di Paolo Repetto, aprile 2010, da In Novitate
Queste pagine di coda di INJ rischiano di trasformarsi in una rubrica fissa. Non sarebbe neppure una cattiva idea, a patto che non debba essere sempre io a riempirle e che vengano utilizzate per trasmettere un po’ di ottimismo – quello salutarmene critico, non quello acriticamente idiota – rispetto allo svaccamento generalizzato in corso. Abbiamo un gran bisogno di buone notizie, di piccole “scosse” culturali (non di “eventi”) che rompano il tracciato piatto dell’elettroencefalogramma collettivo.
Questa volta la segnalazione positiva riguarda la Biblioteca Civica di Novi Ligure. Nella seconda metà di ottobre, nell’ambito di “Librin-Mostra”, la biblioteca ha organizzato una serie di incontri dedicati al viaggio e alla letteratura di viaggio. La notizia è doppiamente buona, perché conferma la vocazione propositiva di questa istituzione ma soprattutto perché ci dice dell’interesse intelligente per un tema che si presta in genere ad uno sfruttamento ben diverso. Nel corso degli incontri novesi si è viaggiato da Dante a Pavese, da Salgari a London, a piedi, in barca e in bicicletta, in compagnia di esperti o di dilettanti della letteratura e della storia odeporica. Si è parlato di viaggio metaforico, di viaggio immaginario, di viaggio scientifico, di come e quando e quanto viaggiare, e del perché. Ce n’era per tutti i gusti. E tutto ha funzionato bene.
O quasi.
Lo so. Sono incontentabile. E quindi sento di dover fare qualche considerazione sulla perfettibilità dell’iniziativa, fermo restando il suo successo. Magari partendo dal fondo, dai destinatari. Gli incontri sono stati organizzati pensando principalmente ad un pubblico di studenti. E si è ritenuto, con molto coraggio, di proporre una fruizione “libera”; per intenderci, niente classi spostate come mandrie e usate per fare numero, solo studenti motivati da un genuino interesse o da semplice curiosità, debitamente autorizzati e giustificati dalle scuole di appartenenza. Pochi, insomma, ma buoni. Sotto questo profilo però le cose non sono andate come avrebbero dovuto, o potuto. Il pubblico non è mancato, ma non era esattamente quello che ci si attendeva. Come mai? Scarsa motivazione? Mi permetto di avere qualche dubbio; dove l’iniziativa è stata propagandata e spiegata a dovere le adesioni sono fioccate spontanee, e che fossero davvero tali lo dimostra la partecipazione agli incontri fissati in orario non curricolare. Credo invece che abbiano giocato contro, tra le altre cose, le resistenze più o meno esplicite di parte del corpo insegnante. Di fronte a proposte come queste c’è sempre chi ha paura che i ragazzi “perdano delle ore”, e di non riuscire a “portare a termine il programma”. Sacrosanti timori, che inducono però qualche riflessione. Intanto: cos’è un programma? Ha qualcosa a che vedere con l’esistenza concreta degli studenti, e quindi ci piaccia o no va rapportato, parametrato sulle loro capacità reali e sulle loro attese, oppure è un’entità trascendentale, una e immutabile, della quale il docente è ministro terreno? Il disgraziato che si perde la pace di Aquisgrana o il correlativo oggettivo, avrà una vita segnata dall’ignominia?
E poi: abbiamo un’idea di cosa siamo davvero tenuti ad offrire a questi ragazzi? Non ha forse una sufficiente valenza educativa far sapere loro che tra il deserto cerebrale del “Grande fratello” e la fisica del neutrino c’è un’ampia terra di mezzo, e che la possono esplorare, magari anche abitare? È chiaro che questo impone di vagliare ciò che viene proposto, di nuotare tra la schiuma delle “offerte culturali speciali” che investono quotidianamente la scuola e riversano su questi poveracci le iniziative più peregrine: ma appunto, è necessario farsi anche un po’ coinvolgere, mettersi in gioco, inventare di volta in volta il programma e riadattarlo costantemente. È certamente più impegnativo che non riproporre anno dopo anno la stessa scansione liturgica dei tempi e gli stessi argomenti, o addirittura le stesse verifiche. Ma forse chi non si riesce fare a meno di certi rituali avrebbe dovuto intraprendere un’altra carriera.
