pudore: “La distruzione del linguaggio è stata da sempre la premessa per ogni ‘rifondazione’ politica e morale. E il primo atto di distruzione del linguaggio è costituito dall’eliminazione fisica dei supporti, dei documenti o addirittura dei testimoni viventi che possono perpetuarlo. Ogni regime dispotico o totalitario ha provveduto in qualche modo ad accendere roghi di libri. Tre secoli prima di Cristo l’imperatore Qin Shi Huang, per liquidare ogni possibile contestazione alla legittimità della sua investitura, ordinò la bruciatura dei libri e la sepoltura degli eruditi. Non era un’espressione metaforica: quasi mezzo migliaio di intellettuali furono allegramente sepolti vivi. Da allora i falò letterari non si contano, a partire dall’incendio della biblioteca di Alessandria sino ad arrivare alla distruzione di quella di Sarajevo, passando per roghi cristiani e musulmani, sovietici e nazisti e ancora cinesi, durante la rivoluzione culturale: ed anche gli intellettuali non hanno avuto di che stare allegri. Il rogo dei libri significa fare piazza pulita del passato, cancellare la memoria, per poter edificare un nuovo ordine il cui controllo parte proprio dal controllo dalla parola. Ma mentre in passato (e in un passato nemmeno troppo lontano) i libri venivano bruciati fisicamente, oggi questo non è più necessario: possono essere resi obsoleti con tecniche più “morbide”, e la più dolce e letale è proprio l’impoverimento della sostanza di cui sono fatti.
Ad accendere i moderni roghi virtuali ha contribuito significativamente proprio la cultura italiana. Marinetti e i Futuristi sono stati tra i primi sperimentatori dell’attacco al linguaggio come bordata d’approccio per destrutturare la democrazia. Se non avete presente il Manifesto Tecnico della letteratura futurista vi rinfresco la memoria: “Bisogna distruggere la sintassi … Si deve abolire l’aggettivo … L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione. … Si deve abolire l’avverbio … Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a … Abolire anche la punteggiatura … Si deve usare il verbo all’infinito … bisogna fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca”.
Orwell avrebbe potuto benissimo copiare di qui il manuale operativo dei filologi del Ministero della Verità. E forse almeno in parte lo ha fatto. Via gli avverbi, i modi verbali, gli articoli, gli aggettivi, via tutto quello che consente la complessità, le sfumature, l’arricchimento concettuale. Solo parole-immagine, parole-rumore. Ora, la riduzione del linguaggio a mimesi onomatopeica, a suono denotativo anziché a concetto connotativo, rappresenta un salto indietro di ere, non di secoli: e questo salto è stato davvero compiuto, in pochi decenni. Al di là degli aspetti puramente provocatori e delle sparate futuriste, ciò che ha preso l’avvio in quell’attacco è proprio la riduzione della comunicazione a slogan, dei concetti a puri loghi che rimandano meccanicamente a contenuti elementari prestampati nella memoria.
I risultati che Marinetti auspicava sono esattamente gli stessi cui punta il Grande Fratello: “Poeti futuristi! lo vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare l’intelligenza, noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica.” Non si sta parlando di biomeccanica, di cyborg indistruttibili come Terminator: le parti cambiabili sono le schede linguistico-concettuali inserite nel cervello. E la liberazione dalla morte altro non è che la cancellazione dell’idea di futuro, quindi di ogni possibilità e responsabilità di scelta tra diverse prospettive, a favore di un eterno presente per il quale siamo ‘liberati’ da qualsiasi angoscia decisionale.
Così funzionano i roghi linguistici. Nei nuovi linguaggi, siano quello futurista o quello di Oceania, i termini sono impoveriti sino ad un significato unico, preciso, secco, che non lasci spazio a sfumature interpretative, che elimini qualsiasi complessità. In questo modo diventa impossibile concepire un pensiero critico individuale: ogni termine ‘marchia’ un significato, evoca una sola immagine, rimanda ad un unico concetto, e quindi ad un’unica realtà possibile. Un linguaggio povero non consente né dialogo né dibattito: non serve a cercare la verità, perché la verità è già implicita nel significato univoco delle parole. Il discorso si rattrappisce a slogan.”
Ecco, questa è la fotografia dell’attuale situazione. E anche se non amo particolarmente Heidegger, trovo che per una volta abbia colto il nodo della questione quando scriveva : “È nel linguaggio che si decide sempre il destino e si prepara una nuova epoca, in quanto ogni mutamento che avviene nelle parole essenziali del linguaggio determina, al tempo stesso, il mutamento del modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l’uomo.” Lasciando perdere tutto il suo cammino verso il “dire originario”, che somiglia molto ad un pellegrinaggio più giustificatorio che espiativo rispetto agli orrori cui aveva dato il suo consenso, rimane vero che è necessario preservare la forza elementare delle parole – che non sta però in una loro rispondenza diretta e immediata alle cose (all’essere, alla verità), ma alla possibilità di essere usate come materiale da costruzione.
L’eleganza del linguaggio psimthiano non era puro “formalismo”, un gioco fine a se stesso, ma un esercizio superiore dell’intelligenza, che la vinceva su un barbaro sistema relazionale improntato alla violenza e alla prevaricazione. O almeno, questi erano i voti.