Il secondo punto di riflessione concerne invece le modalità dell’offerta. Si può fare meglio, anche se molto è già stato fatto. Per capire di cosa parlo è necessario risalire un po’ a monte. Le conferenze sul viaggio avevano in origine una diversa destinazione. Dovevano rientrare nell’ambito di un convegno di studi, una o due giornate di confronto su un tema sviluppato da diverse angolazioni. Si sa come funziona un convegno: si susseguono in tempi stretti più relatori, si fa la pausa con l’assalto al buffet, si ricomincia nel pomeriggio e si tira sino a tardi, magari per più giorni. Uno sceglie le cose che lo interessano, segue quelle, poi esce a farsi due passi, fuma una sigaretta, prende il caffè e rientra. Se non è inchiodato al tavolo dei relatori se la cava senza eccessive sofferenze. Nel nostro caso si è deciso, a giochi già iniziati, di cambiare il target, come si dice oggi, di provare ad allargare il campo di utenza distribuendo in più giorni gli interventi e riformulandoli ad uso di un pubblico di non addetti ai lavori. È rimasto però intatto lo schema che prevedeva più relatori in successione, con il risultato di tempi troppo brevi per ciascun relatore e di blocchi frontali di tre o quattro ore per gli studenti. Per fortuna non ci sono stati svenimenti in sala, i ragazzi hanno retto sin troppo bene, ma è chiaro che è stato chiesto loro troppo. Non occorre essere tabagisti come me per provare, dopo un’ora di conferenza, la sindrome da sedia scomoda e l’irrefrenabile impulso a catapultarsi fuori, ci fosse anche Benigni a raccontarti il viaggio di Colombo. Per il futuro dovremo tenere maggiormente conto del fatto che la soglia di attenzione dei giovani, così come la nostra, si è di molto abbassata, e che tempi superiori all’ora sono difficilmente sostenibili.
Ma non è tutto. Dobbiamo anche prendere atto che le modalità della fruizione sono notevolmente cambiate, che questi ragazzi sono abituati, quando va bene, ad una informazione culturale sul modello di “Atlantide”, per citarne uno positivo, quindi ad una “spettacolarizzazione” del racconto. Ora, non si tratta qui di mettersi in competizione con i mezzi di comunicazione di massa, di giocare sul loro terreno, perché in questo caso saremmo battuti in partenza, ma di cercare di piegare al nostro fine, per quel che è possibile, i loro trucchi. In termini pratici significa, ad esempio, ricorrere alle immagini per dare corpo concreto e supportare visivamente i concetti, a slides riassuntive per evidenziare i nodi della trattazione, a strutture espositive aperte che consentano ai ragazzi stessi di inserirsi e suggeriscano loro direzioni di ricerca molteplici. Farlo diventare insomma un gioco nel quale tutti possono sentirsi attori. Capisco che detto così sembri il format di “Amici”, ma è un’altra cosa.
Una terza riflessione nasce invece dallo specifico del tema trattato, quello del viaggio. Con tutto quello che di tremendo ci circonda, con tutti i guai e i problemi che ci angustiano, la fame per un buon terzo dell’umanità e l’effetto serra per tutta, il terrorismo, le guerre, il razzismo strisciante, per non parlare di quelli propri del nostro paese, la maleducazione che imperversa, l’arroganza e la pochezza del potere, con tutte queste urgenze ed emergenze che ci rimbalzano sul piatto ogni sera all’ora di cena, ha senso parlare ai ragazzi del viaggio? Verrebbe da rispondere con un’altra domanda: ha senso mettere in piedi carrozzoni sulla cittadinanza attiva e consapevole e sull’educazione alla legalità, quando è poi sufficiente un qualsiasi telegiornale o dibattito televisivo a mostrare loro come funzionano realmente le cose e da chi sono rappresentate e incarnate le nostre istituzioni? Ma sarebbe troppo facile.
Parlare del viaggio ha un senso, di qualunque viaggio si parli, perché si parla quantomeno di un segnale positivo di vita. Si viaggia alla ricerca di qualcosa, o in fuga da qualcosa: si viaggia quando non ci basta ciò che abbiamo, siano ricchezze o conoscenze, o non si sopporta la condizione in cui viviamo. Quando si è capaci di curiosità e di desiderio, e prima ancora di speranza. Parlare del viaggio significa quindi trasmettere un po’ di quella voglia di utopia che abbiamo frettolosamente azzerato e sostituito con una desolante realtà virtuale. E poi, gli orizzonti verso i quali si possono indirizzare gli sguardi e le menti sono infiniti. A volte non è nemmeno il caso di muoversi, per viaggiare: lo spostamento non avviene solo nella dimensione spaziale. C’è anche il tempo: si può zigzagare a ritroso sui libri, per capire qualcosa di ciò che siamo, e del perché siamo così, e di come potremmo essere. Magari si ha l’impressione che ai ragazzi non possa fregare di meno: ma è un’impressione che si presta un po’ troppo a creare facili alibi, dietro i quali trincerare la nostra indolenza e la nostra incapacità di proporre delle alternative al nulla, e prima ancora di perseguirle.
Due righe infine sul tema trattato nell’occasione dal sottoscritto, quello del viaggio scientifico. Non mi illudo che dei ragazzi tra i sedici e i diciotto anni, svezzati a botte di “X factor”, possano entusiasmarsi alle vicende di Alexander von Humboldt, di Darwin o di Cook, soprattutto se vengono loro ammannite come le portate di un banchetto ufficiale del sapere. Ma penso che se i loro viaggi vengono proposti come metafora di un modo di concepire la vita, di una curiosità onnivora di conoscenza che non ti fa considerare mai sazio, del piacere di conquistarsi questa conoscenza con un po’ di fatica, e se si riesce a far avvertire che in questo modello almeno un po’ ci si credi, beh, qualcuno potrebbe anche esserne intrigato. E allora, vale la pena.