Nel periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale si è creata una sorta di bolla temporale all’interno della quale era ancora possibile immaginare qualsiasi futuro sviluppo. C’era consapevolezza di una realtà ingiusta e dura, e lo dimostra la crescita dei fermenti sociali, ma sopravviveva la speranza in qualcosa di completamente diverso. Dalla rivolta spontanea e incontrollabile che aveva caratterizzato almeno la prima fase della rivoluzione francese si era passati ad una organizzazione “politica” e sindacale delle rivendicazioni: il che significava in qualche modo trasferire il confronto dal piano della forza pura a quello del discorso, ad una dialettica nella quale le parole avrebbero dovuto sostituirsi ai forconi.
L’adozione di quel linguaggio avrebbe dovuto mutare “il modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l’uomo”. Si stava lavorando da secoli, da millenni per forgiare uno strumento così perfetto. Ora si trattava di renderlo disponibile a tutti, di fare si che da mezzo di dominio diventasse garanzia di libertà e di eguaglianza. Non ha funzionato, non gliene è stato dato né il modo né il tempo. Sono bastati cento anni, quelli che ci separano da Wodehouse, per “decostruirlo”, snaturarlo e volgerlo ad altri fini.
Indagare come e perché tutto questo sia avvenuto va ben oltre le ambizioni di queste righe. Adorno ne ha riassunto l’esito affermando che dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia. La poesia (quella cui guarda caso Heidegger chiede lumi per il suo tardivo “cammino verso il linguaggio”) è scomparsa con i campi di sterminio, con le carneficine insensate di un’unica lunghissima guerra mondiale, con i funghi atomici: ma è stata sepolta soprattutto dall’onda di un trionfante analfabetismo di massa, quello che oggi è addirittura rivendicato come un valore, e che non ha nulla a che vedere con quello popolare di un tempo. Nel mondo di Wodehouse di poesia in verità non ne circolava molta, era roba per le elites, ma almeno era possibile pensarla. Oggi non lo è più.
Io volevo dire soltanto che domenica ho abitato per un paio d’ore nel mondo del mio sogno, pur essendo Psmith giornalista ambientato nei peggiori bassifondi newyorchesi: in una meta-società nella quale la parola, e tutto ciò che le sta dietro, avevano ancora un senso ed un valore, e il linguaggio era considerato un mezzo di unione e di confronto, e non di sopraffazione o di scontro. Che questa immagine fosse poco o nulla realistica lo so benissimo, e lo sapevo anche quando ho letto il libro per la prima volta. Ma io nella letteratura, nella musica, nell’arte, non ho mai cercato il racconto della realtà. Per conoscere quella odierna mi è sufficiente guardarmi attorno, ascoltare le chiacchiere del bar o quelle della televisione, camminare in mezzo al delirio di bruttura e di degrado nel quale siamo immersi. Per la realtà del passato mi affido alla storia. In un romanzo, in una poesia, in un brano musicale vorrei invece trovare indizi di un possibile mondo migliore, suggerimenti per coltivare la sensibilità alla bellezza e testimonianze del fatto che questa ancora sopravviva.
Era quanto cercavo anche allora. Pensavo le stesse cose che penso oggi: con la differenza che ancora non sapevo di essere già fuori tempo.
Appendice
L’uso che Wodehouse fa della lingua non denuncia solo uno scarto temporale. Evidenzia anche la distanza che prima della definitiva globalizzazione mediatica correva tra la cultura inglese e tutte le altre, occidentali e no. Non esiste altrove il corrispettivo di un Jerome o di un Wodehouse.
Prendiamo il caso dell’Italia. Accennavo al fatto che tra le mie letture giovanili c’era Achille Campanile (che non la pensava come Psmith, perché riteneva che “In certi casi alla stretta d’un ragionamento ineccepibile non si può rispondere che con una bastonata.”) Successivamente sono arrivati altri umoristi, da Marchesi a Guareschi a Benni. Ora, la differenza rispetto ai loro colleghi d’oltremanica è palese. Gli italiani, anche quelli più raffinati, usano sempre il linguaggio in una funzione urticante o demolitoria. Scombinano le architetture, giocano sui doppi sensi. Il loro sorriso è amaro, spesso cattivo, e quando forzano la mano può tradursi in uno sghignazzo. La cosa è più evidente ancora se si guarda al cinema, da Fantozzi ai cinepanettoni. La comicità (?) nostrana nasce dalla esasperazione dei caratteri e delle situazioni, e anche quando non è apertamente volgare è comunque sempre urlata.
L’umorismo inglese è invece contenuto e distaccato: non esaspera le situazioni, ma le legge anzi sottotono, e si esercita prima di tutto sul narratore stesso. (Jerome in questo è un maestro). Non è mosso dal sentimento pirandelliano del contrario, ma da quello del bizzarro. Il contrario lo si combatte, sul bizzarro si ironizza, al più si fa del sarcasmo. Mentre da noi Garibaldi voleva impiccare tutti i preti e con le budella dell’ultimo il papa, il lord cancelliere Disraeli, a proposito del suo più accanito avversario, diceva: “Se il signor Gladstone cadesse nel Tamigi sarebbe una disgrazia, ma se qualcuno lo riportasse a riva salvo sarebbe una calamità”. Questo intendo: fossi stato Gladstone, prima di cominciare a pensare a come ribattere avrei sorriso, e probabilmente lui lo ha fatto.
Non so cosa abbia poi risposto.